Mika
di Mika
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Versione originale in latino


Seneca Lucilio suo salutem
Intellego, Lucili, non emendari me tantum sed transfigurari; nec hoc promitto iam aut spero, nihil in me superesse quod mutandum sit. Quidni multa habeam quae debeant colligi, quae extenuari, quae attolli? Et hoc ipsum argumentum est in melius translati animi, quod vitia sua quae adhuc ignorabat videt; quibusdam aegris gratulatio fit cum ipsi aegros se esse senserunt. Cuperem itaque tecum communicare tam subitam mutationem mei; tunc amicitiae nostrae certiorem fiduciam habere coepissem, illius verae quam non spes, non timor, non utilitatis suae cura divellit, illius cum qua homines moriuntur, pro qua moriuntur. Multos tibi dabo qui non amico sed amicitia caruerint: hoc non potest accidere cum animos in societatem honesta cupiendi par voluntas trahit. Quidni non possit? sciunt enim ipsos omnia habere communia, et quidem magis adversa.
Concipere animo non potes quantum momenti afferri mihi singulos dies videam. 'Mitte' inquis 'et nobis ista quae tam efficacia expertus es.' Ego vero omnia in te cupio transfundere, et in hoc aliquid gaudeo discere, ut doceam; nec me ulla res delectabit, licet sit eximia et salutaris, quam mihi uni sciturus sum. Si cum hac exceptione detur sapientia, ut illam inclusam teneam nec enuntiem, reiciam: nullius boni sine socio iucunda possessio est. Mittam itaque ipsos tibi libros, et ne multum operae impendas dum passim profutura sectaris, imponam notas, ut ad ipsa protinus quae probo et miror accedas. Plus tamen tibi et viva vox et convictus quam oratio proderit; in rem praesentem venias oportet, primum quia homines amplius oculis quam auribus credunt, deinde quia longum iter est per praecepta, breve et efficax per exempla. Zenonem Cleanthes non expressisset, si tantummodo audisset: vitae eius interfuit, secreta perspexit, observavit illum, an ex formula sua viveret. Platon et Aristoteles et omnis in diversum itura sapientium turba plus ex moribus quam ex verbis Socratis traxit; Metrodorum et Hermarchum et Polyaenum magnos viros non schola Epicuri sed contubernium fecit. Nec in hoc te accerso tantum, ut proficias, sed ut prosis; plurimum enim alter alteri conferemus.
Interim quoniam diurnam tibi mercedulam debeo, quid me hodie apud Hecatonem delectaverit dicam. 'Quaeris' inquit 'quid profecerim? amicus esse mihi coepi.' Multum profecit: numquam erit solus. Scito esse hunc amicum omnibus. Vale.

Traduzione all'italiano


Seneca saluta il suo Lucilio.
Lucilio caro, mi rendo conto che non solo mi sto correggendo, ma addirittura mi trasformo; certo non garantisco, e nemmeno spero, che non ci sia in me più nulla da cambiare. E perché non dovrei avere ancora molti sentimenti da frenare, da attenuare, da elevare? Vedere difetti che fino ad allora ignorava, proprio questa è la prova di un animo che ha fatto progressi; con certi malati ci si rallegra quando prendono coscienza del loro male. Ci terrei, dunque, a farti conoscere questo mio improvviso cambiamento; allora comincerei ad avere una più salda fiducia nella nostra amicizia, quella vera che non la speranza, non il timore, né la ricerca del proprio interesse può spezzare, quell'amicizia che dura fino alla morte, e per la quale si è pronti a morire. Potrei menzionarti molti cui non è mancato l'amico, ma la vera amicizia: questo non può verificarsi quando un'identica volontà di desiderare il bene induce gli uomini a unirsi. Perché no? Perché essi sanno di avere ogni cosa in comune e soprattutto le avversità.
Non puoi immaginare quali progressi io mi accorga di compiere giorno per giorno. Tu mi dici: "Riferisci anche a me questo metodo che hai trovato così efficace." Certo desidero travasare in te tutto il mio sapere e sono lieto di imparare qualcosa appunto per insegnarla. Di nessuna nozione potrei compiacermi, per quanto straordinaria e vantaggiosa, se ne avessi conoscenza per me solo. Se mi fosse concessa la sapienza a condizione di tenerla chiusa in me senza trasmetterla ad altri, rifiuterei: non dà gioia il possesso di nessun bene, se non puoi dividerlo con altri. Ti manderò perciò i miei libri e perché tu non perda tempo a rintracciare qua e là i passi utili, li sottolineerò: così troverai subito quello che condivido e apprezzo. Più che un discorso scritto, però ti sarà utile il poter vivere e conversare insieme; al momento è necessario che tu venga, primo perché gli uomini credono di più ai loro occhi che alle loro orecchie, poi perché attraverso i precetti il cammino è lungo, mentre è breve ed efficace attraverso gli esempi. Cleante non avrebbe potuto esprimere compiutamente la dottrina di Zenone se avesse soltanto ascoltato le sue lezioni: fu partecipe della sua vita, ne penetrò i segreti, osservò se viveva secondo i suoi insegnamenti. Platone, Aristotele e tutta la massa dei filosofi, che poi presero strade diverse, impararono più dalla vita che dalle parole di Socrate. Non la scuola di Epicuro, ma il vivere con lui rese grandi Metrodoro, Ermarco e Polieno. E non ti faccio venire solo perché tu ne tragga giovamento, ma anche perché tu mi sia utile; ci aiuteremo moltissimo a vicenda.
Frattanto, poiché ti devo il mio piccolo contributo quotidiano, ti dirò il pensiero che oggi mi è piaciuto in Ecatone. "Tu chiedi quali progressi abbia fatto?" egli scrive, "Ho cominciato ad essere amico di me stesso." Ha fatto un grande progresso: non sarà mai solo. Sappi che tutti possono avere questo amico. Stammi bene.

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