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Il pessimismo letterario è l'aspetto filosofico che caratterizza tutto l'evolversi del pensiero del
poeta e filosofo Giacomo Leopardi, assumendo nel tempo connotazioni diverse. Gli studiosi
hanno distinto tre fasi del pessimismo leopardiano: una fase di "pessimismo individuale", una di
"pessimismo storico" e una di "pessimismo cosmico", più una fase finale di "pessimismo
eroico". Giacomo Leopardi è uno straordinario esponente della poesia italiana durante
l’epoca Risorgimentale. Il poeta considera la realtà sempre attraverso la sua interiore
sensibilità e attraverso lo sguardo della poesia, alla quale ha dedicato tutta la sua breve vita,
tormentato da una costante malinconia e da un’insoddisfazione per la realtà, e tuttavia, sempre
sorretto dalla volontà di combattere il suo “male di vivere” . Solo la poesia, secondo lui,
permette di superare il limite della condizione umana, attraverso l’immaginazione: le illusioni
che cullano nel piacere e il vero che riporta il dolore e la noia.
Giacomo Leopardi nacque a Recanati nel 1798, fu inizialmente educato dal severo padre, che
poi lo affidò a precettori ecclesiastici. La rigidità del padre e il gelido comportamento della
madre, lo spinsero a rifugiarsi negli studi che amava, dato che aveva a disposizione una
biblioteca fornita di quindicimila volumi. Dopo “sette anni di studio matto e disperato”, da lui
definito, conosceva le lingue classiche, il francese, l’inglese, l’ebraico, il sanscrito, la filosofia, la
storia, l’astronomia. Dal 1816 Leopardi si dedicò allo studio dei grandi poeti italiani, oltre
che di Omero, di cui tradusse il primo libro dell’Odissea. Questo passaggio viene chiamato
“conversione dall’erudizione al bello”; Leopardi , infatti, maturò la convinzione che l’importante
non è la quantità delle conoscenze, ma la loro qualità. Intanto cresceva la sua insofferenza
verso l’arretratezza culturale dell’ambiente di Recanati, e peggiorava la sua salute fino a
spingerlo a scrivere “Appressamento a morte”. Nonostante ciò, intervenne con una lettera
nella polemica scoppiata a Milano tra i sostenitori della poesia romantica e quelli della poesia
classica, schierandosi in difesa di quest’ultimi. Leopardi pubblicò,poi, due canzoni patriottiche
“All’Italia” e” Sopra il monumento di Dante” , che accentuarono il suo distacco dal padre, il
quale voleva che il figlio intraprendesse la carriera ecclesiastica, mentre lui maturava
convinzioni sempre più atee. Una seria malattia agli occhi gli impedì a lungo la lettura, sua unica
consolazione e in quel periodo scrisse la poesia “l’Infinito”, primo dei componimenti detti
“Idilli”. Nel 1882 fece un viaggio a Roma, ma rimase profondamente deluso sul piano culturale e
delle relazioni umane. Tornato a Recanati scrisse brevi prose narrative e dialoghi di argomento
filosofico, come “Operette Morali”, in cui manifesta il suo pessimismo sulla vita e sulla natura,
approdando al “pessimismo comico”. Se prima la natura gli era apparsa benevola, ora è
l’origine di ogni male e di ogni infelicità dell’uomo. Leopardi nel 1825 accettò un lavoro
editoriale che lo portò a Milano, poi a Bologna, Firenze e Pisa, dove tornò a comporre versi. Si
tratta di “Il risorgimento” e “A Silvia”, poesie che inaugurano la grande stagione dei canti detti
“pisano-recantesi”, come “La quiete dopo la tempesta”, “Il sabato del villaggio”, “Il passero
solitario”, “Le ricordanze”. Con l’aggravarsi delle condizioni di salute il poeta tornò a Recanati,
da dove poté poi allontanarsi definitivamente nel 1830. Tornato a Firenze, Leopardi pubblicò i
suoi Canti, dedicandoli agli amici fiorentini. Il soggiorno in questa città gli procurò la più grande
delusione amorosa e l’amicizia di Antonio Ranieri, che lo ospitò a Napoli e lo aiutò scrivendo per
lui. Scrisse, infatti, altre poesie, come “ciclo di Aspasia”, tra cui “La ginestra” . Morì nel 1837
dopo aver dettato a Ranieri l’ultima poesia, ovvero “Il tramonto della Luna”.
La poetica di Leopardi si basa su quattro concetti fondamentali:
- La natura: vista inizialmente come una madre benigna che fa sognare e sperare in un futuro
felice, una volta passata la giovinezza crollano le speranze e le illusioni di poter raggiungere la
felicità. A questo punto la natura appare come una matrigna che inganna i suoi figli e poi li
tradisce strappando loro la felicità senza alcuna pietà.
– La ragione: è senza dubbio la luce che illumina il pensiero dell’uomo ma gli consente di
raggiungere una dolorosa scoperta: quella della inutilità della vita.
– La realtà: è solo materia come tutte le creature destinate a nascere, riprodursi, morire, mosse
da un meccanismo ceco e crudele. L’uomo può solo prendere atto della legge malvagia che
regge la natura; non serve ribellarsi, vale piuttosto creare un rapporto di solidarietà con i propri
simili, tutti soggetti allo stesso destino infelice.
– Le illusioni: nascono dall’immaginazione che rende varia, ricca, bella la vita. Ma quando
subentra la ragione, esse allora appaiono vane e causa di false opinioni e di errori. Tutta la
poesia di Leopardi si fonda su questa trama di pensieri da cui deriva il suo profondo pessimismo
e la sua dolorosa visione della vita. La sua poesia trasforma in “canto” il dolore dell’uomo
suscitando una dolcezza infinita attraverso la bellezza delle immagini e la musicalità dei versi.
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare
- Commento
Giacomo Leopardi, nella poesia “ L’Infinito” racconta di trovarsi su un colle di Recanati, dove
una siepe gli impedisce di osservare tutto il panorama, potendo guardare solo una parte,
lasciandogli così l’opportunità di immaginare cosa si trova al di là di essa. Il poeta immagina un
paesaggio sconfinato e immerso nei suoi pensieri, dimentica tutte le preoccupazioni che lo
affliggono e per poco il suo cuore non si perde nell’infinito, spaventato. Ascolta il rumore del
vento che passa tra le piante, e lo paragona al silenzio e a quel paesaggio senza limiti, che gli
fanno venire in mente il senso dell’eternità, nelle sue dimensioni di spazio e tempo , passato e
presente, facendolo uscire dalla realtà, concentrato nel suo io più profondo. Si sente come un
naufrago in quell’immensità, ma nello stesso tempo prova una sensazione piacevole. Questa
poesia mi è piaciuta molto perché dà il senso dell’immaginazione, e fa capire che il limite che la
realtà impone può essere superato dalla fantasia, attraverso la quale si può costruire una realtà
migliore, anche se irreale, che offre grande aiuto per affrontare i problemi della vita.
Giovanni Verga fu il più grande scrittore verista, cioè appartenente ad una corrente letteraria
che deve fotografare oggettivamente la realtà sociale e umana, rappresentandone
rigorosamente le classi, comprese quelle più umili, in ogni aspetto anche sgradevole,della
storia. Nacque nel 1840 a Catania, ebbe una precoce vocazione letteraria e a soli 17 anni finì il
suo primo romanzo “Amore e Patria”. Successivamente pubblicò “I carbonari della montagna”.
Nel 1863 si recò per la prima volta a Firenze, capitale d’Italia. Essendo già abbastanza famoso
grazie al romanzo “Una peccatrice”, frequentò gli ambienti letterari della città. I protagonisti
delle sue prime opere sono giovani borghesi e fascinose
fanciulle. Il vero successo gli arrivò con “Storia di una capinera”,
che tratta di una monacazione forzata. Nel 1872 Verga si
trasferì a Milano, dove maturò la sua adesione al Verismo. Nel
1874 uscì la sua prima opera verista, la novella “Nedda”, che
racconta la faticosa vita di una raccoglitrice d’olive. Nel 1881
uscì il primo romanzo del “ciclo dei vinti”, “I Malavoglia”, che
narra la storia di una povera famiglia di pescatori travolta da
disgrazie e disavventure. Nel 1889 uscì il secondo romanzo del
“ciclo dei vinti”, ovvero “Mastro don Gesualdo”. Nel 1893
Verga tornò in Sicilia e morì a Catania nel 1922.
Un’altra importante opera di Giovanni Verga fu “La vita dei campi”, che raccoglie delle novelle,
tra cui Rosso Malpelo, pubblicato nel 1880.
- Riassunto
Rosso Malpelo è un ragazzo con i capelli rossi: i capelli rossi, secondo le superstizioni del
popolo, erano simbolo di malizia. Per questo motivo, il ragazzo viene maltrattato dai compagni
di lavoro e dalla gente del paese. Malpelo non trova affetto nemmeno dalla madre che non
accetta la sua scelta di vita, ovvero di lavorare in una cava, e che non si fida di lui a tal punto da
sospettare che egli rubi soldi dallo stipendio che porta alla famiglia. Inoltre la sorella lo
"accoglie" sempre picchiandolo. Malpelo lavora in una cava di sabbia rossa con il padre, Mastro
Misciu, al quale è stato dato il soprannome di Bestia. È molto legato a lui, Misciu infatti è l'unico
ad avergli sempre dato affetto, e Malpelo, appena gli altri operai provano a prendere in giro il
povero padre, lo difende. Un giorno Misciu Bestia accetta un lavoro pericoloso nella cava, che
gli altri lavoratori si erano rifiutati di fare: egli è spinto a farlo dal disperato bisogno di soldi. Di
sera, mentre Misciu lavorava, gli cadde addosso un pilastro. Rosso Malpelo, preso dalla
disperazione e dal panico, inizia ad urlare e a chiedere aiuto ma, quando anche gli altri
accorrono, ormai è troppo tardi e Mastro Misciu è già morto. Dopo la morte del padre, Malpelo
diventa ancora più scorbutico agli occhi degli altri e riprende a lavorare nella galleria dov'era
morto il padre. Qualche tempo dopo alla cava viene a lavorare un ragazzino lussatosi il femore,
prima semplice muratore, che è stato costretto ad abbandonare il mestiere a causa di una
caduta. Il ragazzo, soprannominato Ranocchio per il modo di camminare e di atteggiarsi, viene
subito preso di mira da Malpelo che cerca di stimolare il suo spirito di reazione picchiandolo e
insultandolo. Più Ranocchio non si difende, più lui continua: vuole che impari a reagire e ad
affrontare la vita che non è sempre facile e che secondo lui è una continua sfida. In realtà, il
vero motivo del suo atteggiamento è che Malpelo si sente legato a lui e vuole insegnargli come
difendersi. Spesso infatti, per Ranocchio, si priva di parte della sua razione di cibo oppure lo
aiuta nei lavori pesanti. Dopo qualche tempo viene ritrovato il cadavere di Mastro Misciu. Tutto
ciò che a Malpelo rimane del padre sono pochi oggetti che egli custodisce come tesori che
stimolano il suo ricordo. Non molto tempo più tardi Ranocchio, che da un po' di tempo si era
ammalato di tisi, muore all'improvviso. Malpelo, rimasto solo perché la madre si era risposata e
la sorella era andata a vivere in un altro quartiere, scompare nella cava: gli era stato affidato il
compito di esplorare una galleria ancora sconosciuta. Nessuno si sarebbe assunto un compito
così pericoloso ma lui, sapendo che ormai non gli è rimasto più niente, accetta e parte: preso
del pane, del vino, gli attrezzi e i vestiti di suo padre, si addentra in quella galleria e non ne
uscirà mai più. Morto anche lui, ha come vendetta il potere di far paura ai lavoratori della cava
che ancora temono di vederselo spuntare da un momento all'altro con i suoi "occhiacci grigi e i
capelli rossi".
- Commento
La novella “Rosso Malpelo” descrive la vita disagiata e povera della Sicilia nella fine
dell’Ottocento. Principalmente, l’opera è una descrizione di un adolescente condannato dai