''Lucca'', di Giuseppe Ungaretti
A casa mia, in Egitto, dopo cena, recitato il rosario, mia madre
ci parlava di questi posti.
La mia infanzia ne fu tutta meravigliata.
La città ha un traffico timorato e fanatico.
In queste mura non ci si sta che di passaggio.
Qui la meta è partire.
Mi sono seduto al fresco sulla porta dell'osteria con della gente
che mi parla di California come d'un suo podere.
Mi scopro con terrore nei connotati di queste persone.
Ora lo sento scorrere caldo nelle mie vene, il sangue dei miei morti.
Ho preso anch'io una zappa.
Nelle cosce fumanti della terra mi scopro a ridere.
Addio desideri, nostalgie.
So di passato e d'avvenire quanto un uomo può saperne.
Conosco ormai il mio destino, e la mia origine.
Non mi rimane che rassegnarmi a morire.
Alleverò dunque tranquillamente una prole.
Quando un appetito maligno mi spingeva negli amori mortali, lodavo
la vita.
Ora che considero, anch'io, l'amore come una garanzia della specie,
ho in vista la morte.
Svolgimento
Riassunto della poesia (penso sia una sorta di commento a ciò che Ungaretti cita nella poesia stessa)
La poesia si apre con una tipica immagine da quadretto familiare: ora di cena, la mamma, dopo le preghiere e prima di mettere a letto il poeta bambino, ricorda e descrive la città attraverso immagini del luogo, che “meravigliano” il piccolo Ungaretti. La fisicità della città e le sue mura, il traffico strano, il desiderio che porta a partire e lasciare le mura stesse. Il poeta si immagina cittadino di Lucca e si stranisce: contadini che parlano di luoghi lontani come la Californi quasi fossero appezzamenti del loro terreno; lui che sente dentro di sé il retaggio di questa cultura agreste e che, quindi, si immagina a lavorare la terra, a scoprire questa semplicità che allontana dai desideri e che rende consapevoli della “vita reale” che ciascuno deve vivere. In una parabola discendente, il poeta riflette sulla condizione di prendere coscienza della morte e del rassegnarvisi in quanto ormai già tutte le esperienze sono state fatte: eppure, in un ultimo impeto di forza, considera questo abbandonarsi alla quotidianità come qualcosa di necessario e giusto. Allevare una “prole”, divenire capostipite di una famiglia, risulta un modo efficiente per reclamare l’amore come ultima speranza alla vita che conduce inesorabilmente alla morte e che, altrimenti, usato come semplice “strumento” di piacere, sarebbe un semplice appagamento di un desiderio fine a se stesso.
1) Soffermati sugli aspetti linguistico lessicali della poesia in particolare sugli aggettivi
La particolarità del testo è il fatto che esso è una versione in prosa di una poesia: la brevità di alcune frasi, quasi telegrafiche, che tendono ad evidenziare, sottolineare e definire alcuni punti salienti e caratteristiche della città; la forte presenza di aggettivazioni, a volte anche poco attinenti, alle descrizioni del centro abitato e dei suoi cittadini; la scelta di passare da una trattazione puramente descrittiva ad una quasi onirica, in cui il poeta si immagina parte integrante della comunità Lucchese e, infine, dopo il peregrinare a causa della guerra, cittadino di un luogo che gli è stranamente familiare e in cui si appresta a trascorrere gli ultimi anni della sua vita, rendono questo testo profondo e al tempo stesso quasi introspettivo, come se, attraverso l’analisi dei luoghi, Ungaretti volesse analizzare il proprio io più interno. La ricercatezza degli aggettivi con cui descrive sia le strutture fisiche della città (le mura, il traffico) sia gli abitanti, risultano d’impatto: mentre per le prime utilizza termini che fanno pensare ad esseri viventi, con caratterizzazioni quasi psicologiche dei luoghi, per le seconde le aggettivazioni risultano tutte cupe, relative alla morte e alla coscienza di sé e del proprio passato (inteso come esperienze di vita vissuta), creando un forte contrasto tra un tema iniziale che pare dolce (basato sui racconti della madre) e quello finale di una rassegnazione e consapevolezza di “crescere” e infine morire.
2) Spiegazione di alcuni versi.
a) La mia infanzia ne fu tutta meravigliata: La poesia sembra un ricordo, una reminescenza di fatti “fantastici” e fuori dal comune che hanno reso il poeta felice al tempo dei racconti della madre. Da questo verso in poi, la poesia intraprende un percorso in discesa, passando dalla descrizione dei luoghi a quella della gente, fino a giungere alle considerazioni personali del poeta riguardo il sentirsi parte integrante della comunità e “condannato”, in qualche modo, a vivere il resto della sua vita in questo luogo, facendosi una famiglia, lavorando nei campi e attendendo la morte inevitabile.
3) Elementi della città: il poeta si sofferma sul traffico che definisce, in modo ossimorico, timorato e fanatico al contempo: i due aggettivi, che indicano il primo una mancanza di forza (e quindi una situazione controllata), il secondo una sfrontatezza e quindi una dimostrazione di eccessiva forza (per cui una situazione di caos totale), mostrano un aspetto quasi schizofrenico dell’urbanistica cittadina, una totale perdita di controllo e incapacità di “razionalizzare” su questo aspetto. Al contempo la citazione delle mura, dalle quali pare sia possibile solo “allontanarsi”, serve a rafforzare questo aspetto incontrollato dell’urbanistica cittadina, caotico e disordinato, che, nonostante la bellezza della architettura, spinge ad andare via da un luogo che pare essere fin troppo “veloce” e accelerato rispetto al mondo dell’epoca.
4) Il poeta prova terrore per la consapevolezza del sentirsi parte di questa comunità, di essere conscio del fatto che il sangue dei Lucchesi scorre nelle sue vene e di sentirsi, ciononostante, felice di essere tale: dopo le esperienze vissute, Lucca pare l’ultimo approdo, il posto dove la vita si concluderà, perché ormai si sono già portati avanti tutti i progetti e i sogni, o perché non c’è più tempo per realizzarli. E quindi sorge la consapevolezza di essere giunto alla fine del viaggio e non resta altro che rassegnarsi alla morte.
5) In questa visione di “conclusione inevitabile” che segue le normali esperienze della vita, si prende anche consapevolezza della differenza forma di amore: se in gioventù, o comunque quando ancora si è speranzosi e desiderosi di fare, l’amore può essere una sorta di “energizzante”, di forza motrice che spinge ad andare avanti o di semplice strumento di appagamento per le esigenze mortali, intese come le necessità che ogni individuo deve soddisfare, alla vecchiaia, quando si è finalmente consci di ciò che ci riserva l’ultimo grande passo della morte, l’amore risulta l’unica arma per divenire, in un qualche modo, “immortali”, tramandando la propria discendenza.
6) In un’ottica storica che vedeva l’Italia uscire dal contesto della Seconda Guerra Mondiale, che portava la gente a pensare come “effettuare una ripresa” e che apriva tante possibilità, di cui forse molti degli individui che avevano vissuto la Guerra sulla loro pelle, non vedevano possibili benefici, la poesia pare uno specchio (forse forzato) della vita di un Paese in cui una grave crisi di carattere socio/politico/economico detta il ritmo della vita, portando ad una forma di pessimismo rassegnato da una parte, e d’altra parte, ad una ricerca votata a “salvare il salvabile” attraverso il vivere al meglio la vita che resta, cercando di non farsi sopraffare dagli eventi. L’inquadramento letterario fa pensare a Montale (ed al suo “pacato pessimismo” di “Ossi di Seppia”) e ad una sorta di richiamo della letteratura Decadente e post-romantica in cui, nonostante si intravedessero sprazzi di “luminosità”, si era comunque consci della realtà della vita e della sua inevitabile conclusione. Per certi versi la poesia ricorda il romanzo “I Malavoglia”: il verismo verghiano qui viene rappresentato dalla consapevolezza che le esperienze servono solo ad arricchirci e renderci gli individui che saremo nel momento in cui affronteremo la Dama in Nero. La tematica si contrappone, invece, alla poetica Pirandelliana, dove, nonostante si sia consapevoli di ciò che la vita riserva, c’è sempre una visione ottimistica (o meglio, ironica) anche degli eventi negativi e una più leggera considerazione dei fatti tipici della vita (amore, morte, esperienze, speranze, sogni), che conduce, se non ad una visione tutta “rose e fiori” della propria esistenza, almeno al non rassegnarsi semplicemente al fatto che un giorno dovremo morire ma a cercare di vivere al meglio i giorni che restano fino a quel momento.