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Storia dell'arte - Munch
Francese - Verlaine et Rimbaud
«La follia è il primo sintomo della genialità, così come la creatività è
generalmente figlia di una sottile nevrosi»
(Elio Gioanola, “Psicanalisi e interpretazione letteraria”)
In questa tesina ho affrontato l’argomento più volte dibattuto del legame
esistente tra la malattia e la creatività artistica, poetica e letteraria. Tuttavia ho
scelto di discostarmi dalla comune e automatica correlazione tra l’arte e la
patologia invalidante, come ad esempio l’esperienza di Van Gogh, per trattare
la malattia intesa come “stadio di vita borderline” (da qui il titolo): non malattia
mentale riconosciuta e citata nei libri come tale, ma sofferenza psicologica
conseguente a particolari avvenimenti che hanno segnato indelebilmente la
vita dell’artista. Ho avuto modo di constatare, attraverso lo studio, come la
condotta di vita e la produzione artistica degli autori (Pascoli e Munch) che ho
analizzato risultino fortemente, se non esclusivamente, influenzate dai traumi e
dalle esperienze negative che hanno vissuto.
Ho poi voluto approfondire il tema dell’amore come malattia o psicopatologia,
ossia l’amore che diventa distruzione di sé e dell’altro, portando come esempio
il rapporto tra i due poeti maledetti Verlaine e Rimbaud.
Oltre alla “malattia” come punto di partenza della libera espressione artistica, è
possibile riscontrare altri punti comuni tra gli artisti proposti: la sofferenza
provocata dal rapporto col prossimo, che in Pascoli e in Munch si traduce in
relazioni disturbate soprattutto con la donna, mentre per “le couple maudit”
nell’incapacità di stabilire un rapporto equilibrato e, soprattutto da parte di
Verlaine, privo di ossessione e violenza; la presenza, nelle opere di Munch e di
Pascoli, di una forte simbologia e di una natura che incarna, nelle sue
manifestazioni, i sentimenti che caratterizzano lo stato d’animo degli autori.
Ho scelto questo argomento perché trovo affascinante l’idea che dietro
l’apparente perfezione ed equilibrio di un’opera d’arte, possa celarsi una
soggettività tormentata e visionaria; è inoltre interessante vedere come l’arte,
in questi casi, abbia anche una funzione consolatrice, di rifugio e di riscatto
dalle esperienze negative che hanno segnato la nostra vita.
Giovanni Pascoli
e
“il sentimento della propria inadeguatezza al fluire vorticoso della
vita”
Giovanni Pascoli (1855-1912), tanto nel suo ruolo di intellettuale quanto nella
sua vita quotidiana, è l’esatto contrario del “poeta maledetto”, ossia colui che
si erge al di sopra delle masse e vive secondo i valori da egli stesso creati.
Pascoli incarna in tutto e per tutto l’immagine del piccolo borghese, appagato
della sua vita mediocre e dei limiti imposti dalla famiglia e dalla società; allo
stesso modo la sua poesia si presenta come celebrazione di tale realtà,
mostrando Pascoli come poeta delle piccole cose e cantore del mondo rurale.
Vi è, tuttavia, un altro aspetto dell’autore, che si discosta da quello solito e
gode di minor credito: dietro l’apparenza dell’innocenza e del candore
fanciulleschi, si cela un Pascoli inquieto, tormentato, morboso, visionario,
perfettamente inserito nel clima culturale del Decadentismo.
Caricando le sue “piccole cose” di significati simbolici e allusivi, Pascoli è in
grado di rendere la dimensione misteriosa e inquietante che si cela al di là
dell’usuale; la precisione botanica e ornitologica, pur avendo le sue radici nella
scienza positivistica, è la formula magica che permette al poeta di attingere
all’essenza segreta delle cose e di fondere insieme la sfera dell’io e del mondo
esterno.
Attraverso la poesia, Pascoli porta alla luce le sue ossessioni profonde: il
trauma della perdita del padre, della madre, della sorella maggiore Margherita
e dei fratelli Giacomo e Luigi, interiorizzato e poi scoperto durante il periodo di
detenzione in carcere, si traduce in alcune delle tematiche fondamentali della
poetica pascoliana.
Per tutta la vita Pascoli si sente un orfano, tormentato dalla nostalgia per la
famiglia perduta; la sua poesia simboleggia, nell’immagine ricorrente del
“nido”, il luogo dove è possibile proteggersi dal mondo esterno, minaccioso e
irto di insidie.
Avendo molto sofferto il disfacimento del “nido familiare”, il poeta desidera
costruirne uno nuovo, sulla base del primo andato perduto, investendosi poi del
ruolo di padre; ciò gli è tuttavia impossibile, poiché la continua presenza e
rievocazione dei suoi “morti” all’interno del nido stesso gli impedisce ogni
rapporto con la realtà esterna, privandolo quindi anche della possibilità di
creare legami con altre persone.
Un esempio è “Il gelsomino notturno”, dai Canti di Castelvecchio (1904):
dedicata al matrimonio dell’amico Gabriele Briganti, la lirica evoca, in termini
simbolici, la prima notte di nozze, in cui è stato concepito il figlio della coppia.
All’imbrunire, nell’ora in cui il poeta ripensa ai suoi defunti, i gelsomini aprono
la loro corolla in un’offerta d’amore. Amore da cui il poeta, “ape tardiva”, è
escluso; il legame adulto e maturo con la donna è sentito da Pascoli come un
tradimento al vincolo sacro e inviolabile del nido, quindi egli si limita a
contemplarlo da lontano, col turbamento e la curiosità del “fanciullino”.
Il rapporto di Pascoli con la sessualità è complesso e osteggiato tanto dalla
ripugnanza che prova nei confronti di essa, quanto dalla relazione morbosa che
ha con le sorelle, viste come reincarnazione della madre morta. Questa ipotesi
è stata avanzata da alcuni critici, i quali sostengono addirittura che Pascoli,
nell’infanzia, soffrisse del complesso di Edipo.
Si mormora anche di un possibile amplesso avvenuto tra il poeta e la sorella
Ida, argomento ampiamente trattato dallo psichiatra e scrittore Andreoli in uno
dei suoi libri (“I segreti di casa Pascoli”): in seguito alla morte del padre, il
giovane Pascoli ne prende il posto all’interno del nido, legandosi alla madre in
una simbiosi totale; quando anche quest’ultima muore, al poeta non restano
che le due sorelle. Ida, la più grande e già matura, rappresenta per lui la
madre, ossia “l’oggetto da amare anche fisicamente”, mentre Maria, gracile e
isterica, diventa la figlia di cui prendersi cura. Tuttavia Maria comincia ad avere
sospetti e monta la guardia, per evitare che il fratello-padre e la sorella-madre
avessero spazi per un’eccessiva intimità; arriva l’anno 1895 e, a quanto pare, i
due vengono sorpresi e svergognati da Maria. Ida, a questo punto, è costretta a
prendere marito ed è quindi formalmente espulsa dal nido. Questo evento
determinò in Pascoli una reazione spropositata, patologica, con vere
manifestazioni depressive e il suo senso di perdita verrà affogato nell’alcool.
Il suo rapporto tormentato con l’amore e con l’eros si traduce, nelle sue poesie,
in una sensualità perversa e morbosa, espressa in modo esemplare nel simbolo
della Digitale Purpurea, fiore maligno simile a “dita spruzzolate di sangue”,
velenoso e allo stesso tempo ammaliatore.
“Digitale purpurea” fa parte dei Poemetti, raccolta caratterizzata da temi
torbidi e densi di significati simbolici, e riporta un dialogo fittizio tra la sorella
Maria e l’amica Rachele, che rimembrano gli anni trascorsi da educande in
convento. Per tutta la durata del componimento, all’immagine di purezza
virginale incarnata dalle due ragazze e dai ricordi della loro fanciullezza, si
oppone il motivo perverso del fiore, tentazione proibita. Al momento del
congedo, Rachele confessa all’amica il segreto che la tormenta: aveva
disobbedito alle suore e aveva assaporato il profumo venefico del fiore, e ora
doveva pagarne le conseguenze. Gli occhi “ch’ardono” sono indizio della
malattia che consuma Rachele, indicata come conseguenza delle trasgressioni
a cui la prima aveva dato inizio e che la sta conducendo alla morte.
La Digitale Purpurea riprende un altro tema caro al Decadentismo, ossia quello
della natura malata, nella quale si materializza il compiacimento per tutto ciò
che è corrotto, impuro e malsano e che è stata letta come una trascrizione
metaforica dell’inconscio e dei mostri che si celano al suo interno.
DIGITALE PURPUREA
Siedono. L’una guarda l’altra. L’una
esile e bionda, semplice di vesti
e di sguardi; ma l’altra, esile e bruna,
l’altra… I due occhi semplici e modesti
fissano gli altri due ch’ardono. «E mai
non ci tornasti?» «Mai!» «Non le vedesti
più?» «Non più, cara.» «Io sì: ci ritornai;
e le rividi le mie bianche suore,
e li rivissi i dolci anni che sai;
quei piccoli anni così dolci al cuore…»
L’altra sorrise. «E di’: non lo ricordi
quell’orto chiuso? i rovi con le more?
i ginepri tra cui zirlano i tordi?
i bussi amari? quel segreto canto
misterioso, con quel fiore, fior di…?»
«morte: sì, cara». «Ed era vero? Tanto
io ci credeva che non mai, Rachele,
sarei passata al triste fiore accanto.
Ché si diceva: il fiore ha come un miele
che inebria l’aria; un suo vapor che bagna
l’anima d’un oblìo dolce e crudele.
Oh! quel convento in mezzo alla montagna
cerulea!» Maria parla: una mano
posa su quella della sua compagna;
e l’una e l’altra guardano lontano.
II
Vedono. Sorge nell’azzurro intenso
del ciel di maggio il loro monastero,
pieno di litanie, pieno d’incenso.
Vedono; e si profuma il lor pensiero
d’odor di rose e di viole a ciocche,
di sentor d’innocenza e di mistero.
E negli orecchi ronzano, alle bocche
salgono melodie, dimenticate,
là, da tastiere appena appena tocche…
Oh! quale vi sorrise oggi, alle grate,
ospite caro? onde più rosse e liete
tornaste alle sonanti camerate
oggi: ed oggi, più alto, Ave, ripete,
Ave Maria, la vostra voce in coro;
e poi d’un tratto (perché mai?) piangete…
Piangono, un poco, nel tramonto d’oro,
senza perché. Quante fanciulle sono
nell’orto, bianco qua e là di loro!
Bianco e ciarliero. Ad or ad or, col suono
di vele al vento, vengono. Rimane
qualcuna, e legge in un suo libro buono.
In disparte da loro agili e sane,
una spiga di fiori, anzi di dita
spruzzolate di sangue, dita umane,
l’alito ignoto spande di sua vita.
III
«Maria!» «Rachele!» Un poco più le mani
si premono. In quell’ora hanno veduto
la fanciullezza, i cari anni lontani.
Memorie (l’una sa dell’altra al muto
premere) dolci, come è tristo e pio
il lontanar d’un ultimo saluto!
«Maria!» «Rachele!» Questa piange, «Addio!»
dice tra sé, poi volta la parola
grave a Maria, ma i neri occhi no: «Io,»
mormora, «sì: sentii quel fiore. Sola
ero con le cetonie verdi. Il vento
portava odor di rose e di viole a
ciocche. Nel cuore, il languido fermento
d’un sogno che notturno arse e che s’era
all’alba, nell’ignara anima, spento.
Maria, ricordo quella grave sera.
L’aria soffiava luce di baleni
silenzïosi. M’inoltrai leggiera,
cauta, su per i molli terrapieni
erbosi. I piedi mi tenea la folta
erba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!
Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
tanta, che, vedi… (l’altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta
con un suo lungo brivido…) si muore!»
IL GELSOMINO NOTTURNO
E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.
Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.
Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento...
È l’alba: si i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.
Edvard Munch
“…il pittore esoterico dell’amore, della gelosia, della morte e della
tristezza” (Strindberg)
“Mi è stato attribuito un ruolo unico da interpretare su questa terra: un ruolo