Mika
di Mika
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Versione originale in latino


[...] Ligarianam, ut video, praeclare auctoritas tua commendavit. Scripsit enim ad me Balbus et Oppius mirifice se probare ob eamque causam ad Caesarem eam se oratiunculam misisse. Hoc igitur idem tu mihi antea scripseras. In Varrone ista causa me non moveret ne viderer philendoxos (sic enim constitueram neminem includere in dialogos eorum qui viverent); sed quia <scribis> et desiderari a Varrone et magni illum aestimare, eos confeci et absolvi nescio quam bene, sed ita accurate ut nihil posset supra, academicam omnem quaestionem libris quattuor. In eis quae erant contra akatalepsian praeclare conlecta ab Antiocho, Varroni dedi. Ad ea ipse respondeo; tu es tertius in sermone nostro. Si Cottam et Varronem fecissem inter se disputantis, <ut> a te proximis litteris admoneor, meum kophon prosopon esset. Hoc in antiquis personis suaviter fit, ut et Heraclides in multis et nos <in> vi "De re publica" libris fecimus. Sunt etiam "De oratore" nostri tres mihi vehementer probati. In eis quoque eae personae sunt ut mihi tacendum fuerit. Crassus enim loquitur, Antonius, Catulus senex, C. Iulius frater Catuli, Cotta, Sulpicius. Puero me hic sermo inducitur, ut nullae esse possent partes meae. Quae autem his temporibus scripsi Aristoteleion morem habent in quo ita sermo inducitur ceterorum ut penes ipsum sit principatus. Ita confeci quinque libros peri telon ut Epicurea L. Torquato, Stoica M. Catoni, peripatetika M. Pisoni darem. Azelotupeton id fore putaram quod omnes illi decesserant. Haec "academica", ut scis, cum Catulo, Lucullo, Hortensio contuleram. Sane in personas non cadebant; erant enim logikotera quam ut illi de iis somniasse umquam viderentur. Itaque ut legi tuas de Varrone, tamquam ermaion adripui. Aptius esse nihil potuit ad id philosophiae genus quo ille maxime mihi delectari videtur, easque partis ut non sim consecutus ut superior mea causa videatur. Sunt enim vehementer pithana Antiochia; quae diligenter a me expressa acumen habent Antiochi, nitorem orationis nostrum si modo is est aliquis in nobis. Sed tu dandosne putes hos libros Varroni <etiam> atque etiam videbis. Mihi quaedam occurrunt; sed ea coram.

Traduzione all'italiano


[...] Come vedo, la tua autorità ha mirabilmente dato prestigio all'orazione in difesa di Ligario. Balbo e Oppio infatti mi hanno scritto di averla straordinariamente apprezzata e per questo motivo di aver inviato a Cesare una copia del discorsetto. (Anche) tu d'altra parte mi avevi scritto prima questa stessa cosa. Per quanto riguarda Varrone il motivo di cui tu parli non avrebbe potuto cancellarmi per non sembrare avido di fama (avevo infatti deciso di non includere nessun personaggio vivente nei dialoghi); ma poiché mi avevi scritto che era desiderio di Varrone e che lui ci teneva molto, li ho inclusi e ho completato non so quanto opportunamente, ma tanto accuratamente che non è possibile fare di più, tutta la problematica della Nuova Accademia in quattro libri. Tra questi ho assegnato quelli che erano gli argomenti mirabilmente raccolti da Antioco contro l'incomprensibilità dei fenomeni a Varrone. Io stesso rispondo a quegli argomenti; tu sei il terzo nel nostro dialogo. Se avessi fatto disputare Cotta e Varrone tra di loro, come mi hai esortato in una lettera precedente, il mio sarebbe un personaggio muto. Questo accade piacevolmente nei personaggi del tempo passato come Eraclide ha fatto in molti suoi libri e noi nei sei tomi del "De Republica"; anche i nostro tre del "De oratore" mi sono vivamente graditi; anche in quelli ci sono personaggi tali che ho dovuto tacere. Parlano infatti Crasso, Antonio, Catulo da vecchio, Gaio Giulio, fratello di Catulo, Cotta, Sulpicio; questo dialogo è ambientato quando io ero ragazzo, sicché non potevo in nessun modo farne parte. Le opere invece che ho scritto in tempi presenti seguono il metodo aristotelico, nel quale la discussione degli altri è organizzata nel modo che quasi sempre a lui viene riservata la parte principale. Ho portato così a termine cinque libri "sui termini (del bene e del male)" (sta parlando del "De finibus") da attribuire la dottrina epicurea a Lucio Torquato, la dottrina stoica a Catone l'Uticense e i principi morali accademico-peripatetici a Marco Pisone; avevo ritenuto che ciò non sarebbe stato oggetto d'invidia, perché tutti costoro erano morti. A queste discussioni di filosofia accademica, come tu sai, avevo preso parte con Catulo, Lucullo, Ortensio. Ma esse non convenivano davvero a quei personaggi; erano infatti ragionamenti troppo sottili perché essi pensassero di averli mai sognati. Pertanto come ho letto la tua lettera su Varrone, l'ho presa come un dono di Ermes: niente avrebbe potuto essere più adatto a quel genere di filosofia, di cui lui mi sembra compiacersi massimamente, e a una parte così positiva da non essere riuscito a conseguire il risultato che le mie argomentazioni in difesa sembrassero superiori. Gli argomenti di Antioco sono assai persuasivi: quelli da me scrupolosamente enunciati hanno la sottigliezza di Antioco, ma anche la limpidezza del nostro linguaggio, se questo è di un qualche valore per noi. Ma tu vedrai e rivedrai se questi libri si devono dedicare a Varrone. Mi vengono in mente alcune cose; ma ciò a voce.

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