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Sintesi

Introduzione I limiti dell'uomo - Tesina




La seguente

tesina di maturità

affronta, in maniera dettagliata, gli aspetti più importanti affrontati da Nietzsche e Dostoevskij.
Il periodo in cui operano Nietzsche e Dostoevskij, la seconda metà dell’ottocento, è un periodo di grande progresso materiale ed economico per tutta l’Europa. Sul piano politico da un lato terminarono i processi che portarono alla formazione dello stato tedesco e italiano, dall’altro le forti spinte imperialistiche portarono a una situazione di tensione tra le varie potenze europee, desiderose di affermare la loro egemonia. Tuttavia in ambito filosofico prevaleva un’impronta ottimistica di stampo positivista, con illimitata fiducia verso la cosiddetta “scienza positiva”, teorizzata da Comte, la quale avrebbe dovuto risolvere i problemi dell’umanità. Sebbene la mentalità positivista alla fine del XIX secolo fosse tutt’altro che scomparsa, la filosofia contemporanea ha reagito a essa per vari motivi. Soprattutto ha posto in dubbio l'oggettività della scienza, disconoscendole il merito di essere l'unica forma valida di conoscenza, e anzi ponendo come fondamento della conoscenza stessa non più la ragione bensì altre facoltà: per esempio l'intuizione o la volontà. L’affermarsi di questa tendenza fu poi favorita dalle scoperte che minarono la fisica classica e dalle teorie psicanalitiche di Freud, che rivoluzionarono il modo di rapportarsi con la mente umana.

Collegamenti


I limiti dell'uomo - Tesina




Italiano -

Fëdor Dostoevskij



Filosofia -

Friedrich Nietzsche

Estratto del documento

Il nichilismo completo è il nichilismo vero e proprio. Si possono avere due

 atteggiamenti di fronte al nichilismo completo: uno remissivo, uno propositivo.

Nel primo caso si ha il nichilismo passivo, che si limita a prendere atto del

declino dei valori e a crogiolarsi nel nulla. Nel secondo caso si ha il nichilismo

attivo, che distrugge ogni residua credenza in qualche verità di tipo metafisico

per lasciare spazio a nuovi valori attraverso l’esercizio della volontà di potenza

da parte del superuomo. Durante questo momento costruttivo egli si rende

conto che il senso, non essendo ontologicamente dato, deve essere

umanamente inventato.

In conclusione progettare di vivere senza certezze metafisiche assolute non coincide

con il distruggere ogni senso o norma, ma responsabilizzare l’uomo affinché si ponga

come fonte di valori e di significati. Accettare il rischio e la fatica di dare un senso al

caos del mondo dopo la morte di Dio: questo è il significato ultimo del superamento

del nichilismo.

Ivan Karamazov e il racconto del Grande Inquisitore

“I Fratelli Karamazov”

Ne una delle figure più rappresentative del pensiero di

Dostoevskij è sicuramente Ivan, il secondo dei tre fratelli. La madre di Ivan Karamazov

è la seconda moglie di Fëdor Pavlovic, pia donna che diventa preda di crisi isteriche

causate da un matrimonio disonorato per colpa del marito. Alla sua morte Ivan e il

fratello Alesa finiscono prima nell'isba del servo Grigorij, poi sotto la tutela di una

parente della madre, e infine presso il premuroso Efim Petrovic, lo zio, che si occupa di

loro fino alla maggiore età. Sin da bambino Ivan dimostra una grande intelligenza e

una profonda consapevolezza della sua condizione, a proposito scrive Dostoevskij:

“Del resto, sul maggiore, Ivan, dirò soltanto che egli cresceva come un adolescente

tetro e chiuso in se stesso, non certo timido, ma pare che già all’età di dieci anni fosse

consapevole del fatto che essi crescevano in una famiglia estranea e grazie ai favori

altrui, e che il loro padre era un tipo del quale faceva persino ribrezzo parlare.”

Ivan, grazie alla sua acuta intelligenza, si forma nelle migliori scuole russe. Egli è un

convinto razionalista ed il suo ateismo è la logica conseguenza di una dimostrazione

impeccabile; egli non rifiuta Dio a priori, ma solo dopo essersi accorto, tirando le

somme, che il mondo così com’è e l’idea di un Creatore sommamente buono si

escludono vicendevolmente. Non si può preferire un’idea, come quella di Dio, per

quanto dolce e soave essa sia, alla realtà che si tocca e si misura, che può anche

essere ingiusta e crudele, e lo è, ma che è attualità, vita concreta.

Il nichilismo di Ivan si sviluppa nel romanzo principalmente in tre momenti: nel

confronto che ha in un ristorante con il fratello Alesa, nei dialoghi con Smerdjakov e

nell’allucinazione finale in cui gli appare la figura del demonio.

Un giorno Ivan, a pranzo in una trattoria, si confida con Alesa che lo ha raggiunto per

discorrere insieme: nascono le pagine più tormentate del romanzo, che riflettono le

idee di Dostoevskij sulla natura umana e sul destino degli uomini. I due, che si

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rivedono dopo molto tempo, parlano di tematiche generali, per arrivare a parlare di

Dio e di sofferenza. Ivan non accetta l'ingiustizia della sofferenza degli innocenti, dei

bambini in particolare e restituisce "il biglietto d'ingresso" a un Dio che permette le

sofferenze anche di un solo essere innocente. Alle domande sull'esistenza di Dio, sul

senso del dolore e sull'essenza della libertà, Ivan propone al fratello la trama di un suo

poemetto (mai scritto, solo immaginato), in cui appaiono le linee d'una definizione di

quei difficili problemi. A ciò è dedicato il capitolo de "Il Grande Inquisitore", considerato

una delle massime vette del romanzo.

Nel dialogo con il fratello minore Ivan espone innanzitutto la sua teoria riguardo alla

sofferenza nel mondo: se questa è “comprensibile” quando interessa gli adulti, essa è

considerata inaccettabile se riguarda i bambini. Egli sostiene che adulti e bambini

sono “esseri completamente diversi, quasi di un’altra natura”, e che la differenza che

li divide è la malvagità dei primi, che “hanno mangiato il frutto proibito e continuano

ancora a mangiarlo”, e l’innocenza dei secondi, che “non sono ancora colpevoli di

nulla”. Ivan espone ad Alesa una serie di racconti strazianti che riguardano i bambini,

da quello chiuso dai genitori in una latrina e fatto morire di fame a quello dilaniato dai

cani da caccia di fronte alla madre per ordine del padrone, tratti da storie vere prese

dagli archivi russi. La conclusione cui giunge Ivan è espressa dalle seguenti frasi

r iguardo ad un ipotetico perdono della madre al padrone che ha fatto straziare suo figlio, metafora che

giustifica il raggiungimento di un’armonia universale attraverso la sofferenza:

E quando la madre abbraccerà il carnefice che le ha fatto straziare il figlio dai cani e

tutti e tre proclameranno fra le lacrime: "Tu sei giusto, o Signore!" Allora sarà certo

l'apoteosi di ogni conoscenza e tutto sarà spiegato. [...] Vedi, Alesa, forse se vivrò fino

a quel momento o risorgerò per vederlo, avverrà davvero che guardando la madre che

abbraccerà il carnefice della sua creatura anch'io esclami con gli altri: "Tu sei giusto, o

Signore!" Ma io non lo voglio esclamare. [...] Questa suprema armonia. Essa non vale

neppure una lacrima di quella bimba straziata [...]. Non le vale perché quelle lacrime

non troveranno riscatto. Devono essere riscattate, altrimenti non vi può essere

armonia alcuna.

E se le sofferenze dei bambini saranno servite a completare quella somma di

sofferenze che era necessaria a riscattare la verità, io dichiaro subito che tutta la

verità non vale un simile prezzo. Non voglio, infine, che la madre abbracci il carnefice

che ha fatto dilaniare suo figlio dai cani! Non deve perdonarlo! Se vuole, che lo

perdoni per sé, che lo perdoni per il suo infinito dolore di madre; ma le sofferenze del

suo bimbo straziato lei non ha il diritto di perdonargliele [...]. Ma se è così, se non si

dovrà perdonare, che ne è dell'armonia? [...] Non voglio l'armonia, è per amore

dell'umanità che non la voglio.

Ciò che Ivan non può accettare di un disegno in cui l’umanità raggiungerà l’armonia

attraverso la sua caduta è che in questa vicenda siano coinvolti i bambini, cosa che

invece accade. Se, come l’esperienza attesta, i bambini soffrono, ciò non può avvenire

se non in base al duplice presupposto di estendere anche a essi la punizione dovuta

alle colpe dei padri e di considerare la loro sofferenza come necessaria al

raggiungimento della felicità di tutti. Entrambe le cose sono per Ivan assolutamente

inaccettabili, perché coinvolgono i bambini in quella solidarietà universale a cui essi

naturalmente si sottraggono, e con ciò rendono necessaria la loro sofferenza inutile.

Anzitutto infliggere all’acquiescente e cedevole passività dei bambini un castigo cosi

oppressivo e insieme immotivato sarà forse teologicamente corretto, ma è

umanamente inammissibile. Se il nostro mondo è basato sulla necessità della

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sofferenza dei bambini, esso è un mondo assurdo, ingiusto e scandaloso, e come tale

del tutto inaccettabile.

Ivan, aggiunge che preferisce restare anche con la “collera insaziata”; egli non vuole

“essere consolato”. A suscitare un senso d’indignazione già basta l’idea che si possa

utilizzare la sofferenza altrui per la felicità di qualcuno. Tuttavia ciò che per Ivan è

clamorosamente scandaloso e del tutto inammissibile è che la sofferenza inutile venga

in qualche modo strumentalizzata soprattutto se questa utilizzazione abbia per autore

un essere così elevato e potente come Dio e per oggetto un piccolo essere, il più

misero e insignificante che ci sia. Un Dio che si comportasse in tal modo sarebbe non

soltanto crudele ma soprattutto ingiusto, e meriterebbe più disconoscimento che

protesta, perché offenderebbe nell’uomo non tanto il desiderio tutto umano di felicità,

quanto piuttosto qualcosa di più profondo e di più elevato, cioè il senso di giustizia,

che è il solo a coinvolgere tutti gli uomini, veramente tutti, nessuno escluso e tutti allo

stesso titolo.

Nel negare Dio perché Ivan non accetta le accuse che gli sono rivolte di essere un

ribelle? Perché la sua non è la rivolta a un Dio crudele, ma la negazione di un Dio

ingiusto. Ciò che caratterizza Dio non è la crudeltà, che darebbe ancora luogo a una

ribellione, ma l’inesistenza, che non implica che una pura e semplice negazione.

Insomma, se l’armonia finale non potesse realizzarsi che a quel prezzo non potrebbe

se non esser giudicata troppo costosa, perché verrebbe a costare più del suo valore.

Questa è la conclusione di Ivan, il quale dunque non soltanto si rifiuta di accettarla

come “troppo cara per la nostra borsa”, ma intende correre ai ripari, affrettandosi,

finché è in tempo, a “restituire il biglietto d’ingresso”. Che cosa sia fuor di metafora la

restituzione del biglietto è evidente: è una professione di radicale ateismo. Infatti se

Dio è il senso del mondo, una volta che, costatato il fallimento della creazione, si

riconosce che il mondo è assurdo e senza senso, si dovrà insieme riconoscere che Dio

non esiste.

Ivan espone dunque al fratello Alesa, in risposta ai suoi dubbi, un racconto allegorico

di sua invenzione, ambientato in Spagna ai tempi della Santa Inquisizione, nasce la

leggenda del Grande Inquisitore, considerata uno dei momenti più alti della letteratura

di Dostoevskij. Dopo quindici secoli dalla morte, Cristo fa ritorno sulla terra. Pur

comparendo furtivamente, viene misteriosamente riconosciuto da tutti, il popolo lo

acclama come salvatore, tuttavia egli viene subito incarcerato per ordine del Grande

Inquisitore, proprio mentre ha appena realizzato la resurrezione di una bambina di

sette anni, pronunziando le sue uniche parole di tutta la narrazione. L'Inquisitore è un

vecchio di quasi novant'anni, alto e diritto, con il viso scarno e gli occhi infossati. Nelle

segrete l'Inquisitore si reca poi a trovare Cristo, e, dopo avergli comunicato la sua

condanna a morte, gli rimprovera di avere seminato confusione, di aver voluto portare

la libertà

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