Già nell’antica Grecia vi era chi, come Aristotele, definiva l’uomo come un “animale politico”, cioè un uomo che per mantenersi tale necessitava di interagire con gli altri suoi simili, sebbene questa convivenza non fosse sempre pacifica, in virtù delle continue limitazioni poste dal bisogno di non ledere la libertà altrui. Da ciò derivava una inconscia paura dell’altro, sentimento che nella storia si è evoluto in diverse degenerazioni, come le dittature, basti pensare alla politica xenofoba messa in atto dal nazismo e poi dal fascismo in età contemporanea.
La paura dell’altro, inteso come “diverso”, è presente nella vita di ognuno di noi e la riflessione al riguardo ha prodotto notevoli contributi letterari: «Straniero, non sembri uomo stolto o malvagio, ma Zeus Olimpio, che divide la fortuna tra gli uomini, buoni e cattivi, a ciascuno come lui vuole, a te diede questa sorte, e tu la devi ad ogni modo sopportare». Il bisogno di conoscenza porta Odisseo ad essere straniero, di contro la stessa bramosìa induce l’uomo di ogni tempo a studiare, a cercare, a investigare ogni frammento di conosciuto per metterlo in discussione e accrescere le migliorie. Eppure in questi frammenti quello che manca è sempre “l’altro”, per lo meno l’altro visto semplicemente come diverso da chi studia e non come inferiore, meno meritevole, primitivo e spregevole.
Questo discorso è applicabile in modo molto più immediato in epoche a noi lontane, nelle quali l’altro non era solo il diverso ma anche quello da combattere, pian piano però lo straniero diviene qualcosa in più: «Un giorno di gennaio dell’anno 1941, un soldato tedesco di passaggio, godendo di un pomeriggio di libertà, si trovava, solo, a girovagare nel quartiere di San Lorenzo, a Roma. Erano circa le due del dopopranzo, e a quell’ora, come d’uso, poca gente circolava per le strade….S’era scordato dell’uniforme; per un buffo interregno sopravvenuto nel mondo, l’estremo arbitrio dei bambini adesso usurpava la legge militare del Reich!»
In un’epoca in cui le distanze si restringono le uniche distanze che si possono incontrare sono quelle poste da noi stessi, forse per proteggere la nostra individualità in un mondo che ha tutte le porte aperte.
Passiamo così dall’epoca dell’altro come barbaro, all’epoca dell’altro come colonizzato, all’epoca dell’altro come popolo da sterminare. “Risate e grida si levarono. «Fuori! Fuori della fontana! Fuori!» Erano anche voci di uomini. La gente, poco prima intorpidita e molle, si era tutta eccitata. Gioia di umiliare quella ragazza spavalda che dalla faccia e dall’accento si capiva ch’era forestiera. «Vigliacchi!» gridò Anna, voltandosi d’un balzo. E con un fazzolettino cercava di togliersi di dosso la fanghiglia. Ma lo scherzo era piaciuto. Un altro schizzo la raggiunse a una spalla, un terzo al collo, all’orlo dell’abito. Era diventata una gara.…Qui Antonio intervenne, facendosi largo…Antonio era forestiero e tutti, là, parlavano in
dialetto. Le sue parole ebbero un suono curioso, quasi ridicolo….Niente ormai tratteneva il buttare fuori il fondo dell’animo: il sozzo carico di male che si tiene dentro per anni e nessuno si accorge di avere.”
Caso a sé è Verga con il suo Rosso Malpelo. Qui viene messo in rilievo non il timore per l’altro perché lontano dal proprio mondo, ma in quanto fisicamente diverso. E’ il caso di un individuo “visto male” dalla sua stessa società a causa del colore dei suoi capelli. Rosso è un emarginato, abbandonato e questo suscita in lui il rancore che lo rende cattivo.
In realtà già nella Bibbia ci sono i primi inviti a non chiudersi all’altro; ciò dimostra come tale situazione fosse la prassi e l’unico mezzo di difesa della propria vita: “Non lederai il diritto dello straniero o dell’orfano e non prenderai in pegno la veste dalla vedova; ma ti ricorderai che sei
stato schiavo in Egitto e che di là ti ha redento l’Eterno, il tuo Dio; perciò ti comandò di fare questo. Quando fai la mietitura nel tuo campo e dimentichi nel campo un covone, non tornerai indietro a prenderlo; sarà per lo straniero, per l’orfano e per la vedova, affinché l’Eterno, il tuo Dio, ti benedica in tutta l’opera delle tue mani. Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornerai a ripassare sui rami; le olive rimaste saranno per lo straniero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non ripasserai una seconda volta; i grappoli rimasti saranno per lo straniero, per l’orfano e per la vedova. E ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese d’Egitto; perciò ti comando di fare questo.”
Quello di cui più necessitiamo è il vivere lo straniero come fonte di arricchimento: Lo straniero
“A chi vuoi più bene, enigmatico uomo, di? A tuo
padre, a tua madre, a tua sorella o a tuo fratello?”
“Non ho né padre, né madre, né sorella, né
fratello.”
“Ai tuoi amici?”
“Adoperate una parola di cui fino a oggi ho
ignorato il senso.”
“Alla tua patria?”
“Non so sotto quale latitudine si trovi.”
“Alla bellezza?”
“L’amerei volentieri, ma dea e immortale.”
“All’oro?”
“Lo odio come voi odiate Dio.”
“Ma allora che cosa ami, straordinario uomo?”
“Amo le nuvole…le nuvole che vanno…laggiù,
laggiù…le meravigliose nuvole!”
Sentire la diversità come elemento di confronto e non di giudizio, capire che lo straniero è come noi, ama ciò che lo circonda come lo amiamo noi, ama il suo mondo come noi amiamo il nostro, di questo ha bisogno la nostra società. Lo straniero può essere ai tuoi occhi «untore», enigmatico, non conoscere cosa siano gli amici, ma «Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io».