
Sono trascorsi più di 30 anni dall'omicidio del magistrato Giovanni Falcone, assassinato da Cosa Nostra con un ordigno esplosivo. Nell'attentato morirono anche Francesca Morvillo, moglie del magistrato e tre agenti della scorta.
Giovanni Falcone era in cima alla lista delle persone indesiderate di Cosa Nostra già dagli anni '80, la goccia che fece traboccare il vaso però fu la conferma – in Cassazione – dell'ergastolo all'allora boss della cosca mafiosa, Salvatore 'Totò' Riina. Il boss corleonese da tempo aveva messo nel mirino il magistrato anti-mafia, e compì la sua vendetta in un pomeriggio del 23 maggio 1992. Cerchiamo di ricostruire i retroscena di questo tragico evento che segnò per sempre l'Italia.
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Il pool anti-mafia di Giovanni Falcone
Per decenni i mafiosi erano stati portati in tribunale, e quasi sempre assolti, per singoli episodi. Ma grazie alla tenacia investigativa di Giovanni Falcone e del suo amico e collega, Paolo Borsellino, qualcosa iniziò a muoversi.
Il pool anti-mafia di cui Falcone era punta di diamante, aveva infatti portato nel tempo quasi 500 mafiosi a processo e – fatto più unico che raro – tutti con la stessa accusa: appartenere all'organizzazione di stampo mafioso nota come Cosa Nostra.
Il metodo utilizzato da Falcone era accurato e preciso, al punto che gli permise di comprendere quanto enormi fossero i traffici della mafia al di fuori dei confini nazionali. Un lavoro costato anni di fatica e sudore al team di magistrati, e non privo di sacrifici: tra i tanti ricordiamo Boris Giuliano, commissario della squadra mobile di Palermo, assassinato nel 1979.
Totò Riina: il capo dei capi
Nel mirino dei magistrati del pool anti-mafia c'era principalmente il 'capo dei capi', Salvatore 'Totò' Rina. Un contadino originario di Corleone che, finita la guerra tra le famiglie mafiose siciliane, era salito sul trono del crimine mafioso in Sicilia.
Riina era semi-analfabeta ma scaltro: governò con il pugno di ferro i suoi uomini, anche durante la latitanza. Condannato all'ergastolo – in contumacia – in primo e secondo grado, Riina, rifugiatosi in uno dei suoi nascondigli, era certo che il tutto si sarebbe risolto in Cassazione. Ma così, evidentemente, non fu. Riina visse gran parte della sua vita da latitante, dedicando gli ultimi anni del secolo scorso alla vendetta.
Guerra allo Stato: l'intuizione che portò al pool anti-mafia
Nemmeno a dirlo, in cima alla lista dei personaggi scomodi del boss c'era proprio Giovanni Falcone. Era così già dagli inizi degli anni '80, cioè da quando con un'autobomba la mafia aveva eliminato il suo diretto superiore, il capo dell'Ufficio istruzione di Palermo Rocco Chinnici.
Era il 1983, e Chinnici pagava con la vita la sua migliore intuizione: delegare a pochi esperti magistrati tutti i processi di mafia, senza disperdere energie e conoscenze. L'idea di Rocco Chinnici non era morta con lui e il pool che gli era sopravvissuto, guidato da Caponnetto, nell'arco di soli tre anni era stato appunto in grado di realizzare il miracolo del maxiprocesso.
Quando nel 1988 Antonio Caponnetto lasciò la guida del pool, tutto lasciava supporre che Falcone avrebbe ereditato il ruolo di direttore. Gli venne invece preferito un collega più anziano, formalmente più titolato di lui in un sistema, quello della magistratura, in cui si avanza con l'età. Il nuovo capo smantellò immediatamente la squadra di magistrati specializzati nelle inchieste di mafia, chiedendo ai suoi componenti di tornare a occuparsi del resto.
Il primo attentato fallito
Avendo constatato che Falcone era isolato tra i suoi stessi colleghi, Cosa nostra tentò una prima volta di pareggiare i conti con il giudice. Cinquanta candelotti di dinamite furono nascosti tra gli scogli vicino alla villa al mare all'Addaura, non lontano da Palermo, che il magistrato aveva affittato per l'estate. L'intenzione era farli esplodere non appena Falcone si fosse concesso un bagno: l'attentato fallì soltanto perché il sicario perse il telecomando dell'ordigno in mare.
La Direzione Nazionale antimafia
Fu però lì che il magistrato si rese davvero conto di percorrere la strada più giusta. Era il prezzo per non aver mai smesso di indagare nei segreti della "cupola" e per aver ulteriormente alzato l'asticella: puntando il dito verso le relazioni istituzionali di Totò Riina, dunque alla politica, e alle talpe su cui i mafiosi potevano contare all'interno della magistratura. ”Io sono segnato nel 'libro dei cattivi' e la condanna nei miei confronti è stata emessa da tempo”, disse Falcone a 'Il Corriere della Sera' dopo l'attentato fallito.
Per calmare le acque, ma anche e soprattutto per proteggere i suoi familiari, nel 1991 Falcone accettò l'incarico di direttore generale dell'Ufficio affari penali. In quel periodo lavorò alla creazione di una sorta di super-procura nazionale, un organismo preposto a combattere le grandi organizzazioni criminali come Cosa nostra, e, nel novembre 1991, il suo progetto divenne realtà. Nacquero infatti la Direzione nazionale antimafia (Dna), che coordinava le procure, e il suo braccio operativo, la Direzione investigativa antimafia (Dia).
L'attentato a Capaci
Quando nel gennaio 1992 la Cassazione confermò di fatto le sentenze del Maxiprocesso (e quindi l'ergastolo a Riina) Falcone finì in cima all'agenda di Cosa Nostra. Era difficile però per i sicari dei boss colpire il magistrato a Roma. L'attentato andava fatto tra le mura amiche di Palermo, dove Falcone tornava ogni fine settimana.
Venerdì 23 maggio 1992 Falcone e sua moglie, Francesca Morvillo, anche lei magistrato, atterrarono a Punta Raisi, dove li attendevano le tre auto della scorta, tra cui la Croma bianca. Da lì avrebbero fatto il percorso di sempre, l'autostrada che dall'aeroporto conduce in città. Nelle settimane precedenti Giovanni Brusca e i suoi complici avevano individuato un cunicolo di scarico che passava sotto l'autostrada all'altezza dello svincolo di Capaci. Con il favore della notte avevano stipato il cunicolo con 500 chilogrammi di tritolo. Il detonatore era stato collegato a un telecomando, che Brusca stesso avrebbe azionato da una vicina altura.
L'esplosione, purtroppo, fu efficace e sollevò centinaia di metri di asfalto, uccidendo sul colpo i tre agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Giovanni Falcone, alla guida della Croma bianca, e sua moglie, morirono dopo essere giunti in ospedale.
Come si racconta, la sera della scomparsa del magistrato, Riina e i suoi brindarono con lo champagne: ancora non sapevano che di lì a pochi mesi Riina sarebbe finito in carcere e, entro qualche anno, l'organizzazione dei corleonesi sarebbe stata smantellata dallo Stato, sulla strada inaugurata dai magistrati Falcone e Borsellino.