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prevalere delle linee curve, la
studiata grazia dei panneggi, la
morbida levigatezza con la quale è
trattato il marmo dei corpi, sono
altrettanti espedienti grazie ai quali
l’artista svincola il proprio linguaggio
da quello specifico della scultura,
cercando nuovi effetti di tipo
pittorico. È il caso, ad esempio, delle
palpitanti membra di Dafne che si
stanno lentamente tramutando in
alloro: il prodigio è reso con tanta
Si tratta di una scena di commossa naturalezza da superare i limiti
drammaticità, che il Bernini sa però stessi del marmo, arrivando a
ricondurre a una dimensione di evocare i colori della pittura e le
composta e classica armonia. Il forme della realtà.
LATINO
OVIDIO, METAMORFOSI
Publio Ovidio Nasone (43 a.C. – 17 d.C.) compose le “Metamorfosi” tra il 3 e l’8
relegatio
d.C., poco prima della a Tomi, a causa della quale rimasero
incompiute. Il titolo deriva dal verbo greco μεταμορφόω
(<trasformare/trasformarsi>) e individua il filo conduttore dell’intera opera, le
trasformazioni appunto. Le “Metamorfosi” sono una commistione di più generi
letterari e non sono quindi facilmente inquadrabili in un settore specifico: si
avvicinano all’epica dal punto di vista formale (i quindici libri sono infatti scritti
in esametri, 12000 come per l’”Eneide” virgiliana) e in parte contenutistico (per
l’uso dei miti), ma per l’organizzazione di tale contenuto sono invece
assimilabili al genere del romanzo. In particolare si presentano come un
romanzo a cornice: vi è infatti una sorta di “contenitore”, un impianto generale,
al cui interno sono posti diversi racconti e miti; fra di essi non c’è una vera e
propria continuità, ma vi sono fragili elementi di collegamento tra l’uno e
l’altro.
L’obiettivo dell’autore era quello di narrare l’origine del mondo, un argomento
già trattato da autori precedenti come Virgilio e Lucrezio, e arrivare fino all’età
a lui contemporanea. Il poema, che comprende circa 250 racconti di
<trasformazione>, può essere suddiviso in tre macrosequenze: storie degli dèi
(libri I-VI), storie degli eroi (libri VII-XI), storie di personaggi della Roma arcaica
che hanno fatto la storia (libri XII-XV). Il tutto è aperto da un Prologo iniziale (I,
5-450), composto alla fine, e concluso da un Epilogo finale (XV, 745-870).
Per quanto riguarda le fonti, Ovidio si rifece a diversi autori latini e greci
precedenti: Esiodo (“Teogonia”), Omero (“Iliade”, “Odissea”) e Callimaco
(“Aitia”) per quanto riguarda l’ambito greco; Ennio (“Annales”), Virgilio
(“Eneide”), Lucrezio (“De rerum natura”) e Lucano (“Bellum civile”/”Farsalia”)
per quanto concerne l’ambito latino.
Metamorphoses I, 540-567 540 qui tamen insequitur pennis
(APOLLO E DAFNE) adiutus Amoris,
541 ocior est requiemque negat
tergoque fugacis Ma lui che l'insegue, con le ali d'amore
542 inminet et crinem sparsum in aiuto,
cervicibus adflat. corre di più, non dà tregua e incombe
543 viribus absumptis expalluit illa alle spalle della fuggitiva, ansimandole
citaeque sul collo fra i capelli al vento.
544 victa labore fugae spectans Senza più forze, vinta dalla fatica di
Peneidas undas quella corsa
545 'fer, pater,' inquit 'opem! si flumina allo spasimo, si rivolge alle correnti del
numen habetis, Peneo e:
546 qua nimium placui, mutando perde «Aiutami, padre», dice. «Se voi fiumi
figuram!' avete qualche potere,
547 [quae facit ut laedar mutando dissolvi, mutandole, queste mie
perde figuram.] fattezze per cui troppo piacqui».
548 vix prece finita torpor gravis
occupat artus, 553 Hanc quoque Phoebus amat
549 mollia cinguntur tenui praecordia positaque in stipite dextra
libro, 554 sentit adhuc trepidare novo sub
550 in frondem crines, in ramos cortice pectus
bracchia crescunt, 555 conplexusque suis ramos ut
551 pes modo tam velox pigris membra lacertis
radicibus haeret, 556 oscula dat ligno; refugit tamen
552 ora cacumen habet: remanet nitor oscula lignum.
unus in illa.
Ancora prega, che un torpore profondo Anche così Febo l'ama e, poggiata la
pervade le sue membra, mano sul tronco,
il petto morbido si fascia di fibre sottili, sente ancora trepidare il petto sotto
i capelli si allungano in fronde, le quella nuova corteccia
braccia in rami; e, stringendo fra le braccia i suoi rami
i piedi, così veloci un tempo, come un corpo,
s'inchiodano in pigre radici, ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci
il volto svanisce in una chioma: solo il ancora si sottrae.
suo splendore conserva. frondis honores!'
557 cui deus 'at, quoniam coniunx mea 566 finierat Paean: factis modo laurea
non potes esse, ramis
558 arbor eris certe' dixit 'mea! semper 567 adnuit utque caput visa est
habebunt agitasse cacumen.
559 te coma, te citharae, te nostrae,
laure, pharetrae; E allora il dio: «Se non puoi essere la
560 tu ducibus Latiis aderis, cum laeta sposa mia,
Triumphum sarai almeno la mia pianta. E di te
561 vox canet et visent longas Capitolia sempre si orneranno,
pompas; o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la
562 postibus Augustis eadem fidissima faretra;
custos e il capo dei condottieri latini, quando
563 ante fores stabis mediamque una voce esultante
tuebere quercum, intonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà
564 utque meum intonsis caput est fluire i cortei.
iuvenale capillis, Fedelissimo custode della porta
565 tu quoque perpetuos semper gere d'Augusto,
starai appeso ai suoi battenti per Qui Febo tacque; e l'alloro annuì con i
difendere la quercia in mezzo. suoi rami
E come il mio capo si mantiene giovane appena spuntati e agitò la cima, quasi
con la chioma intonsa, assentisse col capo.
anche tu porterai il vanto perpetuo
delle fronde!».
Considerando il caso specifico del mito di Apollo e Dafne all’interno
dell’opera ovidiana, si nota come la metamorfosi della ninfa sia
funzionale alla sua fuga, e quindi alla disunione dei due
protagonisti. Si vedrà più avanti come sia possibile attuare un
confronto –per contrasto- con la poesia dannunziana “La pioggia nel
pineto”.
RIFERIMENTI nella letteratura latina e greca:
Nella letteratura latina e greca ricorre spesso il tema della metamorfosi, la
possibilità, cioè, di mutare forma, di alterare i tratti del corpo umano per
acquisirne altri di natura animale o vegetale.
In ambito greco le più antiche attestazioni risalgono all’epica omerica, e
appaiono sempre connesse con il mondo del soprannaturale. Il riferimento va
senz’altro all’”Odissea”, di cui si ricordano due episodi in particolare:
Nel libro IV si narra di come Menelao, salpato da Troia e spinto dai venti
avversi sulle coste dell’Egitto, per ottenere consigli sulla partenza dovrà
catturare e interrogare Proteo, il Vecchio del mare, antico dio
metamorfico:
Odissea IV, 454-458
Noi ci lanciammo, gridando, gli gettammo addosso
le mani: il vecchio non dimenticò la sua arte di inganni,
e prima diventò leone dalla folta criniera
e dopo serpente e pantera e grosso cinghiale,
diventò liquida acqua e albero dall’alto fogliame.
(trad. G. A. Privitera)
Nel libro X Odisseo deve affrontare le insidie della maga Circe, la quale
trasforma i suoi ospiti, compagni dell’eroe, in porci:
Odissea X, 233-243
Li guidò e fece sedere sulle sedie e sui troni:
formaggio, farina d’orzo e pallido miele mischiò
ad essi con il vino di Pramno: funesti farmaci
mischiò nel cibo, perché obliassero del tutto la patria.
Dopochè glielo diede e lo bevvero, li toccò subito
con una bacchetta e li rinserrò nei porcili.
Dei porci essi avevano il corpo: voci e setole
e aspetto. Ma come in passato la mente era salda.
Così essi furono chiusi, piangenti, e Circe
gli gettò da mangiare le ghiande di leccio, di quercia
e corniolo, che mangiano sempre i maiali stesi per terra.
(trad. G. A. Privitera)
In ambito latino, è Publio Virgilio Marone (70 a.C. –19 a.C.) a riprendere il
tema della metamorfosi nel poema epico dell’”Eneide”. Nel libro III, infatti, si
narra come, una volta giunto in Tracia, dove i profughi troiani intendono
costruire la nuova loro città, Enea dia inizio ai riti di fondazione. Ma mentre sta
strappando da un cespuglio di mirto alcune fronde per adornare l’altare degli
dèi, scopre con orrore che i rami stillano sangue. L’orrendo prodigio si ripete
altre due volte, finchè dal cespuglio fuoriescono parole: è la voce di Polidoro, il
più giovane dei figli di Priamo, morto per mano di suo cognato Polimestore,
presso il quale Priamo lo aveva inviato per sottrarlo alla guerra. Disprezzando i
doveri dell’ospitalità e i legami di sangue, Polimestore lo aveva tradito e ucciso
per impossessarsi della parte di bottino con cui il giovane era giunto presso di
lui.
Eneide III, 19-68 24 Accessi viridemque ab humo
19 Sacra Dionaeae matri divisque convellere siluam
ferebam 25 conatus, ramis tegerem ut
20 auspicibus coeptorum operum, frondentibus aras,
superoque nitentem 26 horrendum et dictu video mirabile
21 caelicolum regi mactabam in litore monstrum.
taurum. 27 Nam quae prima solo ruptis
22 Forte fuit iuxta tumulus, quo cornea radicibus arbos
summo 28 vellitur, huic atro liquuntur sanguine
23 virgulta et densis hastilibus horrida guttae
myrtus. 29 et terram tabo maculant. mihi
frigidus horror Di corniolo e un mirto rigido di dense
30 membra quatit gelidusque coit verghe.
formidine sanguis. M’appressai, e tentando di svellere dal
31 Rursus et alterius lentum convellere suolo un verde
vimen
32 insequor et causas penitus temptare
latentis;
33 ater et alterius sequitur de cortice
sanguis.
34 Multa movens animo Nymphas
venerabar agrestis
35 Gradiuumque patrem, Geticis qui
praesidet arvis,
36 rite secundarent visus omenque
levarent.
37 Tertia sed postquam maiore hastilia
nisu
38 adgredior genibusque adversae
obluctor harenae,
39 (eloquar an sileam?) gemitus
lacrimabilis imo
40 auditur tumulo et vox reddita fertur
ad auris:
41 'quid miserum, Aenea, laceras? iam
parce sepulto,
42 parce pias scelerare manus. Non me
tibi Troia
43 externum tulit aut cruor hic de
stipite manat.
44 heu fuge crudelis terras, fuge litus
avarum:
45 nam Polydorus ego. Hic confixum
ferrea texit
46 telorum seges et iaculis increvit
acutis.'
47 tum vero ancipiti mentem formidine
pressus
48 obstipui steteruntque comae et vox
faucibus haesit.
Facevo sacrifici alla madre dionea ed ai
numi
Auspici dell’opera intrapresa, e mi
accingevo a immolare
Sulla riva uno splendido toro al re dei
celesti.
V’era lì accanto un’altura, e in cima
virgulti
Dalla base del cumulo, e una voce Sono Polidoro. Qui mi trasse e mi coprì
uscendone raggiunge gli orecchi: una ferrea messe di dardi e crebbe di
“Perché laceri uno sventurato, o Enea? acute aste”.
Risparmia un cadavere; Allora, oppresso la mente dubbiosa
risparmia di profanare le pie mani. Troia dall’orrore,
mi ha generato stupii, si drizzarono i capelli, e la voce si
non estraneo a te, e il sangue che vedi arrestò nella gola.
non sgorga dal legno. (trad. D. Ciocca, T. Ferri)
Oh fuggi terre crudeli, fuggi un avido
lido.
ITALIANO
GABRIELE D’ANNUNZIO, LA PIOGGIA NEL PINETO
“La pioggia del pineto” è compresa nella seconda sezione di “Alcyone”, il
terzo libro delle “Laudi” dannunziane. Tale sezione è dedicata agli antichi riti
pagani legati alla mietitura e celebra il processo di identificazione pànica
poeta-natura, una metamorfosi che si verifica non solo a livello tematico ma
anche a livello formale.
L’autore descrive come lui e la sua donna, Ermione, siano stati colti di sorpresa
da un temporale estivo durante una passeggiata in pineta. Cadendo sulla varia
vegetazione presente, la pioggia produce un’armonia di suoni, ai quali fanno
eco il verso delle cicale e quello delle rane. Il poeta ed Ermione si immergono
progressivamente in questo concerto naturale di suoni, finché non si sentono
essi stessi parte della vegetazione: il loro è un processo di trasformazione dallo
stato umano allo stato vegetale, che li porta a diventare un tutt’uno con la
natura.
Come si è detto, questa poesia realizza anche una metamorfosi a livello
formale. Le parole sono scelte non secondo il campo semantico di
appartenenza, ma per il loro suono: il testo poetico è trattato come un vero e