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Iperbole: 14° verso – trasposizione delle parole “e i lumi bei che mirar soglio,
spenti.” in luogo di “e spenti i lumi bei che soglio mirar”.
Perifrasi: 8° verso: “i’ sarei già di questi penser’ fòra.” per indicare il suicidio.
Enjambement: nei versi 3°-4°, 9°-10ç, 10°-11° e 12°-13°.
Antitesi: 1° e 2° verso il contrasto vita/morte.
Stile paratattico, versi cesurati in due tempi molto marcati, mancano le subordinate,
i periodi sono brevi e si accostano l’uno all’altro.
Ritmo lento; musicalità monotona, passo cadenzato.
La vita fugge…
Sonetto di 14 versi endecasillabi suddivisi in 4 strofe, di cui due quartine in rima
incrociata ABBA – ABBA e due terzine in rima replicata CDE – CDE (dove B e D
sono in forte assonanza).
In essa la tematica del tempo che scorre inesorabilmente, cara a Virgilio, Orazio,
Seneca - che Petrarca, da amante ed esperto della latinità e della classicità, ben
conosceva, - e l’ombra della morte/suicidio che sarà poi più avanti affrontata da altri
grandi poeti come Foscolo (“…a me sì cara vieni o sera!”) e Leopardi, entrambi
grandi stimatori del poeta aretino.
In questo sonetto il poeta si mostra fortemente turbato, di più, è fisicamente scosso,
eppure la ragione di questa disperazione non è indicata, e non può essere
riconducibile, come una lettura frettolosa potrebbe far credere, alla sola morte di
Laura, ben celata nel testo e anzi quasi del tutto assente se non nell’ultimissima riga,
in quel passaggio: “bei lumi spenti”, che metaforicamente altro non sono che i suoi
occhi, occhi di una giovane donna che è morta e dunque non possono più garantire
l’indicazione di una strada di riferimento per Francesco.
Sentimento angoscioso, questo, accostato da Petrarca alla peccaminosa “accidia”,
essendo lui – giustamente - del tutto ignaro delle future categorie della psicologia e
della psicanalisi, che avrebbero di certo avvicinato questo malessere dell’esistenza
alla patologia della depressione.
Le categorie che Petrarca usa, infatti, sono quelle etico-morali e filosofiche, e questo
stato d’animo risulta assolutamente da condannare perché conduce all’inerzia, alla
passività, alla profonda e, apparentemente immotivata, tristezza, all’inazione, e alla
voluttà di desiderare persino la morte per poter porre fine a questa angoscia. E per un
credente il suicidio era un peccato mortale esecrabile (non a caso Dante aveva posto i
suicidi nel suo Inferno, condannati ad essere arbusti secchi in una selva di arbusti
secchi, e ad essere torturati di continuo dalle Arpie, nonché impossibilitati al
raggiungimento della quiete eterna nemmeno dopo il Giorno del Giudizio Universale,
quando riprenderanno sì il loro corpo bistrattato in vita, ma solo per vederlo
penzolante fra i loro arbusti spogli).
Aiuterà, per meglio capire il sonetto 272, fare riferimento ad un testo molto
importante se si studia Petrarca, e cioè il “Secretum”, testo in latino, composto negli
anni 40 del ‘300 (con Petrarca non è sempre facile dare un anno definitivo alla
composizione di un’opera, proprio per la sua indole inquieta volta a correggere,
riscrivere, modificare praticamente quasi tutta la sua produzione – cosa che farà fino
a pochi mesi prima della morte sia per lo stesso Canzoniere – di cui modificherà
quella che è chiamata la versione “Vaticana” spostando l’ordine degli ultimi 30
sonetti dando così una svolta nuova e definitivamente e “condannante” dell’amore
quale errore che devia dall’alto amore per Dio - che per i Trionfi che completerà nel
febbraio del 1374 (morirà infatti nel luglio dello stesso anno).
Ma tornando al Secretum, c’è un passaggio che richiama quasi del tutto le prime
righe del sonetto: il personaggio Franciscus, alter ego del Petrarca, esterna al suo
interlocutore Augustinus, che altri non è che Sant’Agostino (filosofo tanto caro al
Petrarca, di cui apprezzava la concezione del “saggio” quale colui che si è liberato
dalle passioni carnali e vive così la vita in piena serenità attraverso la preghiera e
l’operosità, l’“ora et labora” benedettino), di provare una forte sofferenza interiore;
Augustinus allora chiede di dare una spiegazione più chiara di questo disagio e
Franciscus dice che sente come se i dolori passati e le angosce future siano tutte
attorno a lui, accerchiandolo come in un’imboscata e gli facciano la guerra, senza che
lui ravveda una via di fuga o un aiuto esterno; c’è dunque la stessa parola “guerra”, e
l’avanzamento minaccioso dei ricordi e delle aspettative future (“ et le cose presenti et le
che troviamo nel sonetto, la stessa
passate mi dànno guerra, et le future anchora”)
personificazione dei sentimenti di disagio provati dal poeta ed espressi nel sonetto.
Questa incapacità di spiegare cosa provochi dolore al poeta è ben espressa anche
nell’epistola 16.9, dove Petrarca parla di una tristezza della quale non è possibile
indicare le cause. Dunque è indubbia l’estrema attualità e la modernità che
possiedono questi versi, che si affacciano direttamente sull’animo umano, indagando
sulla psiche ed esplorandone le dinamiche e le contraddizioni in un modo del tutto
rivoluzionario rispetto ai suoi predecessori e contemporanei.
Si dice che con Petrarca si perda definitivamente la dimensione sociale della poesia,
concepita come un prodotto da condividere nell’immediato con un pubblico astante, e
si approdi a una dimensione più intima, isolata, di pura chiusura. E se è vero che nel