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Scripseram tibi verendum esse, ne ex tacitis suffragiis vitium aliquod exsisteret. Factum est. Proximis comitiis in quibusdam tabellis multa iocularia atque etiam foeda dictu, in una vero pro candidatorum nominibus suffragatorum nomina inventa sunt. Excanduit senatus magnoque clamore ei qui scripsisset iratum principem est comprecatus. Ille tamen fefellit et latuit, fortasse etiam inter indignantes fuit. Quid hunc putamus domi facere, qui in tanta re tam serio tempore tam scurriliter ludat, qui denique omnino in senatu dicax et urbanus et bellus est? Tantum licentiae pravis ingeniis adicit illa fiducia: “Quis enim sciet?” Poposcit tabellas, stilum accepit, demisit caput, neminem veretur, se contemnit.

Inde ista ludibria scaena et pulpito digna. Quo te vertas? Quae remedia conquiras? Ubique vitia remediis fortiora.

T’avevo scritto che v’era da temere qualche abuso dalle votazioni segrete. E’ avvenuto. Negli ultimi Comizi in certe tavolette si trovarono delle frasi scherzevoli e perfino obbrobrio se a riferirsi; in una, poi, invece dei nomi dei candidati si trovarono quelli di coloro che li raccomandavano. Si sdegnò il Senato, e a gran voce attirò la collera dell'Imperatore su colui che aveva scritto tali cose. Questi però rimase nascosto e sconosciuto, e probabilmente era fra coloro che si indignavano.
Come pensiamo possa comportarsi nella vita privata, chi in un affare così importante e una situazione così seria scherza in modo tanto scurrile, chi infine in Senato non è altro che un impertinente, uno sfacciato, un buontempone? Tanta licenza è dunque negli animi corrotti ingenerata dalla fiducia nel: «E chi lo saprà?». Chiede le tavolette, prende lo stilo, china la testa, non teme alcuno, dispregia se stesso. Di qua provengono questi miserabili sollazzi, degni del teatro e del palcoscenico. Che cosa fare, a quali rimedi ricorrere? Dovunque il male è più forte dei rimedi. [trad. L. Rusca]