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Sintesi
Latino: ricerca di Potere, Làthe biòsas;

Italiano: Giacomo Leopardi (A silvia), percorso Leopardiano sulla morte (L’ultimo canto di Saffo, il Bruto Minore);

Filofosia: Arthur Schopenhauer e Soren Kirkegaard (il suicidio);

Arte: Vincent Van Gogh (Campo di grano con corvi), Pablo Picasso (La vita);

Inglese: Oscar Wilde (The picture of Dorian Gray);

Storia: Olocausto.
Estratto del documento

Scaletta

Fratello 1 + Fratello 2 + Fratello 3 Arrivano ad un ruscello,

impossibile da attraversare,

con la magia, però, riescono

a creare un ponte. Appare la

Morte che decide di premiarli

con un dono.

I Doni

Fratello 1: Bacchetta di Sambuco (bacchetta capace di rendere il mago che la possiede

invincibile).

Fratello 2. Sasso (risuscita i morti, se girato tre volte nella mano).

Fratello 3: Mantello dell’invisibilità.

 Bacchetta + sasso + mantello = doni della morte: chi possiede tutti e tre i doni

diventa Padrone della Morte. 

► Confronto tra Fratello 1 e Fratello 3 Ricerca di Potere VS Làthe biòsas (Lucrezio). Il Fratello

1 si affanna nella continua ricerca di gloria e potere mentre il Fratello 3 conduce una vita semplice,

senza pretese.

► Fratello 2 Leopardi: di fronte alla consapevolezza dell’infelicità della vita cadono le

illusioni e la speranza.

 Il Fratello 2 chiede alla Morte la possibilità di risvegliare dal regno dei morti la fanciulla

che era destinata a diventare sua moglie, morta prematuramente. Con la richiesta della

pietra si illude di poter così realizzare il suo sogno: infatti ripone in essa tutte le sue

speranze che si dissolvono nel momento in cui si rende conto che la fanciulla che ha fatto

risorgere non è la sua diletta ma una copia triste e fredda che non appartiene ai suoi ricordi.

Decide così di togliersi la vita per potersi finalmente ricongiungere con lei. 

Percorso Leopardiano sulla morte. L’ultimo canto di Saffo e il Bruto Minore Dialogo di Tristano e

di un Amico A se stesso. 

Suicidio Schopenhauer negazione

Kierkegaard possibilità

Van Gogh Il campo di grano con corvi (1890)

 

► Morale non si può fuggire la morte The picture of Dorian Gray – Oscar Wilde

2

Voldemort 1.Vuole essere il padrone della morte. 3

2.Fugge la morte (divisione anima in 7 horcrux )

4

3.Voldemort sottomette i babbani = Hitler sterminio Ebrei.

Primo fratello vs Terzo fratello

Di fronte ai doni della morte il primo e il terzo fratello fanno una scelta differente: il primo “chiese

una bacchetta più potente di qualunque altra al mondo: una bacchetta che facesse vincere al suo

possessore ogni duello, una bacchetta degna di un mago che aveva battuto la Morte” mentre il

terzo “chiese qualcosa che gli permettesse di andarsene senza essere seguito da lei. E la Morte,

con estrema riluttanza, gli consegnò il proprio Mantello dell’Invisibilità”.

Bene qui latuit bene vixit ( ha vissuto bene chi ha saputo stare ben nascosto) [Ovidio]

Da un punto di vista Lucreziano il primo fratello è emblema dell’umanità che si affanna nella

continua ricerca di gloria e di potere, mentre il terzo è colui che ha saputo mettere in atto il

principio dell’atarassia, ovvero l’assenza di turbamento, l’imperturbabilità dell’anima. Questo stato

d'animo, appartiene all'uomo saggio, cioè al filosofo che riesce ad elevarsi ed affrontare le

situazioni con distacco dalle cose terrene, guardandole dall'alto senza coinvolgimento. Dall’alto

della sua consapevolezza gode di una sensazione di piacere, che non deriva dall’assistere alle

sofferenze altrui, ma dalla coscienza della distanza dalla quale si osservano gli errori nei quali

incorre la maggior parte degli uomini. Tutto ciò porta il saggio ad apprezzare il fatto che le

sofferenze gli sono lontane e che appartengono agli altri. Secondo Lucrezio la vita dovrebbe

essere determinata dall’autarkeia, ossia l’indipendenza interiore da ogni condizionamento esterno,

che si collega all’idea epicurea che la felicità si consegue soddisfacendo i bisogni naturali e

necessari (tetrafarmaco). Anche il concetto dell’aponia (assenza di dolore fisico) è affrontato da

Lucrezio, attraverso il quale ammonisce l’uomo, esortandolo ad evitare le vane ambizioni che lo

condurrebbero ad un “tedium vitae”. Bisogna quindi “lathe biosas” ovvero vivere nascostamente,

fuori dalle ambizioni e dalle pratiche terrene, che porterebbero solamente all'inappagamento. Il

riferimento della figura del saggio si trova in apertura del secondo libro. Il testo si apre con una

metafora della navigazione in cui il mare è simbolo della vita e il naufrago è colui che si lascia

sommergere di falsi valori: saggio è invece chi osserva dalla riva, senza compiacimento, il travaglio

altrui, avendo raggiunto uno stato di beatitudine grazie al distacco dai beni superflui.

Il secondo Fratello

Il secondo Fratello chiede alla Morte la possibilità di risvegliare dal regno dei morti la fanciulla che

era destinata a diventare sua moglie, morta prematuramente. Con la richiesta della pietra si illude

di poter realizzare così il suo sogno. Infatti ripone in essa tutte le sue speranza che si dissolvono

nel momento in cui si rende conto che la fanciulla che ha fatto risorgere non è la sua diletta ma

una copia triste e fredda che non appartiene ai suoi ricordi. Decide così di togliersi la vita per

potersi finalmente ricongiungere con lei.

A Silvia

Silvia, rimembri ancora

quel tempo della tua vita mortale,

quando beltà splendea

negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,

e tu, lieta e pensosa, il limitare

di gioventù salivi?

Sonavan le quiete

stanze, e le vie d'intorno,

al tuo perpetuo canto,

allor che all'opre femminili intenta

sedevi, assai contenta

di quel vago avvenir che in mente avevi.

Era il maggio odoroso: e tu solevi

così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri

talor lasciando e le sudate carte,

ove il tempo mio primo

e di me si spendea la miglior parte,

d’in su i veroni del paterno ostello

porgea gli orecchi al suon della tua voce,

ed alla man veloce

che percorrea la faticosa tela.

Mirava il ciel sereno,

le vie dorate e gli orti,

e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.

Lingua mortal non dice

quel ch’io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,

che speranze, che cori, o Silvia mia!

Quale allor ci apparia

la vita umana e il fato!

Quando sovviemmi di cotanta speme,

un affetto mi preme

acerbo e sconsolato,

e tornami a doler di mia sventura.

O natura, o natura,

perché non rendi poi

quel che prometti allor? perché di tanto

inganni i figli tuoi?

Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,

da chiuso morbo combattuta e vinta,

perivi, o tenerella. E non vedevi

il fior degli anni tuoi;

non ti molceva il core

la dolce lode or delle negre chiome,

or degli sguardi innamorati e schivi;

né teco le compagne ai dì festivi

ragionavan d’amore.

Anche perìa fra poco

la speranza mia dolce: agli anni miei

anche negaro i fati

la giovinezza. Ahi come,

come passata sei,

cara compagna dell’età mia nova,

mia lacrimata speme!

Questo è il mondo? questi

i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,

onde cotanto ragionammo insieme?

questa la sorte delle umane genti?

All’apparir del vero

tu, misera, cadesti: e con la mano

la fredda morte ed una tomba ignuda

mostravi di lontano.

La canzone A Silvia fu composta da Leopardi nell’aprile del 1828, ed è il canto che inaugura una

nuova stagione della poesia leopardiana, quella dei grandi idilli (1828-1830). Nella poesia Silvia è

simbolo della speranza giovanile irrealizzata e della giovinezza prematuramente interrotta dalla

morte. Il canto si apre con Leopardi che rievoca l’immagine della fanciulla e tutto appare come se

fosse posta di fronte a lui, intento a conversarci. Silvia viene ricordata dal poeta sotto due aspetti:

lieta per le speranze di vita (“quel vago avvenir che in mente avevi”, ovvero quel futuro

indeterminato e al tempo stesso bello e desiderato) e pensosa per un presentimento di morte.

Nella giovinezza la vita e il destino sembrano felici, ecco perché quando ripensa a tanta speranza

un sentimento di sconforto l’opprime e torna a ricordare il suo dolore.. Nella parte centrale del

canto invoca la Natura, definendola matrigna, che accusa di non restituire quello che promette,

illudendo così i suoi figli. Come è successo a Silvia, morta in tenera età, prima di veder compiute le

proprie speranze. Ed è questo il mondo: illudersi, per poi vedere cadere ogni speranza. E di fronte

all’apparir del vero, dopo che la speranza è stata sconfitta, non rimane che la morte, nella quale la

tomba diventa l’unico fine della vita.

Ma quale è il pensiero di Leopardi riguardo la morte?

L’ultimo canto di Saffo e il Bruto minore, scritti rispettivamente nel 1822 e

nel 1821, appartengono alla raccolta delle Canzoni, pubblicate nel 1824,

sono conosciute anche come i canti del suicidio. Il personaggio di Bruto è

più duro, virile, mentre Saffo è più tenera, più malinconica, umana. Nel

Bruto minore il personaggio è deluso non solo per la battaglia perduta, ma

soprattutto perché vede che i suoi ideali di virtù civile e di libertà

repubblicana non sono più compresi nel suo tempo, e decide di darsi la

morte senza alcuna illusione di poter essere in futuro ricordato. Saffo,

l’antica poetessa greca, che secondo la versione di Ovidio, si sarebbe

uccisa gettandosi dalla rupe di Leucade perché era stata rifiutata dal

giovane Faone. Nel canto Saffo riflette su sé stessa e diventa consapevole

di non poter godere delle meraviglie della natura, perché questa le ha

negato tutto. Infatti alla poetessa non è toccata neanche una minima parte

di tutta l’immensa bellezza della natura Allora Saffo si domanda il motivo di tanta infelicità, ma non

trova risposta. La sola certezza umana è il dolore. Giove decretò che soltanto la bellezza esteriore,

fisica, esercitasse un eterno fascino sugli esseri umani. Ma chi ha un corpo deforme non è

apprezzato da nessuno, sia che esso sia un grande eroe, sia una persona di grande cultura.

Nell’ultima strofa, la poetessa è fermamente decisa a morire. Nelle due canzoni il suicidio è visto

come l’amaro finale di tante illusorie speranze e come gesto dell’eroe singolo che si ribella alla

forza crudele che l’opprime e afferma la propria libertà contrapponendosi alle forze malvagie che si

compiacciono di perseguitarlo. Il pensiero Leopardiano sulla morte si sviluppa andando oltre la

concezione del suicidio come affermazione di sé. Infatti la riflessione è presente anche nelle

Operette morali, prose di argomento filosofico, composte per la maggior parte nel 1824, a cui si

aggiungono nel 1832 Dialogo di Tristano e di un amico e il Dialogo di un venditore d’almanacchi.

Nell’ultima parte del dialogo di Tristano e di un amico, Leopardi, nella veste di Tristano, affronta il

tema della morte. Pur confessando all’amico la sua infelicità, il personaggio non si rassegna e non

piega il capo al destino né viene con esso a patti. Come Saffo e il Bruto minore, il personaggio di

Tristano assume gli atteggiamenti eroici che caratterizzano l’ultimo Leopardi. La morte è

rappresentata nuovamente come una liberazione dai mali e dagli affanni perchè morire vuol dire

non soffrire più, non sottomettersi più all’infelicità. Ed è così che Tristano desidera la morte sopra

ogni cosa e constata che “non sia desiderata al mondo se non da pochissimi”. Non bisogna però

confondere la morte con il suicidio. Tristano, infatti, sente la morte vicina (“tanta confidenza ho che

la via che mi resta a compiere non sia lunga”), ma se essa non “verrà”, non sarà certo lui a togliersi

la vita. Con A se stesso Leopardi rifiuta completamente l’idea del suicidio attraverso una forte

accettazione della propria condizione. Il testo fu scritto fra il 1833 e il 1835 a Firenze, dopo che

Leopardi scoprì che la donna che amava, Fanny Targioni Tozzetti, non provava per lui alcun

sentimento. La delusione amorosa diventa così occasione per scrivere il canto nel quale Leopardi

mostra un atteggiamento maturato negli ultimi anni della sua vita. Nella lirica, infatti, assume nei

confronti della vita, del dolore e del destino un atteggiamento più combattivo e di superiorità

sprezzante, un atteggiamento eroico. La delusione amorosa l’ha posto di fronte alla fine di tutte le

sue illusioni, ma invece di abbandonarsi a un desolato lamento reagisce con forza, ammonendo se

stesso a non alimentare più in sé alcune illusioni. Alla presa di coscienza della propria condizione

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