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Filosofia: F. Nietzsche (Si alla vita);
Latino: Seneca (De Vita Beata);
Matematica: i limiti;
Geografia: il Sole;
Fisica: la cella di Faraday;
Ed. fisica: I cibi del Sorriso, la Felicità sulla tua tavola;
Inglese: V. Woolf (Mrs Dalloway).
PROEMIO “COSÌ PARLO’
ZARATHUSTRA”
(NIETZSCHE, 1883-1885)
"Al compimento del trentesimo anno, Zarathustra lasciò la sua patria e il lago della sua
patria e andò sui monti. Qui godette del suo spirito e della sua solitudine e per dieci
anni non se ne stancò. Ma alla fine il suo cuore si trasformò - e una mattina, alzatosi
con l'aurora, si fece al cospetto del sole e così gli parlò:
«O grande astro, che cosa sarebbe la tua felicità se tu non avessi coloro a cui
risplendi?
Per dieci anni sei venuto quassù alla mia caverna: della tua luce e di questo cammino
ti saresti saziato senza di me, della mia aquila e del mio serpente. Ma noi ti abbiamo
aspettato ogni mattina, ti abbiamo preso il tuo superfluo e ti abbiamo per ciò
benedetto.
Vedi: io sono tediato della mia saggezza, come l'ape che ha accumulato troppo miele,
ho bisogno di mani che si protendano.
Vorrei donare distribuire, finché i savi tra gli uomini tornassero a rallegrarsi della loro
follia e i poveri della loro ricchezza.
Per questo devo scendere in basso: come fai tu la sera, quando vai dietro il mare e
porti ancora luce al mondo infero, tu astro straricco!
Devo, al pari di te, tramontare, come dicono gli uomini tra i quali voglio discendere.
E allora benedicimi, occhio placido, che senza invidia puoi contemplare anche una
troppo grande felicità! Benedici il calice che vuol traboccare, affinché dorata ne
fluisca l'acqua, recando ovunque il riflesso della tua giocondità!
Vedi: questo calice vuol ridiventare vuoto, e Zarathustra vuol ridiventare uomo».
Così cominciò il tramonto di Zarathustra".
“Una sola cosa è più tragica del dolore: la vita di
un uomo felice”
( A. Camus, 1913-1960 )
-studio personale-
DISCORSO DI MONTALE PER LA CONSEGNA
DEL PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA,
STOCCOLMA, 12 DICEMBRE 1975
II premio Nobel è giunto al suo settantacinquesimo turno, se non sono male informato. E se molti sono gli
scienziati e gli scrittori che hanno meritato questo prestigioso riconoscimento, assai minore è il numero dei
superstiti che vivono e lavorano ancora. Alcuni di essi sono presenti qui e ad essi va il mio saluto e il mio
augurio. Secondo opinioni assai diffuse, opera di aruspici non sempre attendibili, in questo anno o negli anni che
possono dirsi imminenti il mondo intero (o almeno quella parte del mondo che può dirsi civilizzata)
conoscerebbe una svolta storica di proporzioni colossali. Non si tratta ovviamente di una svolta escatologica,
della fine dell'uomo stesso, ma dell'avvento di una nuova armonia sociale di cui esistono presentimenti solo nei
vasti domini dell'Utopia. Alla scadenza dell'evento il premio Nobel sarà centenario e solo allora potrà farsi un
completo bilancio di quanto la Fondazione Nobel e il connesso Premio abbiano contribuito al formarsi di un
nuovo sistema di vita comunitaria, sia esso quello del Benessere o del Malessere universale, ma di tale portata
da mettere fine, almeno per molti secoli, alla multisecolare diatriba sul significato della vita. Intendo riferirmi alla
vita dell'uomo e non alla apparizione degli aminoacidi che risale a qualche miliardo d'anni, sostanze che hanno
reso possibili l'apparizione dell'uomo e forse già ne contenevano il progetto. E in questo caso come è lungo il
passo del deus absconditus! Ma non intendo divagare e mi chiedo se è giustificata la convinzione che lo statuto
del premio Nobel sottende; e cioè che le scienze, non tutte sullo stesso piano, e le opere letterarie abbiano
contribuito a diffondere o a difendere nuovi valori in senso ampio « umanistici ». La risposta è certamente
positiva. Sarebbe lungo l'elenco dei nomi di coloro che avendo dato qualcosa all'umanità hanno ottenuto
l'ambito riconoscimento del premio Nobel. Ma infinitamente più lungo e praticamente impossibile a identificarsi
la legione, l'esercito di coloro che lavorano per l'umanità in infiniti modi anche senza rendersene conto e che
non aspirano mai ad alcun possibile premio perché non hanno scritto opere, atti e comunicazioni accademiche e
mai hanno pensato di « far gemere i torchi » come dice un diffuso luogo comune. Esiste certamente un exercito
di anime pure, immacolate, e questo è l'ostacolo (certo insufficiente) al diffondersi di quello spirito utilitario che
in varie gamme si spinge fino alla corruzione, al delitto e ad ogni forma di violenza e di intolleranza. Gli
accademici di Stoccolma hanno detto più volte no all'intolleranza, al fanatismo crudele, e a quello spirito
persecutorio che anima spesso i forti contro i deboli, gli oppressori contro gli oppressi. Ciò riguarda
particolarmente la scelta delle opere letterarie, opere che talvolta possono essere micidiali, ma non mai come
quella bomba atomica che è il frutto più maturo dell'eterno albero del male.
Non insisto su questo tasto perché non sono né filosofo, né sociologo, né moralista.
Ho scritto poesie e per queste sono stato premiato, ma sono stato anche bibliotecario, traduttore, critico letterario e
musicale e persine disoccupato per riconosciuta insufficienza di fedeltà a un regime che non potevo amare. Pochi
giorni fa è venuta a trovarmi una giornalista straniera e mi ha chiesto: “Come ha distribuito tante attività così diverse?
Tante ore alla poesia, tante alle traduzioni, tante all'attività impiegatizia e tante alla vita?”. Ho cercato di spiegarle che
non si può pianificare una vita come si fa con un progetto industriale. Nel mondo c'è un largo spazio per l'inutile, e
anzi uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell'inutile alla quale sono sensibili particolarmente i
giovanissimi.
In ogni modo io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo, e questo è
uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente
endemica e incurabile.
Sono qui perché ho scritto poesie: sei volumi, oltre innumerevoli traduzioni e saggi critici. Hanno detto che è una
produzione scarsa, forse supponendo che il poeta sia un produttore di mercanzie; le macchine debbono essere
impiegate al massimo. Per fortuna la poesia non è una merce. Essa è una entità di cui si sa assai poco, tanto che due
filosofi tanto diversi come Croce, storicista idealista e Gilson, cattolico, sono d'accordo nel ritenere impossibile una
storia della poesia. Per mio conto, se considero la poesia come un oggetto ritengo ch'essa sia nata dalla necessità di
aggiungere un suono vocale (parola) al martellamento delle prime musiche tribali. Solo molto più tardi parola e
musica poterono scriversi in qualche modo e differenziarsi. Appare la poesia scritta, ma la comune parentela con la
musica si fa sentire. La poesia tende a schiudersi in forme architettoniche, sorgono i metri, le strofe, le cosiddette
forme chiuse. Ancora nelle prime saghe nibelungiche e poi in quelle romanze, la vera materia della poesia è il suono.
Ma non tarderà a sorgere con i poeti provenzali una poesia che si rivolge anche all'occhio. Lentamente la poesia si fa
visiva perché dipinge immagini, ma è anche musicale: riunisce due arti in una. Naturalmente gli schemi formali erano
larga parte della visibilità poetica. Dopo l'invenzione della stampa la poesia si fa verticale, non riempie del tutto lo
spazio bianco, è ricca di « a capo » e di riprese. Anche certi vuoti hanno un valore. Ben diversa è la prosa che occupa
tutto lo spazio e non dà indicazioni sulla sua pronunziabilità. E a questo punto gli schemi metrici possono essere
strumento ideale per l'arte del narrare, cioè per il romanzo. E' il caso di quello strumento narrativo che è l'ottava,
forma che è già un fossile nel primo Ottocento malgrado la riuscita del Don Giovanni di Byron (poema rimasto
interrotto a mezza strada). Ma verso la fine dell'Ottocento le forme chiuse della poesia non soddisfano più né l'occhio
né l'orecchio. Analoga osservazione può farsi per il Blank verse inglese e per l'endecasillabo sciolto italiano. E nel
frattempo fa grandi passi la disgregazione del naturalismo ed è immediato il contraccolpo nell'arte pittorica. Così, con
un lungo processo, che sarebbe troppo lungo descrivere, si giunge alla conclusione che non si può riprodurre il vero,
gli oggetti reali, creando così inutili doppioni; ma si espongono in vitro, o anche al naturale, gli oggetti o le figure di
cui Caravaggio o Rembrandt avrebbero presentato un facsimile, un capolavoro. Alla grande mostra di Venezia anni fa
era esposto il ritratto di un mongoloide: era un argomento très dègoûtant, ma perché no? L'arte può giustificare tutto.
Senonché avvicinandosi ci si accorgeva che non di un ritratto si trattava, ma dell'infelice in carne ed ossa.
L'esperimento fu poi interrotto manu militari, ma in sede strettamente teorica era pienamente giustificato. Già da anni
critici che occupano cattedre universitarie predicavano la necessità assoluta della morte dell'arte, in attesa non si sa
di quale palingenesi o resurrezione di cui non s'intravedono i segni.
Quali conclusioni possono trarsi da fatti simili? Evidentemente le arti, tutte le arti visuali, stanno
democraticizzandosi nel senso peggiore della parola. L'arte è produzione di oggetti di consumo, da
usarsi e da buttarsi via in attesa di un nuovo mondo nel quale l'uomo sia riuscito a liberarsi di tutto,
anche della propria coscienza. L'esempio che ho portato potrebbe estendersi alla musica esclusivamente
rumoristica e indifferenziata che si ascolta nei luoghi dove milioni di giovani si radunano per esorcizzare
l'orrore della loro solitudine. Ma perché oggi più che mai l'uomo civilizzato è giunto ad avere orrore di se
stesso?
Ovviamente prevedo le obiezioni. Non bisogna confondere le malattie sociali, che forse sono sempre esistite
ma erano poco note perché gli antichi mezzi di comunicazione non permettevano di conoscere e
diagnosticare la malattia. Ma fa impressione il fatto che una sorta di generale millenarismo si
accompagni a un sempre più diffuso comfort, il fatto che il benessere (là dove esiste, cioè in limitati
spazi della terra) abbia i lividi connotati della disperazione.
Sotto lo sfondo così cupo dell'attuale civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, a smarrire la
loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza
successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione. Il tempo si fa più veloce, opere di
pochi anni fa sembrano «datate» e il bisogno che l'artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa
bisogno spasmodico dell'attuale, dell'immediato. Di qui l'arte nuova del nostro tempo che è lo
spettacolo, un'esibizione non necessariamente teatrale a cui concorrono i rudimenti di ogni arte e che
opera sorta di massaggio psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che sia. Il deus ex machina di
questo nuovo coacervo è il regista. Il suo scopo non è solo quello di coordinare gli allestimenti scenici,
ma di fornire intenzioni a opere che non ne hanno o ne hanno avute altre. C'è una grande sterilità in
tutto questo, un'immensa sfiducia nella vita. In tale paesaggio di esibizionismo isterico quale può essere
il posto della più discreta delle arti, la poesia? La poesia cosiddetta lirica è opera frutto di solitudine e di
accumulazione. Lo è ancora oggi ma in casi piuttosto limitati. Abbiamo però casi più numerosi in cui il
sedicente poeta si mette al passo coi nuovi tempi. La poesia si fa allora acustica e visiva. Le parole
schizzano in tutte le direzioni come l'esplosione di una granata, non esiste un vero significato, ma un
terremoto verbale con molti epicentri. La decifrazione non è necessaria, in molti casi può soccorrere
l'aiuto dello psicanalista. Prevalendo l'aspetto visivo la poesia è anche traducibile e questo è un fatto
nuovo nella storia dell'estetica. Ciò non vuol dire che i nuovi poeti siano schizoidi. Alcuni possono
scrivere prose classicamente tradizionali e pseudoversi privi di ogni senso. C'è anche una poesia scritta