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Sintesi

Dei Sepolcri di Ugo Foscolo



Pubblicato nell’aprile del 1807, Dei sepolcri è un poema didascalico rispecchia un periodo che va dal 1804 al 1806. Foscolo comprende che non è più il caso di farsi illusioni, ma si ricava uno spazio come poeta-vate con ricadute sociali.
La prima stesura risale al periodo giugno-agosto del 1806 e trova la sua occasione in una conversazione tra Foscolo Ippolito Pindemonte (che intanto stava scrivendo I cimiteri, in ottica cristiana), in cui Foscolo nega il valore cristiano che l’altro attribuiva alla tomba. Ne I Sepolcri Foscolo rivede la sua posizione, reputando la tomba un monito ai vivi e come stimolo a questi a comportarsi rettamente per emulare i grandi di cui la tomba ricorda la morte. Interviene, quindi, come poeta su fatti di cronaca, cosa già fatta nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis.
L’opera riprende il filone della poesia preromantica di Grey e il gusto per la natura morbosa e ostile. Livella, inoltre, di possedere una doppia anima, apollineo-dionisiaca, o anche classico-romantica.
Dopo la pubblicazione, l’opera di due stroncature: la prima, strutturale, da parte di Pietro Giordani, che definisce l’opera un «fumoso enigma»; la seconda da parte di Aime Guillon, che la accusa di mancanza di organicità (e quindi di un idea di fondo) e di originalità.
Il componimento presenta una tecnica pittorica che annulla spazio e tempo, permettendo Foscolo di spostarsi bruscamente da un argomento all’altro.
Estratto del documento

porgendo, sacre le reliquie renda

dall’insultar de’ nembi e dal profano

piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,

e di fiori adorata arbore amica

40 le ceneri di molli ombre consoli.

Sol chi non lascia eredità d’affetti

poca gioia ha dell’urna; e se pur mira

dopo l’esequie, errar vede il suo spirto

fra ‘l compianto de’ templi Acherontei,

45 o ricovrarsi sotto le grandi ale

del perdono d’Iddio: ma la sua polve

lascia alle ortiche di deserta gleba

ove né donna innamorata preghi,

né passeggier solingo oda il sospiro

50 che dal tumulo a noi manda Natura.

Pur nuova legge impone oggi i sepolcri

fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti

7

contende. E senza tomba giace il tuo

8 9

, o Talia , che a te cantando

sacerdote

55 nel suo povero tetto educò un lauro

con lungo amore, e t’appendea corone;

e tu gli ornavi del tuo riso i canti 10

che il lombardo pungean Sardanapalo ,

cui solo è dolce il muggito de’ buoi

60 che dagli antri abduani e dal Ticino

lo fan d’ozi beato e di vivande.

O bella Musa, ove sei tu? Non sento

spirar l’ambrosia, indizio del tuo nume,

fra queste piante ov’io siedo e sospiro

11

65 il mio tetto materno . E tu venivi

e sorridevi a lui sotto quel tiglio

ch’or con dimesse frondi va fremendo

perché non copre, o Dea, l’urna del vecchio,

cui già di calma era cortese e d’ombre.

70 Forse tu fra plebei tumuli guardi

vagolando, ove dorma il sacro capo

del tuo Parini? A lui non ombre pose

tra le sue mura la città, lasciva

d’evirati cantori allettatrice,

75 non pietra, non parola; e forse l’ossa

col mozzo capo gl’insanguina il ladro

7 L’editto di Saint-Cloud, emanato da Napoleone il 12 giugno 1804, prende il nome dal luogo in cui venne emanato

(Saint-Cloud, appunto, ma si chiamava Décret Impérial sur les Sépultures. Raccoglieva, infatti, in un corpo organico,

tutte le leggi precedenti relative alle sepolture e stabiliva che le tombe venissero poste al di fuori delle mura cittadine, in

luoghi soleggiati e arieggiati, e che fossero tutte uguali. Per i defunti illustri, invece, era una commissione

di magistrati a decidere se far scolpire sulla tomba un epitaffio. La norma, dunque, aveva da un lato una motivazione

igienico-sanitaria e dall’altro una ideologica.

8 Giuseppe Parini, che non ebbe una tomba.

9 Musa della commedia e della poesia satirica.

10 Re d’Assiria ricco e dissoluto. Qui rappresenta per antonomasia i nobili viziosi e, nello specifico, si riferisce al

«giovin signore» a cui Parini si rivolge nell’opera Il Giorno.

11 Zacinto (o Zante), l’isola greca su cui è nato e di cui era originaria la madre.

che lasciò sul patibolo i delitti.

Senti raspar fra le macerie e i bronchi

la derelitta cagna ramingando

80 su le fosse e famelica ululando;

e uscir del teschio, ove fuggìa la Luna,

l’ùpupa, e svolazzar su per le croci

sparse per la funerea campagna,

e l’immonda accusar col luttuoso

85 singulto i rai di che son pie le stelle

alle obblîate sepolture. Indarno

sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade

dalla squallida notte. Ahi! Sugli estinti

non sorge fiore ove non sia d’umane

90 lodi onorato e d’amoroso pianto:

dal dì che nozze e tribunali ed are

dier alle umane belve esser pietose

di sé stesse e d’altrui, toglieano i vivi

all’etere maligno ed alle fere

95 i miserandi avanzi che Natura

con veci eterne a’ sensi altri destina.

Testimonianza a’ fasti eran le tombe,

ed are a’ figli; e uscìan quindi i responsi

de’ domestici Lari, e fu temuto

100 Su la polve degli avi il giuramento:

religïon che con diversi riti

le virtù patrie e la pietà congiunta

tradussero per lungo ordine d’anni.

Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi

105 fean pavimento; né agl’incensi avvolto

de’ cadaveri il lezzo i supplicanti

contaminò; né le città fur meste

d’effigïati scheletri: le madri

balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono

110 nude le braccia su l’amato capo

del lor caro lattante, onde nol desti

il gemer lungo di persona morta

chiedente la venal prece agli eredi

dal santuario. Ma cipressi e cedri

115 di puri effluvi i zefiri impregnando

perenne verde protendean su l’urne

per memoria perenne; e prezïosi

vasi accogliean le lagrime votive.

Rapìan gli amici una favilla al Sole

120 a illuminar la sotterranea notte,

perché gli occhi dell’uom cercan morendo

il Sole; e tutti l’ultimo sospiro

mandano i petti alla fuggente luce.

Le fontane versando acque lustrali

125 amaranti educavano e viole

su la funebre zolla; e chi sedea

a libar latte o a raccontar sue pene

ai cari estinti, una fragranza intorno

sentia qual d’aura de’ beati Elisi.

130 Pietosa insania che fa cari gli orti

de’ suburbani avelli alle britanne

vergini, dove le conduce amore

della perduta madre, ove clementi

pregaro i Geni del ritorno al prode

135 che tronca fe’ la trîonfata nave

del maggior pino, e si scavò la bara.

Ma ove dorme il furor d’inclite gesta

e sien ministri al vivere civile

l’opulenza e il tremore, inutil pompa

12

140 e inaugurate immagini dell’Orco

sorgon cippi e marmorei monumenti.

Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,

decoro e mente al bello Italo regno,

nelle adulate reggie ha sepoltura

145 già vivo, e i stemmi unica laude. A noi

morte apparecchi riposato albergo,

ove una volta la fortuna cessi

dalle vendette, e l’amistà raccolga

non di tesori eredità, ma caldi

150 sensi e di liberal carme l’esempio.

A egregie cose il forte animo accendono

l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella

e santa fanno al peregrin la terra

che le ricetta. Io quando il monumento

13

155 vidi ove posa il corpo di quel grande

che, temprando lo scettro a’ regnatori,

gli allor ne sfronda, ed alle genti svela

di che lagrime grondi e di che sangue;

14 15

e l’arca di colui che nuovo Olimpo

16

160 alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide

sotto l’etereo padiglion rotarsi

più Mondi, e il Sole irradiarli immoto,

17

onde all’Anglo che tanta ala vi stese

sgombrò primo le vie del firmamento:

165 «Te beata,» gridai «per le felici

aure pregne di vita, e pe’ lavacri

che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!»

Lieta dell’aer tuo veste la Luna

di luce limpidissima i tuoi colli

170 per vendemmia festanti, e le convalli

popolate di case e d’oliveti

mille di fiori al ciel mandano incensi:

12 Altro nome dell’Ade, il regno dei morti.

13 Niccolò Machiavelli.

14 Michelangelo Buonarroti.

15 La cupola di San Pietro.

16 Galileo Galilei.

17 Isaac Newton.

e tu prima, Firenze, udivi il carme 18

che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco ,

175 e tu i cari parenti e l’idïoma 19 20

dèsti a quel dolce di Calliope labbro ,

che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma

d’un velo candidissimo adornando,

rendea nel grembo a Venere Celeste;

21

180 ma più beata che in un tempio accolte

serbi l’Itale glorie, uniche forse

da che le mal vietate Alpi e l’alterna

onnipotenza delle umane sorti,

armi e sostanze t’invadeano, ed are

185 e patria, e, tranne la memoria, tutto.

Che ove speme di gloria agli animosi

intelletti rifulga ed all’Italia,

quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi

22

venne spesso Vittorio ad ispirarsi,

190 irato a’ patrii Numi; errava muto

ove Arno è più deserto, i campi e il cielo

desîoso mirando; e poi che nullo

vivente aspetto gli molcea la cura,

qui posava l’austero; e avea sul volto

195 il pallor della morte e la speranza.

Con questi grandi abita eterno: e l’ossa

fremono amor di patria. Ah, sì! Da quella

religïosa pace un Nume parla:

e nutrìa contro a’ Persi in Maratona

200 ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,

la virtù greca e l’ira. Il navigante

che veleggiò quel mar sotto l’Eubea,

vedea per l’ampia oscurità scintille

balenar d’elmi e di cozzanti brandi,

205 fumar le pire igneo vapor, corrusche

d’armi ferree vedea larve guerriere

cercar la pugna; e all’orror de’ notturni

silenzi si spandea lungo ne’ campi

di falangi un tumulto e un suon di tube

210 E un incalzar di cavalli accorrenti

scalpitanti su gli elmi a’ moribondi, 23

e pianto, ed inni, e delle Parche il canto.

Felice te che il regno ampio de’ venti,

24

Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!

215 E se il piloto ti drizzò l’antenna

18 Dante Alighieri.

19 Musa della poesia epica.

20 Francesco Petrarca.

21 La chiesa di Santa Croce a Firenze.

22 Vittorio Alfieri.

23 Qui viene ripresa una leggenda, riportata da Pausania, secondo cui la battaglia di Maratona fu talmente cruenta che si

ripeteva ogni notte.

24 Si riferisce ai viaggi di Pindemonte a Malta e in Grecia.

oltre l’isole Egée, d’antichi fatti

certo udisti suonar dell’Ellesponto

i liti, e la marea mugghiar portando

alle prode Retèe l’armi d’Achille

220 sovra l’ossa d’Ajace: a’ generosi

giusta di glorie dispensiera è morte:

né senno astuto, né favor di regi

25

all’Itaco le spoglie ardue serbava,

ché alla poppa raminga le ritolse

225 l’onda incitata dagl’inferni Dei.

E me che i tempi ed il desio d’onore

fan per diversa gente ir fuggitivo,

me ad evocar gli eroi chiamin le Muse

del mortale pensiero animatrici.

230 siedon custodi de’ sepolcri, e quando

il tempo con sue fredde ale vi spazza

26

fin le rovine, le Pimplèe fan lieti

di lor canto i deserti, e l’armonia

vince di mille secoli il silenzio.

235 ed oggi nella Tròade inseminata

eterno splende a’ peregrini un loco

eterno per la Ninfa a cui fu sposo

Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,

onde fur Troja e Assàraco e i cinquanta

240 talami e il regno della Giulia gente.

Però che quando Elettra udì la Parca

che lei dalle vitali aure del giorno

chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove

mandò il voto supremo: «E se» diceva

245 «a te fur care le mie chiome e il viso

e le dolci vigilie, e non mi assente

premio miglior la volontà de’ fati,

la morta amica almen guarda dal cielo

onde d’Elettra tua resti la fama.»

250 Così orando moriva. E ne gemea

l’Olimpio; e l’immortal capo accennando

piovea dai crini ambrosia su la Ninfa

e fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.

Ivi posò Erittonio: e dorme il giusto

255 cenere d’Ilo; ivi l’Iliache donne

sciogliean le chiome, indarno, ahi!, deprecando

da’ lor mariti l’imminente fato;

ivi Cassandra, allor che il Nume in petto

le fea parlar di Troja il dì mortale,

260 venne; e all’ombre cantò carme amoroso,

e guidava i nepoti, e l’amoroso

apprendeva lamento a’ giovinetti.

E dicea sospirando: «Oh, se mai d’Argo,

25 Ulisse.

26 Le Muse, così dette dal monte Pimpla, ad esse sacro.

27

ove al Tidide e di Laerte al figlio

265 pascerete i cavalli, a voi permetta

ritorno il cielo, invan la patria vostra

cercherete! Le mura, opra di Febo,

sotto le lor reliquie fumeranno;

ma i Penati di Troja avranno stanza

270 in queste tombe; ché de’ Numi è dono

servar nelle miserie altero nome.

E voi palme e cipressi che le nuore

piantan di Priamo, e crescerete, ahi!, presto

di vedovili lagrime innaffiati.

275 Proteggete i miei padri: e chi la scure

asterrà pio dalle devote frondi

men si dorrà di consanguinei lutti

e santamente toccherà l’altare,

proteggete i miei padri. Un dì vedrete

28

280 mendico un cieco errar sotto le vostre

antichissime ombre, e brancolando

penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,

e interrogarle. Gemeranno gli antri

secreti, e tutta narrerà la tomba

285 Ilio raso due volte e due risorto

splendidamente su le mute vie

per far più bello l’ultimo trofeo

ai fatati Pelìdi. Il sacro vate,

placando quelle afflitte alme col canto,

290 i prenci argivi eternerà per quante

abbraccia terre il gran padre Oceàno.

E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,

ove fia santo e lagrimato il sangue

per la patria versato, e finché il Sole

risplenderà su le sciagure umane.»

27 Diomede.

28 Omero

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