Versione originale in latino
Seneca Lucilio suo salutem
Consilio tuo accedo: absconde te in otio, sed et ipsum otium absconde. Hoc te facturum Stoicorum etiam si non praecepto, at exemplo licet scias; sed ex praecepto quoque facies: et tibi et cui voles approbaris. Nec ad omnem rem publicam mittimus nec semper nec sine ullo fine; praeterea, cum sapienti rem publicam ipso dignam dedimus, id est mundum, non est extra rem publicam etiam si recesserit, immo fortasse relicto uno angulo in maiora atque ampliora transit et caelo impositus intellegit, cum sellam aut tribunal ascenderet, quam humili loco sederit. Depone hoc apud te, numquam plus agere sapientem quam cum in conspectum eius divina atque humana venerunt.
Nunc ad illud revertor quod suadere tibi coeperam, ut otium tuum ignotum sit. Non est quod inscribas tibi philosophiam ac quietem: aliud proposito tuo nomen impone, valetudinem et imbecillitatem vocato et desidiam. Gloriari otio iners ambitio est. Animalia quaedam, ne inveniri possint, vestigia sua circa ipsum cubile confundunt: idem tibi faciendum est, alioqui non deerunt qui persequantur. Multi aperta transeunt, condita et abstrusa rimantur; furem signata sollicitant. Vile videtur quidquid patet; aperta effractarius praeterit. Hos mores habet populus, hos imperitissimus quisque: in secreta irrumpere cupit. Optimum itaque est non iactare otium suum; iactandi autem genus est nimis latere et a conspectu hominum secedere. Ille Tarentum se abdidit, ille Neapoli inclusus est, ille multis annis non transit domus suae limen: convocat turbam quisquis otio suo aliquam fabulam imposuit.
Cum secesseris, non est hoc agendum, ut de te homines loquantur, sed ut ipse tecum loquaris. Quid autem loqueris? Quod homines de aliis libentissime faciunt, de te apud te male existima: assuesces et dicere verum et audire. Id autem maxime tracta quod in te esse infirmissimum senties. Nota habet sui quisque corporis vitia. Itaque alius vomitu levat stomachum, alius frequenti cibo fulcit, alius interposito ieiunio corpus exhaurit et purgat; ii quorum pedes dolor repetit aut vino aut balineo abstinent: in cetera neglegentes huic a quo saepe infestantur occurrunt. Sic in animo nostro sunt quaedam quasi causariae partes quibus adhibenda curatio est. Quid in otio facio? Ulcus meum curo. Si ostenderem tibi pedem turgidum, lividam manum, aut contracti cruris aridos nervos, permitteres mihi uno loco iacere et fovere morbum meum: maius malum est hoc, quod non possum tibi ostendere: in pectore ipso collectio et vomica est. Nolo nolo laudes, nolo dicas, 'o magnum virum! Contempsit omnia et damnatis humanae vitae furoribus fugit'. Nihil damnavi nisi me. Non est quod proficiendi causa venire ad me velis. Erras, qui hinc aliquid auxili speras: non medicus sed aeger hic habitat. Malo illa, cum discesseris, dicas: 'ego istum beatum hominem putabam et eruditum, erexeram aures: destitutus sum, nihil vidi, nihil audivi quod concupiscerem, ad quod reverterer'. Si hoc sentis, si hoc loqueris, aliquid profectum est: malo ignoscas otio meo quam invideas.
'Otium' inquis 'Seneca, commendas mihi? Ad Epicureas voces delaberis?' Otium tibi commendo, in quo maiora agas et pulchriora quam quae reliquisti: pulsare superbas potentiorum fores, digerere in litteram senes orbos, plurimum in foro posse invidiosa potentia ac brevis est et, si verum aestimes, sordida. Ille me gratia forensi longe antecedet, ille stipendiis militaribus et quaesita per hoc dignitate, ille clientium turba. [cui in turba] Par esse non possum, plus habent gratiae: est tanti ab omnibus vinci, dum a me fortuna vincatur. Utinam quidem hoc propositum sequi olim fuisset animus tibi! Utinam de vita beata non in conspectu mortis ageremus! Sed nunc quoque non moramur; multa enim quae supervacua esse et inimica credituri fuimus rationi, nunc experientiae credimus. Quod facere solent qui serius exierunt et volunt tempus celeritate reparare, calcar addamus. Haec aetas optime facit ad haec studia: iam despumavit, iam vitia primo fervore adulescentiae indomita lassavit; non multum superest ut exstinguat. 'Et quando' inquis 'tibi proderit istud quod in exitu discis, aut in quam rem?' In hanc, ut exeam melior. Non est tamen quod existimes ullam aetatem aptiorem esse ad bonam mentem quam quae se multis experimentis, longa ac frequenti rerum paenitentia domuit, quae ad salutaria mitigatis affectibus venit. Hoc est huius boni tempus: quisquis senex ad sapientiam pervenit, annis pervenit. Vale.
Traduzione all'italiano
Seneca saluta il suo Lucilio.
Condivido la tua risoluzione: vivi una vita ritirata, ma nascondila agli altri. Sappi che così agirai se non secondo gli insegnamenti, certo secondo l'esempio degli Stoici; e, tuttavia, anche secondo gli insegnamenti: e potrai provarlo a te stesso e a chi vorrai. Noi non lasciamo che il saggio partecipi sempre e senza limiti di tempo a ogni forma di governo; inoltre, quando gli diamo uno stato degno di lui, cioè l'universo, egli non vive al di fuori della politica, anche se si è isolato; anzi forse, lasciato da parte un unico cantuccio, si dedica a questioni più importanti e vaste; collocato in cielo comprende come era sceso in basso quando saliva alla sedia curule o sulla tribuna. Racchiudi in te queste parole: mai il saggio è più operoso di quando si trova al cospetto delle cose divine e umane.
Torno ora al mio consiglio iniziale: tieni nascosto il tuo ritiro. Non dire che vuoi vivere una vita serena, dedita alla filosofia: definisci altrimenti la tua decisione; chiamala malattia, debolezza, chiamala anche peggio, pigrizia. È sciocca ambizione vantarsi di una vita ritirata. Certi animali, per non essere scovati, confondono le loro orme intorno alla tana: devi fare lo stesso, altrimenti non mancheranno i seccatori. Molti oltrepassano i luoghi facilmente accessibili ed esplorano quelli nascosti e occulti; gli oggetti chiusi in cassaforte stimolano il ladro. Se una cosa è sotto gli occhi di tutti, sembra di poco valore; lo scassinatore tralascia quello che è a portata di mano. La massa e tutte le persone ignoranti hanno queste abitudini: vogliono violare i segreti. La miglior cosa, perciò è non divulgare il proprio isolamento, anche se il nascondersi troppo e l'allontanarsi dalla vista degli altri è già un modo di divulgarlo. Uno si è ritirato a Taranto, un altro vive confinato a Napoli, un terzo da anni non varca la soglia di casa; chi circonda il suo ritiro di un alone di leggenda, richiama l'attenzione della massa.
Se ti isoli, devi fare in modo non che gli uomini parlino di te, ma che tu parli con te stesso. E di che cosa? Fai quello che gli uomini fanno molto volentieri nei confronti degli altri: critica te stesso; ti abituerai a dire e ad ascoltare la verità. Considera soprattutto i lati più deboli del tuo carattere. Ciascuno conosce bene i difetti del proprio corpo. Perciò c'è chi alleggerisce lo stomaco col vomito, chi lo sostiene con pasti frequenti, chi libera il corpo e lo purifica col digiuno; le persone che soffrono di podagra evitano di bere vino o di bagnarsi: trascurano tutto il resto e si premuniscono contro la malattia che spesso li fa tribolare. Allo stesso modo nella nostra anima ci sono delle parti - come dire? - inferme, e vanno curate. Che cosa faccio nel mio ritiro? Curo la mia piaga. Se ti mostrassi un piede gonfio, una mano livida, i muscoli scarni di una gamba contratta, mi consentiresti di stare inoperoso in un angolo e di curare la mia malattia; più grave è il male che non posso mostrarti: la piaga ulcerata ce l'ho nell'anima. Non voglio, non voglio che tu mi lodi, non voglio che tu dica: "Che grand'uomo! Ha disprezzato ogni cosa ed è fuggito; ha ripudiato le follie della vita umana." Io non ripudio niente, solo me stesso. Non c'è motivo che tu venga da me per trarne profitto. Sbagli, se speri di trovare in me un aiuto: qui non abita un medico, ma un ammalato. Preferisco che quando te ne andrai, tu dica: "Lo credevo un uomo felice e colto, avevo drizzato le orecchie. Sono deluso, non ho visto nulla, non ho udito nulla di quello che desideravo e che mi spinga a ritornare." Se pensi, se parli così, c'è stato un progresso: è meglio che tu abbia compassione, non invidia del mio ritiro.
"E proprio tu, Seneca," potresti obiettare, "mi raccomandi una vita ritirata? Stai forse scivolando verso la dottrina epicurea?" Ti raccomando una vita ritirata in cui svolgere attività più importanti e più belle di quelle che hai lasciato: bussare alle superbe porte degli uomini potenti, tenere un elenco dei vecchi privi di eredi, esercitare un grande potere nel foro, è indice di un'autorità che suscita invidia, di breve durata e, a ben guardare, spregevole. Ci sarà qualcuno di molto superiore a me per il prestigio di cui gode nel foro, qualche altro per le imprese militari e per l'autorità così conquistata, un altro ancora per la folla dei clienti. Non posso essere uguale a loro, godono di più favore: vale la pena che tutti mi vincano, purché io vinca la fortuna. Magari tu avessi deciso già da tempo di attuare questo proposito! Magari non discutessimo della felicità ora, al cospetto della morte! Ma non indugiamo anche adesso; avremmo potuto ricavare dalla ragione ciò che ora sappiamo per esperienza: che molte cose sono superflue e dannose. Acceleriamo il passo come fanno le persone che si sono messe in cammino in ritardo e vogliono recuperare il tempo perduto andando veloci. La nostra età è la più adatta a questi studi: gli ardori si sono ormai spenti, i vizi, indomabili nel primo fervore della giovinezza, sono sopiti; e tra poco scompariranno del tutto. "E quando," ribatti, "o a che fine ti gioverà quello che impari alle soglie della morte?" A questo: a uscire meglio dalla vita. Credimi, non c'è età più adatta alla saggezza di quella che è arrivata al dominio di sé attraverso svariate esperienze, dopo lunghi e frequenti pentimenti, di quella che, sedate le passioni, ha raggiunto ciò che dà la salvezza. È questa l'età che ci porta un simile bene: chiunque raggiunga la saggezza da vecchio, vi è arrivato attraverso gli anni. Stammi bene.