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Filosofia: Schopenhauer e Kierkegaard
Storia: Sistemi Totalitari
Inglese: Joyce "Dubliners"
Storia dell'arte: Espressionismo
Latino: Seneca "taedium vitae"
Il concetto di noia è difficile da definire, ma può essere espresso come uno stato d’animo
di sofferenza o fastidio verso gli uomini e le cose, che porta all’isolamento e alla
depressione fino all’annullamento di sé, una sorta di “malattia sociale”, radicata nel
contesto storico, economico e culturale di un’epoca che coinvolge anche gruppi più ampi e
con connotazioni particolari a seconda delle premesse sociologiche, che li caratterizza.
Nel corso del tempo, vari autori hanno espresso quest’atteggiamento nelle loro opere e nei
loro personaggi in modo diverso. Nella filosofia contemporanea ad esempio si può dare
sia una spiegazione di carattere esistenziale, sia un’interpretazione psicologica sociale,
che fa derivare il disagio e il senso di frustrazione dell’automazione che aliena l’individuo
dalla realtà: sostituito dalle macchine, l’uomo perde interesse per il lavoro e si sente inutile
nel mostruoso ingranaggio di una civiltà inumana.
Tutti abbiamo, almeno una volta nella vita, provato la noia, c’è chi in modo frequente, c’è
chi qualche volta. In realtà la noia cos’è?
Leopardi la definì come “l’assenza contemporanea di piacere e di dolore”. La noia corre
sempre a riempire tutti i vuoti che il dolore e il piacere lasciano nell’animo umano. Per
questo nell’animo umano non può esistere il “vuoto”, poiché non appena l’uomo
abbandona un dolore o una passione, la noia si stabilisce nel suo animo. Altra definizione
di “noia” è data dal grande filosofo tedesco Arthur Schopenhauer. Secondo egli l’uomo
desidera sempre qualcosa, ma una volta che questo desiderio viene appagato, la sua
volontà non si placa, e viene pervaso da nuovi desideri che reclamano anch’essi
appagamento. Subentra, così, nell’uomo la Noia, ossia la totale insoddisfazione per
l’obiettivo raggiunto. Il desiderio, infatti, nel momento in cui non è appagato, è mancanza,
una mancanza che non può che produrre “dolore”. La vita è proprio un pendolo che oscilla
tra il dolore e la noia, dice il filosofo.
Per questi motivi, ho deciso di trattare, in storia dell’arte “L’urlo” di Edvard Munch. “Il grido”
(o “L'urlo”, come viene spesso chiamata l'opera nella traduzione italiana), fa parte di una
serie di opere realizzate da Munch tra la fine dell'ottocento ed i primi del novecento e che
l'autore stesso ha idealmente raccolto in una serie intitolata “Fregio della vita”.
Dell'opera esistono altre versioni, di cui alcune incisioni in bianco e nero che anticipano le
versioni rese a colori. Una versione a colori anticipa di un anno questa prescelta: è un olio
su tavola cm 83,5 x 66 ed è conservata ad Oslo al Munch Museet. La scelta della versione
qui analizzata è stata orientata dalla maggiore possibilità di analisi coloristica dell'opera
sull’utilizzo congiunto di olio, tempera e pastello.
La prima impressione che l'osservatore ha guardando questa particolare opera di Munch,
è di angoscia. Attraverso la forma e i colori quest'opera riesce dunque a trasmettere una
sensazione, e, la comunicazione, che prima con gli impressionisti si giocava tutta
sull'impressione visiva, si sposta adesso al livello dell'inconscio. L'opera agisce nell'animo
stesso dell'osservatore perché è espressione diretta dell'animo dell'autore. Colori irreali,
contrastanti, contorni dissolti, forme indefinite sembrano emergere dalla dimensione del
sogno.
In letteratura latina, Seneca il quale, in “De tranquillitate Animi” tratta il tema del taedium
vitae, già trattato da Lucrezio e Orazio. Il taedium vitae è la noia e il disgusto per la vita