Sintesi

Elaborato: apparenza e realtà



Trimalchione, uno dei protagonisti del romanzo Satyricon di Petronio, è un liberto, cioè uno schiavo liberato, arricchitosi grazie al commercio ed è simbolo di una società in cui i valori aristocratici sono ormai andati in crisi. Tutto ciò di cui è capace è ostentare le proprie ricchezze materiali, senza possederne di interiori, e darsi arie da raffinato poeta ma conserva in sé la volgarità derivante dalla sua origine e dalla sua educazione. Egli porta in tavola argomenti alti e raffinati, come quello sull’ineluttabilità della vita, ma non è in grado di parlarne attraverso una riflessione esistenziale, piuttosto le sue parole rimandano al senso più comune e banale utilizzando un vocabolario semplice e ristretto. Cerca quindi di apparire per ciò che non è.
Quanto è importante nella società l’apparenza? Ciò che gli altri percepiscono di noi?
E chi più del Dorian Gray di Oscar Wilde si è preoccupato del suo aspetto esteriore per non lasciar intravedere la sua interiorità? Il giovane era ‘dominato’ da questa bellezza incantatrice tipica della gioventù e, almeno inizialmente, questa rappresenta anche la sua natura: pura e incontaminata. Per il pittore Basil Hallward è questa l’idea della bellezza: la purezza di un giovane il cui viso non è stato segnato dai peccati commessi. Per Lord Henry, al contrario, la bellezza è l’estetismo, la ‘forma’. Dorian Gray è subito affasciato dalla visione del mondo del suo nuovo amico e, sulla scia di Dottor Faust, decide di vendersi al diavolo che lo ascolta e rende reale il suo desiderio: il giovane resterà tale e ad invecchiare sarà il suo dipinto. Sceglie quindi la tentazione, il peccato, il vizio dal quale non si può scappare. E qui si scindono realtà e apparenza: l’aspetto di Dorian suggerisce un uomo di appena vent’anni incontaminato dal grigiore della società ma nel suo animo è portatore di azioni crudeli e orride.
“Ognuno di noi ha Paradiso e Inferno dentro di sé, Basil” così il ragazzo ci spiega. Ma cosa intende dire? Semplice: ognuno di noi può scegliere come apparire agli occhi altrui, come agire e quindi nascondere la sua vera natura, forse perché ancora sconosciuta, forse per paura di sentirsi giudicati o per la semplice vergogna nata dalla consapevolezza. Ma una volta rimasti soli con noi stessi non possiamo più reprimerla.
Quando iniziamo a preoccuparci della nostra “apparenza”? Quando sono gli altri a metterla in discussione.
Oscar Wilde usa l’ironia per obiettare contro la superficialità umana, così come Luigi Pirandello che ci parla di un ‘oltre’ che l’uomo non riesce a sormontare e vi rimane ancorato.
Per l’autore apparire significa mostrarsi agli altri, esibirsi, recitare un copione. E da qui si sofferma sul rapporto dialettico tra ‘vita’ e ‘forma’. Gli uomini hanno bisogno di credere che la vita abbia un senso e quindi creano abitudini, istituzioni, convenzioni, ideali che gli permettono di andare avanti. Tutto ciò, secondo Pirandello, costituisce la “ forma” dell' esistenza. Questa forma paralizza la vita vera, che non dovrebbe accettare i condizionamenti sociali, e noi non viviamo secondo i nostri desideri, ma recitiamo la parte che la società esige da noi. Tutti gli uomini recitano una parte. Quindi tutti noi indossiamo una maschera. Gli uomini che sono consapevoli di indossare una maschera e quindi vedono lucidamente gli autoinganni propri e altrui (cioè le parti imposte) sono “maschere nude”, riflettono e si “ guardano vivere” ; alcuni, invece, accettano passivamente di interpretare la parte che la società gli impone e si differenziano dalle maschere nude.
Ma da dove nasce tutto ciò? A spiegarcelo è il protagonista di Uno, nessuno e centomila, Angelo Moscarda che si ritrova da un giorno all’altro a dover fare i conti con la sua immagine riflessa. Si rende conto che per gli altri egli rappresenta solo ciò che ‘appare’ e che la visione che ne ha la moglie non è la stessa che ne ha l’amico; non è altro che l'eterno conflitto tra l'immagine che si ha di sé stessi, incarnato dal volto di una persona, e la nostra identità riflessa (infondo anche la Costituzione Italiana differenzia la nostra identità fisica dalla nostra identità psicologica). Tutti dentro hanno un mondo di cose; ciascuno il suo. Ed è impossibile capirsi se ognuno in ciò che dice mette il senso e il valore delle cose per come le vede, mentre chi le ascolta, le assume con il senso e con il valore che hanno per sé. Anche il filosofo tedesco Karl Jaspers ci spiega che ognuno può costruire l’immagine totale del mondo e ritenerla il mondo stesso, ma quest’immagine non sarà mai il mondo: sarà piuttosto un singolo e particolare punto di vista. Quindi il mondo si rompe nella molteplicità delle prospettive.
Pirandello sostiene che, il contrasto tra apparenza e realtà, non esiste solo fuori di noi, ma anche e soprattutto nell'intimo della coscienza: tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere, tra ciò che siamo e ciò che risultiamo agli occhi degli altri.
Mostarda, però, non si limita come Mattia Pascal a distruggere la propria identità, restando come a inizio romanzo in una condizione di vuoto esistenziale, ma finisce per confessare di non sapere chi sia rifiutando ogni identità individuale. Rifiuta cioè di chiudersi in qualsiasi forma parziale e convenzionale e accetta di sprofondare nel fluire mutevole della ‘vita’, morendo e rinascendo in ogni attimo, identificandosi con le presenze esterne occasionali, senza poter più dire “io”. Ecco spiegato il significato del titolo del romanzo: l’uomo pirandelliano nasce come “uno”, il quale definisce il suo aspetto esteriore, ma sa di essere “centomila” per chi lo osserva da fuori e allo stesso tempo si sente “nessuno” perché indagando dentro sé non riesce mai a trovare la sua vera natura.
Non abbiamo nessun potere sul nostro aspetto, sulla nostra apparenza; si tratta solamente di caso, fortuna, sorte. L’unica cosa su cui possiamo puntare è la nostra realtà, cosa siamo realmente, ma è così semplice mostrare la nostra natura? Pirandello ci fa un esempio: quando ci ritroviamo in una stanza con due amici che ci conosco per due nostre nature diverse, noi chi siamo in quel momento? L’uno si aspetta un determinato comportamento diverso da ciò che si aspetta l’altro. E noi cosa ci aspettiamo d’essere? La natura umana è un perenne paradosso, uno scontro tra realtà e apparenza e nessuno riesce mai a conoscere pienamente sé stesso. Quindi come pretendiamo di conoscere le vite altrui?
Ognuno di noi presenta un paradosso con il quale siamo costretti a convivere. Uno dei primi personaggi descritto come tale risale a una delle più antiche vicende epiche del mondo greco: Giasone, il protagonista delle Argonautiche.
Trattandosi di un epos si darebbe per scontato un protagonista che sia καλὸς καὶ ἀγαϑός (kalos kai agathos), ovvero bello e buono, un eroe che lotta per la propria patria aderendo a quelle virtù arcaiche come il coraggio, la forza, l’onore, ardore bellico e la fiducia in se stesso. Ma se Apollonio Rodio, scrittore ellenico di questo poema, si allontana da Omero dal punto di vista strutturale, lo fa anche per quanto riguarda la psicologia dei suoi personaggi.
Per la prima volta nel mondo epico non viene rappresentato l’uomo per come dovrebbe essere, un esempio da imitare, ma per come realmente è. Giasone proiettato in un mondo più grande di lui, appare come un personaggio dominato dall’ἀμηχανία (amekanìa), frustrante sentimento di inadeguatezza e di impotenza, con la coscienza di doversi muovere entro i confini di un universo complesso, indifferente, ostile, capace di opporre le proprie leggi inflessibili alla volontà di azione dell’eroe.
Il giovane appare profondamente contraddittorio: è un guerriero ma non ha capacità eroiche, ha fascino ed abilità oratorie, ma non è assolutamente in grado di compiere imprese e nasconde un animo fragile ed esitante.
Questa discrepanza tra interiorità ed esteriorità dilania il giovane e lo riduce a una condizione di completa passività, rivelando un prototipo dell’inetto moderno, incapace sia nelle gesta eroiche, sia nella propria vita di essere umano (infatti la sua unica vittoria è quella di aver conquistato la maga Medea, elemento risolutrice per la conquista del Vello d’oro).
È quindi evidente la differenza tra ciò che appare e ciò che si è. Tutti noi possiamo cercare di raffigurarci in un determinato modo ma questo, sì, ci potrà rappresentare ma non potrà mai essere noi.

Il tradimento delle immagini del pittore belga René Magritte sembra essere una semplice riproduzione di una pipa, niente di più. Ma se ci soffermiamo sulla frase riportata nel dipinto, ci domandiamo involontariamente: “Sarà un errore?”
“Questa pipa non è una pipa”, può sembrare più contradditorio di cosi? Eppure l’intendo del pittore è evidente: rappresentazione non significa realtà, l’immagine di un oggetto non è l’oggetto stesso! E se in un primo momento restiamo spiazzati, una successiva riflessione ci costringe ad ammettere che quella pipa non si fuma, non ha aroma, non è calda.
Andare quindi oltre l’apparenza, oltre il velo di Maya.
Inizialmente la figura di Maya rappresentava il potere di dare una forma, dal quale proveniva il mondo materiale, plasmato dagli dei. Col passare del tempo, la molteplicità delle forme fece dimenticare all’umanità l’essenza unica delle cose, il principio assoluto di realtà e fu così che Maya, o Creazione, divenne sinonimo di “illusione”.
Arthur Schopenhauer attribuisce alla realtà una natura ingannevole ma soprattutto illusoria, intendendola più specificamente come un sogno: è come se tra noi e la realtà, intesa come prodotto della nostra coscienza, ci fosse una sorta di velo che ci impedisce di vedere chiaramente ciò che realmente essa è e contiene. Tale schermo è, appunto, il Velo di Maya, alla quale il filosofo attribuisce il motivo per cui non siamo in grado di vedere oltre la rappresentazione fenomenica.
Il velo di Maya ci impedisce di rapportarci con il mondo esterno e ce lo nasconde. Esso si dimostra impenetrabile e solo la coscienza certa del mondo ci porterà alla verità. All’uomo è permesso intravedere qualcosa ma non capiamo le verità e per conoscerle dobbiamo squarciare questo velo, unica possibilità per andare oltre. Ma nulla ci assicura che, una volta superato, troveremo ciò che cerchiamo. Come per l’impresa degli Argonauti, si tratta di un viaggio alla cieca.
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