Versione originale in latino
Seneca Lucilio suo salutem
Itinera ista quae segnitiam mihi excutiunt et valetudini meae prodesse iudico et studiis. Quare valetudinem adiuvent vides: cum pigrum me et neglegentem corporis litterarum amor faciat, aliena opera exerceor. Studio quare prosint indicabo: a lectionibus <non> recessi. Sunt autem, ut existimo, necessariae, primum ne sim me uno contentus, deinde ut, cum ab aliis quaesita cognovero, tum et de inventis iudicem et cogitem de inveniendis. Alit lectio ingenium et studio fatigatum, non sine studio tamen, reficit. Nec scribere tantum nec tantum legere debemus: altera res contristabit vires et exhauriet (de stilo dico), altera solvet ac diluet. Invicem hoc et illo commeandum est et alterum altero temperandum, ut quidquid lectione collectum est stilus redigat in corpus. Apes, ut aiunt, debemus imitari, quae vagantur et flores ad mel faciendum idoneos carpunt, deinde quidquid attulere disponunt ac per favos digerunt et, ut Vergilius noster ait,
- liquentia mella
stipant et dulci distendunt nectare cellas.
De illis non satis constat utrum sucum ex floribus ducant qui protinus mel sit, an quae collegerunt in hunc saporem mixtura quadam et proprietate spiritus sui mutent. Quibusdam enim placet non faciendi mellis scientiam esse illis sed colligendi. Aiunt inveniri apud Indos mel in arundinum foliis, quod aut ros illius caeli aut ipsius arundinis umor dulcis et pinguior gignat; in nostris quoque herbis vim eandem sed minus manifestam et notabilem poni, quam persequatur et contrahat animal huic rei genitum. Quidam existimant conditura et dispositione in hanc qualitatem verti quae ex tenerrimis virentium florentiumque decerpserint, non sine quodam, ut ita dicam, fermento, quo in unum diversa coalescunt.
Sed ne ad aliud quam de quo agitur abducar, nos quoquehas apes debemus imitari et quaecumque ex diversa lectione congessimus separare (melius enim distincta servantur), deinde adhibita ingenii nostri cura et facultate in unum saporem varia illa libamenta confundere, ut etiam si apparuerit unde sumptum sit, aliud tamen esse quam unde sumptum est appareat. Quod in corpore nostro videmus sine ulla opera nostra facere naturam (alimenta quae accepimus, quamdiu in sua qualitate perdurant et solida innatant stomacho, onera sunt; at cum ex eo quod erant mutata sunt, tunc demum in vires et in sanguinem transeunt), idem in his quibus aluntur ingenia praestemus, ut quaecumque hausimus non patiamur integra esse, ne aliena sint. Concoquamus illa; alioqui in memoriam ibunt, non in ingenium. Adsentiamur illis fideliter et nostra faciamus, ut unum quiddam fiat ex multis, sicut unus numerus fit ex singulis cum minores summas et dissidentes conputatio una conprendit. Hoc faciat animus noster: omnia quibus est adiutus abscondat, ipsum tantum ostendat quod effecit. Etiam si cuius in te comparebit similitudo quem admiratio tibi altius fixerit, similem esse te volo quomodo filium, non quomodo imaginem: imago res mortua est. 'Quid ergo? Non intellegetur cuius imiteris orationem? Cuius argumentationem? Cuius sententias?' Puto aliquando ne intellegi quidem posse, si magni vir ingenii omnibus quae ex quo voluit exemplari traxit formam suam inpressit, ut in unitatem illa conpetant. Non vides quam multorum vocibus chorus constet? Unus tamen ex omnibus redditur. Aliqua illic acuta est, aliqua gravis, aliqua media; accedunt viris feminae, interponuntur tibiae: singulorum illic latent voces, omnium apparent. De choro dico quem veteres philosophi noverant: in commissionibus nostris plus cantorum est quam in theatris olim spectatorum fuit. Cum omnes vias ordo canentium implevit et cavea aeneatoribus cincta est et ex pulpito omne tibiarum genus organorumque consonuit, fit concentus ex dissonis. Talem animum esse nostrum volo: multae in illo artes, multa praecepta sint, multarum aetatum exempla, sed in unum conspirata.
'Quomodo' inquis 'hoc effici poterit?' Adsidua intentione:si nihil egerimus nisi ratione suadente, nihil vitaverimus nisi ratione suadente. Hanc si audire volueris, dicet tibi: relinque ista iamdudum ad quae discurritur; relinque divitias, aut periculum possidentium aut onus; relinque corporis atque animi voluptates, molliunt et enervant; relinque ambitum, tumida res est, vana, ventosa, nullum habet terminum, tam sollicita est ne quem ante se videat quam ne secum, laborat invidia et quidem duplici. Vides autem quam miser sit si is cui invidetur et invidet. Intueris illas potentium domos, illa tumultuosa rixa salutantium limina? Multum habent contumeliarum ut intres, plus cum intraveris. Praeteri istos gradus divitum et magno adgestu suspensa vestibula: non in praerupto tantum istic stabis sed in lubrico. Huc potius te ad sapientiam derige, tranquillissimasque res eius et simul amplissimas pete. Quaecumque videntur eminere in rebus humanis, quamvis pusilla sint et comparatione humillimorum exstent, per difficiles tamen et arduos tramites adeuntur. Confragosa in fastigium dignitatis via est; at si conscendere hunc verticem libet, cui se fortuna summisit, omnia quidem sub te quae pro excelsissimis habentur aspicies, sed tamen venies ad summa per planum. Vale.
Traduzione all'italiano
Seneca saluta il suo Lucilio.
Questi viaggi, che mi scuotono di dosso l'apatia, credo che facciano bene alla mia salute e ai miei studi. Perché facciano bene alla mia salute lo vedi bene: l'amore per gli studi mi rende pigro e mi fa trascurare il corpo, così faccio esercizio a spese di altri. Quanto allo studio, ecco perché servono: non ho smesso un momento di leggere. Le letture - penso - mi sono necessarie, primo perché non sia pago solo di me stesso, poi perché venendo a conoscenza delle indagini altrui, possa formulare giudizi sui risultati e riflettere sulle ricerche da farsi. La lettura nutre la mente e la ristora quando è affaticata dallo studio, anche se richiede una certa applicazione. Non dobbiamo limitarci a scrivere o a leggere: la prima attività, parlo dello scrivere, riduce ed esaurisce le forze; la seconda ti snerva e ti spossa. Bisogna, invece, passare dall'una all'altra e contemperarle in modo che la penna riconduca a unità quanto si è raccolto con la lettura. Dobbiamo, si dice, imitare le api che svolazzano qua e là e suggono i fiori adatti a fare il miele, poi dispongono e distribuiscono nei favi quello che hanno portato e, come scrive il nostro Virgilio,
- Accumulano il limpido miele e colmano le celle di dolce nettare.
Non si sa bene se ricavino dai fiori un succo che è addirittura miele, oppure trasformino in questa sostanza saporita le essenze raccolte, mescolandole insieme e servendosi di una qualità del loro alito. Secondo certi studiosi le api non hanno la capacità di fare il miele, ma solo di raccoglierlo. Dicono che in India il miele si trova nelle foglie di canna e che lo produce o la rugiada di quel clima o il succo dolce e piuttosto denso della canna stessa e che anche nelle nostre piante c'è un'identica sostanza, meno appariscente, però e percepibile, e le api, generate a questo scopo, la cercano e la concentrano. Per altri le api trasformano in miele le sostanze che succhiano dalle piante e dai fiori più teneri, preparandole e disponendole convenientemente, e usano, per dire così, una sorta di lievito, con cui amalgamano in un tutt'uno omogeneo essenze diverse.
Ma per non allontanarmi dall'argomento in questione, anche noi dobbiamo imitare le api e distinguere quello che abbiamo ricavato dalle diverse letture, poiché le cose si mantengono meglio divise; dobbiamo fondere poi, in un unico sapore, valendoci della capacità e della diligenza della nostra mente, i vari assaggi, così che, anche se ne è chiara la derivazione, appaiano tuttavia diversi dalla fonte. Noi vediamo che nel nostro corpo il processo della digestione si svolge naturalmente, senza il nostro intervento; (gli alimenti che ingeriamo, finché mantengono le loro caratteristiche e galleggiano allo stato solido nello stomaco, costituiscono un peso; ma quando modificano il loro precedente stato, diventano sangue ed energie fisiche); facciamo lo stesso con il nutrimento dello spirito: e quanto abbiamo attinto, non lasciamolo intero, perché non ci rimanga estraneo. Digeriamolo: altrimenti alimenterà la nostra memoria, non il nostro spirito. Aderiamo a esso totalmente e facciamolo nostro: da elementi differenti si formerà così un tutt'uno, come i singoli numeri, quando si fa il calcolo complessivo di somme minori e diverse, danno un'unica cifra. Si faccia in questo modo: dissimuliamo tutti gli apporti esterni e mostriamo solo il risultato. Anche se in te si scorgerà una somiglianza con qualcuno che hai ammirato e che ti è rimasto impresso in maniera piuttosto profonda, vorrei che gli assomigliassi come un figlio, non come un ritratto: il ritratto non ha vita. "Ma come? Non si capirà chi è l'autore di cui imiti il linguaggio, le argomentazioni, i pensieri?" Secondo me, certe volte non si può nemmeno intuire, quando un uomo di grande ingegno dà un'impronta personale a tutte le idee che ha tratto dal suo modello e le rende uniformi. Non vedi di quante voci è composto un coro? E tuttavia dall'insieme nasce una melodia unica. Ci sono voci acute, basse, medie; alle maschili si uniscono quelle femminili, si sovrappongono i flauti: le singole voci scompaiono e si percepiscono tutte insieme. Mi riferisco al coro che conoscevano i vecchi filosofi: ora nelle rappresentazioni gli interpreti sono più numerosi di quanti erano una volta gli spettatori a teatro. Quando le file dei cantanti riempiono tutti i passaggi, e le gradinate sono circondate dai trombettieri, e dal palco risuonano insieme flauti e strumenti di ogni tipo, dai diversi suoni nasce un'armonia. Il nostro animo vorrei che fosse così: ricco di capacità, di precetti, di esempi di epoche diverse, ma fusi armonicamente insieme.
"Come si può arrivare a questo?" chiedi; con un'applicazione continua: se non ci faremo consigliare dalla ragione, non concluderemo niente e non potremo evitare errori. Se la vorrai ascoltare, essa ti dirà: abbandona subito questi falsi beni che tutti inseguono; abbandona la ricchezza: è un pericolo o un peso per chi la possiede; abbandona i piaceri del corpo e dello spirito: indeboliscono e snervano; abbandona l'ambizione: è un sentimento pieno di boria, vano, volubile, non ha limiti, si preoccupa di non essere inferiore o pari a nessuno, soffre di una duplice forma di invidia: guarda quanto è infelice uno che invidia ed è invidiato. Vedi le case di chi conta, le soglie piene di strepito per gli alterchi dei clienti? Si litiga violentemente per entrare e ancora di più una volta entrati. Passa oltre queste scale dei ricchi e gli ingressi costruiti su grandi rialzi: qui ti trovi su un terreno che non è solo scosceso ma anche scivoloso. Volgiti piuttosto alla saggezza e aspira a quello stato di mirabile tranquillità e ampiezza che le è proprio. Tutto quello che nelle vicende umane sembra emergere, si raggiunge per strade difficili e ardimentose, pur essendo roba da poco e risaltando solo al confronto con le cose più umili. Scabrosa è la via per arrivare ai vertici della dignità. Ma se vuoi raggiungere questa vetta, di fronte alla quale si piega anche la fortuna, vedrai sotto di te tutto quello che gli uomini ritengono eccelso: e tuttavia in cima ci arrivi per un sentiero pianeggiante. Stammi bene.