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L'infarto miocardico è la necrosi ischemica del tessuto cardiaco su base ateromatosa coronarica
con stenosi severa. Comunemente la zona interessata si trova nel ventricolo sinistro
conseguente alla mancata circolazione sanguigna distrettuale coronarica.
Questa patologia ha un’incidenza maggiore nell’uomo rispetto alla donna fino all’età di
sessant’anni, con un picco massimo intorno ai cinquant’anni; trai sessanta e i settanta è più
frequente nella donna; dopo i settanta è uguale nei due sessi.
Com’è proprio delle patologie cardio- vascolari degenerative anche l’infarto ha un’origine
multifattoriale. Esistono fattori non influenzabili quali la predisposizione familiare, l’età e il
sesso e altri dipendenti da cause esterne quali cattive abitudini alimentari, ipertensione,
abuso di sostanze come alcol o droghe e sedentarietà. Alla presenza di uno o più di questi
fattori, compiere sforzi violenti, provare emozioni improvvise o attraversare un periodo di forte
stress possono essere cause scatenanti dell’infarto.
L’occlusione parziale o totale di una o più arterie coronarie che causano l’infarto è dovuta, in
genere, a un processo arteriosclerotico provocato da una progressiva deposizione di
colesterolo e di altri lipidi.
Il colesterolo è un composto organico appartenente alla famiglia degli steroidi e nell’organismo
si forma a partire dall’acido acetico, la sua formula grezza è C H OH. Nel nostro organismo
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può circolare sia libero sia combinato con acidi grassi ed è presente in tutti i tessuti, nelle
ghiandole surrenali e nel tessuto nervoso.
Il colesterolo che si trova nell’organismo ha due origini:
interna o endogena,
- derivante dalle attività metaboliche del fegato, il quale provvede anche a
regolarne la concentrazione nel sangue eliminando con la bile quello in eccesso;
esterna o esogena,
- presente negli alimenti e apportato all’organismo con la dieta.
Senza l’apporto esterno, in un individuo adulto, in un giorno sono prodotti circa 800 mg di
colesterolo, mentre, se consumato in dosi eccessive con gli alimenti, in condizioni di cattiva
regolazione epatica, si concentra nel sangue e quando supera i 200 mg/dl diventa un fattore di
rischio per le malattie cardiovascolari. L’O.M.S. ha fissato in 300mg al giorno la dose massima
accettabile di colesterolo introdotto con la dieta per una persona adulta. Il colesterolo è
lipoproteine di trasporto
trasportato nel sangue dalle che svolgono un ruolo fondamentale nella
placche di ateroma.
formazione delle In genere, si può affermare che una dieta ricca di
sostanze lipidiche con acidi grassi saturi, favorisce un aumento delle LDL e con esse le LDL-
colesterolo nel sangue. Le LDL (low density lipoprotein) trasportano il colesterolo nel sangue
colesterolo cattivo
alle strutture cellulari dei tessuti. Questo tipo di colesterolo è detto perché
colesterolo buono,
tende a depositarsi nei vasi arteriosi. Esiste anche il cosiddetto ovvero le
HDL- colesterolo (high density lipoprotein) che trasportano il colesterolo dalle strutture cellulari
al fegato dove viene eliminato attraverso la bile, la quale ha il compito esenziale di
emulsionare i grassi,e di agire positivamente nella prevenzione delle malattie cardiovascolari.
Uno dei fattori scatenanti dell’infarto è lo stress. Tra la malattia cardiovascolare e la psiche, da
sempre, si pone un legame stretto sulla quale pesa anche l’antica credenza che vuole il cuore
sede delle emozioni. In modi diversi l’ipotesi è sopravvissuta anche all’avvento della medicina
scientifica, soprattutto nella ricerca di un parallelo tra la personalità dell’individuo, il suo
atteggiamento nella vita di relazione in particolare, e il rischio di sviluppare la malattia
coronarica e, poi, l’infarto. Un luogo comune vuole che un individuo ambizioso, competitivo,
tendenzialmente aggressivo, impaziente e intollerante, in altre parole iper-reattivo sia più
predisposto all’infarto, mentre studi recenti hanno dimostrato che una personalità che reagisce
esageratamente alle sollecitazioni esterne sgradevoli tendendo a rinchiudersi e a non
esprimere concretamente le reazioni agli stressor, sia effettivamente maggiormente
predisposta a questa patologia. In questi soggetti cardiopatici è presente un rischio da quattro
a otto volte superiore di malattia o morte, indipendentemente dai fattori di rischio classici e, in
più, sembrano trarre minori benefici dai trattamenti medici di tutti i tipi. Inoltre la reazione
fisiologica allo stress attiva reazioni infiammatorie e questo a sua volta ha effetti negativi
sull’apparato cardiovascolare del paziente. Queste sono le conclusioni tratte dallo studio
condotto dalla National Heart Foundation of Australia che ha rivisto tutti gli studi disponibili sul
tema stress, fattori psicosociali e malattia cardiovascolare.
I sintomi principali dell’infarto sono: un forte dolore al torace, particolarmente intenso
dall'inizio, spesso di lunga durata, senso di oppressione (definito senso di morte imminente),
senso di peso a livello toracico e, a volte, una sensazione di bruciore al petto. Questi sintomi
sono spesso associati a nausea e/o a vomito in un paziente che si presenta sofferente, agitato,
con i battiti al polso frequenti e difficilmente rilevabili, con difficoltà a respirare normalmente,
che suda freddo e che può addirittura svenire. Il dolore tipico è quello riferito appunto al petto e
si può irradiare alla mandibola, alle spalle, al collo, alle braccia oppure a un braccio, specie il
sinistro. In alcuni casi l'infarto può essere preannunciato da un semplice formicolio alle dita
della mano sinistra o da un senso di peso o di stanchezza al braccio.
Per diagnosticare in maniera corretta l’infarto si ricorre a indagini di laboratorio e
all’elettrocardiogramma (ECG). Nel sangue s’individua un aumento di mioglobina. La
mioglobina è una proteina la cui funzione è quella di legare l’ossigeno nei muscoli. Essa è un
marcatore molto precoce di infarto del miocardio, piuttosto sensibile, ma anche aspecifico,
potendo delle lesioni muscolari periferiche provocare una medesima elevazione del
metabolismo. L’ECG è la rappresentazione grafica dell'attività elettrica del cuore. Viene
ottenuta collegando una serie di elettrodi a determinate parti del corpo. L'ECG può non essere
positivo nelle prime 24h dopo un infarto e definisce la grandezza, la localizzazione e l’età
dell’infarto.
Il trattamento per l’infarto ha lo scopo di alleviare la sofferenza del paziente, di ridurre il lavoro
cardiaco, di prevenire o risolvere le complicanze. Poiché circa il 50 % dei decessi avviene nelle
prime ore d’insorgenza, è ovvio che una diagnosi precoce è essenziale. Responsabile dell’alto
numero di decessi è anche l’atteggiamento dello stesso paziente che non è consapevole di
avere dei sintomi potenzialmente letali.
Il rischio più immediato è rappresentato dall’insorgenza di aritmie pericolose, pertanto il
trattamento deve essere immediato. Una volta che il paziente arriva in ospedale il ritmo
cardiaco viene stabilizzato con la somministrazione di farmaci adeguati. La bradicardia viene
trattata con atropina, mentre le extrasistoli ventricolari vengono trattate con xilocaina . In
presenza di fibrillazione ventricolare si cerca di ripristinare il ritmo con il defibrillatore. Per
alleviare il dolore viene utilizzata la morfina , potente analgesico. In associazione è sicuramente
utile l’aspirina il quale uso ha dimostrato una diminuzione della mortalità se somministrata fin
dalle prime ore.
In alcuni casi, dopo un infarto è necessaria l’introduzione di un pacemaker: questo avviene
quando il nodo senoatriale batte a una frequenza inferiore di 40- 50 pulsazioni al minuto,
pertanto il pacemaker viene chiamato “stimolatore cardiaco”.
Poiché l’infarto colpisce il cuore, un organo da sempre legato alla sfera emotiva nella sua
simbologia, il paziente si ritrova a vedere la propria vita divisa in una prima e in un dopo.
L’immediato prima è rappresentato dalle situazioni di vita quotidiana. L’infartuato attraversa
diverse fasi di cui la prima è indubbiamente quella in cui si avverte un senso di morte
imminente provocata da un inteso dolore e da una sensazione di oppressione al torace.
All’improvviso il futuro si fa più incerto e da quel momento in poi l’equilibrio emotivo ne risente
tanto più quanto è più profonda la consapevolezza di essere portatore di una patologia
potenzialmente grave. Esistono tre tipi di comportamento che l’infartuato può assumere una
volta superata questa prima fase:
- Comportamento di regressione: il soggetto vede tutto negativo, pensa che non tornerà più
normale e che , ammesso che sopravviva, sarà solo un invalido, un peso per la famiglia. Soffre
di una necessità di forte commiserazione mescolata a una buona dose di scetticismo, che lo
spinge a volte a comportamenti irascibili e insofferenti sul lavoro e con i familiari: diventa iroso,
insofferente e ipocondriaco. Solitamente questi soggetti sono, di base, ansiosi o hanno aspetti
depressivi spesso latenti.
- Comportamento di negazione: il paziente tende a minimizzare la sua situazione, a volte,
interpretandola addirittura con disprezzo. Non rinuncia a ciò che può aggravare la sua salute
( per esempio al fumo o a cattive abitudini alimentari). E’ possibile che un tale soggetto abbia
già avuto problemi cardiaci precedenti. E’ una personalità questa il cui egocentrismo può
sviluppare comportamenti aggressivi, anche se con meccanismi diversi da un soggetto che
manifesta un comportamento di regressione. Il suo è un comportamento di autodifesa: nega
l’accaduto, rifiutandolo a priori e in questo modo esorcizza la paura della patologia organica,
evitando un’angoscia altrimenti non tollerabile.
- Comportamento di equilibrio: tra i due comportamenti precedenti esiste una vasta gamma di
situazioni intermedie connotate da un certo raggiungimento di equilibrio. Questa è la situazione
che si rivela più favorevole per il paziente che dimostra di possedere una personalità serena,
che accetta con la dovuta preoccupazione l’accaduto, ma ritiene consapevolmente di avere la
forza per potersi riprendere. Il soggetto si propone di modificare il proprio stile di vita. Spesso
alle spalle è presente una situazione familiare più favorevole che addirittura aiuta l’infartuato a
fare tesoro dell’esperienza vissuta.
Il paziente colpito da infarto che manifesta problemi da un punto di vista psicologico deve
essere valutato con attenzione da personale esperto in psicologia e neuropsichiatria per
definire un corretto supporto psicosociale, ove con questo termine si deve intendere tutto quel
corollario di provvedimenti che sono complementari all’eventuale terapia farmacologica. Alcuni
provvedimenti di questo tipo hanno già dimostrato di migliorare la qualità della vita e di ridurre
lo stress psicosociale del paziente cardiopatico dopo l’evento acuto. Programmi di psicoterapia
per esempio vanno gestiti con uno specialista psicologo o con uno psichiatra e affiancati da
rigorosi programmi di educazione sanitaria, i quali esortano alla cessazione del fumo, alla
correzione delle abitudini alimentari in modo da poter affrontare eventuali ricadute. E’ inoltre
molto importante il “parent training” ovvero il ruolo che la famiglia svolge nell’ambito delle
cure del paziente. Si tratta dell’aspetto più importante in assoluto, poiché la famiglia viene
coinvolta attivamente nel processo riabilitativo del cardiopatico; a essa sono fornite le strategie
per gestire in modo costruttivo e funzionale il rientro del paziente nel suo ambiente socio-
familiare. Non bisogna dimenticare che anche i familiari vivono il momento critico
dell’infartuato e per tanto condividono con questo le ansie, le incertezze e la depressione che
ne derivano. E’ necessario infine una corretta personalizzazione dei provvedimenti da adottare,
perché ogni paziente è diverso dagli altri e, tra tutti, i pazienti anziani meritano attenzioni