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Sintesi Ricerca dell'eterna giovinezza, tesina
Questa tesina descrive la ricerca dell'eterna giovinezza. Si dice che l’uomo sia l’unico animale a morire due volte perché sa di doverlo fare. Sembra che il tempo scorra come sabbia per ricordarcelo, perché la vita è transitoria e il tempo messo a disposizione è insufficiente per esaudire tutta la nostra mole di azioni e desideri.
Nel profondo l’uomo sa che il passare del tempo non è altro che l’avvicinamento alla morte, la quale viene sentita dalla maggior parte come una tragedia, come una perdita da sconfiggere con tutti i mezzi possibili. Nel momento stesso in cui veniamo al mondo ha, infatti, inizio un lento processo di degenerazione, l’invecchiamento, arrestabile solo con la morte. In fondo non è possibile parlare di longevità senza pensare all’invecchiamento. Questi sono strettamente collegati, e rappresentano le due facce della stessa medaglia.
Volendo dare una definizione, per longevità s’intende la durata superiore alla media della vita di un organismo, mentre l’invecchiamento può essere inteso come il progressivo declino della capacità dell’organismo di mantenere le funzioni biologiche e fisiologiche. Sebbene la fine della vita sia qualcosa che ci terrorizza ci sprona verso il progresso scientifico e tecnologico e per questo, spinto dalla paura e dall’ambizione, l’uomo ha sempre cercato di eternarsi creando infinite tracce di se che sopravvivano alla morte fisica e diano un’illusione di immortalità. Queste tracce spaziano dai lifting al procreare per “ingannare il tempo”, dalla ricerca medica della “pillola dell’immortalità” al “carpe diem”.
Se da una parte il desiderio dell’uomo è di vivere il più a lungo possibile, dall’altra la paura di un declino psicofisico associato allo scorrere del tempo, a stampo del mito di Titone, è ora più forte che mai. Titone era fratello minore di Priamo la cui amante, Eos, chiese a Zeus di conferirgli l’immortalità, dimenticandosi però di chiedergli insieme l’eterna giovinezza.
Collegamenti
Ricerca dell'eterna giovinezza, tesina
Italiano- Il racconto di O.Wilde,"Il ritratto di Dorian Gray", secondo l'interpretazione di F.Nietzsche in "la nascita della tragedia".
Biochimica: Neo teorie (2012 e seguenti) su radicali liberi e invecchiamento.
Chimica: Analisi spettrofotometrica dell'estratto di stella alpina.
Introduzione
Si dice che l’uomo sia l’unico animale a morire due volte perché sa di doverlo fare. Sembra che
il tempo scorra come sabbia per ricordarcelo, perché la vita è transitoria e il tempo messo a
disposizione è insufficiente per esaudire tutta la nostra mole di azioni e desideri.
Nel profondo l’uomo sa che il passare del tempo non è altro che l’avvicinamento alla morte, la
quale viene sentita dalla maggior parte come una tragedia, come una perdita da sconfiggere
con tutti i mezzi possibili. Nel momento stesso in cui veniamo al mondo ha infatti inizio un lento
processo di degenerazione, l’invecchiamento, arrestabile solo con la morte.
In fondo non è possibile parlare di longevità senza pensare all’invecchiamento. Questi sono
strettamente collegati, e rappresentano le due facce della stessa medaglia.
Volendo dare una definizione, per longevità s’intende la durata superiore alla media della vita
di un organismo, mentre l’invecchiamento può essere inteso come il progressivo declino della
capacità dell’organismo di mantenere le funzioni biologiche e fisiologiche.
Sebbene la fine della vita sia qualcosa che ci terrorizza ci sprona verso il progresso scientifico e
tecnologico e per questo, spinto dalla paura e dall’ambizione,l’uomo ha sempre cercato di
eternarsi creando infinte tracce di se che sopravvivano alla morte fisica e diano un’ illusione di
immortalità. Queste tracce spaziano dai lifting al procreare per “ingannare il tempo”, dalla
ricerca medica della “pillola dell’immortalità” al “carpe diem”.
Se da una parte il desiderio dell’uomo è di vivere il più a lungo possibile, dall’altra la paura di
un declino psicofisico associato allo scorrere del tempo, a stampo del mito di Titone, è ora più
forte che mai. Titone era fratello minore di Priamo la cui amante, Eos, chiese a Zeus di
conferirgli l’immortalità, dimenticandosi però di chiedergli insieme l’eterna giovinezza.
Omero narra che:
quando però l’odiosa vecchiezza si abbatté su Titone
che non era più in grado di muovere o alzare le membra,
questa parve alla dea la decisione migliore:
lo ricoverò in una stanza, e chiuse le fulgide porte 2
Dal mito di Titone a quello degli
antiossidanti
Domande quali “perché invecchiamo?” e “quali sono i meccanismi dell’invecchiamento?”
hanno per anni ricevuto risposte generiche e distratte mescolate alla convinzione che
l’invecchiamento e poi la morte siano conseguenza inevitabile dell’ostilità dell’ambiente che ci
circonda e dell’effetto ineluttabile del tempo. Ai giorni nostri gli scienziati sono a caccia di
matusalemme “giovanili” da reclutare nei loro studi nella speranza di capire cosa li rende così
resistenti al declino: i loro geni? Quello che mangiano? Il modo in cui vivono? E soprattutto,
potremmo mai in qualche modo imitarli?
Il cambiamento
Nel 1988 in un laboratorio americano venne annunciata una grande scoperta: l’eliminazione di
Caenorhabditis elegans
un solo gene (age-1) dal verme ne provocò un allungamento della vita
del 65%. Undici anni più tardi vennero scoperti geni simili nel topo. Si giunse alla conclusione
che nel patrimonio genetico del verme e del topo siano presenti geni che causano
l’invecchiamento.
Nel giro di 20 anni sono stati identificati decine di questi geni nei lieviti,nei vermi, nelle mosche
e nei topi.
Questi geni sono presenti anche nell’uomo e non c’è ragione di pensare che abbiano una
funzione diversa.
Queste scoperte hanno cambiato radicalmente il nostro modo di guardare l’invecchiamento e
l’allungamento della vita. Innanzitutto mettendo in discussione l’idea che la durata della vita
sia fuori dal nostro controllo, poi cambiando l’idea che si potesse prolungare la durata media
della vita solo sconfiggendo le malattie e migliorando le condizioni di vita.
Era inoltre generalmente accettato che la durata massima della vita nella specie umana (100-
110 anni) non fosse valicabile, oggi invece è lecito domandarsi se e come intervenire per
prolungarla.
L’esistenza dei geni dell’invecchiamento ci dice forse che questo è “scritto” nel DNA di tutti gli
esseri viventi?
Una prima risposta è implicita nella definizione dello stesso gene. La teoria dell’evoluzione
biologica afferma che ogni cambiamento genetico è selezionato solo se migliora la possibilità di
sopravvivenza dell’individuo che lo possiede e se ne aumenta la capacità di lasciare
discendenza. In altre parole i geni contenuti nel nostro DNA giungono a noi nel percorso
dell’evoluzione solo se hanno migliorato la capacità di procreare. Questa teoria ci porta quindi
a pensare che i geni dell’invecchiamento svolgano una funzione importantissima per la specie,
ma quale?
Una prima ipotesi è che l’invecchiamento sia necessario perché porta un vantaggio evolutivo
nella specie, nonostante sia indubbiamente negativo per l’individuo. Alcuni scienziati tra cui
August Weismann, importante seguace di Darwin, suggerirono che l’invecchiamento e la morte
liberassero la popolazione dai vecchi individui, inutili dal punto di vista evoluzionistico in
quanto non possono più riprodursi, sostituendoli con nuovi modelli vigorosi. Questa ipotesi è
improbabile, innanzitutto perché in natura l’invecchiamento è un evento poco frequente in
quanto gli animali muoiono più per cause estrinseche e non hanno “tempo” di invecchiare, poi
perché anche se l’invecchiamento svolgesse una funzione positiva, l‘evoluzione non riuscirebbe
ad operare sui geni che lo causano in quanto questi diventano attivi dopo l’età della
riproduzione e quindi in un momento in cui non c’è possibilità di selezione. Il nostro genoma
oltretutto non è un set di carte fisse dalla nascita: la scienza emergente dell’epigenetica indaga
proprio come l’ambiente può modificare i geni, decidendo quali silenziare e quali accendere.
Apparentemente la teoria dell’evoluzione non rende pienamente conto dell’esistenza dei geni
dell’invecchiamento. Sembrerebbe quindi necessario confutare la teoria dell’evoluzione dei
geni o quella dell’esistenza dei geni dell’invecchiamento, ma questo non è possibile poiché
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entrambe sono state confermate empiricamente. Non ci resta altro che rimodellare le teorie
sulle funzioni degli stessi geni.
Williams formulò la teoria della pleiotropia antagonistica secondo cui i geni dell’invecchiamento
svolgono in realtà funzioni utili per l’individuo giovane e che solo dopo la fine dell’età
riproduttiva diventino “dannosi”, causando l’invecchiamento. In altre parole l’invecchiamento
non è il fine primario dei geni scoperti ma rappresenta un prodotto secondario, una sorta di
prezzo da pagare per un’altra funzione che l’evoluzione ha selezionato per il bene della specie.
Quali sono le funzioni per le quali paghiamo un prezzo così alto?
Un primo esempio riguarda il mantenimento dell’integrità dei tessuti , basato sulla continua
sostituzione delle cellule che hanno terminato il loro ciclo funzionale. Per farlo le cellule madri
dei vari tessuti si dividono continuamente esponendosi al rischio di accumulare danni del DNA
e dare origine ai tumori. Per far fronte a un simile rischio l’evoluzione ha selezionato una
famiglia di geni (oncosoppressori) che,ogni volta che il DNA di una cellula si danneggia,
inducono la morte della cellula stessa. Il protrarsi nel tempo di questo meccanismo porta alla
perdita di cellule nei tessuti e alla riduzione delle loro funzioni, contribuendo all’invecchiamento
dell’individuo. I geni soppressori quindi sono anche “geni dell’invecchiamento”e
l’invecchiamento (o almeno la riduzione dell’integrità dei tessuti) è il prezzo che paghiamo per
difenderci dall’insorgenza di tumori.
Un secondo esempio è rappresentato dai radicali liberi dell’ossigeno. I radicali liberi sono stati e
sono al centro di teorie situate apparentemente agli antipodi. Ho deciso di concentrarmi
sull’evoluzione degli studi che hanno individuato nei “radicali liberi” la “nobile” funzione con
però “sfortunate”conseguenze e che sono stati presi in considerazione, come si può notare dai
dati bibliografici, solo negli ultimi anni. I radicali liberi sono utilizzati dalle cellule come un
meccanismo di difesa, simile, come vedremo, a quello dell’allarme antincendio. Purtroppo però
quando entra in gioco la degenerazione cellulare questi portano a uno stato alterato della
cellula che smaschera la funzione di quelli che prima abbiamo chiamato geni
dell’invecchiamento e che hanno conseguenze negative solo nell’età post riproduttiva.
Uno sguardo ai radicali liberi
Il nostro organismo è un laboratorio chimico e in ogni cellula avvengono costantemente
processi chimici che richiedono energia e ossigeno. Tutte le cellule viventi hanno bisogno di
grandi quantità di ossigeno per produrre l'energia necessaria al loro funzionamento. Nei
processi di ossidazione per generare energia vitale si formano i ROS (Reactive oxygen species):
i radicali liberi . Il radicale libero è un Atomo o aggruppamento di atomi originato dalla rottura
di una molecola in corrispondenza di un legame di valenza formato da una coppia di elettroni,
uno solo dei quali resta su ognuno dei due frammenti della molecola (scissione omolitica).
L'elettrone, che risulta così non appaiato, conferisce al gruppo atomico a cui appartiene
spiccata reattività (e, conseguentemente, vita molto breve) e questo comporta reazioni
indesiderate e spesso lesive per le cellule. Essi innescano una serie di reazioni a catena, che
tendono a produrre altri radicali liberi o superossidi altamente reattivi, causando la
degenerazione cellulare denominata "danno ossidativo", che si verifica principalmente
all'interno dei mitocondri. Il mitocondrio è l’organello intracellulare responsabile della
conversione dell’energia proveniente dagli alimenti in una forma adatta ad alimentare i
processi cellulari. Durante questo processo, fisiologicamente si vengono a creare modeste
quantità di radicali liberi in grado di rompere i legami chimici di proteine, membrane e DNA,
portando a prodotti non più correttamente funzionanti o addirittura inutilizzabili da parte della
cellula. L’ambiente cellulare interno però, in condizioni normali, risulta protetto da notevoli
quantità di sostanze antiossidanti fabbricate fisiologicamente in maniera diretta dalla cellula
stessa. Quando l’equilibrio tra radicali liberi e antiossidanti si interrompe per il sopraggiungere
di condizioni quali l’utilizzo di alcuni tipi di farmaci, radiazioni come le UV e particelle
inquinanti, la cellula precipita in uno stato di stress ossidativo, condizione che vede un
proliferare di danneggiamenti delle strutture cellulari ad opera dei radicali liberi non più
tamponati. I danni di queste autoaggressioni devono essere prontamente riparati, altrimenti
possono compromettere la struttura della cellula stessa e il suo funzionamento.
L’evoluzione della teoria… 4
L’idea che i radicali liberi possono causare l’invecchiamento ha le sue radici negli anni ‘50 del
‘900, quando Denham Harman, che aveva una buona formazione nella chimica dei radicali
liberi dell’industria petrolifera, suggerì che questi frammenti di ossigeno e azoto reattivi
potessero anche attaccare molecole biologiche d’importanza critica come il DNA e le proteine.
Benché i radicali liberi non fossero mai stati associati all’invecchiamento a Harman apparve
sensato che ne fossero i responsabili.
In primo luogo sapeva che le radiazioni ionizzanti emesse dai raggi X e dalle bombe radioattive
stimolano la produzione di radicali liberi nel corpo e studi dell’epoca dimostravano che diete
ricche di antiossidanti modificavano gli effetti nocivi delle radiazioni. Per di più i radicali liberi
erano normali sottoprodotti della respirazione e del metabolismo e si accumulano
nell’organismo con il passare del tempo. Harman quindi pensò che, poiché sia il danno cellulare
sia i livelli di radicali liberi aumentano con l’età , era probabile che i radicali liberi causassero il