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Storia: La nascita del movimento sindacale italiano
Diritto: Il diritto e il dovere al lavoro in Italia
Scienze delle finanze: Il sistema di protezione sociale
Economia aziendale: Irap
Matematica: Ricerca operativa e problemi di scelta
Inglese: The work schedule
Partito Socialista è lacerato da contrasti interni, che culminano con la
scissione, al congresso di Livorno, dell’estrema sinistra e la
fondazione del combattivo, ma ancora piccolo, Partito Comunista
d'Italia. Siamo nel 1921. La vecchia classe politica di orientamento
monarchico e liberale apre di fatto le porte ai fascisti, nell’illusione di
poterli controllare. La CGdL e il sindacato cattolico CIL sono indeboliti
dall’aumento progressivo della violenza fascista e dalla crisi
economica, che gli industriali utilizzano per riprendersi le concessioni
strappate con le lotte del biennio rosso e a nulla vale un tardivo
tentativo di alleanza. Dopo la Marcia su Roma , nell’ottobre del 1922
la monarchia favorisce l’avvento al potere del partito fascista, ancora
largamente minoritario nel paese, chiamando Mussolini a formare il
governo. Nel suo discorso per ottenere la fiducia, Mussolini proclama
di fronte a tutti il suo disprezzo per la Costituzione e il Parlamento,
che infatti verranno rapidamente smantellati negli anni successivi. E
nel 1924 la reazione al “delitto di Giacomo Matteotti”, un deputato
socialista assassinato da sicari fascisti su mandato di Mussolini, è il
pretesto per varare leggi “eccezionali” dirette a realizzare la dittatura
fascista. Con il Patto di Palazzo Chigi (1925) e con il Patto di Palazzo
Vidoni (1926) il regime fascista e la Confindustria stabiliscono il
riconoscimento giuridico del solo sindacato fascista.
Contemporaneamente, viene praticamente eliminata la libertà di
espressione, di associazione e di sciopero. Il 1º novembre 1926 la
sede centrale della CGdL a Milano viene devastata dai fascisti. Poco
dopo, all’inizio del 1927, il Comitato Direttivo della CGdL decide
l’autoscioglimento. Molti dirigenti sindacali della CGdL, in polemica
con la decisione di autoscioglimento, decidono di tenerne vivo il
nome: così Bruno Buozzi esule in Francia, così dirigenti sindacali
comunisti clandestinamente in Italia. Ma per molti anni, sotto la cappa
del regime fascista, non esisterà più la possibilità materiale di
organizzarsi liberamente in sindacato dei lavoratori.
LA NASCITA DELLE ORGANIZZAZIONI SINDACALI DEI
LAVORATORI
Nel 1948, con il ritorno alla democrazia, la Costituzione riconobbe
definitivamente la libertà di organizzazione sindacale (art. 39) e il
diritto allo sciopero (art. 40).
In seguito con il passare degli anni, le varie organizzazioni sindacali
affrontarono diverse scissioni finché si sono formate quelle che
attualmente esistono:
CGIL: Confederazione generale italiana del lavoro, di
6
ispirazione comunista e socialista;
CISL: Confederazione italiana dei sindacati dei
lavoratori, di tendenza cattolica;
UIL: Unione italiana dei lavoro, di orientamento laico-
socialista;
Le lotte sindacali iniziavano a catturare l'attenzione generale. Le
rappresentanze sindacali erano fortemente politicizzate, poiché
ciascuna di esse aveva un suo partito di pressoché diretto riferimento:
a livello nazionale si distinsero, in particolare, la CGIL, la CISL e UIL
(tecnicamente ormai divenute delle confederazioni), le quali sempre
più spesso iniziarono ad operare in sintonia tra loro, sino ad essere
collettivamente definite come "triplice alleanza" o, tout-court, "la
Triplice".
Furono le tre confederazioni a gestire con crescente presenza il
progressivo deterioramento dei rapporti fra lavoratori e datori di
lavoro, derivante da una condotta più dura delle imprese e dalle
rivendicazioni forti dei lavoratori, che avrebbe poi condotto, negli
anni settanta, all'apice della lotta e, in alcuni casi, della violenza.
LO STATUTO DEI LAVORATORI
Di fronte ai movimenti di lotta degli anni Sessanta, i sindacati avvertirono di nuovo
l'esigenza di dar vita a rivendicazioni unitarie che, nel 1970 portarono alla
promulgazione dello Statuto dei lavoratori, il documento fondamentale a tutela delle
libertà sindacali e dei diritti dei lavoratori.
1971, Federazione unitaria CGIL, CISL, UIL.
Nel nacque la
L'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori
L’Art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è diventato lo scoglio governativo contro il quale
si stanno scontrando in questi ultimi mesi le imbarcazioni della politica e delle parti
sociali. Ma come accade negli scontri è necessario, e spesso conveniente, focalizzare
l’attenzione su un unico punto della discussione. 7
L'articolo 18 (Legge 20 maggio 1970, n. 300) afferma che il licenziamento è valido solo
se avviene per giusta causa o giustificato motivo. Il giudice può revocare il
licenziamento se appura che è stato fatto non per giusta causa o per giustificato motivo.
Si noti che oggigiorno non si distingue fra giusta causa (che comprende ad esempio
motivazioni discriminatorie, politiche e sindacali), giustificato motivo oggettivo (che
può essere una difficoltà finanziaria dell’azienda) e giustificato motivo soggettivo (tutte
le “colpe” del lavoratore, come la scarsa competenza, l’assenteismo, e via dicendo).
La reintegrazione deve avvenire riammettendo il dipendente nel medesimo posto che
occupava prima del licenziamento, salva la possibilità di procedere al trasferimento in
un secondo momento, se ricorrono apprezzabili esigenze tecnico-organizzative o in caso
di soppressione dell’unità produttiva cui era addetto il lavoratore licenziato. In
alternativa, il dipendente può accettare un'indennità pari a 15 mensilità dell'ultimo
stipendio, o un'indennità crescente con l'anzianità di servizio. Il lavoratore può
presentare ricorso d'urgenza e ottenere la sospensione del provvedimento del datore fino
alla conclusione del procedimento. Lo Statuto dei Lavoratori si applica solo alle aziende
con almeno 15 dipendenti. Nelle aziende che hanno fino a 15 dipendenti, se il giudice
dichiara illegittimo il licenziamento, il datore può scegliere tra la riassunzione del
dipendente o il versamento di un risarcimento. Può quindi rifiutare l'ordine di
riassunzione conseguente alla nullità del licenziamento. La differenza fra riassunzione e
reintegrazione è che il dipendente perde l'anzianità di servizio e i diritti acquisiti col
precedente contratto (tutela obbligatoria).
E’ interessante analizzare come il prevedere la reintegrazione come unico rimedio che il
giudice può disporre a seguito di un licenziamento annullato sia un’ anomalia tutta
italiana rispetto agli altri paesi dell’ Unione europea. Negli altri paesi la reintegrazione
non viene applicata neppure nei casi di licenziamento discriminatorio. In Inghilterra, ad
esempio, nel caso di licenziamento per motivi discriminatori il lavoratore ha soltanto la
possibilità di richiedere un risarcimento del danno superiore rispetto al massimo che può
ottenere in caso di licenziamento non giustificato. La reintegrazione, seppur prevista
dall’ordinamento è un rimedio raramente applicato dal giudice e ad ogni modo il datore
di lavoro può sempre rifiutare la reintegrazione nel qual caso l’ indennità risarcitoria è
aumentata.
L'articolo 18 è stato molte volte oggetto di polemica, tra due fronti contrapposti, con
diversi tentativi di riforma, mai andati a buon fine.
Per semplificare, si confrontano:
da un lato, coloro che lo considerano l'articolo 18 un baluardo intoccabile,
nell'ambito del lavoro subordinato, ritenendo che abrogarlo significherebbe
indebolire anche le altre forme di tutela dei diritti dei lavoratori;
dall'altro, chi invece ritiene che si debba rendere più flessibile il rapporto di
lavoro stabile, superando il dualismo che caratterizza un diritto del lavoro,
troppo generoso con i dipendenti e troppo avaro con i lavoratori precari.
8
ART.18: ARRIVA LA RIFORMA
dopo il confronto tra governo e parti sociali durato
La bozza del governo,
circa tre mesi, riceve il 31/05/2012 il suo primo via libera
parlamentare: dopo l’ok del Senato ora la palla passa alla Camera.
Addio reintegro automatico in caso di licenziamento per motivi economici. Prevista in
alcuni casi un'indennità risarcitoria. Resta sempre nullo invece il licenziamento
discriminatorio intimato, per esempio, per ragioni di credo politico, fede religiosa o
attività sindacale. Nei casi dei licenziamenti disciplinari (giusta causa o giustificato
motivo soggettivo) ci sarà minor discrezionalità del giudice nella scelta del reintegro,
che sarà deciso solo sulla base dei casi previsti dai contratti collettivi e non più anche
dalla legge.
Costituzione
La ha contribuito in maniera essenziale alla strutturazione delle basi
del nostro Diritto del lavoro, introducendo principi che, successivamente, lo Statuto dei
lavoratori avrebbe fatto propri. Principi come quelli dell'art. 1 e dell'art. 4 che, oltre a
decretare il lavoro come base stabile del nostro ordinamento repubblicano, ne 9
sanciscono anche il diritto in capo ad ogni cittadino.
IL DIRITTO E IL DOVERE AL LAVORO NELLA
COSTITUZIONE ITALIANA
La Costituzione della Repubblica Italiana entra in vigore il 1
gennaio 1948. Tale Costituzione è
scritta (è contenuta in un documento
scritto), votata (è stata redatta da
un’Assemblea costituente eletta dal
popolo), rigida (non può essere
modificata da leggi ordinarie, ma solo da
leggi costituzionali) e lunga (prevede
anche i diritti sociali ed economici, oltre
a quelli civili e politici).
La Costituzione si apre con un gruppo di
articoli in cui
sono enunciati i
principi
fondamentali
dell’ordinamento giuridico della Repubblica
italiana. Essi rappresentano la base, il
fondamento su cui poggiano tutte le altre
norme costituzionali. Attraverso questi
principi l’Assemblea costituente ha
descritto i valori sui quali si doveva fondare
lo Stato, creando una società basata sulla
democrazia, sulla partecipazione dei
cittadini alla vita politica del Paese, sul
riconoscimento e sul rispetto dei diritti e
delle libertà fondamentali, sul principio di
uguaglianza e sul diritto al lavoro come
mezzo per affermare la propria personalità.
IL DIRITTO AL LAVORO
Il lavoro è il fondamento della nostra Repubblica (art. 1): è
considerato un valore che consente l'affermazione della personalità
umana. E’ riconosciuto sia come un diritto, ma anche come un dovere
di tutti i cittadini nei confronti dello Stato. E’ un diritto in quanto
10
strumento di realizzazione e di benessere dell’individuo; dovere in
quanto strumento di progresso materiale della società.
Nel suo primo articolo la Costituzione italiana sancisce solennemente
una discontinuità rispetto al passato. Si fonda qui lo Stato
costituzionale, cioè quella democrazia nella quale la sovranità del
popolo (intesa come volontà della maggioranza secondo i principi
affermatisi durante la Rivoluzione Francese) si esprime “nelle forme e
nei limiti della Costituzione”.
Il riferimento al lavoro, che nella storia dell’articolo rappresentò un
compromesso tra le diverse forze politiche, fonda il concetto di uno
Stato che affida al cittadino la responsabilità del proprio futuro e
valuta la dignità di ogni individuo in base a ciò che riesce a realizzare,
indipendentemente dalle condizioni di partenza. Oggi il lavoro sembra
aver perso le sue caratteristiche più profonde: si parla di consumatore
e non di lavoratore, e la condizione di precarietà del lavoro impedisce
la costruzione del proprio futuro. Il lavoro, come si sa, è uno dei
fondamenti di una società. Le possibili declinazioni del concetto di
lavoro costituiscono infatti la base stessa delle diverse civiltà. L’idea
di “democrazia fondata sul lavoro” ci dovrebbe rimandare ad una
società che immagina il lavoro come uno strumento di liberazione
individuale e di emancipazione personale all’interno di un condiviso
interesse generale. La democrazia si rafforzerebbe proprio grazie a
questa concezione di lavoro: l’impegno ed il merito individuale
premiati in una cornice di interesse generale. Alle giovani generazioni
queste parole però rischiano di sembrare una fiaba letta in un vecchio
libro. L’immaginario collettivo connesso alla figura del lavoratore è
mutato quasi antropologicamente negli ultimi decenni. Chi entra nel
mondo del lavoro oggi sembra stia scendendo in un’arena dove il