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Sintesi
Tesina svolta per liceo classico (anno accademico 2015/2016). Voto maturità: 82/100

IL DESIDERIO:
POTENZA ED ESSENZA DELL’UOMO


La mia tesina si concentra sulla tema del desiderio, analizzato sotto un’accezione fondamentalmente pessimista.
L’etimologia della parola deriva dalla composizione della particella privativa “de” con il termine latino sidus, sideris, che significa stella. Dunque letteralmente desidera significa “mancanza di stelle”. Sembra che il termine abbia avuto origine dal linguaggio degli antichi aruspici che, trovando il cielo coperto dalle nuvole, non erano in grado di compiere le loro funzioni divinatorie, non potendo vedere le stelle, dalla cui osservazione traevano le loro profezie. In questi particolari momenti di assenza del cielo stellato, si accendeva dunque negli aruspici un desiderio profondo delle stelle, che proseguiva sino al loro nuovo apparire. Il termine "desiderantes" è presente anche nel De Bello Gallico di Giulio Cesare, dove viene utilizzato per indicare i soldati che stanno sotto le stelle ad aspettare quelli che, dopo aver combattuto durante il giorno, non sono ancora tornati. La parola stessa quindi sottolinea la profonda distanza tra il soggetto e l’oggetto. Fin dall’antichità dunque l’uomo ha sofferto l’infinità tra sé e l’oggetto di cui sentiva la mancanza .
E’ una caratteristica innata dell’uomo quella di non ricevere mai un completo appagamento per ciò che si è ottenuto. Questo difetto è presente in varie sfumature nelle diverse personalità umane.
Per questo motivo ho scelto come sfondo il quadro di Friedrich Viandante sul mare di nebbia.
Il quadro è stato realizzato nel 1818, e riflette appieno lo spirito romantico. E’ rappresentato un uomo di spalle, di cui non si conosce l’identità, ma che probabilmente è un viandante per gli abiti che indossa. Il quadro ha un valore fortemente simbolico. La figura che si staglia in controluce sul precipizio roccioso ritrae l’uomo di fronte alla vastità del mondo e alla sua infinitezza. Oltre a delineare la piccolezza dell’essere umano di fronte all’immensità della natura, rappresenta anche l’uomo desiderans, ovvero l’uomo che tenta di afferrare l’infinità del mondo circostante cercando di farla propria, ma senza riuscirci veramente. L’uomo che desidera, desidera sempre qualcosa che va oltre la sua natura, qualcosa di inafferrabile che non gli permetterà di raggiungere la felicità. Il viandante è proprio l’uomo che cerca, desidera, brama qualcosa troppo lontano da sé.
Il desiderio tende alla totalità e non è mai appagato in modo definitivo dalle cose determinate; è uno stato d’animo in cui il soggetto risente negativamente dell’oggetto desiderato, perché non riesce a raggiungerlo o perché ha terminato il grado di soddisfazione, sfociando nella noia.
Schopenhauer tentò di dare una spiegazione metafisica ai continui impulsi che l’uomo prova verso il mondo circostante. Il filosofo nacque nel 1788 a Danzica. Il suo pensiero fu fortemente influenzato dalla filosofia platonica, in particolar modo dalle idee, entità eterne ed immutabili. Riprende anche la filosofia kantiana, ma apportandone delle innovazioni; riconosce la distinzione tra fenomeno (che per Kant era l’oggetto della conoscenza umana, organizzato tramite le categorie e conosciuto tramite le forze a priori) e noumeno (ovvero la cosa in sé, ciò che è dietro il fenomeno, ma che non è permesso conoscere all’uomo). Partendo da questi due concetti Schopenhauer afferma che il fenomeno è un’illusione, un sogno, paragonato al Velo di Maya, mentre il noumeno è ciò che si nasconde dietro il Velo, la vera essenza delle cose. Schopenhauer ribalta quindi la visione kantiana in quanto il fenomeno è la forma di conoscenza originaria, grazie alla quale si scopre la vera essenza delle cose: il noumeno, riconosciuto nel Wille ( = la Volontà). La rappresentazione è il rapporto tra soggetto e oggetto, in cui l'oggetto esiste per il soggetto grazie all'azione che esso esercita nello spazio e nel tempo.
Schopenhauer pubblicò la sua opera più importante Die Welt als Wille und Vorstellung (il Mondo come Volontà e Rappresentazione) nel 1819.
Secondo il filoso tutti gli esseri animati e non sono sottomessi al Wille ovvero “la volontà di vivere”. Questa è una forza irrazionale, cieca ed eterna e non è sottoposta alle leggi di spazio, tempo e casualità. Nel momento in cui questa prende vita, ovvero si oggettiva nel corpo di un essere, organico ed inorganico, questo è portato alla continua ed incessante brama, desiderio, struggimento verso qualcosa o qualcuno che non gli permetterà mai di ricevere un reale appagamento. Questi desideri spasmodici portano l’uomo all’insoddisfazione e alla sofferenza. I desideri e le conseguenti sofferenze non sono altro che il frutto della Volontà. Schopenhauer afferma che “La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra il dolore e la noia, passando attraverso l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere” . L’uomo rimarrà sottomesso al Wille finché non prenderà coscienza che tutta la realtà circostante non è che un’apparenza, ovvero l’oggettivazione della Volontà stessa. Ha così squarciato il velo di Maya e scoperto la realtà che si nasconde dietro il fenomeno. Attraverso l’opera, “Il mondo come Volontà e Rappresentazione”, Schopenhauer cerca di portare a tale consapevolezza tutti gli esseri umani.
Egli individua tre strade per annullare la Volontà: attraverso la contemplazione estetica, l’etica e l’ascesi.
In sintesi l’impulso cieco e irrazionale che porta l’uomo a desiderare infinitamente non è altro che il Wille. Il pessimismo di Schopenhauer sta nel fatto che il libero arbitrio non esiste più; anche il desiderio più personale che crediamo sia solamente frutto del nostro volere, non è altro che mosso dalla Volontà oggettivata. L’unica via d’uscita è giungere alla consapevolezza di tale condizione fisica e mentale ed arrivare al totale annullamento della Volontà.
La visione pessimistica di Schopenhauer e in generale il suo pensiero sono stati più volte accostati a quelli di Giacomo Leopardi.
F. De Sanctis nel saggio “Schopenhauer e Leopardi”, paragona i due pensatori: “Leopardi e Schopenhauer sono una cosa. Quasi nello stesso tempo l'uno creava la metafisica e l'altro la poesia del dolore.”
Il poeta recanatese sviluppò la teoria del piacere tra il 1820 e il 1827. Articolò i suoi pensieri nello Zibaldone, in cui sono contenuti tutti i ragionamenti del poeta pessimista per eccellenza.
La teoria del piacere afferma che l’uomo, essere finito, tende sempre alla ricerca di un piacere infinito che non riesce mai a raggiungere e ciò provoca in lui una perenne insoddisfazione. Mentre Schopenhauer individuava il Wille come forza congenita di ogni azione umana, Leopardi identificò nel desiderio di piacere un istinto primordiale dell’uomo che aspira sempre a nuovi desideri. E’ un compagno inseparabile dell’esistenza e dato che è infinito, proietterà l’uomo alla ricerca di desideri infiniti. Ma la richiesta di piacere rimane inappagata generando nell’uomo un costante stato di sofferenza. L’uomo non riuscirà mai a raggiungere le proprie brame poiché ciò a cui aspira è oltre il suo essere: infatti desidera l’infinito.
La predisposizione di Leopardi nei confronti del desiderio è affine al sentimento che dominava nel Romanticismo. Ladislao Mittner, importante studioso italiano della cultura di area germanica, si soffermò sulla definizione di “Romanticismo” introducendo la distinzione tra Romanticismo come “categoria storica” e come “categoria psicologica”. In particolar modo, quest’ultimo aspetto, viene approfondito da Mittner, che individua nella Sehnsucht il tratto più rappresentativo della sensibilità romantica.
« La più caratteristica parola del romanticismo tedesco, Sehnsucht, non è lo Heimweh, la nostalgia (male, cioè desiderio, del ritorno ad una felicità già posseduta o almeno nota e determinabile); è invece un desiderio che non può mai raggiungere la propria meta, perché non la conosce e non vuole o non può conoscerla; e il “male” (Sucht) del “desiderio” (Sehnen). Ma Sehnen stesso significa assai spesso un desiderio irrealizzabile perché indefinibile, un desiderare tutto e nulla ad un tempo. […] e la Sehnsucht è veramente una ricerca del desiderio, un desiderare il desiderare, un desiderio che è sentito come inestinguibile e che proprio per ciò trova in sé il pieno appagamento. […] Certamente il sentimento romantico è un “desiderio del desiderio”.
“Desideroso di desiderare”, cioè di vivere nella condizione del desiderio puro perché irrealizzabile, l’uomo romantico soffre della sua sensibilità che è troppo acuta e che pure da lui ulteriormente acuita; è in balia d’ impressioni sempre diverse e contrastanti; si abbandona ad esse con segreto piacere e spesso, senza saperlo, le crea. E’ soprattutto l’uomo dei dilemmi che non cerca mai di risolvere i propri dilemmi, o che risolti che li abbia, crea dilemmi nuovi, perché il dilemma irresolubile è la forma stessa della sua esistenza. […] Il Romanticismo inteso psicologicamente è una categoria eterna dello spirito ». La figura del poeta è complementare a quella fornitaci da Mittner.
Leopardi individuò nell’immaginazione, nella rimembranza e nell’occupazione gli unici strumenti in grado di placare la continua bramosia e al tempo stesso in grado di far provare all’uomo piacere e felicità.
Infatti l’immaginazione stimola nell’uomo un illusorio senso di appagamento, dettato da ciò che è vago e indefinito. Grazie all’immaginazione l’uomo può figurarsi un piacere infinito e grazie a tali illusioni può trovare un senso alla propria vita. Per questo motivo egli pone gli antichi un grado superiore rispetto ai moderni; infatti i primi, avendo una conoscenza minore del mondo, lasciavano libero spazio all’immaginazione. Al contrario i moderni, con l’avvento della ragione e con il progresso della scienza hanno perso tale facoltà poiché hanno una visione più razionale del mondo circostante, finito e insoddisfacente.
La rimembranza invece porta l’uomo a ricordare momenti del passato in grado di recargli piacere. Così la speranza, proiettata verso il futuro, e la rimembranza, proiettata invece al passato sono strumenti in grado di recare una felicità provvisoria e illusoria all’uomo.
Infine anche l’occupazione reca giovamento all’uomo; Leopardi infatti sostiene che una vita continuamente occupata sia al tempo stesso più felice, in quanto l’anima è distratta dal desiderio innato che di solito non la lascerebbe vivere serena.
Come Schopenhauer, anche Leopardi individuò nell’egoismo il male della civiltà. Ogni essere umano ama solo la propria vita e di conseguenza ama il piacere in quanto obiettivo primario dell’esistenza stessa.
Ma i due differiscono riguardo la concezione del suicidio. Mentre Schopenhauer lo condannava fermamente, poiché la Volontà, una volta morto un essere umano, si oggettiverà in un altro essere, in quanto è eterna e non sottomessa alle leggi di spazio e tempo, Leopardi invece individuò nel suicidio l’unica soluzione possibile per fuggire all’infelicità della vita dovuta alle incessanti pulsioni del desiderio.

L’INFINITO
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.

La teoria del piacere è legata al concetto di infinito; l’uomo aspira costantemente a un piacere illimitato che nella realtà non raggiunge mai vivendo in uno stato di insoddisfazione continua. L’unico modo in cui l’uomo è in grado di raffigurarsi i desideri è tramite l’immaginazione. Il vago, l’indefinito e l’ignoto sono gli strumenti che permettono all’immaginazione di produrre l’illusione di un piacere infinito. Infatti, per Leopardi, l’infinito come esistenza fisica non esiste:“il credere l’universo infinito, è un’illusione ottica: […] io credo che l’analogica materialmente faccia molto verisimile che la infinità dell’universo non sia che illusione naturale della fantasia.” Per il poeta recanatese, l’unico modo per figurarsi l’infinito è proprio tramite l’immaginazione. L’idillio l’Infinito è stato composto a Recanati nel 1819 e fu pubblicato per la prima volta nel periodico bolognese Il Nuovo Raccoglitore nel 1825, poi nell’edizione bolognese dei Versi del 1826 e infine nei Canti del 1831. La teoria del piacere e soprattutto la poetica del vago raggiungono la più alta espressione in questo idillio.
E’ un componimento di 15 endecasillabi sciolti. Nello svolgimento si consuma l’avventura dell’io che si immerge nel piacere dell’infinito. L’analisi visiva degli elementi che caratterizzano il paesaggio circostante producono nel lettore un senso di infinito cui si aggiunge la vaghezza del linguaggio, basato sull’uso di termini che hanno un significato di indeterminatezza. Le parole, infatti, hanno il compito di sfumare i contorni dando alla poesia quel carattere di indefinito che si rivela funzionale al messaggio poetico leopardiano. L’Infinito concentra l’attenzione sull’interiorità del poeta per arrivare all’infinito; attraverso l’uso della parola poetica Leopardi tenta di superare qualsiasi ostacolo, in questo caso rappresentato dalla siepe, posto dalla natura come limite. In questo clima caratterizzato quindi dagli ostacoli naturali, come dalla minaccia del silenzio e dai suoni della natura, il pensiero arriva a percepire l’inafferrabilità dell’infinito superando ciò che lo circonda. Il poeta, seduto davanti ad una siepe, immagina spazi infiniti oltre l’orizzonte che sono nascosti dall’ostacolo visivo. Ma l’infinito non si sofferma solo su una dimensione spaziale, ma anche e soprattutto temporale. Il “sempre” posto come prima parola e “mare” posto invece in chiusura richiamano corrispondentemente un’eternità temporale e spaziale. L’immensità dello spazio e l’eternità del tempo permettono di eludere ostacoli fisici e reali quali il colle e la siepe.
L’infinito è il risultato prodotto dall’immaginazione dell’uomo. Dalla percezione sensoriale del limite si attiva un processo immaginativo che crea “interminati spazi”, “sovrumani silenzi” e “profondissima quiete”, capaci di suscitare sensazione al tempo stesso precise e indeterminate. La mente umana oscilla continuamente dallo spazio circostante verso uno spazio illimitato, dal presente al passato fino all’eterno. L’esito di quest’avventura si risolve nel naufragio dell’io e del pensiero, un naufragio dolce perché cercato dal soggetto come momento temporaneo di piacere.
Infatti i limiti dell’uomo si risolvono nell’immaginazione, che insieme alla speranza e alla ricordanza sono gli unici modi per accedere alla felicità. Il mondo circostante è pieno di dolori, ma l’uomo può cercare di evadere oltrepassando la visione del reale grazie all’immaginazione stessa. La vicenda interiore provocata da un ostacolo reale, porta la mente umana a fantasticare verso l’ignoto e l’infinito, oltre qualsiasi limite. La poesia stessa nasce dalla visione di una siepe che impedisce al poeta di intravedere oltre e ciò lo spinge ad immaginare un mondo lontano e infinito. Nello Zibaldone, riguardo la poetica del vago e dell’indefinito, scriveva: “l’idea di una campagna arditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle […] produce un contrasto efficacissimo e sublimassimo tra il finito e l’indefinito” oppure “è piacevolissima ancora, per le sopraddette cagioni, la vista di una moltitudine innumerabile, come delle stelle, o di persone ec. un moto molteplice, incerto, confuso, irregolare, disordinato, un ondeggiamento vago ec., che l’animo non possa determinare, né concepire definitivamente e distintamente ec.”
Dal verso 1 al verso 3 Leopardi si trova di fronte la siepe “che dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”, questa situazione gli fa tornare alla mente tutte le altre occasioni in cui si recava in quel luogo. I versi dal 4 all’8 costituiscono un momento di svolta sottolineato anche dal “ma” posto ad inizio frase; il poeta è ancora seduto a osservare il panorama ma immagina ora “interminati spazi”, “sovrumani silenzi”, “profondissima quiete” che sottolineano il cambiamento di prospettiva. Anche l’aggettivo usato per indicare la siepe, a cui prima si rivolge con “questa”, invece al verso 5 usa “quella”, come se la siepe si fosse allontanata dalla vista di Leopardi. Il nucleo centrale nella poesia ritrae il processo immaginativo all’interno della mente del poeta. Egli ricorda i tempi passati e non riesce più a distinguere ciò che è reale o fittizio. Gli ultimi versi sottolineano l’abbandono del poeta alle sensazioni di tranquillità ed eternità che è in grado di percepire.
L’idillio l’Infinito rappresenta il momento di totale abbandono dell’uomo, descrive una sensazione reale che suscita paura poiché il raggiungimento, seppur mentale, dell’infinito accorcia le distanze tra l’uomo e il piacere che desidera ma che non riesce mai a raggiungere perché è ontologicamente irrealizzabile dato che l’uomo è un essere finito.
Secoli prima, nel IV secolo a.C., un’altra personalità di rilevante importanza per la filosofia e cultura europea pose al centro della propria riflessione filosofica la ricerca del piacere.
Epicuro vissuto in Grecia nel IV secolo a.C. è ricordato come il fondatore dell’epicureismo. Al centro della filosofia epicurea è posto il piacere. Quindi secondo la loro dottrina filosofica il raggiungimento del piacere è “principio e fine di una vita felice” .
E’ chiaro come Leopardi abbia ripreso da Epicuro la teoria del piacere.
Epicuro individuò due differenti piaceri: il piacere cinetico, o in movimento, che non permette all’uomo di raggiungere la felicità, poiché, essendo appunto in movimento, non permette all’uomo la completa soddisfazione del desiderio. Il piacere catastematico, o stabile, (invece è lo stato di massima felicità in cui l’uomo è privo di dolore e segue la via dell’atarassia (imperturbabilità) e dell’autarchia (autosufficienza). Anche Epicuro, come Schopenhauer e Leopardi, vedeva il moto del desiderio come una condizione dolorosa legata ad uno stato di mancanza. Epicuro, nella lettera a Meneceo, individuò tre differenti tipologie di desiderio: i desideri naturali e necessari legati alla conservazione della vita stessa, come il mangiare e il bere e possono essere soddisfatti; i desideri naturali ma non necessari sono variazioni superflue dei desideri necessari, ovvero delle vere e proprie esagerazioni che non portano al piacere assoluto; infine esistono i desideri non necessari che non riceveranno mai un appagamento ma portano invece al dolore e al turbamento dell’animo. Questa tipologia è legata a cose vane o alle convenzioni sociali in cui l’uomo vive, come il desiderio di gloria, ricchezza, bellezza ecc…
Il pensiero epicureo è molto attuale.
Epicuro, nella lettera a Meneceo, scrisse: « Una ferma conoscenza dei desideri fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla perfetta serenità dell’ animo, perché questo è il compito della vita felice. […] Una volta raggiunto questo stato ogni bufera interna cessa, perché il nostro organismo vitale non è più bisognoso di alcuna cosa. »
L’ autosufficienza o ἀταραξία è un termine filosofico usato per designare la perfetta armonia dell’uomo il quale ha raggiunto la pace interiore liberandosi da ogni passione e ogni desiderio.
Per Epicuro infatti solo alcuni desideri sono realmente utili all’uomo, invece dagli altri, dai desideri vani e impossibili da conseguire, bisogna fuggire perché porteranno solo dolore nell’uomo.
Un chiaro esempio può fornirlo la concezione dell’amore per Lucrezio e Seneca.
Lucrezio, vissuto nel I secolo a.C., è stato un poeta e filosofo romano, seguace dell’epicureismo. Abbiamo pochissime informazioni riguardo la sua vita forniteci soprattutto da San Girolamo. L’unica opera scritta da Lucrezio è il De Rerum Natura, ripresa dal Περὶ φύσεως (sulla Natura) di Epicuro. L’opera è molto importante perché affronta in maniera chiara tutte le tematiche dell’epicureismo, fornendo ai romani i fondamenti principali di questa dottrina filosofica.
Il IV libro dell’opera, concentrato prevalentemente sulla teoria della percezione, si conclude con le considerazioni di Lucrezio sul tema dell’amore. Esse seguono alle riflessioni sui sogni, considerati come un appagamento delle sensazioni, abitudini e desideri dell’esperienza quotidiana. Il sogno e l’amore sono molto simili; infatti entrambi sono illusioni della mente colpita dai simulacri (flusso di atomi che si staccano dalle cose e permettono all’uomo di provare sentimenti). Come chi sogna resta prigioniero delle sue illusioni – sconfiggono re, son presi prigionieri, danno battaglia, levano urla come li si scannasse sul posto... – cosi anche chi è innamorato è prigioniero di un’illusione. Lucrezio e gli epicurei in generale sono contro l’amore passionale, contro coloro che desiderano di possedere l’altro durante il rapporto sessuale. L’amore infatti ha il difetto di condurre inevitabilmente l'uomo al dolore, così anche l'amore fisico ha il difetto di essere insaziabile, perché non può mai essere raggiunto completamente l'oggetto del desiderio. Mentre la sete e la fame possono essere placate ingerendo l'oggetto fisico necessario, che va a colmare il vuoto che causa il desiderio, al contrario in amore non si può mai colmare quel vuoto interiore che provoca l'atto sessuale, un vuoto che fa desiderare all'uomo di penetrare e perdersi nell'altro con tutto il corpo. L’atto sessuale infatti è descritto da Lucrezio come un intreccio di animalesca degradazione fisica, poiché la violenza nasce dal senso di irraggiungibilità dell’altro: “ciò che hanno bramato, lo stringono forte e fanno male al suo corpo e spesso affondando coi dente nelle sue dolci labbra e vi spremono baci, perché non è puro il piacere e vi si celano impulsi che spingono a tormentare l’oggetto.” Quindi l’oggetto d’amore è un simulacrum, un miraggio verso cui si è spinti da un desiderio feroce, destinato a rimanere inappagato “nam si abest quod ames, praesto simulacra tamen sunt illius et nomen dulce observersatur ad auris” . Lo scenario amoroso è descritto in maniera inquietante. Nei confronti del mal di amare, che provoca struggimento, dissipazione di tempo e di beni, i rimedi sono quelli dettati dalla ragione: fuggire tutto ciò che dà alimento all’amore, preferire rapporti instabili e casuali a una passione esclusiva. L’amore passionale, secondo la classificazione dei desideri di Epicuro, è un desiderio non necessario. Esso costituisce infatti una passione rovinosa, accecante. Il termine utilizzato di preciso è furor: follia che sottrae l’uomo al controllo di sé e che si aggrava di giorno in giorno se viene alimentata. L’invito rivolto è di fuggire un amore unico, fonte sicura di pena, e di seguire invece una Venus Vulgivaga, una passione vagabonda.
L’innamorato trascorre la vita a struggersi, ad obbedire al cenno imperioso di un altro essere umano. Trascura i propri doveri, dilapida il proprio patrimonio, mette in crisi la buona fama di cui gode il padre. Qualsiasi cosa, un sorriso rivolto a un altro da parte della propria amata, la minima incomprensione, lo distrugge. E tutto ciò è aggravato dal fatto che egli ha coscienza di questo suo stato di degrado. Qualora poi l’amore non sia corrisposto le sofferenze non sono numerabili: bisogna dunque curare la malattia d’amore fin dalle sue prime manifestazioni.
Allo stesso modo, riguardo l’amore, scriveva Seneca nel suo epistolario che “dobbiamo guardarci dal cadere in una passione agitata e violenta che ci rende vili a noi stessi e schiavi della persona amata: se essa ricambia il nostro affetto questa benevolenza eccita i nostri desideri: se ci disprezza, ci sdegniamo della sua alterigia. Nell’amore ci nuoce ugualmente il successo come l’insuccesso: perdiamo il controllo di noi stessi o in balìa del successo o in conflitto con l’insuccesso. Perciò, coscienti della nostra debolezza, stiamocene quieti.”
Seneca visse e operò nel I secolo d.C., sotto l’Impero di Caligola, Claudio e Nerone. Fu maestro di Nerone e governò con lui per cinque anni dal momento che l’imperatore era ancora troppo piccolo; questo periodo viene ricordato come “quinquennio felice” in quanto Seneca governò in maniera democratica cercando di venire incontro a tutti. Scrisse moltissime opere soprattutto di argomento filosofico per fornire un insegnamento etico ai posteri. Scrisse inoltre nove tragedie.
Nelle epistole a Lucilio sono contenute le riflessioni del pensiero di Seneca. Furono scritte dopo il 62, dopo che egli ebbe abbandonato la scena politica. Sono 124 lettere divise in 20 libri di differente estensione indirizzate all’amico Lucilio. Verosimilmente si tratta di un epistolario reale (infatti molte lettere richiamano le risposte di Lucilio) affiancate da lettere fittizie, si pensa quelle più lunghe e sistematiche, aggiunte al momento della pubblicazione. Seneca era vicino allo stoicismo moderato di Panezio, anche se è possibile riscontrare molte affinità anche con la filosofia epicurea. Dal punto di vista strutturale e morale riprende proprio Epicuro, infatti quest’ultimo aveva scritto diverse lettere (ricordo la lettera sulla felicità prima analizzata) a scopo pedagogico e formativo. Allo stesso modo le lettere di Seneca vogliono essere uno strumento di crescita morale indirizzato anche ai posteri. E’ inoltre molto vicino al pensiero epicureo per quanto riguarda i desideri. Egli crede che esistano desideri naturali che è necessario conseguire per essere felici, ma bisogna fuggire da “ogni passione che oltrepassa i limiti stabiliti dalla natura” perché rende gli uomini infelici in quanto “giungono a sentire come necessarie le cose prima superflue” . Essendo appunto uno stoico moderato non dice che bisogna completamente annullare le passioni e i desideri, come credevano invece gli stoici, ma raggiungere una via di mezzo così da “gustare meglio gli stessi piaceri” .
Il pensiero di Seneca è molto attuale “quod naturae satis est homini non est. Inventus est qui concupisceret aliquid post omnia” (ciò che basta alla natura non basta all’uomo. C’è sempre stato qualcuno che, dopo aver avuto tutto, bramò ancora qualcosa). Con questa affermazione Seneca sembra predire le riflessioni di Schopenhauer e Leopardi; i desideri sono infiniti e una volta appagati ci sarà sempre qualcos’altro che porterà l’animo umano a volere di più, sempre di più. Perché “quanto più uno possiede, tanto più aumenta la sua possibilità di possedere” e ciò alimenta nell’uomo il desiderio di raggiungere a poco a poco obiettivi sempre più alti, che spesso vanno oltre le proprie competenze. Quindi l’uomo da sempre ha cercato di valicare i limiti imposti dalla natura cercando di costruire una strada che però barcolla e continua a farlo, nel vuoto. Come Lucrezio, Seneca afferma che è meglio impedire l’ingresso ai piaceri superflui (come l’amore) cosicché con il tempo non assumano più vigore ed estensione. Egli dice che “le passioni […] derivano, in un certo senso, da un’origine naturale. La natura ci ha affidato la cura di noi stessi; ma se si è troppo compiacenti in questa cura, si cade nel vizio” . Quindi gli unici desideri che l’uomo può e deve soddisfare sono quelli che Epicuro definiva naturali, gli eccessi e la ricerca di cose futili e vane non porta nessun giovamento all’uomo.
E Dorian Gray perseguì la ricerca delle cose futili, del piacere come fine a se stesso cadendo in una degenerazione viziosa.
The picture of Dorian Gray was written by Oscar Wilde in 1890 and in the 1891 the author published again the novel with a Preface, which is considered the Manifesto of English Estheticism. He accepted the theory of “Art for Art’s sake”, defined by Théophile Gautier in France. Aesthetes lives their life seeing art as a representation of themselves and it should be lived in the spirit of art, feeling all kinds of emotions; so a new type of man was born: the dandy and Wilde was one of them. The dandy is a bourgeois artist with an aristocratic elegance like a symbol of the superiority of his spirit. For them pleasure and the cult of beauty were the most important things in the life of every human being because only beauty could prevent the murder of the soul. For this reason the artist was an outcast; he cannot live in a materialistic word, but due to his view of the world, inevitably he became a superior being, removed from all.
Oscar Wilde followed the Aesthetic movement and he adapted himself to the concept of “Art for Art’s sake”.
The Preface of the Picture of Dorian Gray consists of a series of epigrammatic sentences, referred to the basic principles of Aestheticism in England. Art is always beauty; Art reflects the artist’s soul because it is inside of us and the artist is only one who can express his feelings thanks to the poetry. Art hasn’t ethical sympathies and it’s not be judge according to any moral rules external to itself: Art is useless, but it’s an end into itself. The aesthetes were against the Victorian Age because during this period Art could be used as a tool for social and moral education. Art offers only beauty. Throughout The Picture of Dorian Gray, beauty reigns.
The novel is set in London at the end of the 19th century. The protagonist is a young man named Dorian Gray whose beauty fascinates a painter, Basil Hallward, who paints his portrait. The story begins with Basil Hallward who is admiring the beauty of his portrait together with Lord Henry. These two characters could be seen as an allegory of vices, represented by Lord Henry and virtues, interpreted by Basil. In fact the ideas and the emotions of Lord Henry, always negatives and wrongs, influenced deeply the young man, who suffers a bad changing during the entire story.
Lord Henry is a man who possesses “wrong, fascinating, poisonous, delightful theories .”
During the story sometimes there is an implicit critic against the Victorian age and the commodification of the Art, for example when Basil says “we can lost the abstract sense of Beauty” .
When Basil gives the picture to Dorian, the young man is fascinated by his beauty. Lord Henry, who is hedonistic, says to Oscar “we are punished for our refusals. Every impulse that we strive to strangle broods in the mind and poisons us. The body sins once, and has done with its sin, for action is a mode of purification. Nothing remains then but the recollection of a pleasure, or the luxury of a regret. The only way to get rid of a temptation is to yield to it. Resist it, and your soul grows sick with longing for the things it has forbidden to itself, with desire for what its monstrous laws have made monstrous and unlawful. It has been said that the great events of the world take place in the brain. It is in the brain, and the brain only, that the great sins of the world take place also.” Because of this sentence Oscar expresses the desire to remain forever young because “youth is the only thing worth having.”
Now Dorian starts to live only for pleasure, he hasn’t a moral code to follow, but he lives only in relationship to his beauty. Because of his desire he can maintain his eternal young and beauty, meanwhile the picture shows the signs of age, experience, vice and soul’s corruption of the boy. So the picture is the double face, or an alter ego of Dorian himself. Dorian gave his soul to the picture.
Youth was very important to the aesthetes because is the only age in which the people can show their beauty and also because they can do what they want without responsibility. Dorian’s desire, which is a pact with the devil, goes beyond the reality of every human being. Anyone can’t live forever his beauty and youth, but he must live the passing of the time.
So Dorian Gray portrays the example written by Seneca in 119 letters, analyzed before. He was handsome, everybody loves him for his beauty but he wanted more: he wanted maintain his beauty, which is impossible for every human being. He will dead because of his desire.
The novel also illustrated the philosophy of the writer. People can try to escape from their reality thanks to Art but the eternal beauty it’s only a desire impossible to satisfy.
For this reason Oscar will died, he loved for his entire life many surfaces but at the end he cannot endure the weight of his sins and will kill himself.
Oscar Wilde in the Picture of Dorian Gray shows how is Art: it’s not moral but at the same time shows how many vices the society of the 18th century had.

























BIBLIOGRAFIA
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• Lucrezio, De Rerum Natura, Torino, Einaudi editore s.p.a, 2003 (pagg. 241-255)
• De Sanctis F., Schopenhauer e Leopardi, Milano, Ibis, 1999
• Seneca, Lettere a Lucilio, Milano, BUR, 2014 ( lettera 39, 116, 119)
• Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, Mondadori, traduttore Raffaele Calzini (formato MOBI)
• Epicuro, Lettera a Meneceo, Viterbo, Stampa Alternativa Nuovi Equilibri, 2013

SITOGRAFIA:
• Fabricio Turoldo, Etimologia del desiderio, Il cattivo desiderio, Desiderio e bisogno, Enciclopedia della bioetica http://www.enciclopediadebioetica.com/index.php/todas-las-voces/166-desiderio
• F.Bertoldi, Schopenhauer griglia riassuntiva http://www.filosofico.net/schope234.htm
• Alberto Bairati, La condizione umana in Leopardi e Schopenhauer http://www.atuttascuola.it/tesine/2002/la_condizione_umana_in_leopardi3.htm
• Diego Fusaro, Epicuro http://www.filosofico.net/epicuro.html#n32
Estratto del documento

Arthur Schopenhauer

Il Wille

Giacomo Leopardi

IL DESIDERIO: La Teoria del Piacere

POTENZA ED ESSENZA

DELL’UOMO Epicuro

La classificazione dei desideri (Lettera a Meneceo)

Lucrezio e Seneca

L’insoddisfazione del desiderio amoroso

Oscar Wilde

The Picture of Dorian Gray and the desire of eternal

beauty

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