Nell’opera L’industria italiana dall’Ottocento a oggi, l’autorevole storico piemontese Valerio Castronovo descrive l’economia del Mezzogiorno, al momento dell’unità d’Italia, caratterizzata da sintomi atavici di debolezza e di ristagno, da un sostanziale immobilismo, sia nel settore agricolo, ancora in gran parte organizzato con logiche feudali, sia nelle limitate attività industriali, frutto in generale più di investimenti stranieri attirati da speculazioni e dalle sovvenzioni e misure protezionistiche borboniche, piuttosto che da un reale dinamismo imprenditoriale locale. Dal secondo dopoguerra, e più marcatamente dagli anni ’80 in poi, la linea interpretativa della storia meridionale, tra la fine del XVIII e la prima metà del XIX secolo, è andata progressivamente arricchendosi e modificandosi, accumulando un patrimonio di conoscenze e di nuove consapevolezze sulla natura e le cause della cosiddetta questione meridionale, ovvero sulle origini e responsabilità di una condizione di arretratezza e di inerzia riportate sovente come connotati essenziali e duraturi della storia del Mezzogiorno. Se le ragioni storiche di un passato oscurantista, socialmente arcaico ed economicamente vessatorio nel Mezzogiorno sono legate alla precedente secolare dominazione vicereale, con i Borbone (dal 1734) il regno seppe presentarsi all’appuntamento con l’Ottocento (delle rivoluzioni sociali, commerciali e industriali) con un assetto non troppo dissimile dal resto della penisola, dopo decenni nei quali, pur tra alti e bassi, era stata portata avanti una insistita lotta ai privilegi (di feudatari, clero e togati), una prima importante riforma fiscale e una rivitalizzazione delle province (tra bonifiche e prime infrastrutture) abbandonate a se stesse da secoli. E fu proprio verso la fine del Settecento che vennero a formarsi, anche nel Mezzogiorno (seppure in ritardo rispetto al resto d’Italia), i primi nuclei di quella borghesia (agraria, mercantile e intellettuale) che per prima sarebbe stata in sintonia con gli anni francesi della breve esperienza repubblicana e, a seguire, della imponente riorganizzazione del regno operata dal 1806 al 1815 da Bonaparte e Murat, poi mantenuta quasi intatta dalla successiva restaurazione borbonica. E proprio nel Decennio napoleonico, ricco di riforme epocali (la legge organica sull’amministrazione, la soppressione della feudalità e degli ordini religiosi, la riforma della magistratura e l’adozione del Codice napoleonico, una ulteriore riforma fiscale, etc.), all’istituzione delle province (nel 1806), si accompagnò la nascita di nuove istituzioni economiche, le Società agrarie (nel 1810), poi divenute Società economiche (dal 1812), che rappresentarono forme associative di coagulo delle migliori professionalità (culturali, politiche, agrarie e industriali) in ciascuna provincia del regno e che, ovunque, si adoperarono in: relazioni periodiche sullo stato sociale ed economico del territorio con proposte di sviluppo inviate all’Istituto di Incoraggiamento napoletano a sua volta istituzione consultiva del Ministero dell’Interno, campagne propagandistiche poste in essere con l’obiettivo di orientare le scelte colturali degli operatori agricoli e di divulgare nuovi metodi colturali o produzioni agricole più facilmente commerciabili sui mercati, progetti per l’istituzione o la crescita di attività manifatturiere.
Tali attività furono svolte con significativo successo in diverse province del regno, nonostante ritardi e cronica scarsità di fondi. Le particolari caratteristiche della Società economica della provincia di Terra di Lavoro (oggi geograficamente corrispondente al casertano), una delle province più sviluppate e vivaci del Regno (ben servita da infrastrutture, a grande vocazione agraria ma anche con diversi insediamenti industriali), ne fecero più di altre una istituzione molto orientata ai servizi e dispensatrice di utilità di vario genere a favore degli operatori economici della provincia (e non solo) attraverso: il suo Orto agrario sperimentale (riconosciuto tra i migliori della penisola per la qualità dei saggi di prodotti coltivati), la fornitissima Biblioteca (la più ricca e qualificata del regno in tema di agricoltura e allevamento), il prestito in prova di nuovi strumenti agrari, la vendita di una gran varietà di piante e semi (oltre 200 specie). Nelle conclusioni vengono rimarcati i caratteri essenziali dell’economia del Mezzogiorno preunitario, emersi nel corso del lavoro, evidenziandone gli aspetti di debolezza e di equilibrio nell’analisi comparativa Nord-Sud al momento dell’unità d’Italia. Infine si fa cenno ai primi anni che seguirono l’unità d’Italia che drammaticamente acuirono la frattura economica e sociale fra le diverse aree della penisola.
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