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Eugenio Montale - La casa dei doganieri: commento
Nel cuore scosceso della Liguria, affacciata su un mare perennemente tormentato, sorge – o forse si disgrega – la Casa dei Doganieri. Non più presidio di uomini, ma guscio vuoto che custodisce spettri e assenze, questa dimora diventa nella poesia di Montale un confine tra vivi e morti, tra tempo e rovina. Non è solo un luogo, ma una reliquia di emozioni disfatte, un bastione ormai svuotato di significato, abitato dai fantasmi della memoria.Il tema della memoria che sfugge
Leggere questa poesia è come camminare in un maniero abbandonato, dove ogni stanza contiene un ricordo che geme. Il poeta non racconta, evoca. E lo fa con il respiro della notte, quando il vento – «libeccio che ulula» – pare non solo elemento naturale, ma presenza metafisica, quasi un memento mori che sussurra attraverso le fenditure dei muri. Il mare, che ruggisce in fondo, è la voce dell’inconscio, il motore della dissoluzione, l’antico spettro che cancella tutto ciò che tenta di durare.Tu non ricordi – così inizia, così condanna. Il “tu” amato, evocato, disgregato come la casa stessa, si rivela già spettro, figura sbiadita che non ha più volto. Non è dato sapere se è morta o fuggita, se ha dimenticato o ha scelto di ignorare. È un’ombra. Il poeta si muove tra ciò che è e ciò che fu, tra rovine e brandelli di un tempo in cui la casa era viva, il filo della memoria teso e vibrante. Ora, invece, quello stesso filo “ne tengo ancora un capo”, l’altro “l’hai tu smarrito”. Montale qui non scrive versi, tesse maledizioni, formula orazioni funebri per un legame spezzato, in un paesaggio che si fa cimitero della memoria.
L'abbandono come "inaridimento" della vita
La Casa dei Doganieri è il castello gotico della poesia italiana del Novecento. Non c’è ragnatela che non significhi abbandono, non c’è finestra aperta che non lasci entrare la desolazione. L’orizzonte non promette salvezza: la petroliera, unico segnale di vita, “ha luci intermittenti”, quasi che anche il futuro vacilli nel buio. Nulla è saldo. Nemmeno l’identità: «io non so chi va e chi resta». Un dubbio che si fa vertigine, la stessa che si prova in cima a una torre dimenticata, nel gelo di un pensiero che non consola ma inquieta.Ogni oggetto della poesia – la bussola impazzita, i dadi truccati, la banderuola affumicata – è una reliquia maledetta. Oggetti incantati, gettati lì come malie, che parlano di smarrimento, di un tempo che si è spezzato, di un ordine che non torna. Siamo nel regno del disorientamento, nel territorio dell’angoscia elegante e inesorabile.
L'evocazione della vita
Montale, qui, non è solo poeta, ma necromante. Evoca non la vita, ma le sue tracce; non il ricordo, ma la sua dissoluzione. La sua parola non salva: scava. Scava nel petto, nel silenzio, nel vento che schiaffeggia la pietra. Non offre consolazione, ma consapevolezza: tutto ciò che abbiamo, anche l’amore, anche la memoria, può sgretolarsi in una casa a picco sul mare, sotto la pioggia obliqua di un pensiero che non trova pace.E allora, forse, la Casa dei Doganieri non è più un luogo fisico, ma l’ultimo bastione gotico dell’anima: lì dove i ricordi si fanno fantasmi, le parole lamenti, e la poesia – come una veggente cieca – sussurra ciò che è andato perduto.