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1. Aristofane e la commedia della satira politica
Pur essendo un genere totalmente latino, tanto che Quintiliano afferma “Satura tota nostra est”,
la satira richiama per molti aspetti il teatro comico del mondo greco. Nel periodo che va dal V
secolo a.C. ai primi anni del IV secolo a.C., quindi nell’ αρχαία, possiamo ritrovare uno dei
principali autori di commedie, Aristofane.
Aristofane nacque ad Atene verso il 444 a.C. e morì circa nel 385 a.C. Nel corso della sua vita
scrisse numerose commedie tra cui Gli Acarnesi, I Banchettanti, I Cavalieri, Le Ecclesiazuse,
La Lisistrata, Le Nuvole, La Pace, Il Pluto, Le Rane, Le Tesmoforiazuse, Le Vespe, Gli Uccelli.
Quella di Aristofane è in genere una satira personale, come è nel carattere della commedia
antica, che ha spesso contenuto politico poiché si inserisce nella vita della città. Accanto alla
critica politica è la satira letteraria, diretta soprattutto contro Euripide, di proposito nelle
Tesmoforiazuse e nelle Rane, quest'ultima scritta poco dopo la morte del poeta. Assai prossima
come intenzione alla critica euripidea è quella rivolta contro Socrate, che nelle Nuvole è
accomunato ai sofisti. Le Nuvole sono spesso oggetto di studio anche da parte di chi ambirebbe
poter dare contorni più precisi alla figura storica di Socrate, ma in realtà la satira di Aristofane
è piuttosto generica: è in fondo la critica che il non filosofo, farà sempre del filosofo, anche se
nel caso particolare essa si concretizza proprio in quelle accuse che saranno poi il fondamento
dell'azione giuridica intentata contro Socrate da Meleto.
Le “Nuvole”
Nelle Nuvole, viene rappresentato il forte contrasto generazionale tra un padre, ed un figlio.
Strepsiade è un campagnolo all’antica che sposò una donna nobile di stirpe, piena di ambizioni
e pretese. Dalla loro unione nasce Fidippide, allevato dalla madre come i rampolli delle
famiglie altolocate e con la passione per i cavalli. Per accontentare ogni capriccio del figlio,
Strepsiade si è riempito di debiti e non riesce a dormire. Si ricorda però che ad Atene esiste una
scuola, il “Pensatoio” diretta da Socrate, dove pagando si può apprendere l’arte di vincere
qualunque causa, anche la meno fondata, attraverso la favella. Pensò subito di iscrivervi il
figlio, così avrebbe potuto dimostrare ai creditori che non avevano alcun motivo per chiedere
indietro i loro soldi, ma Fidippide si rifiutò e così a Strepsiade non rimase altro che apprendere
egli stesso la nuova cultura. Giunto al Pensatoio, viene accolto da Socrate che si trova sospeso
tra il soffitto e il pavimento per non essere influenzato dagli influssi celesti e terrestri, e dai
suoi discepoli che si trovano immersi nella risoluzione di grandi problemi tra cui quello di
misurare il salto di una pulce in rapporto alla dimensione delle sue zampe o di scoprire se il
ronzio delle zanzare venga dalla loro bocca o dal loro posteriore. Rimasto colpito da tutta
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quella sapienza, Strepsiade chiede di fare l’esame di ammissione, ma lui è troppo vecchio e
ignorante per essere accettato nella scuola e così viene cacciato in malo modo. Tornato a casa
riesce a convincere Fidippide a presentarsi alla scuola. Il nuovo alunno è accolto con un agone
verbale fra il Discorso giusto e il Discorso ingiusto.
Essi propongono due tipi di educazione, quella antica, che formò le generazioni passate,
esempi di onestà e virtù civiche e militari, e quella moderna, seguita dagli attuali statisti, che
insegna a non rispettare niente e nessuno, a godersi la vita e soddisfare qualunque capriccio,
dimostrando poi di aver sempre ragione, grazie alla nuova arma della dialettica. L’agone è
vinto dal Discorso ingiusto, che attira l’ammirazione di Fidippide, il quale diviene, in poco
tempo, uno studente modello. Così Strepsiade, con l’aiuto del figlio, riesce a liberarsi per un
po’ dai creditori. La sua gioia però è di breve durata perché, infatti, le arti oratorie del figlio, gli
si ritorcono contro. Infatti, a pranzo, invitato dal padre a cantare un brano di Simonide, il
giovane rifiuta, definendo un cane il famoso poeta; Strepsiade già piuttosto innervosito lo
invita allora a cantare un pezzo dei poeti moderni, Fidippide non ci pensa due volte e inizia a
cantare un frammento di Euripide, in cui si parla del rapporto incestuoso tra un fratello e una
sorella. A questo punto il vecchio non riesce più a trattenersi e inizia a inveire contro il figlio
ma quest’ultimo reagisce malmenando il padre e dimostrando poi di aver ragione. Mentre
Strepsiade si abbandona impotente alla sua rabbia, le Nuvole, che formano il coro, lo
rimproverano, dicendogli che è quello che si merita per aver voluto imbrogliare il prossimo.
Infine Strepsiade, fuori di sé per la rabbia, si precipita al Pensatoio con una torcia accesa e lo
incendia insieme ai suoi occupanti.
FIDIPPIDE: Che bella cosa avere familiarità con argomenti nuovi e geniali, e
potersene infischiare delle leggi in vigore!
Io, infatti, quando mi dedicavo soltanto all’ippica, non ero capace di
dire tre parole in fila senza sbagliare; ma ora che costui mi ha liberato
da questi problemi e ho familiarità con opinioni, discorsi e pensieri
sottili, penso di dimostrare che è giusto bastonare il proprio padre.
STREPSIADE: Allora, per Zeus, datti all’ippica, perché è meglio per me
mantenere un tiro a quattro cavalli piuttosto che farmi rompere le ossa
a legnate.
FIDIPPIDE: Riprenderò di là dove mi interrompesti il discorso, e per prima cosa
ti chiederò questo: quando ero piccolo, mi picchiavi?
STREPSIADE: Sì, ma pensando al tuo bene e preoccupandomi per te. 5
FIDIPPIDE: Dimmi, allora:
non è giusto che io pensi al tuo bene allo stesso modo, e che ti picchi,
dato che questo è pensare al bene di qualcuno?
Infatti, perché il tuo corpo dovrebbe essere immune da percosse e il mio
no? Eppure, sono nato libero anch’io.
“Piangono i figli,non credi debba piangere anche un padre?”
Tu dirai che di solito si trattano così i bambini; e io potrei risponderti
che i vecchi sono due volte bambini.
Ed è giusto che i vecchi piangano più dei giovani, perché è meno giusto
che essi sbaglino.
2. La poetica della satira : Orazio
Quinto Orazio Flacco è stato un poeta latino che ha saputo affrontare le vicissitudini politiche
e civili del suo tempo da placido epicureo amante dei piaceri della vita.
Nacque a Venosa nel 65 a.C. Nel 38 a.C. venne presentato a Mecenate da Virgilio e Vario e
dopo nove mesi, Mecenate lo ammise nel suo circolo. Durante il corso della sua vita scrisse
diverse opere, tra cui ricordiamo in particolare le Satire e gli Epodi, ma anche le Odi, e il
Carmen saeculare.
Orazio cerca di nobilitare la satira ricollegandola alla commedia greca che aveva la
consuetudine di attaccare direttamente e personalmente gli avversari. Temi moralmente
impegnativi vengono trattati in modo arguto e divertente, anche attraverso episodi di vita
quotidiana ed un linguaggio colloquiale.
Le Satire
A tale scopo il poeta ha dedicato 3 componimenti che seppur scritti in momenti diversi,
sviluppano un pensiero sostanzialmente omogeneo: le Satire.
In quest’opera Orazio presenta Lucilio come l’iniziatore del genere della satira nella letteratura
latina, ma cerca di nobilitarla ricollegandola alla commedia greca e precisamente alla fase più
antica di essa. Orazio rileva l’importante differenza formale tra i due generi, ma punta su un
aspetto comune alla commedia antica e alla satira luciliana: la consuetudine di attaccare
direttamente e personalmente gli avversari. Un altro tratto distintivo della satira, viene indicato
da Orazio nello spirito che si traduce nella capacità di affrontare temi moralmente impegnativi
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in modo arguto e divertente. Con la componente moralistica viene collegato un aspetto proprio
della poesia satirica ed estraneo alla commedia: l’impostazione soggettiva, che consente
all’autore di esprimere direttamente, parlando in prima persona, le proprie opinioni e i propri
giudizi.
Orazio afferma di scrivere sermoni propiora; l’accostamento della satira al sermo, rinvia ancora
una volta alla commedia, ma è anche coerente con le posizioni di Lucilio, che aveva chiamato i
suoi componimenti sermones. Sotto l’aspetto formale, tuttavia, Orazio non manca di prendere le
distanze da Lucilio, applicando il principio del labor limae, ossia della necessità di un’accurata
elaborazione stilistica, limitando così la sua produzione ad un pubblico ristretto a pochi intimi.
Dimostrando, dunque, un alto grado di consapevolezza critica, Orazio riflette sull’opera
luciliana e, mentre indica nell’antico poeta il capostipite del genere satirico, procede ad
un’opera di vera e propria fondazione teorica del genere stesso, mettendolo in rapporto con la
commedia greca e fissandone i tratti caratterizzanti di un combattivo e aggressivo moralismo.
In Orazio, l’impostazione soggettiva, non si traduce in semplice autobiografia, ma si presenta
piuttosto come disponibilità a rivelare aspetti significativi dell’io interiore per sviluppare da essi
considerazioni di portata più ampia e di validità generale.
L’impegno morale, invece, si esprime nella tendenza a spostare l’attenzione dagli individui ai
comportamenti: ne consegue che l’attacco personale perde molta della sua importanza, visto
che ci si occupa non tanto dei viziosi quanto dei vizi, di cui le singole persone forniscono
esempi concreti.
“La satira del seccatore”
Il personaggio di questa satira rientra a pieno titolo in questa schiera di professionisti dell’arte
di arrangiarsi in una città del potere com’era Roma. Lo scocciatore sa riconoscere le persone
che contano in certi ambienti, come per esempio Orazio nel circolo di Mecenate, ma non aspira
alla ricchezza. Vuole infatti essere introdotto negli ambienti “giusti” per salire i gradini della
considerazione sociale. Nel perseguire il suo scopo, si dimostra un vero professionista: tenace,
dotato di una sfacciataggine bronzea, sufficientemente corazzato nelle sue meschine certezze.
La vittima di turno è il povero Orazio che se ne va a spasso, ignaro, per il Foro: il seccatore lo
addenta e non lo lascia più 7
3. La satira in Giovenale
Decimo Giunio Giovenale nacque ad Aquino tra il 55 e il 60 a.C. e morì a Roma nel 127 d.C.
Egli fu un poeta satirico latino, ma prima di dedicarsi alla poesia, fu professore di retorica ed
avvocato abile nelle declamazioni.
Ideologia e pensiero
Giovenale considerò la letteratura mitologica ridicola in quanto troppo lontana al clima morale
corrotto in cui viveva la società romana del tempo: egli considerò la satira indignata l’unica
forma letteraria in grado di denunciare al meglio l’abiezione dell’umanità a lui contemporanea.
Giovenale non crede che la sua poesia possa influire sul comportamento degli uomini perché,
l’immoralità e la corruzione sono insite nell’animo umano; pertanto egli si limitò a gridare la
sua protesta astiosa, senza coltivare illusioni di riscatto.
Il rifiuto del pensiero moralistico è una delle componenti più importanti della poetica di
Giovenale, così come l’astio sociale: a suo dire, non ci sono più le condizioni sociali che
possano portare alla ribalta grandi letterati come Mecenate, Virgilio ed Orazio nel periodo
augusteo perché il poeta, nella Roma dei suoi tempi, è bistrattato e spesso vive in condizioni di
estrema povertà.
Giovenale fu un idealizzatore del passato, ovvero quel buon tempo in cui il governo era
caratterizzato da una sana moralità “agricola”. Negli ultimi anni della sua vita il poeta rinunciò
espressamente alla violenta ripulsa dell’indignazione ed assunse un atteggiamento più
distaccato, mirante all’apatia, all’indifferenza. Le riflessioni e le osservazioni, un tempo dirette
ed esplicite, divennero generali e più astratte, oltreché più pacate. Ma la natura precedente del
poeta non andò distrutta completamente e, tra le righe, si può leggere ancora la rabbia di
sempre.
Le satire