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Sintesi

Introduzione Pandemie tesina



Questa tesina di maturità descrive le pandemie. Inoltre la tesina permette i seguenti collegamenti interdisciplinari: in Latino il De Rerum Natura di Lucrezio, in Greco l'Iliade e la Guerra del Peloponneso di Tucidide, Inglese The masque of red death di Poe, in Scienze Yersinia Pestis, in Italiano I Promessi Sposi di Manzoni e il Decameron di Boccaccio, in Antropologia Armi acciaio e malattie di Diamond.

Collegamenti


Pandemie tesina



Latino - De Rerum Natura (Lucrezio).
Greco - Iliade di Omero e La Guerra del Peloponneso di Tucidide.
Inglese - The masque of red death (Poe).
Scienze - Yersinia Pestis.
Italiano - Promessi Sposi (Manzoni) e Decameron (Boccaccio).
Antropologia - Armi acciaio e malattie (Diamond).
Estratto del documento

E spesso un singulto continuo di giorno e di notte,

costringendoli a contrarre assiduamente i nervi e le membra,

tormentava e sfiniva gli infermi già prima spossati.

Né avresti potuto notare alla superficie del corpo

la parte esteriore bruciare di ardore eccessivo,

ma piuttosto offrire alle mani un tiepido tatto

e insieme tutto il corpo arrossato da ulcere simili a ustioni,

come quando il fuoco sacro si sparge su tutte le membra.

Ma l'intima parte dell'uomo ardeva fino al fondo delle ossa,

una fiamma bruciava nello stomaco come dentro un forno.

Non vesti sottili e leggere potevano giovare alle membra dei malati,

ma questi cercavano sempre vento e frescura.

Parte, riarsi dalla febbre, abbandonavano il corpo

ai gelidi fiumi, le nude membra distese nelle onde.

Molti piombarono a capofitto nelle acque dei pozzi,

protesi verso di essi con la bocca anelante:

un'arida insaziabile arsura, sommergendo quei corpi,

uguagliava gran copia di liquido a povere stille.

Né v'era una tregua al male, ma i corpi giacevano sfiniti.

In silenzioso timore esitava l'arte dei medici,

e intanto i malati volgevano senza posa lo sguardo

degli occhi sbarrati, riarsi dal male e insonni.

Allora apparivano numerosi presagi di morte:

il torvo cipiglio, lo sguardo demente e furioso,

e inoltre l'udito assillato da una folla di suoni,

il respiro affrettato, oppure lento e profondo,

il collo bagnato dal liquido di un sudore lucente,

rari e sottili gli sputi, amari, d'un giallo rossastro,

espulsi a fatica dalle fauci con rauchi insulti di tosse.

I nervi delle mani non tardavano a contrarsi, e gli arti

a tremare, e man mano a succedere un gelo dalla pianta

dei piedi.”

GIUNGE L'ORA SUPREMA: la morte giunge, ma quelli che porta via non sono più esseri umani:

sono creature già spente dentro, private della loro linfa vitale, gusci vuoti e sfigurati.

(vv.1192-1198)

“E infine, nell'ora suprema, le nari sottili,

la punta del naso affilata, gli occhi infossati,

le concave tempie, la gelida pelle indurita,

sul volto un'immobile smorfia, la fronte tirata e gonfia.

Di solito all'ottavo apparire della fulgida luce del sole,

o al nono splendore del giorno, gli infermi rendevano la vita.”

IL SUPPLIZIO PER CHI SOPRAVVIVE: però non sono i morti ad essere andati contro al destino

peggiore. Chi ha evitato la fine, è condannato ad un'esistenza ancora più tremenda: la pazzia che li

aveva colti, non svanisce, ma li porta al delirio assoluto. Il morbo s'impossessa definitivamente dei

nervi, si fa padrone indiscusso della loro anima, consegnandoli all'oblio.

A differenza del testo di Tucidide, non è la malattia a far perdere loro gli arti, ma sono loro stessi

che si auto-mutilano, in preda alla più profonda disperazione. 5

(vv.1199-1214)

“E se alcuno di loro, come accade, aveva evitato la morte,

per le orribili piaghe e il nero profluvio del ventre

anche a lui era serbata più tardi la consunzione e la morte,

o anche sgorgava sovente, con dolori di capo,

gran copia di sangue corrotto dalle nari ricolme:

qui fluivano tutte le forze e la fibra dell'uomo.

E inoltre chi fosse scampato a quell'acre profluvio

di orribile sangue, a lui il morbo scendeva

nei nervi, negli arti e nelle parti genitali del corpo.

Alcuni, atterriti di giungere alle soglie della morte,

vivevano mutilandosi col ferro degli organi virili,

altri, amputati delle mani e dei piedi, tuttavia rimanevano

in vita, e altri perdevano il lume della vista.

A tal punto il timore della morte era penetrato in costoro.

E anche taluno fu preso dall'oblio di ogni cosa,

così da non poter riconoscere nemmeno se stesso.”

L'EPIDEMIA È TOTALE: niente segue più il normale corso. Nemmeno gli animali si cibano dei

morti, che rifuggono in preda al ribrezzo. Il morbo s'impossessa anche di loro, mescolando i loro

cadaveri a quelli degli uomini. La città è in preda al caos.

(vv.1215-1229)

“Benché molti cadaveri insepolti giacessero gli uni sugli altri,

le razze degli uccelli e delle bestie selvagge

balzavano lontano da essi per fuggirne il fetore,

oppure, dopo averne gustato, languivano di una prossima morte.

Del resto per nulla in quei giorni gli uccelli azzardavano

di mostrarsi, o le feroci famiglie delle belve uscivano

dai covi silvestri. Languivano i più in preda al morbo

e morivano. Soprattutto la fedele muta dei cani

esalavano miseri l'anima distesi per tutte le strade;

la violenza del male strappava la vita alle membra.

Funerali desolati e deserti si contendevano il passo.

Né era data una forma sicura di comune rimedio;

infatti ciò che a uno aveva permesso di respirare

il soffio vitale dell'aria, e mirare gli spazi del cielo,

ciò stesso era rovina di altri e ne causava la morte.”

QUANDO L'ORDINE VIENE SCONVOLTO:

Il contagio raggiunge l'acme. In Atene l'ordine morale e sociale di qualsiasi azione è totalmente

sconvolto. I versi riprendono ancora una volta il brano di Tucidide (capitolo 51), la cui descrizione

appare però molto più distaccata e impersonale.

Lucrezio, invece, mantiene serrato il ritmo, rendendo la narrazione una successione inarrestabile di

eventi. Vengono riportate le estreme conseguenze della pestilenza, che distruggono i costumi e le

usanze di una città intera. Vengono abbandonati i riti funebri, ai morti non si concede nulla di più di

un frettoloso saluto, temendo costantemente il contagio.

A differenza del testo greco, qui è presente una descrizione della campagna colpita dalla peste, non

presente nella narrazione originale. L'attenzione non solo per l'urbs, ma anche per l'ager è tipica 6

della mentalità romana. Viene omesso, inoltre, il dettaglio per cui chi scampava alla malattia ne

rimaneva immunizzato, dato importante per Tucidide. Il morbo, dunque, assume una valenza

universale, non risparmia nessuno.

Lucrezio vuole sottolineare l'enorme portata del male, scegliendo uno stile con pochi verbi, molti

sostantivi e aggettivi, vertendo soprattutto sulla concretezza. Per aumentare il senso di disordine

dato dalla narrazione, mescola arcaismi, neologismi, costrutti complessi e poco usati,

accompagnando così la confusione della natura e della città.

(vv. 1230 – 1286)

Illud in his rebus miserandum magnopere unum

aerumnabile erat, quod ubi se quisque videbat

implicitum morbo, morti damnatus ut esset,

deficiens animo maesto cum corde iacebat,

funera respectans animam amittebat ibidem.

quippe etenim nullo cessabant tempore apisci

ex aliis alios avidi contagia morbi,

lanigeras tam quam pecudes et bucera saecla,

idque vel in primis cumulabat funere funus

nam qui cumque suos fugitabant visere ad aegros,

vitai nimium cupidos mortisque timentis

poenibat paulo post turpi morte malaque,

desertos, opis expertis, incuria mactans.

qui fuerant autem praesto, contagibus ibant

atque labore, pudor quem tum cogebat obire

blandaque lassorum vox mixta voce querellae.

optimus hoc leti genus ergo quisque subibat.

inque aliis alium, popolum sepelire suorum

certantes: lacrimis lassi luctuque redibant;

inde bonam partem in lectum maerore dabantur.

Nec poterat quisquam reperiri quem neque morbus

nec mors nec luctus temptaret tempore tali.

Praeterea iam pastor et armentarius omnis

et robustus item curvi moderator aratri

languebat, penitusque casa contrusa iacebant

corpora paupertate et morbo dedita morti.

exanimis pueris super exanimata parentum

corpora non numquam posses retroque videre

matribus et patribus natos super edere vitam.

nec minimam partem ex agris maeror is in urbem

confluxit, languens quem contulit agricolarum

copia conveniens ex omni morbida parte.

omnia conplebant loca tectaque quo magis aestu,

confertos ita acervatim mors accumulabat.

multa siti prostrata viam per proque voluta

corpora silanos ad aquarum strata iacebant

interclusa anima nimia ab dulcedine aquarum,

multaque per populi passim loca prompta viasque

languida semanimo cum corpore membra videres

horrida paedore et pannis cooperta perire,

corporis inluvie, pelli super ossibus una, 7

ulceribus taetris prope iam sordeque sepulta.

omnia denique sancta deum delubra replerat

corporibus mors exanimis onerataque passim

cuncta cadaveribus caelestum templa manebant,

hospitibus loca quae complerant aedituentes.

nec iam religio divom nec numina magni

pendebantur enim: praesens dolor exsuperabat.

nec mos ille sepulturae remanebat in urbe,

quo prius hic populus semper consuerat humari;

perturbatus enim totus trepidabat et unus

quisque suum pro re [cognatum] maestus humabat.

Multaque [res] subita et paupertas horrida suasit;

namque suos consanguineos aliena rogorum

insuper extructa ingenti clamore locabant

subdebantque faces, multo cum sanguine saepe

rixantes, potius quam corpora desererentur.

Ma in tale frangente, questo era più miserabile

e doloroso, che quando ciascuno vedeva se stesso

avvinto dal male, da esserne votato alla fine,

perdutosi d'animo, giaceva col cuore dolente,

e lì stesso perdeva la vita guardando immagini di morte.

Infatti davvero non cessavano mai di raccogliere

gli uni dagli altri il contagio dell'avido morbo,

come greggi lanose e cornigere mandrie di buoi.

Ciò soprattutto ammucchiava morti su morti.

Quanti infatti rifuggivano dal visitare i parenti malati,

troppo cupidi della vita e timorosi della morte,

poco dopo, immolandoli, la stessa assenza di cure li puniva,

derelitti e privi di aiuto, con una morte vergognosa e infame

Chi invece era stato vicino ai suoi, incorreva nel contagio

e nella fatica che la sua dignità gli imponeva,

tra le fievoli voci degli infermi, miste a lamenti.

Tutti i migliori si esponevano a questa forma di morte.

gli uni sugli altri, lottando per seppellire la turba dei loro defunti

e infine tornavano, spossati dal pianto e dai gemiti:

e gran parte di essi cadevano affranti sui letti.

Né poteva trovarsi nessuno che in questo frangente

non fosse toccato dal male, dalla morte o dal lutto.

Inoltre già il pastore e il guardino di armenti

e il robusto guidatore di ricurvo aratro

languivano, e dentro il modesto abituro giacevano a mucchi

i corpi dati alla morte dalla miseria e dal male.

Non di rado avresti veduto gli esanimi corpi

dei padri giacere sugli esanimi corpi dei figli,

e al contrario spirare la vita i figli sulle madri e sui padri.

Il contagio in gran parte si diffuse dai campi

nella grande città, portato da una folla sfinita

di bifolchi affluiti da tutte le zone già infetta.

Riempivano ogni luogo, ogni asilo, e in tal modo la morte 8

più facilmente ammucchiava la turba ondeggiante.

Molti, prostrati per la via della sete, giacevano

riversi e distesi accanto agli sbocchi delle fonti,

il respiro mozzato dalla dolcezza eccessiva dei sorsi,

e molti ne avresti veduti qua e là per le strade

e nei pubblici luoghi abbattuti coi corpi morenti,

e squallidi e lerci perire, coperti di cenci

e lordure del corpo; sulle ossa soltanto la pelle

quasi tutta sepolta da orribili piaghe e marciume.

La morte aveva colmato persino i santuari degli dei

di corpi interi, e tutti i templi dei celesti

restavano ingombri di cadaveri sparsi e ammucchiati,

luoghi che i custodi avevano affollato di ospiti.

Non più si teneva in onore, infatti, il culto divino

e il potere dei numi: il dolore presente vinceva.

Né più resisteva in città quel costume di funebri riti

che da sempre avvezzava le genti a inumare pietose gli estinti

infatti tutti si affannavano in preda al disordine,

e ognuno angosciato inumava i suoi cari composti come poteva

La miseria e l'evento improvviso indussero a orribili cose.

Con alto clamore ponevano i loro congiunti

sulle grandi cataste erette per il rogo di altri,

appiccandovi il fuoco e spesso lottando fra loro

in zuffe cruente piuttosto che abbandonare i cadaveri. (trad. Luca Canali)

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L T

UCREZIO E UCIDIDE A CONFRONTO

Il confronto tra i due testi è di grande interesse per cogliere nel suo formarsi la poesia di

Lucrezio. Il poeta latino omette quei passi in cui Tucidide parla dei risanati presi da improvvisa

letizia, e dell’immorale febbre di godimenti che suole diffondersi in tale calamità: troppo sarebbe

stato il contrasto col tono apocalittico sempre più cupo che grava su questo finale, dove all’uomo è

negata ogni speranza e ogni facoltà di reazione. Nei passi in cui segue la fonte Lucrezio sostituisce

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