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Sintesi

Introduzione tesina su Oppressi e Oppressori



Questa tesina di maturità affronta il tema degli oppressi e degli oppressori in italiano con Verga, latino con Marziale e Giovenale, inglese con Dickens, filosofia con Marx, arte con Courbet e in storia con la II rivoluzione industriale.



Collegamenti


Oppressi e Oppressori



Italiano - Giovanni Verga.
Latino - Giovenale e Marziale.
Inglese - Dickens.
Filosofia - Marx.
Storia - La Seconda Rivoluzione industriale.
Estratto del documento

capo che pensare a ripulirlo la domenica. Nondimeno era conosciuto come la

bettonica per tutto Monserrato e la Caverna, tanto che la cava dove lavorava la

chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma

lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto in

quella stessa cava.

Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a

cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno dell'ingrottato, e dacché non

serviva più, s'era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra di rena.

Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza

giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro

Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto

lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l'asino da basto di tutta la cava. Ei,

povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane colle sue

braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva

un visaccio, come se quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo

com'era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: - Va là, che tu non ci

morrai nel tuo letto, come tuo padre -.

Invece nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttoché fosse una buona

bestia. Zio Mommu lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l'avrebbe

tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d'altra parte tutto è pericolo nelle

cave, e se si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare

l'avvocato.

Dunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che

l'avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e

se n'erano andati dicendogli di divertirsi a grattar la rena per amor del padrone, o

raccomandandogli di non fare la morte del sorcio. Ei, che c'era avvezzo alle beffe,

non dava retta, e rispondeva soltanto cogli «ah! ah!» dei suoi bei colpi di zappa in

pieno, e intanto borbottava: 14

- Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata! - e

così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto, il

cottimante!

Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e

girava al pari di un arcolaio. Il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa,

contorcevasi e si piegava in arco, come se avesse il mal di pancia, e dicesse ohi!

anch'esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il

sacco vuoto ed il fiasco del vino.

Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: - Tirati in là! -

oppure: - Sta attento! Bada se cascano dall'alto dei sassolini o della rena grossa, e

scappa! - Tutt'a un tratto, punf! Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel

corbello, udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché fa pancia e si sventra

tutta in una volta, ed il lume si spense.

L'ingegnere che dirigeva i lavori della cava, si trovava a teatro quella sera, e

non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per

il babbo di Malpelo che aveva fatto la morte del sorcio. Tutte le femminucce di

Monserrato, strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia

ch'era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i

denti invece, quasi avesse la terzana. L'ingegnere, quando gli ebbero detto il come e

il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu Bestia doveva già

essere bell'e arrivato in Paradiso, andò proprio per scarico di coscienza, con scale e

corde, a fare il buco nella rena. Altro che quaranta carra! Lo sciancato disse che a

sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana. Della rena ne era caduta

una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle

mani, e dovea prendere il doppio di calce. Ce n'era da riempire delle carra per delle

settimane. Il bell'affare di mastro Bestia!

Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia ed urlava, come una

bestia davvero.

- To'! - disse infine uno. - È Malpelo! Di dove è saltato fuori, adesso?

- Se non fosse stato Malpelo non se la sarebbe passata liscia... -

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Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie

colà, nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s'era accorto di lui; e quando si

accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la

schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano

dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non

potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei

capelli, per tirarlo via a viva forza.

Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre

piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il pane che si mangia

non si può andare a cercarlo di qua e di là. Lui non volle più allontanarsi da quella

galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul

petto a suo padre. Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in

aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche

cosa che il suo diavolo gli susurrasse nelle orecchie, dall'altra parte della montagna

di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non

mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, quasi non fosse grazia di Dio. Il cane

gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano che gli dà il pane, e le

botte, magari. Ma l'asino, povera bestia, sbilenco e macilento, sopportava tutto lo

sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della

zappa, e borbottava:

- Così creperai più presto! -

Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e

lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll'anello di ferro al naso.

Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e

se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si

rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era

stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano

gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri

ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di

tutto il male che s'immaginava gli avessero fatto gli altri, a lui e al suo babbo. Certo

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ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i

soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l'avevano lasciato

crepare. E quando era solo borbottava: - Anche con me fanno così! e a mio padre gli

dicevano Bestia, perché egli non faceva così! - E una volta che passava il padrone,

accompagnandolo con un'occhiata torva: - È stato lui! per trentacinque tarì! - E

un'altra volta, dietro allo Sciancato: - E anche lui! e si metteva a ridere! Io l'ho

udito, quella sera! -

Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero

ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da

un ponte s'era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto,

quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano

messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così Ranocchio com'era, il suo pane

se lo buscava. Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di

tiranneggiarlo, dicevano.

Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e

senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con

maggiore accanimento, dicendogli: - To', bestia! Bestia sei! Se non ti senti l'animo di

difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da

questo e da quello! -

O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle

narici: - Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! -

Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva

puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll'occhio spento, ei lo

batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli

stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture,

ma stremo di forze, non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n'era uno il

quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe. Malpelo soleva

dire a Ranocchio: - L'asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s'ei potesse

picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi -.

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Oppure: - Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi;

così gli altri ti terranno da conto, e ne avrai tanti di meno addosso -.

Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo'

di uno che l'avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli

ah! ah! che aveva suo padre. - La rena è traditora, - diceva a Ranocchio sottovoce; -

somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o

siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva

sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena

se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui -.

Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e il ragazzo

piagnucolava a guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso, e lo

sgridava: - Taci, pulcino! - e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano,

dicendo con un certo orgoglio: - Lasciami fare; io sono più forte di te -. Oppure gli

dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si

stringeva nelle spalle, aggiungendo: - Io ci sono avvezzo -.

Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di

badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui

sassi colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare

era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva

che la razione di busse non gliel'aveva levata mai, il padrone; ma le busse non

costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento,

con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei

si pigliava sempre i castighi, anche quando il colpevole non era stato lui. Già se non

era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro

sarebbe stato inutile. E qualche volta, come Ranocchio spaventato lo scongiurava

piangendo di dire la verità, e di scolparsi, ei ripeteva: - A che giova? Sono malpelo!

- e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse

effetto di fiero orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la

sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta

mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai.

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Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di

lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la

sorella afferrava il manico della scopa, scoprendolo sull'uscio in quell'arnese, ché

avrebbe fatto scappare il suo damo se vedeva con qual gente gli toccava

imparentarsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli

andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Per questo, la

domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per

andare a messa o per ruzzare nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di

andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia alle lucertole e alle altre povere

bestie che non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia.

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