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del nazionalismo pangermanico. Gli artisti tedeschi rifiutano in blocco quella
cultura autoritaria e classista che con la guerra aveva fatto sprofondare le classi
meno abbienti nel baratro della miseria. L'impegno bellico mentre arricchiva i ceti
più abbienti, distruggeva le classi medie. L'inflazione nella Germania del
dopoguerra salì a dismisura, e i salari non tennero il passo dei rincari, fino alla
crisi del marco culminata con la disastrosa svalutazione del 1923.
Anche in uno scenario difficile l’artista impegnato riesce a trovare un
canale comunicativo; Grosz riesce a ridicolizzare ciò che in strada fa paura, a
smitizzare chi vuole metterlo a tacere. Il governo nazionalsocialista venderà e
distruggerà le sue opere includendole nella lista degli esempi di “arte
degenerata”, e la persecuzione nazista lo costrinse nel 1933 a rifugiarsi negli Stati
Uniti. Furono migliaia le opere d’arte confiscate, in parte destinate al rogo e in
parte vendute all’asta a musei americani o svizzeri. Alcune invece furono
destinate allo scherno nella mostra “Arte degenerata”, inaugurata da Hitler nel
1937, in cui quadri e sculture erano accompagnate da scritte dispregiative e
addirittura messe a confronto con disegni realizzati da malati mentali internati. Il
fine ultimo era quello di mostrare al pubblico l’arte che non era ammessa dalla
nuova “razza superiore”, definita appunto come “degenerata”. A dispetto delle
previsioni la rassegna ebbe molto successo, tanto da prolungarne l’apertura, ed il
pubblico fu costretto a lunghe attese prima di vederla, attratto soprattutto dallo
scandalismo per il quale essa era stata vietata ai più giovani. Il risultato fu infine
l'enorme pubblicità all'estetica "degenerata", destinata a diffondersi ovunque nel
giro di pochi anni (con la fine del regime nazista). I nazionalsocialisti cercarono di
riformare l’intera cultura assoggettandola alla loro ideologia: un regime totalitario
con una cultura omologata ad esso. La molteplicità culturale tedesca era così
distrutta. Il nuovo uomo-modello, il nuovo ideale razzista divenne il soggetto
unico dell’arte nazionalsocialista: culto del corpo, unità razziale e forza militare ne
erano la base. La nuova cultura riuniva i cittadini nella cerchia della Corte
Imperiale Culturale, e l’astensione da tale organo significava il divieto a numerosi
letterati, ebrei, democratici e artisti di svolgere la propria attività. La convinzione
di Hitler sulle sue competenze in campo culturale, lo portò ad intervenire
smodatamente nelle attività artistiche, imponendo l’annientamento di ogni
influsso stilistico moderno internazionale, che anzi doveva essere schiacciato
dalla rappresentazione del patetico eroismo del corpo.
Utilizzando i moderni processi di comunicazione visiva, Grosz sintetizza
nelle sue figure le contraddizioni di una socialità esteriore e di una
asocialità di fondo; svela la realtà di una pericolosa follia dietro
l’autoritarismo politico, e dietro la nevrotica corsa alla ricchezza e al
potere. Le colonne della società
Nel dipinto (1926), titolo ovviamente sarcastico,
l’anarchico Grosz prende di mira i suoi nemici, individuati emblematicamente dai
simboli delle loro attività: ci sono soldati con spade insanguinate, un giudice
togato che gesticola, in primo piano i vertici del capitalismo che sottomettono il
popolo con tre strumenti, altrettante allegorie del potere: una spada (l'esercito),
un giornale (l'informazione), una bandiera (il nazionalismo). Sulle loro teste un
orinale, oggetto dissacrante per eccellenza, rifiuti organici e un guerriero a cavallo
indicano le brutture che nutrono le loro menti.
Secondo Grosz queste figure sarebbero, purtroppo, le colonne portanti della
società tedesca: un militare nazista che sulla testa ha rappresentati i suoi sogni
guerrafondai, un giornalista corrotto che sulla testa ha, invece, un vaso da notte.
Procedendo troviamo un opulento uomo politico con il capo pieno di sterco e
infine un giudice corrotto ed obeso che protende le mani verso un incendio. Sullo
sfondo dei soldati che sfoggiano armi insanguinate. La denuncia di Grosz prima
dell’avvento del nazismo era volta alla classe dirigente tedesca, certamente di
dubbia moralità. Lo stile è volutamente non bello, e la costruzione segue una linea
a zig – zag che sale su per la tela, stretta e claustrofobica. Per lo stereotipo
secondo cui ciò che è immorale è anche brutto, Grosz ha volutamente
rappresentato i personaggi in modo grottesco, accentuandone la bruttezza e
riprendendo lo stile dai disegni presenti nei bagni pubblici
Mentre Quasimodo cercava delle risposte concrete alle domande che poneva
nelle sue poesie e Grosz a denunicare le colonne della società tedesca, nel 1936,
Jesse Owens, un atleta nero statunitense, “fornì” alla stampa un pretesto per
creare un caso di discriminazione razziale di cui il leggendario atleta divenne
vittima. Owens, infatti, partecipò alle Olimpiadi di Berlino, e il 3 agosto 1936,
conquistò la medaglia d'oro nei 100 metri, il 4 agosto nel salto in lungo, il 5 nei
200 metri e il 9 nella staffetta 4×100, stabilendo un record storico eguagliato solo
a Las Vegas nel 1984 da Carl Lewis.
Dopo un mese dalla vittoria, in un'intervista disse:
«Vero, Hitler non mi ha stretto la mano ma fino a qui non lo ha fatto neanche il
presidente degli Stati Uniti»
Nel pomeriggio di quel 4 agosto, infatti, allo stadio olimpico era presente anche
Adolf Hitler. Di fronte alla vittoria di Owens contro il tedesco Luz Long (il migliore
atleta tedesco, nonché amico di Owens), si dice che il Führer indispettito si sia
alzato e uscito dallo stadio per non stringere la mano al nero americano. In realtà
le cose andarono diversamente. Come scrisse nella sua autobiografia, "The Jesse
Owens Story", Owens stesso raccontò come Hitler si alzò in piedi e gli fece un
cenno con la mano:
«Dopo essere sceso dal podio del vincitore, passai davanti alla tribuna d'onore per
rientrare negli spogliatoi. Il Cancelliere tedesco mi fissò, si alzò e mi salutò
agitando la mano. Io feci altrettanto, rispondendo al saluto. Penso che giornalisti e
scrittori mostrarono cattivo gusto inventando poi un'ostilità che non ci fu affatto.»
Per ironia della sorte, fu il presidente statunitense dell'epoca, Franklin D.
Roosevelt, in quel periodo impegnato nelle elezioni presidenziali del 1936 e
preoccupato della reazione degli Stati del sud, a cancellare un appuntamento con
il pluriolimpionico alla Casa Bianca. Owens fece notare in seguito che fu il
democratico Roosevelt come in seguito Truman, e non Hitler, a snobbarlo. Owens
quindi si iscrisse al Partito Repubblicano facendo campagna per il suo candidato
alla presidenza per il 1936 Alf Landon. Nel 1955 il Presidente Dwight D.
Eisenhower, repubblicano ed ex atleta lo nominò "Ambasciatore dello Sport".
Questa ideologia razziale portò all'olocausto, l'aspetto più tragicamente
macroscopico del pensiero razzista portato alle sue estreme conseguenze.
L'intolleranza verso "il diverso da se", che è l'elemento fondante di ogni razzismo,
venne applicato in primo luogo verso gli ebrei durante la seconda guerra
mondiale, per mano di Hitler. Il numero delle vittime ebree e la scientificità con la
quale i tedeschi perseguirono lo sterminio totale ha meritato l'uso del termine
"Olocausto", oggi con più esattezza denominato "Shoah", che in ebraico significa
“catastrofe”.
Ma l'intolleranza razzista si esercitò anche verso i più deboli: i malati di mente, gli
incurabili, i disabili. Per queste persone venne varato il "PROGETTO T4”, meglio
noto come "Progetto Eutanasia" che condusse alla morte circa 70.000 cittadini
tedeschi.
L'idea basata sull'esistenza di "vite indegne di essere vissute" era condivisa verso
gli omosessuali contro i quali il secolare pregiudizio era ben radicato nella società
tedesca.
Inizialmente, vale a dire sino allo scoppio della guerra, apparentemente l'obiettivo
judenfrei,
principale del nazismo e di Hitler consistette nel rendere il Reich cioè
"libero dagli ebrei". Il sistema prescelto per "ripulire" la Germania dagli ebrei fu, in
questa prima fase, costringerli ad emigrare, rendendo loro intollerabili le
condizioni di vita attraverso una legislazione sempre più oppressiva. Il bilancio di
questa fase che va sostanzialmente dal 1933 al 1939, non fu tuttavia coronato da
successo, dato che ad ogni espansione della Germania, il numero degli ebrei
aumentava.
Nacque allora l'idea di ampliare il concetto stesso di deportazione trasferendo
forzatamente in un luogo distante gli ebrei tedeschi, il Madagascar.
La resistenza della Gran Bretagna tuttavia impediva la realizzazione del progetto.
In più nel 1940 la situazione era drammaticamente mutata: non si trattava più di
far emigrare 520.000 ebrei tedeschi, occorreva sbarazzarsi anche degli ebrei
polacchi che assommavano a 2.000.000 di persone.
Dal diario personale di Gerhard Engel (un ufficiale che prestava servizio presso il
quartier generale del Führer) sappiamo che nel 1941 Hitler aveva ancora in mente
l'idea dell'emigrazione forzata anche se questa andava presentando sempre
maggiori difficoltà a causa della guerra, e ora l'obiettivo era diventato più
ambizioso: l'influenza ebraica doveva essere eliminata da tutti i territori sotto il
controllo dell'Asse.
Hitler a questo punto sostenne che occorreva riprendere in mano la questione del
Madagascar sotto il controllo francese. Martin Bormann chiese come si sarebbe
potuto trasportare così tanti ebrei in un luogo così distante vista la presenza della
flotta inglese. Hitler ribatté che occorreva studiare la questione e si dichiarò
disposto a usare l'intera flotta se necessario ma non voleva esporre i marinai
"pensava a ogni cosa, da un punto di vista
tedeschi ai siluri inglesi. Ora però
diverso, e non certo con maggiore simpatia" [verso gli ebrei]. Hitler pensava cioé
ad altre possibili soluzioni.
In piena guerra il problema si aggravò ulteriormente. L'invasione del Belgio,
dell'Olanda, della Francia, della Danimarca e Norvegia fece aumentare
ulteriormente il numero degli ebrei caduti nelle mani del nazismo. L'obiettivo
judenfrei
prioritario, rendere la Germania, si allargò a dismisura: si trattava ora di
judenfrei
rendere l'intera Europa.
La soluzione non poteva più essere quella di far emigrare gli ebrei all'estero. Si
fece così strada un'altra soluzione: deportare gli ebrei europei all'Est
concentrandoli nei territori polacchi occupati. In questa operazione di
concentramento dovevano essere coinvolti ovviamente anche gli ebrei polacchi.
Creare in Polonia dei grandi ghetti apparve la soluzione più appropriata. Tuttavia
sin dall'inizio ci si scontrava con un altro pilastro dell'ideologia nazista: lo "spazio
vitale" che la Germania doveva guadagnarsi ad Est. I territori conquistati
dovevano infatti essere destinati ai tedeschi che avrebbero dovuto insediarvisi. Il
concentramento nei ghetti della Polonia non poteva dunque rappresentare la
"soluzione finale" del problema ebraico ma una "soluzione transitoria" in attesa
della fine della guerra dopo la quale si sarebbe dovuta trovare una soluzione
alternativa.
Mentre si affermava la soluzione della "ghettizzazione" la Germania stava
preparando i piani di invasione dell'Unione Sovietica. In prospettiva, l'invasione
dei grandi territori dell'Ucraina, della Bielorussia e della Russia europea aggravava
il "problema ebraico". Infatti il numero degli ebrei che vivevano in Unione
Sovietica ammontava a svariati milioni.
La soluzione adottata in Polonia non sembrava praticabile. Si fece strada
un'ipotesi alternativa: eliminare fisicamente gli ebrei dell'Unione Sovietica con
nuclei di sterminio mobili appositamente creati. Nel marzo 1941 Hitler affermò
che "l'intellighenzia giudeo-bolscevica in Unione sovietica doveva essere
eliminata" ma questo era un compito difficile che non poteva essere affidato
all'esercito.
Hitler aveva incaricato Himmler di certi compiti speciali nelle zone operative
dell'esercito. Himmler avrebbe agito di autorità propria e sotto la sua personale