Concetti Chiave
- Il girone degli invidiosi nella Commedia di Dante è caratterizzato da una rappresentazione di mendicanti ciechi che simboleggiano l'invidia, considerata il contrario della carità.
- L'invidia è descritta come un peccato legato ai beni materiali, che non si vuole condividere con altri, e viene punita con palpebre cucite per il desiderio di vedere la felicità altrui.
- La differenza tra superbia e invidia risiede nel fatto che l'invidia è un sentimento passivo senza fini precisi, mentre la superbia mira a sminuire gli altri per ottenere eccellenza personale.
- Sapia, un personaggio del canto, esprime il suo piacere nei danni altrui piuttosto che nella propria fortuna, riflettendo la natura distruttiva e auto-consumante dell'invidia.
- La connessione tra superbia e invidia è esemplificata dalla figura di Lucifero e dalla confessione di Sapia, che mostra come i due peccati siano strettamente intrecciati.
Gli invidiosi
Siamo nel girone degli invidiosi, la cui trattazione continuerà nel canto successivo, nei primi 36 versi del XV, e anche nei vv. 44-78 di quest'ultimo canto, nei quali si chiarisce che solo i beni materiali possono essere oggetto d'invidia. La lettura di questo canto va dunque integrata da quella dei due canti successivi. Salvo momenti isolati, il tessuto inventivo e stilistico di questo canto appare a maglie larghe, caratterizzato da una scarsa concentrazione, in Dante rarissima.
Consideriamo ad esempio i vv. 61-66.
Gli invidiosi son paragonati a mendicanti ciechi seduti sulle soglie delle chiese. Subito una perifrasi fiacca per designare la loro poverta («a cui la roba falla»); dopo aver detto che essi stanno lì nei giorni di grande affluenza, quando si lucrano le indulgenze, non sarebbe indispensabile aggiungere che ci stanno «a chieder lor bisogna», e che per ottenere l'elemosina cercano di suscitare pietà (il giro della frase è ampio: «perché 'n altrui pietà tosto si pogna»), e ciò sia coi loro lamenti sia col loro aspetto miserabile («non pur per lo sonar de le parole, / ma per la vista...»); il poeta ancora indugia a chiarire come tale «vista» ottenga lo scopo desiderato: è perché essa «agogna», esprime desiderio grande, «non meno» delle parole.
[hh2]Il peccato dell'invidia Ovvio il significato della positura degli invidiosi, che si sorreggono a vicenda, e tutti son sorretti dalla parete cui si addossano: l'invidia è il contrario della carità: solo chi usa carità con i suoi simili, aiutandoli, può sperare di essere a sua volta aiutato dall'amore di Dio. Livida è la pietraia del girone, lividi i manti degli invidiosi. Dirà Guido del Duca: «se veduto avesse uom farsi lieto, / visto m'avresti di livore sparso» (Pg XIV 83-84): è dunque il pallore tradizionalmente attribuito agli invidiosi alla vista del bene altrui, a suggerire al poeta il colore caratterizzante del girone.
Da sensibilità etimologica deriva poi la vera e propria pena, le palpebre orribilmente cucite: già Isidoro (Etym. X 134) aveva scritto «invidus dictus ab intuendo felicitatem alterius»; etimologia che era nella comune coscienza linguistica: «invidia maxime causatur a visu», scriveva ad esempio Benvenuto.
In Pg XVII 118-120 il poeta definisce, tra gli altri peccati capitali, l'invidia: invidioso è colui che «podere, grazia, onore e fama / teme di perder perch'altri sormonti, / onde s'attrista sì che '1 contrario ama», cioè ama il male altrui.
La differenza tra superbia e invidia
L'invidia trae origine dall'amore per i beni mondani che l'invidioso non vuol dividere con altri (Pg XIV 86-87, XV 45), ma ha questo di specifico, che si tratta d'una tristezza e d'una letizia che si consumano in sé stesse, senza sboccare in azione, addirittura senza proporsi determinati fini.In ciò si distingue dalla superbia, della quale pure è una forma: e l'affinità con quest'ultimo peccato si scorge anche dalla definizione della superbia che nel canto XVII immediatamente precede, ai vv. 115-117, quella dell'invidia che abbiamo ora citato: anche il superbo desidera che il vicino sia «di sua grandezza in basso messo», ma il desiderio nasce dalla speranza di potere, con la 'soppressione' del vicino, acquistar lui eccellenza.
Invece, l'invidia non consiste nel desiderare l'abbassamento altrui per sormontare, in vista d'una specifica mèta, ma nel ritenere il bene altrui, di per sé, come una menomazione del proprio.
Il primo degli spiriti invidiosi che s'incontrano, la senese Sapia (in questo canto, 94-154), dice d'essere stata assai più lieta dei danni altrui che della propria fortuna (110-111); e non diversamente suona la confessione d'un altro spirito invidioso che incontreremo, Guido del Duca (Pg XIV 82-84).
San Tommaso dice che l'invidioso considera il bene altrui come limitativo della propria gloria ed eccellenza (Summa theol. II-IIae, q. XXXVI, a. 1), in ciò avvicinando strettamente l'invidia alla superbia.
Da San Tommaso parte Dante quando afferma (Pg XIV 87, XV 43-81) che soltanto i beni materiali scemano o si annullano se altri ne partecipano; ma qui nel discorso di Sapia non c'è traccia di questo timore, che è inconscio: onde il Croce poté pensare a una «singolare e incomprensibile malattia», a una «mostruosità».
La connessione tra superbia e invidia
Il peccato del primo superbo, Lucifero, fu anche d'invidia (If I 111; Pd IX 129). Senza questa stretta connessione tra i due peccati non ci spiegheremmo l'oltracotanza di cui, oltre che del sentimento d'invidia, Sapia si confessa. Quando i suoi concittadini furono sconfitti, come ella desiderava, aColle di Val d'Elsa, provò «letizia» non paragonabile a ogni altra gioia prima goduta, ma anche osò alzare la faccia in sù e sfidare Dio: «gridando a Dio: 'Omai più non ti temo!'» (119-122). In questo senso dice di esser «folle» (113), secondo il significato particolare che questa parola, come sappiamo, ha nella Commedia.