Reati culturalmente motivati
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sono aumentati di 25 volte. Verso la fine del prossimo decennio potremmo superare i 7 milioni. E intorno alla metà del secolo varcare la soglia dei 10
milioni, quando gli abitanti dello Stivale dovrebbero scendere sotto i 56 milioni. La forbice tra calo demografico, flusso e riproduzione di allogeni sembra
destinarci in un futuro non lontanissimo al rango di primo paese europeo per numero di immigrati. Formidabile testacoda: da campioni continentali
dell'emigrazione a leader dell'immigrazione, nell'arco di un secolo".
Nelle pagine seguenti, quindi, partendo dalla predetta definizione di "cultura" etnicamente qualificata e dalla distinzione tra minoranze nazionali autoctone
e gruppi etnici di immigrati appena tracciata, mi limiterò a prendere in esame le reazioni del diritto penale ai fatti di rilevanza penale commessi, per motivi
culturali, dagli immigrati(50).
È chiaro, infine, che in questa sede mi occuperò dei soli reati commessi dagli immigrati per motivi culturali, rispetto alla cui commissione gioca, quindi, un
ruolo determinante la diversità tra la loro cultura d'origine e la cultura dello Stato d'accoglienza. Non mi occuperò, invece, del più ampio problema
concernente, in generale, gli `ordinari' reati commessi dagli immigrati(51).
2. Come gli Stati europei gestiscono la diversità culturale `importata' dagli immigrati.
2.1. Modello "assimilazionista" versus modello "multiculturalista". - Prima, tuttavia, di verificare quali siano le reazioni del diritto penale ai fatti di reato
commessi, per motivi culturali, dagli immigrati, conviene avvalersi ancora un po' delle indagini svolte dalla filosofia politica e dall'antropologia sociale, per
osservare brevemente, su un piano più generale, quale sia l'atteggiamento assunto dagli ordinamenti giuridici degli Stati europei di tipo polietnico nei
confronti degli immigrati e della diversità culturale da essi `importata'.
È noto, infatti, che a partire dalla seconda metà del Novecento gli Stati europei hanno dovuto affrontare un complesso di questioni assolutamente nuove
connesse ai fenomeni immigratori: dalla gestione dei flussi alle condizioni cui subordinare la concessione della cittadinanza; dall'attribuzione di diritti
liberali, sociali, politici agli stranieri, alla disciplina del lavoro, dell'istruzione, della famiglia, etc.(52). Nel risolvere tali questioni gli Stati europei hanno
adottato soluzioni che - a seconda della misura in cui si è con esse tenuto conto della diversità culturale degli immigrati - possono essere ricondotte, sia
pur con una certa schematizzazione, a due modelli di fondo:
- il modello "assimilazionista" alla francese;
- il modello "multiculturalista" all'inglese(53).
Alla radice della contrapposizione tra questi due modelli vi è, fondamentalmente, una differente concezione del principio di eguaglianza: mentre la politica
francese si ispira a una concezione `formale' dell'eguaglianza che prescinde dalle differenze, la politica britannica si sviluppa, invece, su di un concetto
`sostanziale' di eguaglianza, che parte dal riconoscimento dell'esistenza di differenze e, quindi, dalla necessità di ammettere trattamenti differenziati al
fine di gestire equamente tali differenze(54).
Fuori d'Europa il modello assimilazionista aveva caratterizzato, fino agli anni Sessanta, le politiche in materia di immigrazione adottate nei tre Stati
maggiori recettori di flussi immigratori (Australia, Canada e Stati Uniti), ed era stato significativamente denominato "anglo-conformismo". Esso esprimeva
la pretesa che gli immigrati abbandonassero il loro retaggio culturale e si assimilassero interamente alle norme culturali dello Stato d'accoglienza e, nel
tempo, si uniformassero ai cittadini nativi nel modo di parlare, di vestire, di concepire la famiglia, le identità, e così via, al punto da non poter essere più
distinguibili (tanto è vero che ad alcuni gruppi etnici, ad esempio, ai cinesi, fu negato l'accesso, in quanto venivano considerati a priori non assimilabili).
L'assimilazione era ritenuta un prerequisito essenziale della stabilità politica e veniva giustificata anche in virtù della denigrazione etnocentrica delle altre
culture.
A partire dagli anni Settanta, tuttavia, per effetto delle pressioni esercitate dai gruppi di immigrati, questi tre Stati hanno abbandonato il modello
assimilazionista e adottato una politica più tollerante e pluralista che permette e anzi incoraggia gli immigrati a conservare diversi aspetti del loro retaggio
culturale. In questi Stati è ormai ampiamente diffusa (ma certo non universale) la convinzione che gli immigrati dovrebbero essere liberi di mantenere
alcune delle loro consuetudini per quanto riguarda l'alimentazione, l'abbigliamento e la religione, e di formare associazioni al fine di sostenere queste
pratiche(55).
2.2. Il modello "assimilazionista" alla francese. - Attualmente, tra le democrazie occidentali con massiccia presenza di immigrati, la Francia è forse l'unico
Stato che tuttora aderisce al modello assimilazionista(56). Tale modello si ispira ad una logica di assoluta uguaglianza formale, di asettica neutralità dello
Stato di fronte alle differenze culturali. Esso si basa, infatti, sulla scelta di non attribuire, negli spazi pubblici, alcun rilievo all'eventuale appartenenza del
soggetto a gruppi di immigrati con radici culturali anche profondamente diverse da quelle dello Stato di accoglienza.
Quale espressione estrema di tale modello si pensi alla recente legge francese del 15 marzo 2004, n. 228, che vieta l'ostensione di simboli religiosi
all'interno della scuola: questa legge - che rappresenta "l'ultima, più evidente conferma dell'idea francese di eguaglianza assimilatrice"(57) - impone a
tutti, al di là dell'origine culturale, etnica, religiosa, di essere formalmente uguali nello spazio pubblico (qui costituito dalla scuola)(58).
Una filosofa del diritto italiana, Alessandra Facchi, che ha studiato a fondo i problemi dell'immigrazione in Europa, così descrive il modello francese: "nei
confronti degli immigrati la Francia ha adottato una politica di inclusione nella cultura francese guidata dall'idea di una società caratterizzata da
un'omogeneità culturale che si sostituisse alle culture originarie. La comunità di riferimento è quella nazionale ed è rappresentata come una comunità
unitaria, i cui principi e valori devono essere riconosciuti e rispettati da tutti gli individui (...). Ciò non significa che nel privato l'individuo non sia libero di
seguire le proprie appartenenze, ma esse non devono emergere nella sfera pubblica, né possono essere considerate rilevanti giuridicamente. Nel diritto
francese non è previsto un trattamento speciale riservato alle minoranze o gruppi etnici: si applica sempre il diritto comune (...). Integrazione significa
eguaglianza come identità di trattamento e trova corrispondenza nella neutralità e laicità dello Stato"(59).
Pertanto, una siffatta politica di "francesizzazione dei nuovi venuti"(60), sul piano soggettivo mira ad una completa assimilazione degli immigrati, in quanto
favorisce l'eventuale emancipazione dei singoli dall'originario gruppo culturale in vista di una loro immedesimazione nella comunità nazionale, e sancisce
l'irrilevanza di ogni loro "diversità" in ambito giuridico; sul piano oggettivo mira a preservare, nonostante i sempre più intensi flussi immigratori,
l'omogeneità culturale dello Stato nel suo insieme(61).
2.3. Il modello "multiculturalista" all'inglese. - Ben diverse sono le soluzioni cui si ispira il modello multiculturalista all'inglese, improntato ad un
riconoscimento di fondo delle diversità culturali(62).
Secondo Alessandra Facchi, l'Inghilterra ha assunto, nei confronti dei gruppi etnici di immigrati, "un impegno pubblico verso il mantenimento delle
tradizioni comunitarie, delle specificità culturali ed etniche. Il modello inglese si dichiara ufficialmente diretto ad una armonia razziale e ad un trattamento
paritetico delle minoranze. Si tratta di una politica (...) che riconosce e protegge le varie identità culturali presenti sul territorio britannico e la realizzazione
concreta delle modalità di vita prescritte da norme religiose e tradizionali (...), e che attribuisce un ruolo sociale e politico importante alle comunità etniche
e alle associazioni di immigrati (...)". Coerentemente a tale impostazione, "l'appartenenza a un gruppo etnico può costituire il presupposto di un
trattamento giuridico differenziato attuato non solo sul piano giudiziario, ma anche su quello legislativo"(63).
L'adesione a tale modello comporta, quindi, il riconoscimento e l'accettazione delle diversità culturali, con conseguente adozione di strategie politiche più
tolleranti e pluraliste, che di fatto consentono agli immigrati di conservare numerosi aspetti del loro retaggio etnico. Tali strategie possono essere alquanto
varie e coinvolgere diversi settori della vita pubblica.
Ecco un campionario di strategie coerenti al modello multiculturalista, suggerite da Kymlicka(64):
- la riforma dei curricula scolastici (vale a dire la revisione del curriculum di storia e letteratura delle scuole statali per garantire maggior riconoscimento ai
contributi storici e culturali delle minoranze etnoculturali; nonché l'introduzione di programmi di educazione bilingue per i figli degli immigrati nella scuola
primaria);
- l'adattamento istituzionale (vale a dire l'adattamento dei piani di lavoro e dei codici di abbigliamento alle festività e agli usi religiosi dei gruppi di
immigrati; l'adozione sul luogo di lavoro di codici sanzionatori dei commenti razzisti; l'istituzione di linee guida che regolamentino gli stereotipi etnici dei
mass media);
- l'adattamento dei programmi di pubblica istruzione (come ad esempio le campagne di educazione antirazzista; i corsi di formazione alla diversità
culturale per gli agenti di polizia, gli operatori sociali e sanitari);
- l'adozione di programmi di sviluppo culturale (quali il finanziamento di festival e di programmi di studio etnici; l'offerta di corsi di alfabetizzazione nella
propria lingua madre per immigrati adulti);
- l'adozione di affermative actions/azioni positive (come, ad esempio, il trattamento preferenziale per garantire alle minoranze accesso all'istruzione, alla
formazione o all'impiego).
A livello legislativo, l'adesione al modello multiculturalista in Inghilterra ha comportato l'adozione di alcune norme che prevedono deroghe, esenzioni o
comunque regimi giuridici speciali in virtù dell'appartenenza ad un gruppo etnico di immigrati(65). In ordine cronologico - e limitandosi alle sole leggi che
possono avere una rilevanza anche in ambito penale(66) - si possono ricordare(67):
- il Matrimonial Proceedings (Polygamous Marriage) Act del 1972, che, a determinate condizioni, prevede il riconoscimento di effetti giuridici e la
dichiarazione di validità di un matrimonio anche se esso è stato contratto "under a law which permits poligamy"(68);
- lo Slaughter of Poultry Act del 1967, seguito dallo Slaughterhouses Act del 1974 e, infine, sostituito con The Welfare of Animals (Slaughter and Killing)
Regulations 1995, Statutory Instruments 1999/400, i cui artt. 21 e 22 consentono ai musulmani e agli ebrei di macellare gli animali secondo le loro
tradizioni, anche in deroga alle disposizioni (anche penali) vigenti in materia(69);
- la sezione 16.2 del Road Traffic Act del 1988 che consente agli indiani sikh di portare il turbante, anziché il casco, quando viaggiano in moto(70);
- la sezione 11 dell'Employment Act del 1989 che consente agli indiani sikh di portare il turbante, anziché l'elmetto protettivo, nell'ambito delle attività
lavorative nei cantieri edili(71).
2.4. Quale modello preferire? - Chiedersi quale dei due modelli debba essere preferito è una domanda alla quale, in questa sede, non è certo possibile
fornire una risposta argomentata, tanto più che tra gli stessi `esperti della materia' il dibattito è alquanto acceso, giacché ciascuno dei due modelli implica
vantaggi e svantaggi. Di recente, con pregevole sintesi e chiarezza, un penalista italiano, Alessandro Bernardi, ha descritto i possibili inconvenienti correlati
a ciascuno dei due modelli, sia per quanto riguarda le scelte politiche generali di uno Stato, sia per quanto riguarda, in particolare, la politica criminale(72).
In questa sede non posso, pertanto, che rinviare a tale limpida analisi, limitandomi soltanto ad alcune brevi considerazioni al fine di evidenziare una
graduale, moderata affermazione, pur non incontrastata, del modello multiculturalista all'interno dei Paesi europei:
1) ibridazione e revisione dei due modelli: nelle pagine precedenti ho cercato di schematizzare i due modelli nella loro forma `pura'. Occorre, tuttavia,
sottolineare che la situazione sociale e politica dei Paesi europei conosce, in realtà, varie forme di contaminazione, sovrapposizione, intersecazione di
questi due modelli (anche negli stessi Paesi di riferimento: Francia e Inghilterra)(73). Tali modelli, inoltre, specie negli ultimi anni, sono stati
profondamente rimessi in discussione, anche su pressione dell'opinione pubblica che ha vissuto alcuni recenti avvenimenti(74) come altrettanti episodi di
uno "scontro culturale" in atto tra diverse civiltà(75);
2) integrazione ed emarginazione: tanto il modello assimilazionista quanto il modello multiculturalista possono in teoria essere adottati per conseguire, pur
con `ricette' diverse, un medesimo obiettivo: l'integrazione degli immigrati nella società d'accoglienza(76). Senonché il modello assimilazionista sembra
intendere l'integrazione come un percorso unidirezionale, in cui è la minoranza che deve adattarsi alla maggioranza; il modello multiculturalista, invece,
sembra concepire l'integrazione come un percorso bidirezionale(77), in cui la minoranza deve sì adattarsi alla maggioranza, ma la maggioranza a sua volta
è disposta ad offrire condizioni più eque di adattamento(78). Nonostante il perseguimento dell'obiettivo dell'integrazione, tuttavia, nessuno dei due modelli
e delle rispettive politiche è finora riuscito ad evitare effetti di emarginazione degli immigrati, i quali non hanno raggiunto, in nessuno dei due Paesi di
riferimento (Francia e Inghilterra), un livello di istruzione, di risorse economiche e integrazione sociale comparabile a quello dei membri del gruppo
culturale di maggioranza(79).
La scelta tra i due modelli, quindi, non dovrebbe dipendere solo da opzioni politiche o ideologiche, ma anche dalla effettiva capacità di rendimento dell'uno
o dell'altro modello: insomma, dalla loro capacità di `produrre' integrazione.
A tal proposito, un profondo conoscitore delle problematiche dell'immigrazione, nonché convinto sostenitore del modello multiculturalista, Will Kymlicka,
ritiene che il modello multiculturalista, inaugurato in Canada a partire dal 1971, stia fornendo le prime prove positive di funzionamento, in quanto parrebbe
che "gli immigrati si integrino più velocemente nei Paesi che hanno adottato politiche ufficiali multiculturali (come Canada e Australia), rispetto ai Paesi che
non lo hanno fatto (quali gli Stati Uniti e la Francia) e tali immigrati non soltanto sono integrati dal punto di vista istituzionale, ma partecipano attivamente
ai processi politici, [sono] notevolmente impegnati a proteggere la stabilità delle istituzioni di maggioranza e a sostenere i valori liberal-democratici"(80).
Sempre a parere di Kymlicka, inoltre, il modello multiculturalista si sta progressivamente affermando anche in vari Paesi dell'Europa occidentale, in
sintonia con il decisivo consolidamento della loro struttura democratica maturato nel secondo Dopoguerra(81);
3) l'Unione europea di fronte ai due modelli: la diversità (e la mutevolezza) degli approcci adottati dai vari Paesi dell'Unione europea per raggiungere
l'obiettivo dell'integrazione, ha reso viva, in tempi recenti, l'esigenza di un maggiore coordinamento fra le politiche dei singoli Stati membri e le iniziative
dell'Unione europea in materia di integrazione degli immigrati(82). Un primo passo per soddisfare tale esigenza è stato compiuto dalla Commissione CE
con la Comunicazione 1° settembre 2005, significativamente intitolata "Un'agenda comune per l'integrazione. Quadro per l'integrazione dei cittadini di
paesi terzi nell'Unione europea"(83), con la quale è stata individuata una serie di "principi fondamentali comuni". Ebbene, alcuni di essi sembrano
senz'altro ispirarsi alla logica del modello multiculturalista:
- "l'integrazione è un processo dinamico e bilaterale di adeguamento reciproco da parte di tutti gli immigrati e di tutti i residenti degli Stati membri";
- "l'accesso degli immigrati alle istituzioni nonché a beni e servizi pubblici e privati, su un piede di parità con i cittadini nazionali e in modo non
discriminatorio, costituisce la base essenziale di una migliore integrazione";
- "l'interazione frequente di immigrati e cittadini degli Stati membri è un meccanismo fondamentale per l'integrazione. Forum comuni, il dialogo
interculturale, l'educazione sugli immigrati e la loro cultura, nonché condizioni di vita stimolanti in ambiente urbano potenziano l'interazione tra immigrati e
cittadini degli Stati membri";
- "la pratica di culture e religioni diverse è garantita dalla Carta dei diritti fondamentali e deve essere salvaguardata, a meno che non sia in conflitto con
altri diritti europei inviolabili o con le legislazioni nazionali".
Un'adesione, per lo meno a livello programmatico, al modello multiculturalista potrebbe, altresì, essere scorta in alcuni articoli del Trattato costituzionale
europeo del 29 ottobre 2004(84). Si vedano, in particolare:
- art. I-2 (Valori dell'Unione): "L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di
diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a una minoranza. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una
società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini";
- art. II-82 (Diversità culturale, religiosa e linguistica): "L'Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica";
- art. III-118: "Nella definizione e nell'attuazione delle politiche e azioni di cui alla presente parte [Parte Terza], l'Unione mira a combattere le
discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale";
4) una ricorrente (ma superabile) obiezione al modello multiculturalista: una ricorrente obiezione al modello multiculturalista sostiene che esso rischia di
comportare l'accettazione anche di pratiche culturali incompatibili con i valori liberal-democratici: "se il multiculturalismo implica l'accettazione della
diversità etno-culturale, allora dobbiamo accettare, per esempio, anche la pratica della clitoridectomia nelle donne, o le proposte per il riconoscimento
legale dei matrimoni combinati? Dobbiamo accettare l'obbligo legale della legge musulmana sulla famiglia, o permettere che i mariti possano appellarsi alla
`cultura' per difendersi dall'accusa di violenza sulle proprie mogli? Il multiculturalismo diventerà il `cavallo di Troia' che mina i nostri valori più cari e i
nostri principi di libertà e uguaglianza?"(85).
Tale obiezione, tuttavia, risulta in realtà superabile allorché si rifletta sul fatto che anche nel modello multiculturalista esistono - devono esistere! - limiti
alla tolleranza(86). Proprio ad una breve descrizione di tali limiti sono dedicati i prossimi due paragrafi.
2.5. La tolleranza ed i suoi limiti (all'interno del modello multiculturalista). - In tutte le democrazie occidentali che hanno aderito al modello
multiculturalista esistono dei limiti al riconoscimento delle diversità culturali; e tali limiti sono essenziali, perché costituiscono condizione di effettività e
buon funzionamento del modello multiculturalista(87).
La cornice di tali limiti è segnata dal rispetto dei diritti fondamentali dell'individuo (nonché dall'integrazione linguistica e dalla cooperazione interetnica: ma
questi due ultimi aspetti non hanno una rilevanza diretta in ambito penalistico)(88).
L'esistenza di tali limiti è stata sottolineata anche nella citata Comunicazione della Commissione(89), laddove si afferma espressamente il principio secondo
cui "l'integrazione implica il rispetto dei valori fondamentali dell'Unione europea"(90). Tale principio viene poi ulteriormente esplicato nell'Annex della citata
Comunicazione nei seguenti termini:
"The Charter of Fundamental Rights describes the civil, political, economic and social rights of European citizens and of all persons resident in the EU.
These are based on the values which all the Member States adhere to: human rights standards and values such as equality, antidiscrimination, solidarity,
openness, participation and tolerance. Member States are responsible for assuring that all residents, including immigrants, understand, respect and benefit
from common European and national values".
In termini particolarmente perspicui, ma privi di rilievo ufficiale, l'esigenza di apporre limiti alla tolleranza di matrice multiculturalista si trova ben espressa
anche in un passaggio del "Manifiesto sobre Diversidad Cultural y Política Criminal", sottoscritto nel marzo 1996 a Bilbao da un gruppo di penalisti
spagnoli(91):
"El respeto y reconocimiento de las particularidades diferenciales, cuyo punto de apoyo no es otro que la plena vigencia de los derechos humanos, debe
coordinarse, sin embargo, con los deberes y límites genéricos que impone la Constitución a todos los ciudadanos con el fin de garantizar la convivencia. De
nuestra norma fundamental se extraen, en efecto, una serie de reglas esenciales de convivencia que constituyen el auténtico nucleo de la sociedad civil y
que, en ese carácter, deben ser asumidas por todos. De ahí que aún en el supuesto de que se admitiera que el contenido concreto de los derechos
humanos puede estar sujeto a variaciones dependientes de los valores propios de las diversas culturas, deba reconocerse a aquellas reglas esenciales el
carácter de límite del derecho a la diversidad. No se pretende con ello buscar una coartada que permita justificar medidas dirigidas a imponer a las
minorías los valores predominantes en la sociedad, sino más bien reconocer la existencia de un marco global de actuación - unas `reglas de juego' - sin el
cual no sería posible la convivencia".
Non dovrebbero, dunque, esistere dubbi sul fatto che, in nome dell'adesione al modello multiculturalista, non possono essere tollerati comportamenti i
quali, pur radicandosi in una data cultura, attentano ai diritti fondamentali dell'individuo così come sviluppati nel diritto internazionale e nell'ordinamento
dei singoli Paesi(92). Peraltro, anticipando una considerazione che svilupperò in seguito(93), si può fin d'ora osservare che i limiti alla tolleranza vengono
in rilievo soprattutto nei settori coperti dal diritto penale, essendo quest'ultimo preposto, tra l'altro, proprio a tutelare i diritti fondamentali dell'individuo.
Il modello multiculturalista non lascia, dunque, la porta aperta ad ogni espressione di diversità culturale, ma implica dei limiti alla tolleranza. Il problema
diventa, allora, di individuare, nei casi dubbi, dove si collochino precisamente tali limiti.
2.6. Ancora sui limiti alla tolleranza: la distinzione tra "restrizioni interne" e "tutele esterne". - Come si può capire se una rivendicazione di un gruppo
etnico di immigrati supera i predetti limiti e, quindi, non può essere accolta nonostante l'adesione al modello multiculturalista?
Per fornire alcuni criteri che aiutino nella soluzione di tale decisivo quesito, Kymlicka(94) ha operato una distinzione tra due tipi di rivendicazione che i
gruppi di minoranza possono avanzare:
- la rivendicazione di restrizioni interne;
- la rivendicazione di tutele esterne.
"Il primo tipo attiene alle richieste che un gruppo può avanzare contro i suoi membri; il secondo riguarda le richieste avanzate contro la società dominante.
Entrambi i tipi mirano a salvaguardare la stabilità delle comunità (...) [di minoranza], ma fanno riferimento a diverse fonti di instabilità. Il primo tipo di
rivendicazione è diretto a proteggere il gruppo dall'effetto destabilizzante del dissenso interno (ad esempio, la decisione di alcuni membri di non rispettare
le pratiche o i costumi tradizionali), mentre con il secondo si cerca di tutelare il gruppo dall'impatto di decisioni esterne (ad esempio, le decisioni
economiche e politiche della maggioranza)"(95).
Le restrizioni interne riguardano, quindi, i rapporti intra-gruppo: attraverso di esse un gruppo di minoranza intende limitare la libertà dei propri stessi
membri in nome della solidarietà di gruppo, della purezza culturale, della ortodossia religiosa, della preservazione delle tradizioni. Si pensi, ad esempio,
alla pretesa, da parte dei capi del gruppo, di imporre agli altri membri, anche contro la loro volontà, il rispetto di pratiche culturali tradizionali, come il
matrimonio combinato forzato, la clitoridectomia, la discriminazione sessuale nell'ambito dell'istruzione e dei rapporti familiari, ovvero ancora l'interruzione
degli studi da parte dei fanciulli prima dell'età minima prevista dalla legge al fine di ridurre la probabilità che essi lasceranno la comunità d'appartenenza.
Attraverso le restrizioni interne, quindi, si costringono le persone a conservare il tradizionale modo di vivere del gruppo, anche quando esse avrebbero
scelto di comportarsi diversamente in quanto attratte da un altro modo di vivere (in particolare, dal modo di vivere del gruppo di maggioranza)(96).
Le tutele esterne riguardano, invece, i rapporti inter-gruppo in quanto rispondono a rivendicazioni avanzate dal gruppo di minoranza nei confronti del
gruppo di maggioranza: attraverso di esse un gruppo di minoranza intende limitare l'influenza ed il peso del gruppo di maggioranza, al fine di proteggere e
preservare la propria esistenza e la propria identità culturale. Attraverso tali tutele si sancisce, quindi, il diritto della minoranza di limitare il potere
economico o politico su di essa esercitato dal gruppo di maggioranza, al fine di garantire che le risorse e le istituzioni su cui la minoranza fa affidamento
non siano alla mercé della maggioranza. Si pensi, ad esempio, alla richiesta di finanziamento di programmi di insegnamento della lingua degli immigrati
oppure alla richiesta di finanziamento di gruppi artistici `folcloristici', finalizzate al mantenimento di aspetti essenziali della cultura del gruppo di minoranza
che potrebbero, invece, sgretolarsi sotto il peso economico e l'influenza sociale del gruppo di maggioranza. Oppure si pensi alla richiesta di esenzione
dall'obbligo di chiusura domenicale dei negozi o dall'obbligo di rispettare codici d'abbigliamento che confliggono con determinati precetti religiosi del
gruppo di minoranza.
Attraverso le tutele esterne, quindi, si garantisce la possibilità alle persone di conservare il loro modo di vivere tradizionale sempreché esse vogliano
davvero conservarlo, impedendo che tale possibilità venga ostacolata dalle decisioni di persone estranee alla loro comunità (in particolare, da persone
appartenenti al gruppo di maggioranza)(97).
Ebbene, secondo Kymlicka, una democrazia liberale può e deve approvare determinate `tutele esterne', a condizione che esse siano rivolte a promuovere
il trattamento equo dei diversi gruppi, mentre deve respingere le `restrizioni interne' perché esse circoscrivono il diritto dei membri di un gruppo di
contestare e modificare le autorità e le pratiche tradizionali(98). Una concezione liberale del modello multiculturalista implica, infatti, tanto l'eguaglianza
fra i gruppi minoritari e quello maggioritario, quanto la libertà all'interno dei gruppi minoritari(99):
"una concezione liberale dei diritti delle minoranze non giustifica (se non in condizioni estreme) le restrizioni interne, cioè la pretesa da parte di una cultura
minoritaria di limitare le fondamentali libertà civili o politiche dei suoi membri. I liberali ritengono che gli individui abbiano il diritto di decidere da soli quali
aspetti della loro tradizione culturale sono degni di essere conservati. Il liberalismo implica, anzi, forse si contraddistingue per il fatto che gli individui sono
liberi e capaci di mettere in discussione ed eventualmente modificare le pratiche tradizionali della loro comunità, qualora giungano alla conclusione che
queste pratiche non meritano più la loro fedeltà. I principi liberali non sono invece così esigenti nei confronti delle tutele esterne, le quali riducono la
vulnerabilità di una minoranza nei confronti delle decisioni della società dominante. Anche qui, tuttavia, esistono alcuni limiti. La giustizia liberale non può
accettare alcuna rivendicazione che darebbe a un gruppo la possibilità di opprimere o sfruttare un altro gruppo, come nel caso dell'apartheid. Le tutele
esterne sono legittime soltanto nella misura in cui promuovono la parità fra gruppi mediante la correzione di condizioni di svantaggio o l'eliminazione di
rischi cui sono esposti i membri di un determinato gruppo"(100).
Vero è che quella tra `tutele esterne' e `restrizioni interne' è una distinzione non sempre facile da tracciare(101). Mi pare, tuttavia, che essa possa
comunque fornire utili indicazioni di politica legislativa e, in particolare, di politica criminale, per individuare - all'interno di una società orientata al modello
multiculturalista - ciò che è tollerabile e ciò che non lo è.
3. I reati culturalmente motivati commessi dagli immigrati.
La presenza di immigrati all'interno del territorio degli Stati europei pone una serie di `sfide' anche al diritto penale(102). Coerentemente alla
delimitazione del campo d'indagine tracciata nelle pagine precedenti, intendo soffermarmi su una di queste `sfide'(103): come deve reagire il diritto penale
ai reati commessi, per motivi culturali, dagli appartenenti ai gruppi etnici di immigrati?
Per un corretto inquadramento dei termini di tale `sfida' si rende a questo punto necessario illustrare preliminarmente la nozione di reato commesso per
motivi culturali, ovvero di "reato culturalmente motivato".
3.1. La nozione di reato culturalmente motivato. - Sulla premessa della nozione di cultura etnicamente qualificata sopra riferita (v. supra, 1.2), per "reato
culturalmente motivato" ("culturally motivated crime"; "delito culturalmente motivado") si intende, secondo una definizione ampiamente condivisa dalla
dottrina penalistica europea(104), "un comportamento realizzato da un membro appartenente ad una cultura di minoranza, che è considerato reato
dall'ordinamento giuridico della cultura dominante. Questo stesso comportamento, tuttavia, all'interno del gruppo culturale dell'agente è condonato, o
accettato come comportamento normale, o approvato, o addirittura è sostenuto e incoraggiato in determinate situazioni"(105).
Alla commissione del reato culturalmente motivato fa, quindi, da sfondo una situazione che può essere definita di "conflitto normativo"(106), ovvero di
"conflitto culturale"(107), o meglio ancora - con espressione ricomprensiva di entrambe le possibili varianti - di "conflitto normativo/culturale"(108).
Si tratta, a ben guardare, di una situazione di conflitto per certi aspetti simile (ma non identica) a quella già da tempo studiata dalla scienza giuridica e
dalla filosofia del diritto, e tematizzata sotto il paradigma dell'"antinomia giuridica". Convenzionalmente, infatti, si parla di antinomia giuridica per indicare
l'esistenza di un conflitto tra due norme giuridiche, entrambe valide ed entrambe appartenenti al medesimo ordinamento giuridico(109). Nel nostro caso,
invece, il conflitto sussiste tra:
- una norma giuridica (segnatamente, una norma penale) dell'ordinamento del Paese d'accoglienza, che incrimina una determinata condotta, e
- una norma culturale, radicata nella cultura del gruppo etnico d'appartenenza dell'immigrato (eventualmente recepita anche in una norma giuridica: ma,
in tale eventualità, si tratterà di una norma giuridica vigente in un diverso ordinamento, vale a dire nell'ordinamento del Paese di provenienza
dell'immigrato), che autorizza o addirittura impone di tenere quella condotta.
La situazione di "conflitto normativo/culturale" da cui scaturisce il reato culturalmente motivato potrebbe, pertanto, essere più esattamente inquadrata
nella categoria dell'"antinomia impropria", formula utilizzata da una parte della dottrina penalistica per indicare il conflitto tra una norma giuridica e una
norma extragiuridica(110).
Assai ricco è il campionario di esempi di reati culturalmente motivati commessi dagli immigrati, tratti dalle cronache giudiziarie o descritti dalla dottrina:
reati in materia di lavoro, o contro la libertà sessuale, di cui sono vittime minori non considerati tali dal gruppo di appartenenza; reati contro la famiglia
(ad esempio, maltrattamenti in famiglia o matrimoni incestuosi, poligamici o combinati ed imposti) realizzati in contesti culturali caratterizzati da una
concezione dello ius corrigendi, dell'autorità maritale o della potestà genitoriale ben diversa da quella europea; atti di vendetta dell'onore maschile o
familiare ispirati a tradizioni ataviche, ma tuttora vivissime presso gli appartenenti a certe etnie; reati contro la persona commessi effettuando mutilazioni
o deformazioni `rituali' di vario tipo, suggerite o ammesse dalle proprie tradizioni(111).
3.2. La reazione ai reati culturalmente motivati nel diritto penale dei Paesi europei (con cenni alle cultural defenses nell'esperienza statunitense). - Di
fronte ad un reato culturalmente motivato commesso dall'immigrato come deve reagire il diritto penale? Deve conferire un qualche rilievo alla sua cultura
d'origine, rectius alla situazione di conflitto normativo/culturale che ha fatto da sfondo alla commissione del reato? In particolare, deve riservare, in
considerazione di tale situazione di conflitto normativo/culturale, un trattamento speciale, e segnatamente più mite, per l'immigrato-autore del reato?
Si tratta di quesiti centrali per il diritto penale delle società multiculturali di tipo polietnico e sui quali la dottrina penalistica, in effetti, già da qualche
decennio, da diverse prospettive e con diversi esiti, ha cominciato ad interrogarsi(112).
Tuttavia, per quanto mi risulta, a livello legislativo finora tali quesiti non hanno trovato risposta esplicita, giacché in nessun ordinamento penale dei Paesi
europei, recettori di flussi immigratori, è stata introdotta una qualche norma di parte generale specificamente pensata per i reati culturalmente motivati
commessi dagli immigrati. In nessun codice penale europeo, infatti, compare una disposizione di parte generale che dia esplicito rilievo alla suddetta
situazione di conflitto normativo/culturale prevedendo un trattamento di favore per l'imputato-immigrato, il quale abbia commesso il fatto di reato in
conformità ad una norma culturale del suo gruppo etnico di provenienza(113).
Anche fuori d'Europa, nella legislazione penale dei Paesi occidentali non sembra rinvenibile alcuna norma siffatta rivolta specificamente agli
immigrati(114). Si noti, tuttavia, che all'interno della dottrina statunitense è in corso un acceso dibattito circa l'opportunità di una previsione legislativa
espressa della c.d. cultural defense, attraverso la quale le corti statunitensi (e quelle di altri paesi anglosassoni) già oggi talora valutano pro reo la
situazione di conflitto normativo/culturale che fa da sfondo alla commissione di reati culturalmente motivati da parte di immigrati(115). Per cultural
defense si intende, infatti, una causa di esclusione o diminuzione della responsabilità penale, invocabile da un soggetto appartenente ad una minoranza
etnica con cultura costumi e usi diversi, o addirittura in contrasto con quelli della cultura del Paese d'accoglienza; la cultural defense, tuttavia, attualmente
non costituisce un istituto giuridico autonomo, ma opera solo all'interno di altri istituti, quali l'errore di diritto, la legittima difesa, lo stato di necessità, la
coscienza e volontà della condotta, il vizio totale o parziale di mente, lo stato emotivo, la provocazione(116).
Sono ormai ben noti, anche alla dottrina europea(117), i casi giurisprudenziali dai quali ha preso l'abbrivio, negli Stati Uniti, il dibattito sulle cultural
defenses. Mi limito, pertanto, a richiamare tali casi solo per sommi capi:
1) caso Kargar: un immigrato afgano viene visto, da una vicina di casa, mentre bacia il pene del proprio figlio di un anno e mezzo; imputato del reato di
abusi sessuali si difende sostenendo che tale condotta, nella sua cultura d'origine, costituisce espressione di affetto paterno e non ha alcuna valenza
sessuale;
2) caso Giuseppe: un immigrato italiano, in adesione ad una concezione `mediterranea' dei rapporti intrafamiliari, si comporta in modo violento ed
aggressivo nei confronti dei due figli (di dieci e dodici anni) e della moglie (anch'essa italiana), sicché viene imputato per maltrattamenti ed abusi sessuali;
3) caso Kimura: un'immigrata giapponese, tradita e abbandonata dal marito, in ottemperanza ad un'antica pratica tradizionale giapponese, decide di
uccidersi insieme ai suoi due figlioletti (i quali effettivamente muoiono, mentre la donna, soccorsa, sopravvive);
4) caso Kong Moua: un giovane immigrato laotiano sequestra e compie atti di violenza sessuale ai danni della sua fidanzata, nella `convinzione' di
realizzare un rituale matrimoniale tradizionale della tribù laotiana Hmong alla quale entrambi - autore e vittima - appartengono;
5) caso Dong Lu Chen: un immigrato cinese ammazza a martellate la propria moglie fedifraga per ristabilire il proprio onore secondo le tradizioni cinesi.
Nei predetti casi, la situazione di "conflitto normativo/culturale" vissuta dall'imputato, è stato valutata dalle corti statunitensi pro reo, nel senso che ha
comportato l'assoluzione dell'imputato (casi 1, 2), o per lo meno l'applicazione di un trattamento sanzionatorio più mite rispetto a quello richiesto dalla
pubblica accusa (casi 3, 4, 5).
Il riconoscimento della cultural defense è, indubbiamente, espressione di un compromesso tra l'esigenza di repressione di condotte penalmente rilevanti e
la valorizzazione delle differenze culturali(118). Almeno a prima vista, pertanto, il paradigma della cultural defense sembrerebbe assolutamente coerente
con un diritto penale orientato al modello multiculturalista. Non bisogna, tuttavia, dimenticare - nemmeno quando si parla di cultural defense - che anche il
modello multiculturalista conosce limiti al rispetto delle differenze culturali (v. supra, 2.5 s.). Sarebbe, pertanto, opportuno evitare che il paradigma della
cultural defense diventasse uno strumento per legittimare o comunque trattare con indulgenza pratiche culturali che implichino una lesione di fondamentali
diritti individuali altrui e, in particolar modo, di soggetti deboli (donne e bambini) appartenenti allo stesso gruppo etnico dell'autore, così risolvendosi in
una vera e propria "restrizione interna". D'altronde, nella stessa giurisprudenza statunitense sono ben più numerosi i casi in cui le corti si sono rifiutate di
dare qualsiasi rilevanza al fattore culturale, negando il riconoscimento di una cultural defense: così, ad esempio, nel caso People v. Rhines(119), in cui un
uomo di colore, per giustificare il rapimento di due donne, anch'esse di colore, aveva invocato, invano, le differenze di abitudini e di approccio verso l'altro
sesso, invalse nella sua cultura d'origine, rispetto alla cultura `dei bianchi'; nonché nel caso Bui v. State(120), in cui un vietnamita, immigrato in Alabama,
dopo aver ucciso i suoi tre figli e tentato il suicidio in reazione all'adulterio della moglie, aveva invocato, invano (fu, infatti, condannato a morte), le
tradizioni invalse nella sua cultura d'origine in materia di rapporti familiari.
3.2.1. In particolare, nel diritto penale dei Paesi europei "assimilazionisti". - L'assenza, a livello legislativo, di una disposizione di parte generale che dia
esplicito rilievo alla situazione di conflitto normativo/culturale in cui versa l'agente-immigrato, si registra, prima di tutto, nei Paesi europei (rectius, nel
Paese, la Francia) che hanno ufficialmente aderito al modello assimilazionista. Si tratta, del resto, di un'assenza del tutto coerente con la logica di assoluta
uguaglianza formale, di asettica neutralità dello Stato di fronte alle differenze culturali, cui si ispira tale modello: la scelta di non attribuire, negli spazi
pubblici, alcun rilievo all'eventuale appartenenza del soggetto a gruppi di immigrati con radici culturali anche profondamente diverse da quelle dello Stato
di accoglienza, viene mantenuta ferma anche - anzi, a fortiori - nello spazio pubblico segnato dal diritto penale(121).
Nessuna sorpresa, quindi, se la legislazione penale francese non ammette nessun trattamento speciale, e segnatamente nessun trattamento di favore, in
nome della differenza culturale.
A livello giurisprudenziale, invece, talora le Corti francesi hanno valutato pro reo la predetta situazione di conflitto normativo/culturale. In alcuni casi,
infatti, l'immigrato-autore di un fatto di reato culturalmente motivato è stato assolto o è stato ammesso ad un trattamento sanzionatorio particolarmente
mite (mediante l'esclusione dell'elemento soggettivo, o il riconoscimento di scriminanti o di attenuanti, o la concessione della sospensione condizionale
della pena, etc.). Ciò è avvenuto, in particolare, in alcuni procedimenti giudiziari aventi per oggetto episodi di mutilazione genitale femminile(122).
Peraltro, la presenza di singole sentenze `indulgenti', emesse in relazione alle peculiarità di specifici casi concreti, a mio avviso non comporta un
mutamento di segno nell'orientamento fondamentalmente `assimilazionista' dell'ordinamento francese che - tanto nell'ambito penale quanto negli altri
ambiti della vita pubblica - di regola non attribuisce alcun rilievo all'appartenenza del soggetto ad un particolare gruppo etnico.
3.2.2. In particolare, nel diritto penale dei Paesi europei "multiculturalisti". - L'assenza, a livello legislativo, di norme o istituti di parte generale che, in
qualche modo, diano specifico rilievo, pro reo, alla situazione di conflitto normativo/culturale che fa da sfondo ai reati culturalmente motivati commessi
dagli immigrati - assenza scontata nei Paesi "assimilazionisti" - si riscontra, tuttavia, anche nel diritto penale dei Paesi (in primis, l'Inghilterra) che hanno
ufficialmente aderito al modello multiculturalista.
A prima vista questa assenza potrebbe destare sorpresa: come può essere che in un ordinamento in generale propenso a riconoscere ed accettare la
diversità culturale, non si dia rilievo alla diversità culturale anche in ambito penale? Questa iniziale `sorpresa', tuttavia, svanisce rapidamente se solo si
considera che anche il modello multiculturalista conosce limiti alla tolleranza, e tali limiti - segnati dal rispetto dei diritti fondamentali dell'individuo(123) -
vengono in rilievo soprattutto nei settori coperti dal diritto penale, giacché tra i compiti del diritto penale vi è proprio quello di tutelare i diritti fondamentali
dell'individuo. L'assenza di una norma di parte generale che, in qualche modo, dia specifico rilievo, pro reo, alla suddetta situazione di conflitto
normativo/culturale, può, quindi, risultare perfettamente coerente anche con le scelte di fondo di un Paese "multiculturalista".
Il diritto penale, in effetti, costituisce territorio di frontiera per il modello multiculturalista, un territorio, cioè, all'interno del quale è difficile individuare
dove si colloca il limite della tolleranza: una volta inoltratisi in tale territorio occorre, quindi, procedere con la massima cautela per evitare che il
riconoscimento della diversità culturale si traduca in una sorta di legittimazione (o comunque di attenuazione del disvalore) della violazione dei diritti
individuali altrui. Tale cautela, poi, è tanto più doverosa se si considera che assai spesso la vittima del reato culturalmente motivato commesso da un
immigrato è un altro membro dello stesso gruppo etnico di immigrati(124). In tali casi, pertanto, il riconoscimento della diversità culturale pro reo
potrebbe tradursi nella concessione di una vera e propria restrizione interna(125).
Ecco perché nel diritto inglese è più facile trovare singole, specifiche disposizioni che accordino un trattamento differenziato (e di favore) in virtù
dell'appartenenza ad un gruppo etnico di immigrati e che possono avere ricadute anche in ambito penale (così, ad esempio, l'indiano sikh che non indossa
l'elmetto protettivo in un cantiere edile, a differenza di tutti gli altri colleghi di lavoro, non sarà assoggettato ad alcuna sanzione, purché porti il
turbante)(126), piuttosto che disposizioni penali di parte generale che riservino un trattamento differenziato (e di favore) per l'immigrato, autore di un
reato culturalmente motivato:
- le prime, infatti, concedono all'immigrato (rectius, al suo gruppo), in relazione a precisi e delimitati ambiti della vita pubblica, una tutela esterna, in
quanto consistono, di fatto, nell'offerta di condizioni più eque per l'integrazione (l'indiano sikh al quale si imponesse l'uso dell'elmetto, al posto del
turbante, si troverebbe di fronte all'alternativa: rinunciare ad una componente della sua identità culturale, oppure rinunciare al lavoro nel cantiere edile; la
norma che lo esonera da tale obbligo, invece, gli offre una migliore opportunità di integrazione, senza che ne risulti leso alcun diritto individuale altrui);
- per contro, le seconde (cioè le eventuali disposizioni penali di favore di parte generale) si presterebbero a legittimare indiscriminatamente anche
innumerevoli e incontrollabili violazioni di diritti individuali altrui, traducendosi in autentiche restrizioni interne: se tali norme esistessero, esse potrebbero,
infatti, essere invocate anche dal genitore che impone con violenza o minacce alla giovanissima figlia uno sposo da lui prescelto, o dal marito che minaccia
e percuote la propria moglie che si rifiuta di indossare il burka, per ottenere dai giudici un trattamento di favore rispetto ad una condotta, penalmente
rilevante, rivolta ad imporre ad un altro membro del gruppo (rispettivamente, la figlia e la moglie) l'osservanza coatta di determinate pratiche culturali.
La difficoltà a tracciare, con apposita disposizione di parte generale, il limite della tolleranza in quel territorio di frontiera del modello multiculturalista che è
il diritto penale, spiega, a mio avviso, l'attuale assenza, anche all'interno della legislazione penale di Paesi ufficialmente orientati al modello
multiculturalista, di norme di parte generale che riservino un trattamento di favore per gli immigrati-autori di reati culturalmente motivati(127).
Tale difficoltà, tuttavia, riemerge inevitabilmente a livello giurisprudenziale, e viene variamente risolta dai singoli giudici inglesi in relazioni alle peculiarità
dei casi di specie. Ecco perché anche nella giurisprudenza inglese ritroviamo sia sentenze che valutano pro reo la situazione di conflitto normativo/culturale
che fa da sfondo alla commissione di un reato culturalmente motivato da parte dell'immigrato, sia sentenze che esprimono indifferenza rispetto a tale
situazione(128).
Tra le prime, possiamo ricordare una recente sentenza che - affrontando un caso in cui il padre e i due zii (uno armato), tutti e tre immigrati musulmani,
avevano sequestrato per ventiquattro ore la figlia/nipote nel tentativo di persuaderla ad interrompere la sua relazione con un giovane non musulmano - ha
imposto a carico degli imputati `soltanto' un conditional discharge (una sorta di assoluzione condizionata) per la durata di tre anni(129).
Tra le seconde, invece, possiamo richiamare due sentenze, rispettivamente del 2002 e del 1999, che affrontano entrambe casi di omicidi per motivi
d'onore:
- con la sentenza del 2002 è stato giudicato il caso di un musulmano di origine pakistana, immigrato in Inghilterra nel 1965, il quale aveva ucciso la
propria figlia di 24 anni dopo aver trovato il suo fidanzato (non musulmano) nella sua stanza da letto. L'imputato aveva invocato l'esimente della
provocazione (plea of provocation) chiedendo di derubricare l'imputazione da murder a manslaughter, in considerazione (oltre che del suo stato di
depressione seguito alla morte della moglie) della sua profonda credenza religiosa e convinzione culturale che una figlia dovesse sposare un uomo scelto o
approvato dai suoi genitori, e che il sesso fuori dal matrimonio non fosse permesso. La giuria, tuttavia, non ha riconosciuto la sussistenza di tale esimente
e lo ha condannato all'ergastolo per murder(130);
- con la sentenza del 1999 è stato giudicato il caso concernente una giovane donna di origine pakistana che fu strangolata dal fratello con l'aiuto della
madre perché aveva rifiutato di abortire il feto concepito in una relazione extraconiugale avuta con un compagno di scuola, mentre il marito si trovava in
Pakistan. Anche in questo caso gli imputati avevano invocato l'esimente della provocazione (plea of provocation), facendo leva su fattori religiosi e
culturali, ma la giuria ha respinto tale richiesta e li ha condannati all'ergastolo per murder(131).
Da queste brevi annotazioni emerge, quindi, che l'adesione di un Paese al modello multiculturalista non implica affatto, né in sede legislativa, né in sede
giurisprudenziale, un indefettibile riconoscimento della differenza culturale anche in ambito penale, con conseguenti effetti pro reo. Ciò è dovuto al fatto
che in ambito penale vengono spesso in rilievo i "limiti della tolleranza", conosciuti e praticati (anche) dal modello multiculturalista, che precludono
qualsiasi valutazione indulgente della situazione di conflitto normativo/culturale che ha fatto da sfondo alla commissione di un reato culturalmente
motivato da parte dell'immigrato.
3.2.3. In particolare, nel diritto penale italiano. - Finora non ho parlato dell'Italia e delle politiche generali italiane in tema di immigrazione. Questo silenzio
è stato intenzionale e deriva dalla grave difficoltà di collocare l'Italia in uno dei due modelli sopra illustrati (v. supra, 2.1 ss.). Se, infatti, pare impropria la
riconduzione dell'Italia tra i Paesi "assimilazionisti"(132), nemmeno riesce del tutto agevole riconoscere che la nostra Repubblica abbia ufficialmente
imboccato, e in modo serio e coerente percorso, la strada indicata dal modello multiculturalista.
Una esplicita, ma debole, adesione dell'Italia al modello multiculturalista potrebbe desumersi dall'art. 42 T.U. immigrazione (d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286),
il quale attribuisce allo Stato, alle Regioni e alle autonomie locali il compito di favorire "la conoscenza e la valorizzazione delle espressioni culturali,
ricreative, sociali, economiche e religiose degli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia", nonché dall'art. 43 T.U. cit., il quale vieta ogni discriminazione
diretta o indiretta a danno degli immigrati.
Anche dalla recente "Carta dei valori della cittadinanza e dell'integrazione", adottata con decreto del Ministero dell'Interno del 23 aprile 2007(133),
potrebbe desumersi un'altrettanto esplicita - ma, al contempo, altrettanto debole - adesione al modello multiculturalista. Nel Prologo, infatti, si legge, tra
l'altro, che "la Carta enuclea, anche in un'ottica programmatica ed in vista di una sempre più ampia realizzazione, i principi ispiratori dell'ordinamento e
della società italiana nell'accoglienza e regolazione del fenomeno migratorio in un quadro di pluralismo culturale e religioso"; al punto 1 della Carta si
afferma poi che "l'Italia è impegnata perché ogni persona sin dal primo momento in cui si trova sul territorio italiano possa fruire dei diritti fondamentali,
senza distinzione di sesso, etnia, religione, condizioni sociali"; ed al punto 3 si precisa che "alle donne, agli uomini, ai giovani immigrati l'Italia offre un
cammino di integrazione rispettoso delle identità di ciascuno, e che porti coloro che scelgono di stabilirsi nel nostro Paese a partecipare attivamente alla
vita sociale".
Oltre ai fattori di oscillazione fra l'uno e l'altro modello riscontrabili anche in altri Paesi europei(134), gli ostacoli ad una piena adesione dell'Italia al
modello multiculturalista dipendono anche dal fatto che una quota significativa della nostra immigrazione è illegale(135). Occorre considerare, infatti, che
nei confronti dell'immigrato illegale la politica dello Stato non può in alcun modo mirare alla sua integrazione, men che meno attraverso gli strumenti
suggeriti dal modello multiculturalista(136). La politica dello Stato nei confronti del clandestino sarà, invece, necessariamente una politica di esclusione, di
non-integrazione. Pertanto, ogni intervento, progettato o realizzato, ispirato al riconoscimento della diversità culturale degli immigrati, rischia di essere
bloccato o frustrato dal sospetto - effettivamente fondato o solo percepito come tale nell'opinione pubblica - che esso possa ridondare anche a favore degli
immigrati illegali, i quali non `meritano' alcun riconoscimento della loro diversità culturale.
Pur con le predette perplessità relative ad una convinta collocazione dell'Italia tra i Paesi "multiculturalisti", intendo comunque prendere in esame le
reazioni finora manifestate dal diritto penale italiano ai reati culturalmente motivati commessi dagli immigrati (prescindendo, per il momento, dall'analisi
della recente legge incriminatrice delle mutilazioni genitali femminili, sulla quale v. infra, 5.2).
Ebbene, a livello legislativo, anche nel diritto penale italiano non è presente alcuna norma di parte generale che, in qualche modo, dia specifico rilievo, pro
reo, alla situazione di conflitto normativo/culturale che fa da sfondo ai reati culturalmente motivati commessi dagli immigrati. Peraltro abbiamo già
riscontrato una tale assenza tanto nei Paesi "assimilazionisti" (in coerenza alla scelta di fondo di neutralità dello Stato: v. supra, 3.2.1), quanto nei Paesi
"multiculturalisti" (in coerenza alla scelta di fondo di apporre limiti alla tolleranza: v. supra, 3.2.2).
Al pari di quanto avviene nei soli Paesi "multiculturalisti" è, invece, possibile rinvenire, anche in Italia, singole, specifiche disposizioni di legge che
prevedono deroghe, esenzioni o comunque regimi giuridici speciali in virtù dell'appartenenza ad un gruppo etnico di immigrati, e che possono avere
rilevanza anche in ambito penale (ad esempio, anche in Italia è consentita, dall'art. 5 del d.lgs. n. 333 del 1998, la macellazione secondo il rito
islamico(137): l'effettuazione di tale pratica, quindi, non dovrebbe dar luogo all'applicazione delle norme penali in tema di protezione degli animali).
A livello giurisprudenziale, poi, anche in Italia - al pari di quanto abbiamo riscontrato analizzando la giurisprudenza francese e inglese - sono rinvenibili sia
sentenze che, in relazione al singolo caso di specie, valutano pro reo la situazione di conflitto normativo/culturale che fa da sfondo alla commissione di un
reato culturalmente motivato da parte dell'immigrato, sia sentenze che esprimono indifferenza rispetto a tale situazione(138).
L'esempio più evidente di una giurisprudenza orientata a valutare pro reo la suddetta situazione di conflitto normativo/culturale è costituito da un
provvedimento del 1997 del Tribunale di Torino con cui, su richiesta dello stesso P.M., è stato archiviato un procedimento avviato su impulso di alcuni
medici della locale A.S.L. che avevano denunciato per lesioni personali gravissime i genitori nigeriani di una bambina che era stata sottoposta ad un
intervento di asportazione parziale delle piccole labbra e del clitoride nel Paese d'origine. L'archiviazione è stata motivata dalla "mancanza di condizioni per
legittimare l'esercizio dell'azione penale" in ordine alla violazione degli artt. 110, 582 e 583 c.p., dal momento che i genitori nigeriani avrebbero inteso
"sottoporre la figlia a pratiche di mutilazione genitale, pienamente accettate dalle tradizioni locali (e parrebbe, dalle leggi) del loro Paese"(139).
Un altro procedimento concernente mutilazioni genitali femminili si è concluso con una, relativamente mite, condanna: un immigrato egiziano, in occasione
di una vacanza in Egitto, aveva fatto sottoporre la figlia di dieci anni (avuta da un matrimonio con un'italiana) all'asportazione del clitoride e del terzo
superiore prossimale delle piccole labbra con successiva sutura del terzo superiore della vulva e conseguente riduzione dell'introito vulvare, così
provocandole lesioni personali dalle quali era derivata una malattia della durata di dieci giorni e indebolimento permanente dell'apparato genitale; peraltro,
nella stessa occasione l'uomo aveva fatto praticare anche la circoncisione del proprio figlio maschio minorenne, dalla quale era derivata una malattia della
durata di quaranta giorni e l'indebolimento permanente dell'apparato genitale(140). L'imputato, anche grazie al rito abbreviato utilizzato (patteggiamento)
e al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, è stato condannato alla pena di due anni di reclusione condizionalmente sospesa (nella
sentenza, tuttavia, non si fa alcuna menzione espressa della situazione di conflitto normativo/culturale in cui si sarebbe trovato il padre egiziano)(141).
In altri casi - tutti relativi a fatti di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) - i giudici italiani hanno, invece, esplicitamente negato qualsiasi rilievo pro reo
alla (asserita) situazione di conflitto normativo/culturale in cui l'immigrato si sarebbe trovato al momento della commissione del fatto:
- Pret. Torino 4 novembre 1991(142): una coppia di genitori, immigrati stranieri, per un periodo di circa un mese costringe i propri cinque figli minori, di
età compresa tra i sette e i quindici anni, a mendicare ogni giorno per più ore sulla strada, in prossimità di incroci regolati da semafori, o sui marciapiedi,
lasciandoli esposti alle intemperie, al pericolo d'investimento da parte degli autoveicoli, nonché ai gas di scarico prodotti dai medesimi, in tal modo
sottraendoli all'obbligo scolastico ed alle normali attività ed agli svaghi tipici di bambini di quella età. Il giudice condanna i genitori per il reato di
maltrattamenti in famiglia, dopo essersi peraltro posto esplicitamente il quesito "se possa dirsi che gli imputati hanno agito con la consapevolezza del
disvalore sociale della loro condotta dal momento che essi appartengono ad una minoranza etnica nella cui cultura l'impiego di minori nell'accattonaggio
non è contrario ai valori del gruppo, ma appartiene al novero delle sue tradizioni più risalenti. Sostituire il giudizio di valore maggioritario a quello della
minoranza a cui appartengono gli imputati non è per caso una manifestazione di intolleranza o peggio di monolitismo culturale, se non di razzismo?".
Ebbene, rispondendo a tale quesito, il giudice ritiene che "il gruppo minoritario non può pretendere che la sua cultura sia globalmente accolta nella società
`di arrivo' o comunque della maggioranza, senza le dovute distinzioni effettuate (...) alla stregua della Costituzione"; in particolare, nel caso di specie la
"cultura" degli imputati non può ridondare a loro favore, proprio perché con la loro condotta essi hanno offeso un bene giuridico - la dignità della persona
del minore - "che trova un saldo ancoraggio nella Costituzione attualmente in vigore" (peraltro il giudice, pur condannando, infligge ai genitori il minimo
della pena - un anno - ulteriormente ridotto a otto mesi per effetto del riconoscimento delle attenuanti generiche, concedendo poi alla madre, che a
differenza del padre non era recidiva, anche la sospensione condizionale della pena)(143);
- Cass. 24 novembre 1999(144): affrontando un caso di maltrattamenti in famiglia commessi da un immigrato albanese nei confronti della moglie e del
figlio minore, la Cassazione esplicitamente giudica "manifestamente infondate" le affermazioni difensive secondo le quali "sia l'imputato che le persone
offese (tutti cittadini albanesi) hanno un concetto della convivenza familiare e delle potestà spettanti al capo-famiglia diverso da quello corrente in Italia,
tanto da poter configurare una sorta di consenso dell'avente diritto rilevante ex art. 50 c.p., [giacché] in sostanza, i familiari possono validamente disporre
della gerarchia e delle abitudini di vita interne al loro nucleo, senza che interventi esterni possano giungere a sanzionare comportamenti recepiti come
legittimi". Tali affermazioni, secondo la Corte, non possono in alcun modo acquisire rilevanza nel nostro ordinamento, in quanto trovano uno "sbarramento
invalicabile" nelle norme costituzionali che riconoscono i diritti inviolabili dell'uomo, la pari dignità sociale e l'eguaglianza senza distinzione di sesso, nonché
i diritti della famiglia e i doveri verso i figli;
- Cass. 8 gennaio 2003(145): con motivazione del tutto analoga alla precedente, la Cassazione respinge anche le affermazioni difensive di un cittadino
marocchino di religione musulmana, condannato dai giudici di merito per il delitto di maltrattamenti aggravati ai danni della moglie; l'imputato aveva
invano chiesto che fosse valutata a suo favore la sua formazione culturale e religiosa, la quale sarebbe stata tale da stemperare la valenza dell'elemento
soggettivo sotto il profilo della consapevolezza di vessare e prevaricare la propria moglie;
- Cass. 30 gennaio 2007(146): un immigrato di origine marocchina costringe il nipote, minore di quattordici anni e anch'egli di origine marocchina, a
mendicare malvestito per le strade di Torino, praticando il commercio ambulante di fazzoletti e l'accattonaggio. La Cassazione, nel condannare lo zio per il
delitto di maltrattamenti, esplicitamente afferma che "non può evocarsi, per ritenere scriminato o semplicemente attenuato ex art. 62 n. 1 c.p.(147) il
reato di maltrattamenti, l'"etica dell'uomo", affermata (...) sulla base di opzioni sub culturali relative a ordinamenti diversi dal nostro. Tale riferimento a
principi di una cultura arretrata e poco sensibile alla valorizzazione e alla salvaguardia dell'infanzia deve cedere il passo, nell'ambito della giurisdizione
italiana, ai principi-base del nostro ordinamento e, in particolare, ai principi della tutela dei diritti inviolabili dell'uomo sanciti dall'art. 2 della Cost.".
Come si vede, anche il diritto penale italiano sta sperimentando le stesse oscillazioni e le stesse difficoltà già incontrate in altri ordinamenti nel gestire la
diversità culturale `importata' dagli immigrati. E fino a tempi recentissimi il diritto penale italiano ha avuto reazioni del tutto simili a quelle riscontrate in
tali ordinamenti, riservando alla diversità culturale talora un trattamento differenziato di favore (attraverso singole disposizioni di legge o singole pronunce
giurisprudenziali), ma, più spesso, esprimendo indifferenza, soprattutto quando risultavano coinvolti diritti fondamentali altrui.
Per contro, con la legge 9 gennaio 2006, n. 7, incriminatrice delle mutilazioni genitali femminili, l'Italia sembra aver inaugurato un nuovo tipo di reazione ai
reati culturalmente motivati commessi dagli immigrati - una reazione del tutto inedita nel panorama europeo in quanto non riconducibile né al modello
assimilazionista, né, tanto meno, al modello multiculturalista: la reazione dell'intolleranza.
Per descrivere questo nuovo tipo di reazione è, tuttavia, preliminarmente necessario illustrare brevemente che cosa siano le mutilazioni genitali femminili
ed osservare come il diritto penale di altri Paesi europei abbia reagito a questa emblematica ipotesi di reato culturalmente motivato.
4. Le mutilazioni genitali femminili quale reato culturalmente motivato.
In alcuni gruppi etnici di circa quaranta Paesi extraeuropei, dislocati soprattutto nell'Africa subsahariana (ad esempio, Somalia, Sudan settentrionale,
Djibouti, Etiopia, Eritrea, Kenya settentrionale, alcune zone del Mali e della Nigeria settentrionale), in Egitto e, benché in misura minore, anche in alcune
circoscritte regioni dell'Asia (Indonesia, Malaysia, Yemen, Emirati A.U.), per motivi tradizionali e socio-culturali assai vari, ma tutti di difficile comprensione
agli occhi dell'osservatore occidentale, sono diffuse alcune pratiche di modificazione o comunque di aggressione degli organi genitali femminili, attraverso
le quali si attua una sorta di controllo sulla sessualità e sul corpo della donna(148). Poiché tali pratiche consistono assai spesso in un'asportazione di
tessuti dell'apparato genitale femminile, esse vengono comunemente indicate con la formula "mutilazioni genitali femminili"(149).
In tempi relativamente recenti anche i Paesi occidentali sono venuti a contatto con il fenomeno delle mutilazioni genitali femminili per effetto dei flussi
immigratori provenienti dall'Africa e dall'Asia.
A seconda dell'area socio-culturale e geografica in cui sono tradizionalmente diffuse, le mutilazioni genitali femminili possono assumere caratteristiche
assai diverse per tipologia, modalità di intervento, motivazione, nonché numero ed età delle donne (neonate, bambine, adolescenti) che vi vengono
sottoposte. È importante, quindi, sottolineare che quando si parla, genericamente, di mutilazioni genitali femminili, in realtà si parla di un fenomeno
antropologico assai vario e composito(150).
L'Organizzazione Mondiale della Sanità-WHO, nel 1995, proprio al fine di monitorare e meglio individuare, almeno dal punto di vista sanitario, tale
complesso e variegato fenomeno, ha elaborato una definizione convenzionale di mutilazioni genitali femminili, in base alla quale possono essere ritenute
tali "tutte le pratiche che comportano la rimozione parziale o totale degli organi genitali femminili esterni o altri danni agli organi genitali femminili,
compiute per motivazioni culturali o altre motivazioni non terapeutiche"(151). Il WHO ha altresì classificato tali pratiche in quattro tipi:
I tipo: escissione del prepuzio, con o senza escissione parziale o totale del clitoride, tradizionalmente denominata "sunna";
II tipo: escissione del prepuzio e del clitoride, con escissione parziale o totale delle piccole labbra;
III tipo: escissione di parte o della totalità dei genitali esterni con cucitura o restringimento del canale vaginale (c.d. "infibulazione": si tratta della forma
più estrema, perché dopo l'escissione dei genitali esterni i due lobi della vulva vengono tra loro cuciti con fili di seta o catgut o tenuti assieme con spine,
così che, una volta cicatrizzati, occludono il canale vaginale ad eccezione di un piccolo foro per consentire il passaggio dell'urina e del sangue mestruale);
IV tipo: non classificato, ricomprensivo di pratiche consistenti nel forare (pricking), trapassare (piercing), incidere il clitoride e/o le labbra o nel produrre il
loro stiramento; nel cauterizzare mediante ustione il clitoride ed i tessuti circostanti; nel raschiare i tessuti attorno all'orifizio vaginale (tagli "ad anguria") o
nell'incidere la vagina (tagli "gishiri"); nell'introdurre nella vagina sostanze corrosive per causarne il sanguinamento o erbe per serrarla o restringerla; in
ogni altra pratica che rientri nella surriferita definizione di mutilazioni genitali femminili(152).
Secondo il WHO, le mutilazioni genitali femminili possono causare "gravi danni alle fanciulle e alle donne", riguardanti sia l'integrità fisica, sia la loro salute
psico-sessuale. Purtroppo, però, la dannosità delle mutilazioni genitali femminili non sembra affatto costituire un freno alla loro diffusione(153). Ben più
potenti, infatti, risultano essere le motivazioni socio-culturali che sostengono tali pratiche e che, a seconda del gruppo etnico di appartenenza, possono
concernere uno o più dei seguenti profili:
- identità culturale e rafforzamento del senso d'appartenenza ad una determinata comunità (la mutilazione funge, cioè, da segno di riconoscimento
dell'appartenenza, o meno, ad una determinata comunità);
- convinzione religiosa (va, peraltro, sottolineato, da un lato, che le mutilazioni genitali femminili sono diffuse sia fra i musulmani che fra i cristiani
protestanti, cattolici e copti, gli ebrei falascià, gli animisti, gli atei; dall'altro, che nessuna confessione religiosa le impone esplicitamente);
- purificazione ed esaltazione della sessualità femminile (ad esempio, la clitoridectomia viene talora praticata nella convinzione di rimuovere dal corpo
femminile un organo erettile di tipo `maschile');
- onore familiare;
- credenze sull'igiene, sull'estetica e sulla salute femminile (in alcune comunità si ritiene che i genitali femminili esterni siano `sporchi'; in altre si pensa
che essi possano continuare a crescere fino ad arrivare a `pendere' tra le gambe; in altre ancora è diffusa la convinzione che il contatto del clitoride con il
pene dell'uomo durante la copula o con la testa del neonato durante il parto possa provocare la morte);
- preservazione della verginità e rafforzamento della fedeltà matrimoniale;
- aumento del piacere sessuale del marito;
- incremento della fertilità;
- aumento delle chance di matrimonio(154).
Per effetto di questo complicato e potente sistema di credenze che sostiene le mutilazioni genitali femminili, da parte di chi le impone alla donna o alla
bambina presumibilmente vi è quasi sempre la convinzione di migliorarne la salute e lo status personale e sociale, in modo da assicurarle un futuro più
prospero come moglie e come madre; e da parte di chi le subisce vi può essere, almeno in alcuni casi, un sentimento di acquiescenza se non addirittura di
piena adesione(155).
Considerate le motivazioni culturali sottese a tali pratiche, le mutilazioni genitali femminili costituiscono, per unanime opinione, un chiaro esempio di reato
culturalmente motivato(156): si tratta, infatti, di un comportamento realizzato da un membro appartenente ad un gruppo culturale di minoranza (un
immigrato), che è considerato reato dal gruppo di maggioranza del Paese d'accoglienza; ma tale comportamento è invece accettato come normale o
addirittura incoraggiato nel sistema culturale d'origine.
5. La reazione del diritto penale alle mutilazioni genitali femminili.
5.1. Nei Paesi europei. - Poiché le mutilazioni genitali femminili offendono alcuni diritti fondamentali della donna, quali la sua integrità fisica e - nella
misura in cui costituiscono uno strumento di controllo della sessualità femminile - la sua dignità(157), esse, oltre ad essere state solennemente
condannate in numerosi atti internazionali(158), risultano penalmente rilevanti in tutti i Paesi europei (fatta salva, naturalmente, nei consueti limiti in cui è
ammissibile, l'eventuale rilevanza scriminante del consenso della donna che ad esse liberamente e consapevolmente si sottoponesse(159)). L'irrilevanza
penale delle mutilazioni genitali femminili equivarrebbe, in effetti, alla concessione di una vera e propria "restrizione interna", vale a dire al riconoscimento
del diritto del gruppo etnico di minoranza di limitare la libertà dei propri membri in nome della solidarietà di gruppo o della purezza culturale(160).
Occorre, però, precisare che mentre alcuni Paesi europei hanno deciso di punire le mutilazioni genitali femminili attraverso l'adozione di leggi ad hoc, in
altri Paesi la loro rilevanza penale risulta dalle ordinarie fattispecie incriminatrici delle lesioni personali.
La scelta di adottare una legge incriminatrice ad hoc è stata compiuta, per la prima volta, dalla Svezia, con una legge del 1° luglio 1982 (modificata nel
1998 e nel 1999); seguita poi dal Regno Unito, con il Prohibition of Female Circumcision Act del 16 luglio 1985 (successivamente aggiornato con il Female
Genital Mutilation Act del 30 ottobre 2003); dalla Norvegia, con la legge n. 74 del 15 dicembre 1995; dal Belgio, con la legge 28 novembre 2000, che ha
riscritto l'art. 409 c.p., nonché dalla Spagna, con la Ley orgánica 11/2003 del 29 settembre 2003, introduttiva di un secondo comma all'art. 149 c.p. (che
prevede le lesioni dolose aggravate in considerazione del risultato lesivo cagionato)(161).
Fuori d'Europa, tra i Paesi occidentali recettori di flussi immigratori, hanno adottato disposizioni incriminatrici ad hoc anche gli Stati Uniti, con il Federal
Prohibition of Female Genital Mutilation Act del 10 luglio 1995; il Canada, con un emendamento del 25 aprile 1997 all'art. 268 del c.p.; la Nuova Zelanda,
con gli artt. 204 A e 204 B del Crimes Act, inseriti con il Crimes Amendment Act del 2 agosto 1995, nonché cinque degli Stati confederati nell'Australia, con
vari atti legislativi adottati tra il 1994 e il 1996(162).
Si noti, infine, che anche alcuni Paesi Africani, in cui sono tradizionalmente diffuse tali pratiche, hanno adottato leggi ad hoc per vietarle del tutto (così il
Ghana ed il Burkina Faso) o per limitarne la pratica (così la Tanzania, in cui sono vietate le mutilazioni commesse su minorenni; ed il Sudan che punisce la
sola infibulazione)(163): si tratta, tuttavia, di leggi che di fatto "non vengono applicate"(164).
In altri Stati europei, invece, pur essendosi svolto un dibattito circa l'opportunità o meno di punire con apposita incriminazione le mutilazioni genitali
femminili, si è scelto di non introdurre una norma ad hoc e di affidarsi alle ordinarie norme incriminatrici delle lesioni personali(165). Questo è il caso, in
particolare, della Francia, la quale, nonostante l'assenza di una legge apposita, è il Paese europeo dove si è celebrato il maggior numero di procedimenti
penali aventi ad oggetto pratiche di mutilazioni genitali femminili(166).
5.2. In Italia. - Anche l'Italia, con la recente legge 9 gennaio 2006, n. 7, contenente "Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto di pratiche di
mutilazione genitale femminile", ha scelto di adottare una norma incriminatrice ad hoc(167). L'art. 9 di tale legge ha, infatti, introdotto nel codice penale
italiano due nuove figure di reato: le "mutilazioni genitali" (art. 583-bis comma 1° c.p.) e le "lesioni genitali" (art. 583 bis comma 2° c.p.)(168).
L'aspetto che più colpisce dei nuovi reati è il loro rigore sanzionatorio(169): in effetti, con l'art. 583-bis c.p. le pratiche di mutilazione genitale femminile
sono oggi punite con pene tendenzialmente più gravi di quelle che sarebbero altrimenti derivate dall'applicazione degli artt. 582 e 583 c.p. (che puniscono
le lesioni dolose lievi, gravi e gravissime)(170). Se è vero, infatti, che le "lesioni genitali" di cui all'art. 583-bis comma 2° c.p. presentano la stessa cornice
edittale delle lesioni personali gravi di cui all'art. 583 comma 1° c.p. (da tre a sette anni di reclusione), e che le "mutilazioni genitali" di cui all'art. 583-bis
comma 1° c.p. sono munite di una cornice edittale (da quattro a dodici anni di reclusione) il cui massimo è uguale ma il cui minimo è inferiore rispetto a
quello delle lesioni personali gravissime di cui all'art. 583 comma 2° c.p., occorre tuttavia notare che:
1) non può escludersi che una mutilazione genitale femminile, specie se del IV tipo (v. supra, 4), possa provocare effetti lesivi corrispondenti a quelli delle
lesioni lievi di cui all'art. 582 c.p., ma ciò nonostante essa sarà punita - anche applicando l'attenuante prevista nella seconda parte dell'art. 583-bis comma
2° c.p.(171) - quanto meno con la reclusione da un anno a sei anni e 364 giorni(172), anziché con la reclusione da tre mesi a tre anni, che sarebbe
altrimenti potuta derivare dall'applicazione dell'art. 582 c.p.;
2) la pena dei nuovi reati il più delle volte subirà l'aumento in misura fissa di un terzo previsto dall'art. 583-bis comma 3° c.p. per il caso (nella prassi,
assai frequente) che il fatto sia commesso a danno di un minore;
DESCRIZIONE DISPENSA
La dispensa fa riferimento alle lezioni di Diritto Islamico e Sistemi Giuridici Occidentali, tenute dalla Prof. ssa Silvia Larizza nell'anno accademico 2011.
Il documento riporta un articolo del Prof. Fabio Basile relativamente ai seguenti argomenti:
- crescita e analisi del multiculturalismo
- dualismo tra il modello assimilazionista e il modello multiculturale
- analisi del reato culturalmente motivato (in particolare la mutilazione genitale femminile) in Italia e in Europa.
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Atreyu di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto Islamico e Sistemi Giuridici Occidentali e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Pavia - Unipv o del prof Larizza Silvia.
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