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ragazza al computer

Si torna a parlare di smartphone e social network in relazione alla salute mentale dei giovani. La scintilla è stata la pubblicazione, a marzo, di un libro dello psicologo sociale statunitense, Jonathan Haidt, dal titolo The Anxious Generation: How the Great Rewiring of Childhood Is Causing an Epidemic of Mental Illness. Il saggio estende una tesi già nota del sociologo, riguardante appunto la correlazione tra l’uso diffuso degli smartphone e l’incremento dei disturbi mentali tra gli adolescenti, quali depressione, ansia e autolesionismo.

 

 

Jonathan Haidt, come fa sapere ‘Il Post’, è professore di psicologia sociale presso la Stern School of Business della New York University (NYU), oltre ad essere uno dei pensatori più influenti e citati della Silicon Valley. Nel corso della sua carriera, Haidt ha affrontato argomenti quali l'influenza dei geni e delle emozioni sulle credenze e sulla morale, la cancel culture e gli impatti dei social media sulle istituzioni democratiche. 

 

La correlazione tra smartphone e l’aumento dei disturbi mentali

L’idea fondamentale alla base del libro di Haidt è che l’uso crescente degli smartphone e la prevalenza di un modello genitoriale iperprotettivo abbiano portato a una diminuzione graduale del tempo trascorso offline dai giovani. Una situazione che, secondo l’autore, avrebbe portato a una vera e propria riorganizzazione delle connessioni sinaptiche durante l'infanzia e l'adolescenza, con conseguente aumento dei disturbi mentali.

Un’idea, questa, condivisa da molti genitori che cercano di limitare l'accesso dei loro figli ai dispositivi elettronici, anche se talvolta le loro preoccupazioni vengono sminuite da coloro che le considerano come manifestazioni di una mentalità retrograda o di pregiudizi superati riguardo all'evoluzione sociale e tecnologica. Altri genitori, pur condividendo alcune preoccupazioni, temono che privare i loro figli degli smartphone li esponga a un'esperienza infantile e adolescenziale diversa rispetto a quella dei coetanei, con conseguenti impatti negativi sulla salute mentale.

 

Aumento di ansia e depressione nella Gen Z

Non sono pochi gli studiosi che nutrono dubbi sul legame causale tra l'aumento del tempo trascorso davanti ai dispositivi e lo sviluppo di depressione e ansia tra gli adolescenti. Eppure su un dato le opinioni tendono a convergere: l’aumento statistico dei problemi di salute mentale, tanto da ricorrere alla metafora di “epidemia”. 

Nei dati citati da Haidt, si evidenzia infatti un aumento significativo dei livelli di ansia e depressione negli Stati Uniti, che erano rimasti relativamente costanti negli anni Duemila. Tra il 2010 e il 2019, si è registrato un incremento superiore al 50%. In particolare, la percentuale di suicidi nella fascia di età compresa tra i 10 e i 19 anni è salita del 48%, con un aumento del 131% tra le ragazze adolescenti di età compresa tra i 10 e i 14 anni.

Tendenze che sono state riscontrate anche in altri paesi come Canada, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda, paesi scandinavi e in Europa, Italia inclusa, nello stesso periodo di tempo. Secondo Haidt, la Gen Z (nata dalla metà degli anni Novanta in poi) presenta livelli più elevati di ansia, depressione, autolesionismo e disturbi correlati rispetto a qualsiasi altra generazione con dati comparabili.

Ma c’è dell’altro. Altre dati presentati da Haidt indicano anche un aumento della solitudine e una diminuzione delle amicizie tra gli adolescenti a partire dai primi anni del 2000, insieme a un declino nei risultati scolastici nelle materie di lettura, matematica e scienze, sia negli Stati Uniti che in altri paesi membri dell'OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). Stando ad alcuni sondaggi, i membri della generazione Z sembrano essere più riservati e meno inclini al rischio rispetto alle generazioni precedenti. Questo fattore potrebbe, almeno in parte, spiegare perché, per la prima volta dagli anni ’70, nessuno dei principali imprenditori della Silicon Valley ha meno di 30 anni, come sottolineato in un'intervista nel 2023 da Sam Altman, cofondatore di OpenAI, e Patrick Collison, cofondatore di Stripe.

 

Internazionalità del fenomeno

Tante spiegazioni sono state avanzate, nel corso degli anni. Tuttavia, Haidt suggerisce che, nonostante la complessità psicologica del fenomeno, la diffusione a livello internazionale è spia di fattori comuni, al di là dei confini statali. I dati evidenziano un significativo aumento delle malattie mentali tra i giovani proprio in concomitanza del passaggio dai telefoni cellulari agli smartphone, con il trasferimento graduale di gran parte della vita sociale online, attraverso piattaforme di social media, pensate esattamente per generare dipendenza.

Secondo Haidt, la disponibilità di Internet in ogni momento della giornata ha influenzato profondamente le esperienze quotidiane e i processi di sviluppo degli adolescenti in diversi ambiti, come le relazioni sociali, la sessualità, il sonno, l'esercizio fisico, lo studio e le dinamiche familiari. Un cambiamento che ha coinvolto anche i bambini più piccoli, i quali hanno avuto accesso ai dispositivi fin dalla più giovane età. Se nel 2011 solo il 23% degli adolescenti negli Stati Uniti possedeva uno smartphone, nel 2015 tale percentuale era aumentata al 73%.

Per renderci conto della portata del fenomeno, basta prendere in riferimento un recente sondaggio della società Gallup, secondo cui gli adolescenti statunitensi trascorrono all’incirca 5 ore al giorno soltanto sui social. Se poi vengono integrate le ore davanti allo schermo, il conteggio sale a 7 o 9 ore al giorno. Stiamo parlando, in altre parole, di quasi tutto l’arco della giornata. 

 

Le esperienze virtuali non sono come quelle reali

Tra le cause, dicevamo, ci sarebbe anche la propensione iperprotettiva dei genitori, che sempre di più proibiscono ai figli di giocare da soli all’aperto senza la supervisione di un adulto. Un approccio che secondo Haidt risalirebbe in particolare agli anni Ottanta, quando cominciò a diffondersi una certa paura da parte dei genitori a causa delle informazioni allarmiste apprese attraverso la televisione. A questo si aggiunge poi un progressivo declino della fiducia delle persone nei confronti dei propri vicini e delle istituzioni, oltre alla riduzione delle interazioni faccia a faccia. Si tratta di un cambiamento importante, poiché il cervello umano pur raggiungendo le sue dimensioni definitive circa a 6 anni ha bisogno dell’esperienza per fissare i circuiti nervosi. Ed è proprio allora che gli stimoli ambientali si rivelano fondamentali per l’apprendimento delle abilità fisiche, analitiche, creative e sociali. In altri termini, l’infanzia e l’adolescenza umana hanno sempre affondato le radici in contesti pieni di pericoli, sì, ma anche di opportunità di gioco, esplorazione e socializzazione. Le attività virtuali, da questo punto di vista, non assomigliano alle esperienze del mondo reale

 

A fare la differenza è il corpo

Tra le differenze principali c’è prima di tutto il corpo: le interazioni con il mondo fisico sono “incarnate”, passando attraverso il corpo, che apprende con noi. Pensiamo a una conversazione, dove entrano in gioco una serie di fattori quali la prossemica, la gestualità, gli sguardi, le espressioni facciali, i turni da rispettare, e tanto altro ancora. Tutte cose che nel digitale si vengono a perdere con l’adozione di un’altra grammatica, non solo diversa ma anche molto più povera.

Altro fattore interessante sottolineato da Haidt è la tipologia delle interazione: mentre nel mondo fisico sono nella maggior parte dei casi uno-a-uno, nella virtualità il rapporto è spesso uno-a-molti. Questo vuol dire che gli scambi si fanno spesso più piatti e superficiali, anche in considerazione del fatto che la reputazione è sempre in primo piano. E tutto questo secondo Haidt pone i cervelli in via di sviluppo in uno stato abituale di modalità “difensiva” a scapito di una più spiccatamente esplorativa.

Ancora una differenza sostanziale: nelle interazioni contestualizzate nel mondo reale è più complicato entrare e uscire nei gruppi. Questo avrebbe degli effetti diretti sulla motivazione che spinge a investire nelle relazioni, che nel digitale si fanno meno solide e durature data la facilità di bloccare altri utenti e di abbandonare determinati canali. 

 

La Gen Z più suscettibile alle microagressioni

Le considerazioni di Haidt sugli impatti degli smartphone sui giovani sono alla base di un'altra teoria che ha sostenuto a lungo e che in passato ha suscitato diverse critiche dalle fazioni più estreme della sinistra progressista, come fa sapere ‘Il Post’. Secondo lo studioso, la ridotta propensione al rischio e la prevalenza di una mentalità difensiva durante il periodo di sviluppo degli adolescenti della Gen Z sono anche le ragioni della loro maggiore suscettibilità alle “microaggressioni” e della loro tendenza a richiedere spazi sicuri nelle università.

Altra caratteristica problematica messa in luce da Haidt è che i social esercitano una pressione fortissima anche su chi non li usa. “Anche una ragazza che sa, consapevolmente, che Instagram può favorire l’ossessione per la bellezza, l’ansia e i disturbi alimentari potrebbe preferire correre questi rischi piuttosto che accettare l’apparente certezza di essere fuori dal giro, all’oscuro ed esclusa”, ha scritto Haidt sull’‘Atlantic’.

La maggior parte degli utenti usa i social, infatti, proprio perché lo fanno tutti gli altri. E questo anche a fronte del fatto che il 57% di loro preferirebbe un mondo senza social, come emerso da uno studio di Leonardo Bursztyn, economista della University of Chicago. “Questa è la definizione da manuale di ciò che gli scienziati sociali chiamano un problema di azione collettiva”, scrive Haidt. “È ciò che accade quando un gruppo starebbe meglio se tutti i membri del gruppo intraprendessero una particolare azione, ma ogni attore è dissuaso dall’agire, perché a meno che gli altri non facciano lo stesso, il costo personale supera il beneficio”.

 

Come intervenire secondo Haidt

Secondo Haidt, l'implementazione immediata di quattro regole nelle comunità, basate sui risultati preliminari di ricerche condotte in alcune scuole, potrebbe portare a un miglioramento significativo della salute mentale dei giovani nel giro di due anni. La prima consiste nel proibire l'uso degli smartphone prima del raggiungimento del liceo, ovvero prima dei 14 anni. Un'altra regola suggerita è vietare l'apertura di account sui social media prima dei 16 anni. Come terza regola, dovrebbe essere vietato l'utilizzo degli smartphone a scuola, sia durante le lezioni che durante le pause. Infine, i genitori dovrebbero concedere ai propri figli maggiore indipendenza e libertà di giocare senza supervisione, assegnando loro maggiori responsabilità come svolgere commissioni o prendersi cura di altre persone.

 

Le critiche alle tesi di Haidt

Le ipotesi di Haidt hanno riacceso il dibattito intorno all’argomento. Molti hanno obiettato sostenendo che sia irrealistico da diverse prospettive invertire la rotta secondo le indicazioni fornite dallo studioso, anche perché bisognerebbe sradicare un’intera mentalità collettiva che pone la sicurezza al di sopra di altri valori. 

In ambito accademico, come detto, sono molti gli studiosi che nutrono dubbi sul legame causale tra l’uso degli smartphone e il peggioramento della salute mentale. Diffusa è infatti l’opinione per cui la correlazione non implicherebbe un rapporto di causa-effetto, anche perché l’accesso amplificato a internet ha interessato la popolazione al pari di tantissime altre tendenze nello stesso periodo, le quali non possono essere sottratte al sistema. Inoltre, le associazioni, più che suggerire che l’uso dei social media causi maggiori problemi di salute salute mentale, indicherebbero piuttosto il contrario: i giovani con problemi di salute mentale tendono a utilizzare maggiormente le piattaforme.

 

Data pubblicazione 8 Aprile 2024, Ore 14:34
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