Versione originale in latino
Serenus: Inquirenti mihi in me quaedam vitia apparebant, Seneca, in aperto posita, quae manu prehenderem, quaedam obscuriora et in recessu, quaedam non continua, sed ex intervallis redeuntia, quae vel molestissima dixerim, ut hostes vagos et ex occasionibus assilientes, per quos neutrum licet, nec tamquam in bello paratum esse nec tamquam in pace securum.
Illum tamen habitum in me maxime deprehendo (quare enim non verum ut medico fatear?), nec bona fide liberatum me iis quae timebam et oderam, nec rursus obnoxium. In statu ut non pessimo, ita maxime querulo et moroso positus sum nec aegroto nec valeo. Non est quod dicas omnium virtutum tenera esse principia, tempore illis duramentum et robur accedere. Non ignoro etiam quae in speciem laborant, dignitatem dico et eloquentiae famam et quicquid ad alienum suffragium venit, mora convalescere: et quae veras vires parant et quae ad placendum fuco quodam subornantur exspectant annos donec paulatim colorem diuturnitas ducat. Sed ego vereor ne consuetudo, quae rebus affert constantiam, hoc vitium mihi altius figat: tam malorum quam bonorum longa conversatio amorem induit.
Haec animi inter utrumque dubii, nec ad recta fortiter nec ad prava vergentis, infirmitas qualis sit, non tam semel tibi possum quam per partes ostendere. Dicam quae accidant mihi; tu morbo nomen invenies. Tenet me summus amor parsimoniae, fateor: placet non in ambitionem cubile compositum, non ex arcula prolata vestis, non ponderibus ac mille tormentis splendere cogentibus expressa, sed domestica et vilis, nec servata nec sumenda sollicite; placet cibus quem nec parent familiae nec spectent, non ante multos imperatus dies nec multorum manibus ministratus, sed parabilis facilisque, nihil habens arcessiti pretiosive, ubilibet non defuturus, nec patrimonio nec corpori gravis, non rediturus qua intraverit; placet minister incultus et rudis vernula, argentum grave rustici patris sine ullo nomine artificis, et mensa non varietate macularum conspicua nec per multas dominorum elegantium successiones civitati nota, sed in usum posita, quae nullius convivae oculos nec voluptate moretur nec accendat invidia. Cum bene ista placuerunt, praestringit animum apparatus alicuius paedagogii, diligentius quam in tralatu vestita et auro culta mancipia et agmen servorum nitentium, iam domus etiam qua calcatur pretiosa et, divitiis per omnes angulos dissipatis, tecta ipsa fulgentia, et assectator comesque patrimoniorum pereuntium populus. Quid perlucentes ad imum aquas et circumfluentes ipsa convivia, quid epulas loquar scaena sua dignas? Circumfudit me ex longo frugalitatis situ venientem multo splendore luxuria et undique circumsonuit: paulum titubat acies, facilius adversus illam animum quam oculos attollo; recedo itaque non peior, sed tristior, nec inter illa frivola mea tam altus incedo, tacitusque morsus subit et dubitatio numquid illa meliora sint. Nihil horum me mutat, nihil tamen non concutit. (continua)
Traduzione all'italiano
Sereno: A me che mi esaminavo, Seneca, certi vizi apparivano messi in chiaro, (tanto) che li prendevo con la mano, certi più oscuri e in fondo, certi non continui ma che tornano a intervalli, che potrei dire molestissimi, come nemici vaganti e che attaccano nei momenti opportuni, a causa dei quali non è lecita nessuna delle due cose, né essere pronti come in guerra, né essere tranquilli come in pace.
Tuttavia scorgo in me soprattutto quello stato (perché infatti non dovrei confessarlo proprio come a un medico?), (cioè) che in buona fede né mi sono liberato di quei difetti che temevo e odiavo né ne sono ancora schiavo; mi trovo in uno stato così massimamente lamentoso e intrattabile quanto non pessimo: non sono né malato né sano. Non è ciò che tu potresti dire il molle inizio di tutte le virtù, e che col tempo ad esse si aggiungono consistenza e forza; non ignoro che anche le cose che si occupano dell'apparenza, dico la dignità e la fama dell'eloquenza e qualsiasi cosa perviene all'approvazione degli altri, si rafforzano col tempo - sia le cose che preparano vere forze, sia le cose che per piacere si rivestono di un certo colore aspettano anni finché a poco a poco la durevolezza porti loro del colore. Ma io temo che la consuetudine, che reca costanza alle cose, imprima più profondamente in me questo vizio: la lunga conversazione infonde amore tanto dei mali quanto dei beni.
Quale sia questa infermità dell'animo indeciso tra le due cose, che non si volge con forza né verso le cose giuste né verso quelle sbagliate, posso mostrartela non tanto in una volta quanto una parte dopo l'altra; dirò ciò che mi accade, tu troverai un nome alla malattia. Mi tiene un grandissimo amore per la parsimonia, lo confesso: mi piace un letto non preparato per l'ostentazione, una veste non tirata fuori dallo scrigno, non oppressa da pesi e mille tormenti che la costringono a brillare, ma familiare e di poco conto, né conservata né da indossare con sollecitudine; mi piace il cibo che non preparino né sorveglino le famiglie, non ordinato molti giorni prima né servito dalla mani di molti, ma facile da preparare; che non ha niente di ricercato o prezioso; che non mancherà in qualsiasi luogo, non pesante né per il patrimonio né per il corpo, che non uscirà da dove sarà entrato; mi piace il servo non colto e il giovane schiavo inesperto, l'argenteria massiccia del padre contadino senza alcun nome di artefice, e la tavola non stupenda per la varietà delle screziature, né nota alla città per le molte successioni di signori eleganti, ma preparata per l'uso comune, che non avvinca gli occhi di nessun commensale per la voluttà né li accenda per l'invidia. Quando mi sono piaciute molto queste cose, mi acceca l'anima il fatto di un collegio di paggi, schiavi ornati d'oro e vestiti più diligentemente che in una processione solenne e una schiera di servi splendenti, ormai una casa preziosa anche dove è calcata e lo stesso tetto splendente di ricchezza dissipate per ogni angolo e il popolo seguace e compagno di patrimoni che vanno in rovina; perché dovrei parlare di acque limpidissime in fondo e che scorrono intorno a questi convivi, perché di banchetti degni delle loro scene? La lussuria ha accerchiato con molto splendore me che vengo dal torpore della frugalità e ha risuonato d'ogni intorno: la vista vacillava un po', contro di essa (la lussuria) levo più facilmente l'animo che gli occhi; me ne vado pertanto non peggiore ma più triste, e non tanto a testa alta avanzo tra le mie povere cose e un tacito tormento si insinua (in me) e il dubbio che quelle cose siano migliori. Niente di queste cose mi cambia, niente tuttavia non mi agita.
Mi piace seguire gli ordini dei maestri e dedicarmi alla vita pubblica; mi piace cercare di raggiungere onori e dignità non certo travolto dalla toga purpurea o dalle verghe, ma per essere più pronto e più utile per gli amici, i parenti, tutti i cittadini e tutti i mortali. Risoluto seguo Zenone, Cleonte, Crisippo, dei quali nessuno tuttavia partecipò alla vita pubblica e tutti ci mandarono (gli altri). Quanto qualcosa ha colpito il mio animo non avvezzo a essere urtato o si è presentato qualcosa di indegno, come sono molte cose in ogni vita umana, o di poco agevolmente scorrevole, oppure cose da stimare non molto mi hanno chiesto molto tempo, mi volgo agli ozi e, come anche per i greggi spossati, il (mio) passo verso casa è più veloce. Mi piace chiudere la vita tra le proprie pareti: "Nessuno, che non darà in cambio niente degno di tanta grande perdita, si porti via alcun giorno; l'animo stia saldo a sé, abbia cura di sé, non faccia niente di estraneo, niente che riguardi un giudice (esterno); si ami la tranquillità priva di affari pubblici e privati". Ma quando una lettura più vigorosa mi ha innalzato l'animo e nobili esempi hanno insinuato stimoli, mi piace precipitarmi nel fare, prestare a uno la voce, a un altro l'attenzione che, anche se non gioverà affatto, tuttavia cercherà di giovare, chiudere nel foro la superbia di qualcuno ingiustamente insuperbito per le circostanze favorevoli. (continua)