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La giustizia ingiusta
Ne I promessi sposi Alessandro Manzoni mostra l’inefficienza e l’arretratezza del sistema giuridico spagnolo, applicato al territorio italiano, nel XVII secolo, rivolgendo particolare attenzione ad abusi della legge, ancora presenti nell’epoca in cui l’autore scrive il romanzo (Ottocento). In questo modo egli sostiene la necessità di profonde riforme per garantire sicurezza anche ai più deboli e perseguire in modo efficiente i delitti (riprendendo così il pensiero di Beccaria e Pietro Verri, esponenti dell’Illuminismo italiano).
Già dal capitolo III viene mostrata la corruzione del dottor Azzeccagarbugli, ossia uno dei personaggi che dovrebbero far applicare le leggi correttamente. L’avvocato inizialmente si mostra disponibile ad aiutare Renzo, che gli si è rivolto in quanto vittima dei soprusi di don Rodrigo il quale aveva minacciato don Abbondio con i suoi bravi per impedire il matrimonio tra il giovane e Lucia, di cui il nobile si era invaghito. Lo studioso, però, appare pronto ad aiutare il giovane in quanto egli pensa che Renzo sia un criminale in cerca di aiuto per sfuggire alla persecuzione della legge (<<Ho capito, disse tra sé il dottore, che in verità non aveva capito>>).
Quando il giovane chiarisce il malinteso, spiegando di essere l’oppresso e non l’oppressore (<<oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio>>) Azzeccagarbugli si affretta a mandarlo via con parole sgarbate, in quanto egli non vuole schierarsi contro la figura più potente del paese (<<Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi>>).
Sempre nel capitolo III viene mostrata l’inefficienza della giustizia seicentesca. L’avvocato, infatti, credendo Renzo un bravo, spiega come sia facile manovrare la legge grazie alla grande quantità di gride, ossia provvedimenti legislativi emanati dai governatori di Milano in cui sono esposti i casi contemplati dal sistema legislativo spagnolo nel Seicento e le pene, spesso molto severe, corrispondenti (<<Caso serio, figliuolo […] contemplato in cento gride […] All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi imbrogliarle>>).
Da ciò si possono ricavare i favoritismi delle istituzioni nei confronti di soverchiatori e potenti, che pertanto controllano la giustizia in modo arbitrario, dividendo di fatto la popolazione in oppressi e oppressori. I più pavidi ovviamente si schierano con le figure di influenza, come don Rodrigo, per non essere assoggettati.
Coloro che dimostrano più coraggio, o ingenuità (come nel caso di Renzo), invece, tentano di farsi giustizia da soli. Alla fine del terzo capitolo il giovane esprime infatti tale intenzione affermando che <<A questo mondo c’è giustizia finalmente>>. Il narratore prende però le distanze da questo atteggiamento affermando che <<un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica>>.
Un altro esempio che testimonia il monopolio della giustizia posseduto dai potenti si può ritrovare nel capitolo V, ambientato nel <<palazzotto>> di don Rodrigo, dove, durante un banchetto, si discute, con opinioni contrastanti, se sia accettabile o meno dare <<alcune bastonate>> a un portatore di sfida (<<Ben date, ben assestate! […] Battere un ambasciatore! Persona sacra!>>).
Tra i presenti, oltre al conte Attilio (cugino di don Rodrigo), vanno annoverati Azzeccagarbugli e il podestà di Lecco, il quale dovrebbe essere una figura esterna al paese che fa applicare le leggi in modo equo. Come afferma, infatti, il narratore, si tratta di <<quel medesimo a cui, in teoria, sarebbe toccato far giustizia a Renzo Tramaglino, e a far star a dovere don Rodrigo>>. La sua partecipazione al banchetto del nobile lombardo dimostra, invece, la sua corruzione.
Ancora una volta viene dunque mostrato il controllo esercitato dai potenti sulle figure di giustizia.
Dal capitolo XI al capitolo XV vengono, invece, narrate le vicende di Renzo a Milano durante i tumulti di San Martino. Il giovane si trova, infatti, involontariamente coinvolto nelle sollevazioni popolari milanesi dei giorni 11 e 12 Novembre 1628 causate dal rincaro del prezzo del pane ad opera di una <<giunta>> nominata dal governatore spagnolo don Gonzalo (<<vide per terra certe strisce bianche e soffici, come di neve […] trovò ch’era farina […] Grand’ abbondanza, disse fra sé, ci dev’essere a Milano, se straziano in questa maniera la grazia di Dio>>).
Il giovane prende parte tali insurrezioni a causa della sua ingenuità (<<s’avviava, senza saperlo, proprio al luogo centrale del tumulto>> Capitolo XII), senza però commettere alcun reato, e arringa la folla con un improvvisato discorso in cui invoca giustizia contro tutti i potenti (<<Ora, andate a dire ai dottori, scribi e farisei, che vi facciano far giustizia, secondo che canta la grida: vi danno retta come il papa ai furfanti […] Bisogna andare da Ferrer, e dirgli come stanno le cose>> Capitolo XIV).
Così facendo attira l’attenzione di un poliziotto in borghese che si finge suo amico offrendosi di accompagnarlo ad una locanda (<<Conosco appunto un’osteria che fa al caso vostro>> Capitolo XIV), facendolo ubriacare e confessare di aver raccolto del pane durante i tumulti (<<L’ho trovato in terra; e se potessi trovare anche il padrone, son pronto a pagarglielo. >> Capitolo XIV), riuscendo inoltre ad estorcergli le generalità, necessarie per il suo successivo arresto (<<Lorenzo Tramaglino, disse il giovane; il quale […] non fece attenzione ch’era tutto fondato su carta, penna e calamaio>> Capitolo XIV).
Il narratore mostra pertanto come alla giustizia seicentesca non interessi indagare la verità, bensì trovare un popolano da arrestare in modo da dissuadere gli altri cittadini dal compiere tumulti. Ciò è reso ancora più esplicito nel dialogo tra Renzo e il notaio criminale, il quale, senza nemmeno interrogare il sospetto, stabilisce le colpe del primo sulla base del resoconto del poliziotto e dell’oste, che in precedenza si è recato a denunciare il giovane paesano (<<Fate il vostro dovere, disse il notaio ai birri, i quali misero subito le mani addosso a Renzo>>).
La figura del magistrato rappresenta fedelmente l’inefficacia della giustizia seicentesca. Ad inizio del capitolo XV egli, infatti, trovandosi nel palazzo di giustizia si mostra sicuro di sé ed arrogante, accusando l’oste di non dire <<tutto sinceramente>>, in quanto quest’ultimo non ha riferito che il giovane è entrato nell’osteria con del pane che, secondo il funzionario addetto alla giustizia criminale, è stato sicuramente <<rubato con violenza, per via di saccheggio e di sedizione>>.
Quando, invece, tenta di arrestare Renzo, il notaio assume un atteggiamento paziente per cercare di convincere il protagonista della disavventura che tutti questi procedimenti siano pura <<formalità>>, temendo che il giovane possa chiedere aiuto alla folla radunatasi nella piazza (<<Già nel venire, aveva visto per le strade un certo movimento […] Perciò dava occhio ai birri, che avessero pazienza, e non inasprissero il giovine>> Capitolo XV). Accade, però, proprio quello che voleva essere evitato dall’addetto alla giustizia, che non esita a fuggire dimostrando la sua piccolezza morale, marcata anche dal narratore (<<cercava di farsi piccino piccino […] per isgusciar della folla>> Capitolo XV).
Osservata l’imperfezione e l’inefficacia della giustizia terrena, alcuni personaggi confidano in una visione piuttosto utilitaristica di provvidenza divina. Ad esempio, don Abbondio ritiene che la peste sia uno strumento utilizzato dalla provvidenza per punire i prepotenti, come ad esempio don Rodrigo, deceduto in seguito alla pestilenza (<<Ah! è morto dunque! è proprio andato! […] Vedete, figliuoli, se la Provvidenza arriva alla fine certa gente. Sapete che l’è una gran cosa! un gran respiro per questo povero paese! che non ci si poteva vivere con colui>>).
In conclusione si può dunque dire che Manzoni condanna ampiamente la corruzione della giustizia seicentesca e coloro che se ne servono per opprimere gli strati più bassi della popolazione. Questi <<provocatori>> e <<soverchiatori>>, come li definisce il narratore nel capitolo II, sono infatti responsabili <<non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi>>. Esemplare è il caso di Renzo che da <<giovane pacifico e alieno al sangue>> (capito II) inizia a meditare, come già spiegato in precedenza, di farsi giustizia da solo (<<A questo mondo c’è giustizia finalmente>>).
cento gride […] All’avvocato bisogna raccontar le cose
chiare: a noi tocca poi imbrogliarle>> ).
Da ciò si possono ricavare i favoritismi delle istituzioni nei confronti
di soverchiatori e potenti, che pertanto controllano la giustizia in
modo arbitrario, dividendo di fatto la popolazione in oppressi e
oppressori. I più pavidi ovviamente si schierano con le figure di
influenza, come don Rodrigo, per non essere assoggettati.
Coloro che dimostrano più coraggio, o ingenuità (come nel caso di
Renzo), invece, tentano di farsi giustizia da soli. Alla fine del terzo
capitolo il giovane esprime infatti tale intenzione affermando che
<<A questo mondo c’è giustizia finalmente>> . Il narratore
prende però le distanze da questo atteggiamento affermando che
<<un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si
dica>>.
Un altro esempio che testimonia il monopolio della giustizia
posseduto dai potenti si può ritrovare nel capitolo V, ambientato nel
<<palazzotto>> di don Rodrigo, dove, durante un banchetto, si
discute, con opinioni contrastanti, se sia accettabile o meno dare
<<Ben date, ben
<<alcune bastonate>> a un portatore di sfida (
assestate! […] Battere un ambasciatore! Persona sacra!>> ).
Tra i presenti, oltre al conte Attilio (cugino di don Rodrigo), vanno
annoverati Azzeccagarbugli e il podestà di Lecco, il quale dovrebbe
essere una figura esterna al paese che fa applicare le leggi in modo
<<quel
equo. Come afferma, infatti, il narratore, si tratta di
medesimo a cui, in teoria, sarebbe toccato far giustizia a
Renzo Tramaglino, e a far star a dovere don Rodrigo>> . La
sua partecipazione al banchetto del nobile lombardo dimostra,
invece, la sua corruzione. Ancora una volta viene dunque mostrato
il controllo esercitato dai potenti sulle figure di giustizia.
Dal capitolo XI al capitolo XV vengono, invece, narrate le vicende di
Renzo a Milano durante i tumulti di San Martino. Il giovane si trova,
infatti, involontariamente coinvolto nelle sollevazioni popolari
milanesi dei giorni 11 e 12 Novembre 1628 causate dal rincaro del
prezzo del pane ad opera di una <<giunta>> nominata dal
<<vide per terra certe
governatore spagnolo don Gonzalo (
strisce bianche e soffici, come di neve […] trovò ch’era
farina […] Grand’ abbondanza, disse fra sé, ci dev’essere a
Milano, se straziano in questa maniera la grazia di Dio>> ).
Il giovane prende parte tali insurrezioni a causa della sua ingenuità
<<s’avviava, senza saperlo, proprio al luogo centrale del
(
tumulto>> Capitolo XII), senza però commettere alcun reato, e
arringa la folla con un improvvisato discorso in cui invoca giustizia
<<Ora, andate a dire ai dottori, scribi e
contro tutti i potenti (
farisei, che vi facciano far giustizia, secondo che canta la
grida: vi danno retta come il papa ai furfanti […] Bisogna
andare da Ferrer, e dirgli come stanno le cose>> Capitolo
XIV).
Così facendo attira l’attenzione di un poliziotto in borghese che si
finge suo amico offrendosi di accompagnarlo ad una locanda
<<Conosco appunto un’osteria che fa al caso vostro>>
(
Capitolo XIV), facendolo ubriacare e confessare di aver raccolto del
<<L’ho trovato in terra; e se potessi
pane durante i tumulti (
trovare anche il padrone, son pronto a pagarglielo. >>
Capitolo XIV), riuscendo inoltre ad estorcergli le generalità,
(<<Lorenzo Tramaglino,
necessarie per il suo successivo arresto
disse il giovane; il quale […] non fece attenzione ch’era
tutto fondato su carta, penna e calamaio>> Capitolo XIV).
Il narratore mostra pertanto come alla giustizia seicentesca non
interessi indagare la verità, bensì trovare un popolano da arrestare
in modo da dissuadere gli altri cittadini dal compiere tumulti. Ciò è
reso ancora più esplicito nel dialogo tra Renzo e il notaio criminale,
il quale, senza nemmeno interrogare il sospetto, stabilisce le colpe
del primo sulla base del resoconto del poliziotto e dell’oste, che in
<<Fate il
precedenza si è recato a denunciare il giovane paesano (
vostro dovere, disse il notaio ai birri, i quali misero subito le
mani addosso a Renzo>> ).
La figura del magistrato rappresenta fedelmente l’inefficacia della
giustizia seicentesca. Ad inizio del capitolo XV egli, infatti,
trovandosi nel palazzo di giustizia si mostra sicuro di sé ed
<<tutto
arrogante, accusando l’oste di non dire
sinceramente >>, in quanto quest’ultimo non ha riferito che il
giovane è entrato nell’osteria con del pane che, secondo il
funzionario addetto alla giustizia criminale, è stato sicuramente
<<rubato con violenza, per via di saccheggio e di
sedizione>>.
Quando, invece, tenta di arrestare Renzo, il notaio assume un
atteggiamento paziente per cercare di convincere il protagonista
della disavventura che tutti questi procedimenti siano pura
<<formalità>> , temendo che il giovane possa chiedere aiuto alla
<<Già nel venire, aveva visto per
folla radunatasi nella piazza (
le strade un certo movimento […] Perciò dava occhio ai
birri, che avessero pazienza, e non inasprissero il giovine>>
Capitolo XV). Accade, però, proprio quello che voleva essere evitato
dall’addetto alla giustizia, che non esita a fuggire dimostrando la
<<cercava di
sua piccolezza morale, marcata anche dal narratore (
farsi piccino piccino […] per isgusciar della folla>> Capitolo
XV).
Osservata l’imperfezione e l’inefficacia della giustizia terrena, alcuni
personaggi confidano in una visione piuttosto utilitaristica di
provvidenza divina. Ad esempio, don Abbondio ritiene che la peste
sia uno strumento utilizzato dalla provvidenza per punire i
prepotenti, come ad esempio don Rodrigo, deceduto in seguito alla
<<Ah!
pestilenza ( è morto dunque! è proprio andato! […]
Provvidenza
Vedete, figliuoli, se la arriva alla fine certa
gente. Sapete che l’è una gran cosa! un gran respiro per
questo povero paese! che non ci si poteva vivere con
.
colui>>)
In conclusione si può dunque dire che Manzoni condanna
ampiamente la corruzione della giustizia seicentesca e coloro che
se ne servono per opprimere gli strati più bassi della popolazione.
<<provocatori>> <<soverchiatori>>
Questi e , come li
<<non
definisce il narratore nel capitolo II, sono infatti responsabili
solo del male che commettono, ma del pervertimento
ancora a cui portano gli animi degli offesi>> . Esemplare è il
<<giovane pacifico e alieno al sangue>>
caso di Renzo che da
(capito II) inizia a meditare, come già spiegato in precedenza, di
<<A questo mondo c’è giustizia
farsi giustizia da solo (
finalmente>> ).