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Sintesi
Italiano: Giacomo Leopardi

Latino: Plinio il Vecchio

Geografia astronomica: i vulcani

Filosofia: Johann Gottlieb Fichte; Friedrich Schelling; Georg Wilhelm Friedrich Hegel

Inglese: William Wordsworth; Samuel Taylor Colleridge; Percy Bysshe Shelley
Estratto del documento

concezione finalistica (la natura che agisce per il bene delle sue creature) ma materialistica e

meccanicistica (tutta la realtà non è che materia regolata da leggi meccaniche). La colpa

dell’infelicità non è più dell’uomo e della ragione ma solo della natura che prende tutte le

caratteristiche prima appartenenti al fato. Se, però, la causa dell’infelicità è la natura stessa,

tutti gli uomini, in ogni tempo , in ogni luogo, sotto ogni forma di governo, sono

necessariamente infelici, anche gli antichi. Il pessimismo storico si amplia così a un pessimismo

cosmico.

IL PENSIERO ATTRAVERSO LE OPERE

Ma ora analizziamo il percorso del pensiero leopardiano attraverso le opere più significative:

Per quanto riguarda il periodo del pessimismo storico le opere più significanti risultano tratte

 dagli Idilli, scritti tra il 1819 e il 1821; in particolare L’Infinito (1819, Recanati) pubblicato per la

prima volta nel periodico bolognese “Il Nuovo Ricoglitore” (1825).

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,

E questa siepe, che da tanta parte

De l'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminato

Spazio di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo, ove per poco

Il cor non si spaura. E come il vento

Odo stormir tra queste piante, io quello

Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,

E le morte stagioni, e la presente

E viva, e 'l suon di lei. Così tra questa

Infinità s'annega il pensier mio:

E 'l naufragar m'è dolce in questo mare.

"Secondo manoscritto autografo" (Visso, Archivio comunale)

Questo componimento fu scritta dal nostro autore nel momento in cui egli aveva maggior

bisogno di evadere, di “fuggire” da Recanati, così ritroviamo in questa poesia la poetica del

vago e dell’indefinito.

Ma quali sono i punti più salienti di questa poetica??

Come prima spiegato, l’uomo, per sua natura, ha bisogno di raggiungere la felicità, il piacere,

ma questa volontà si raffigura infinita, impossibile da ottenere. L’unica soluzione dell’uomo è

raggiungere questa felicità attraverso l’immaginazione, l’illusione di aver raggiunto questi

piaceri; così la realtà immaginata costituisce l’alternativa a una realtà vissuta che non è che

infelicità e noia.

Da cosa è stimolata l’immaginazione?

La risposta sintetica sarebbe: tutto ciò che è vago e indefinito (considerato il bello poetico). Per

spiegare ciò Leopardi formula due teorie: 5

la teoria della visione,per la quale è piacevole ciò che suscita la visione di una siepe, un

 albero, una torre, in quanto danno libero sfogo all’immaginazione e rimandano a

qualcosa di indefinito;

la teoria del suono, rimanda sempre a qualcosa di indefinito ma questa volta tramite

 suoni, come per esempio un canto che vada a poco a poco allontanandosi o lo stormire

del vento tra le fonde.

Tutto ciò ci è dato dall’uso di parole poetiche che suscitano idee indefinite come: lontano,

antico, ultimo, eterno. Tutte queste immagini evocano un qualcosa che ci ha affascinato da

giovani. Giungiamo così a un concetto essenziale nella poetica di Leopardi ossia la

«rimembranza».

Ne L’Infinito, come abbiamo preannunciato, ritroviamo queste teorie. In base a questo

possiamo dividere la poesia in due parti: la prima dominata dalla teoria della visione e la

seconda dalla teoria del suono. Le parole chiave, usate nella poesia per individuare tali teorie,

sono per quanto riguarda la visione: l’ermo colle (v.1), questa siepe (v.2), indeterminati spazi

(vv.4-5); mentre per quanto riguarda l’immaginazione prodotta da una sensazione uditiva sono

il rumore del vento tra le piante paragonato all’infinito silenzio creato dall’immaginazione (vv.

8-11).

L’opera significativa del passaggio dal pessimismo storico al pessimismo cosmico la troviamo

 all’interno delle Operette Morali ossia Dialogo della Natura e di un Islandese.

L’operetta fu scritta fra il 21 e il 30 maggio 1824. Lo spunto fu offerto dalla Storia di Jenni di

Voltaire, dove, nel contesto di un discorso sui flagelli da cui sono tormentati gli uomini, si parla

delle terribili sorti degli Islandesi, minacciati insieme dal gelo e dal vulcano Hekla. Da qui l’idea

di assumere un Islandese come esempio dell’infelicità dell’uomo e dei mali che lo affliggono

per colpa della natura.

Il personaggio, l’Islandese, è un uomo che vive una realtà estremamente crudele e viaggia per

raggiungere finalmente un posto in cui la natura sia meno crudele, ma si accorge che non è

possibile.

La natura viene raffigurata come una donna smisurata, seduta a terra con il corpo diritto e con

il volto a metà strada tra il bello e il terribile (ambiguità della natura).

Vi è, inoltre, una duplice visione della natura: l’islandese la individua come una natura

malvagia che perseguita le sue creature, mentre la natura stessa si difende affermando che lei

procura il male alle sue creature senza accorgersene in obbedienza a delle leggi oggettive, la

natura non si accorge neanche di tutto quello che capita agli uomini perché fanno tutti parte

dello stesso ciclo.

“ Natura. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle

fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione

a tutt'altro che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo

e con qual si sia mezzo, io non me n'avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se

io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non

fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere

tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei”. (vv.132-139)

Infatti, nella parte finale abbiamo la tragica caduta di tutte le speranze: la natura spiega

all’islandese come la vita sia una corsa alla sopravivenza, ogni creatura serve alla sopravivenza

dell’atra, e questo è il ciclo della vita.

“Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest'universo è un perpetuo circuito di

produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve

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continuamente all'altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l'una

o l'altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se

fosse in lui cosa alcuna libera da patimento”. (vv.163-167)

dell’Asia,espone

Leopardi, nel Canto notturno di un pastore errante tutto il suo pessimismo.

 Scritta tra l’ottobre del 1829 e l’aprile 1830 e pubblicata per la prima volta nei Canti del 1831.

L’idea del canto fu suggerita a Leopardi da un articolo del Journal des savants del settembre

del 1826, da cui apprendeva che i pastori nomadi dell’Asia centrale trascorrevano le notti

seduti su una pietra a guardare la luna e a improvvisare parole tristissime su aree egualmente

tristi.

Il protagonista di questo canto è un uomo semplice, umile, un pastore dell’Asia; Leopardi,

scegliendo questa figura vuole dimostrare come tutti, ricchi e poveri, intellettuali o analfabeti,

si pongono le stesse domande senza risposta sul significato della vita e sull’esistenza del male.

Il pastore si rivolge alla luna, la quale rappresenta la sua vita in quanto entrambi hanno uno

stile di vita ciclico, interrogandola sul perché delle cose e sul senso del destino umano.

Antonio Bertè (1936-2009),

Canto notturno di un pastore

errante dell’Asia.

“Dimmi, o luna: a che vale

al pastor la sua vita,

la vostra vita a voi? dimmi: ove tende

questo vagar mio breve,

il tuo corso immortale?” (vv.16-20)

“e quando miro in cielo arder le stelle;

dico fra me pensando:

a che tante facelle?

che fa l'aria infinita, e quel profondo

infinito seren? che vuol dir questa

solitudine immensa? ed io che sono?” (vv.84-89)

Ma le sue domande non trovano risposta, e il silenzio del cielo sconfinato gli conferma ciò che

già sapeva, cioè che l’universo è un enigma indecifrabile nel quale l’unica cosa certa è il dolore

degli uomini e di tutti gli esseri viventi.

La vita viene definita come un peso estremo, è un continuo sperare in qualcosa che sprofonda

in un abisso immenso (la morte). Dopo aver superato molte difficoltà, dolori e sofferenze si

arriva alla morte. Per esempio il poeta ci spiega come già dalla nascita siamo destinati a vivere

nel dolore, e i genitori hanno il compito di consolare il bambino dello stesso fatto di essere

nato. “Nasce l'uomo a fatica,

ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

per prima cosa; e in sul principio stesso

la madre e il genitore

il prende a consolar dell'esser nato.

Poi che crescendo viene,

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l'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre

con atti e con parole

studiasi fargli core,

e consolarlo dell'umano stato:

altro ufficio piú grato

non si fa da parenti alla lor prole.

Ma perché dare al sole,

perché reggere in vita

chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura,

perché da noi si dura? (vv.39-56)

L’uomo non è solo in questa situazione ma sono accomunati a lui tutti gli animali. Gli animali,

comprese le sue greggi, sono fortunati perché non hanno la ragione e non sono in grado di

capire a pieno il senso delle sofferenze umane. La notte, poi, gli animali possono riposare, ma il

pastore no, in quanto si ferma fisicamente ma mentalmente no, per questo agli occhi del

pastore il gregge gli appare sereno, ma risulta solo qualcosa di momentaneo.

Inoltre è presente il motivo del tedio: motivo di sofferenza per l’uomo; la vita, tra tutte le

difficoltà, scorre sempre uguale.

O greggia mia che posi, oh te beata,

che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perché d'affanno

quasi libera vai;

ch'ogni stento, ogni danno,

ogni estremo timor subito scordi;

ma piú perché giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,

tu se' queta e contenta;

e gran parte dell'anno

senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,

e un fastidio m'ingombra

la mente, ed uno spron quasi mi punge

sí che, sedendo, piú che mai son lunge

da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

e non ho fino a qui cagion di pianto.

Quel che tu goda o quanto,

non so già dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.

se tu parlar sapessi, io chiederei:

- Dimmi: perché giacendo

a bell'agio, ozioso,

s'appaga ogni animale;

me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? (vv.105-132)

Questa poesia è la poesia del dubbio e delle domande esistenziali, della piccolezza dell'uomo di

fronte alla natura e al suo destino.

L’ultima opera di cui tengo opportuno parlare è la Ginestra, scritta da Leopardi nel 1836, poco

 prima di morire, presso Torre del Greco, in una villa alle falde del Vesuvio, fu pubblicata

dall’amico Antonio Ranieri nell’edizione postuma dei Canti, nel 1845.

In questo canto Leopardi porta avanti una critica molto pesante verso il secolo a cui

appartiene, secolo in cui l’uomo è sciocco perché si illude di una possibile immortalità, le

illusioni sono nocive perché fanno si che l’uomo non affronti la vita con quel coraggio che

dovrebbe avere. La vita deve essere affrontata con grande dignità e forza d’animo, l’uomo

dovrebbe essere come una ginestra: consapevole del destino triste ma pronto ad affrontarlo

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ogni giorno. Il poeta ha nuovamente vissuto un illusione, un amore che pensava fosse eterno, e

così, dopo un'altra delusione, ritorna alla conclusione che la vita sia solo sofferenza e tedio. La

ginestra rappresenta l’opposizione alle crude immagini che rimandano alla crudeltà della

natura ( formidabil monte), alla desolazione e all’abbandono (erme contrade) e, soprattutto

all’immagine di morte (impietrita lava); essa abbellisce i deserti. Il fiore ha un denso valore

simbolico, in qualche senso anche duplice: da un lato raffigura un fiore molto fragile ma che

nasce anche nelle terre più aride, dall’altro lato il simbolo dell’uomo che ogni giorno affronta

La ginestra

tutti i dolori della vita. diviene il simbolo di chi ha il coraggio di guardare fino in

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