
Ogni mattina, all'ingresso di un Istituto di Monfalcone, si ripete lo stesso rituale. Le ragazze con il niqab - il velo integrale, tipico del mondo arabo, che lascia scoperti solo gli occhi - possono entrare in classe solo dopo essere state "identificate".
In un'aula appartata, davanti a una professoressa, sollevano infatti il velo per confermare la loro identità. Una routine che i loro compagni di classe considerano normale, tanto che molti non ne parlano nemmeno in famiglia. Ma, fuori dalle mura scolastiche, la questione è diventata oggetto di un acceso dibattito politico.
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Le studentesse col niqab a scuola
Le studentesse che indossano il niqab, fa sapere il ‘Corriere della Sera’, provengono soprattutto da famiglie del Bangladesh. I loro padri lavorano nei cantieri di Monfalcone, una città con il 30% di popolazione straniera e una forte presenza di cittadini di religione islamica.
Nel tempo, gli studenti dell’Istituto si sono abituati a vedere compagne con il velo islamico, anche perché ce ne sono praticamente in ogni classe.
Ma il niqab è qualcosa di nuovo.
La preside della scuola ha però scelto di accogliere queste ragazze anziché obbligarle a togliere il velo, temendo che l’abbandono scolastico fosse la conseguenza inevitabile del divieto. “Il ragionamento ci ha portato a ritenere che imporre può indurre le ragazze a lasciare la scuola, mentre l’istituzione raggiunge il suo scopo quando l’allievo consegue i cinque anni di studio”, ha spiegato. “Di qui la necessità di ricreare tranquillità e fiducia per far sentire a casa le giovani e capire se il lavoro di insegnanti e compagni possa portarle a essere più libere
Un compromesso per garantire l’istruzione?
Per rispettare le regole di identificazione previste dalla legge, la scuola ha così organizzato il controllo del volto prima dell’ingresso in classe.
Ma non è l’unico adattamento: le ragazze con il niqab svolgono, infatti, attività motoria personalizzata, evitando esercizi che potrebbero esporre parti del corpo.
Più complesso è il discorso per il Pcto (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento, l’ex alternanza scuola-lavoro), dove le limitazioni potrebbero essere un problema.
Dalla scuola alla politica: la proposta di vietare il niqab
Quando però la notizia è uscita al di fuori della comunità scolastica, la polemica è esplosa.
In campo, come da copione, sono scese le formazioni politiche.
L’ex sindaca leghista di Monfalcone, Anna Cisint, e il gruppo regionale della Lega hanno annunciato l’intenzione di proporre una legge regionale per vietare il niqab nei luoghi pubblici, scuole incluse.
Ma non è stata solo la Lega a esprimersi contro il velo integrale.
Anche la sezione friulana del Pd ha sottolineato come il niqab rappresenti un ostacolo all’integrazione, poiché mette in discussione il ruolo della donna e il rapporto educativo tra studenti e insegnanti.
Il dibattito: integrazione o imposizione?
Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara non si è espresso direttamente, lasciando la parola al segretario della Lega, Matteo Salvini, che ha dichiarato: “È inaccettabile che una scuola sia costretta ad adattare i propri regolamenti per sottostare a culture incompatibili con i nostri valori”.
La proposta della Lega è chiara: vietare abbigliamenti che celano il volto, come burqa e niqab, con conseguenze pesanti per chi trasgredisce, tra cui due anni di reclusione e la perdita del diritto di richiedere la cittadinanza italiana.
Intanto, la dirigente dell’ufficio scolastico regionale, Daniela Beltrame, ha chiesto indicazioni direttamente al Ministero dell’Istruzione e del Merito, sottolineando che il problema non riguarda solo Monfalcone, ma molte altre scuole italiane.
Il Garante: "Molte preoccupazioni per la libertà di queste ragazze"
A dimostrare la portata del dibattito, nel frattempo, è arrivato anche l'intervento dell'Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Marina Terragni: “Le notizie che ci arrivano da Monfalcone - ha detto - sollevano molte preoccupazioni sulla libertà di queste ragazze e sulla loro effettiva integrazione nel contesto scolastico e sociale. La necessità di un efficace dialogo tra culture non può impedire di osservare che talune pratiche contravvengono ai più elementari diritti e ostacolano il pieno sviluppo della personalità di chi è costretta a subirne l’imposizione”.
“Bambine e ragazze - aggiunge Terragni - devono essere libere di crescere armoniosamente, seguendo ciascuna le proprie più autentiche vocazioni: la consapevolezza che il proprio corpo non può essere in alcun modo umiliato e mortificato fa obbligatoriamente parte di questo percorso.
L’auspicio è che sul caso di Pordenone e su ogni caso analogo il Ministero dell’Istruzione e del Merito ponga la massima attenzione”.