Ordine giuridico europeo e identità europea - Padoa Schioppa
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diritto, in particolare, si sta sviluppando una riflessione imponente
che investe tanto i princı̀pi generali quanto le singole discipline e gli
specifici istituti. Non meno ricca peraltro appare la riflessione
storiografica, che si avvale ormai di una vasta messe di ricerche
dedicate alla genesi (prossima e remota) dell’Unione Europea. Po-
trebbe sembrare allora esiguo o inesistente lo spazio per un approc-
cio storico-giuridico al problema ‘Europa’, dal momento che la
struttura istituzionale e normativa dell’attuale ordine europeo è il
campo di elezione del giurista, mentre la formazione dell’Unione
europea è studiata, nella sua traiettoria complessiva e nei suoi singoli
episodi, dallo storico (dallo storico generale, dallo storico politico,
dallo storico delle dottrine politiche).
È possibile dunque ipotizzare un approccio al problema ‘Euro-
pa’ che possa dirsi (in senso lato, ma non impreciso) ‘storico-
giuridico’, distinto come tale da una prospettiva ‘esclusivamente’
storiografica o ‘esclusivamente’ giuridica? La scommessa sulla quale
il “Quaderno” si è venuto costruendo è appunto che tale approccio
esista e abbia una sua specificità ed utilità. Riflettere come storici-
giuristi (come storici interessati alla dimensione giuridica della so-
cietà e come giuristi interessati alle radici storiche del diritto)
sull’ordine europeo significa in sostanza avviare un tentativo di
storicizzazione dell’attuale ordine giuridico europeo: un tentativo di
comprensione dei nessi di continuità e di discontinuità che legano
l’Unione Europea al passato, al suo passato prossimo o remoto.
Occorre insomma impostare (intorno ai princı̀pi-guida e agli
istituti dell’odierno spazio giuridico europeo) due domande com-
plementari: occorre chiedersi se e in che modo il nuovo ordine
giuridico intervenga trasformando le coordinate culturali del giuri-
sta, modificando quelle dottrine e quelle pratiche venute ad esi-
stenza nelle diverse tradizioni ‘nazionali’; e occorre (viceversa) chie-
dersi se in che modo le culture giuridiche antecedenti al nuovo
ordine giuridico europeo siano state recepite, trasformate, rinnovate
entro la nuova realtà unitaria.
Non sono in questione soltanto il funzionamento dell’uno o
dell’altro istituto, la portata e gli effetti dell’uno o dell’altro principio
nell’odierno spazio giuridico europeo; e nemmeno sono in questione
soltanto i capitoli canonici della formazione dell’Unione europea, il
Trattato di Roma o di Maastricht o di Amsterdam; finalità primarie
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del “Quaderno” non sono la ricostruzione storico-genetica del-
l’Unione Europea né l’analisi giuridica del funzionamento dei suoi
congegni istituzionali. L’ipotesi di fondo che ispira e sorregge
l’intero “Quaderno” è, per cosı̀ dire, l’esigenza di una dilatazione e
complicazione dei tempi storici e insieme di una più approfondita
storicizzazione dell’esperienza giuridica attuale: il tentativo di rea-
lizzare una gadameriana fusione degli orizzonti fra passato e pre-
sente, nella convinzione che grazie ad essa la rappresentazione dello
spazio giuridico europeo possa ottenere quella profondità di campo
di cui non sempre appare provvista.
In questa prospettiva, il passato dell’Unione Europea non può
essere riduttivamente fatto coincidere con il processo della sua
genesi immediata. L’Unione Europea è un esperimento istituzionale
e culturale di grande portata e come tale esso non nasce e non si
consuma nell’orizzonte di qualche decennio, ma postula, come
condizione stessa del suo esserci e del suo svilupparsi, il rifluire in
esso di tradizioni molteplici (e magari discordanti) che vengono da
lontano, implica il confronto (o lo scontro) con dispositivi istituzio-
nali e modelli culturali anch’essi legati a contesti antecedenti.
È questo l’orizzonte problematico entro il quale il “Quaderno”
intende situarsi. Il suo programma potrebbe essere condensato nella
seguente formula riassuntiva: comparazione diacronica; una compa-
razione fra il presente politico-giuridico dell’Europa unita e il pas-
sato delle diverse tradizioni europee. La comparazione diacronica
risponde alla doppia esigenza di comprendere storicamente, in
profondità, lo spazio giuridico europeo senza identificarne la storia
con la sua genesi prossima, e di intendere la cultura e la prassi
giuridiche che in quello spazio vengono sviluppandosi senza farle
immediatamente coincidere con le ‘tecniche’ di cui pure necessaria-
mente si avvalgono.
Comprendere storicamente il nuovo diritto europeo, dare pro-
fondità di campo allo sguardo del giurista costretto a venire a capo
dei complicati meccanismi del nuovo ordine, appare un compito
difficile, ma in qualche modo imposto dalla rilevanza del processo in
atto. È un processo che incide su realtà e dottrine che per lungo
tempo (per l’intero Ottocento e per buona parte del Novecento) si
sono poste come il principale quadro di riferimento del giurista: la
realtà e la dottrina degli Stati-nazione e delle rispettive sovranità. È
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in questo quadro che si sono sviluppate le diverse culture giuridiche
nazionali ed è in rapporto (o in contrasto) con le tradizioni e le
sovranità nazionali che il nuovo ordine giuridico europeo e la cultura
che lo esprime e lo rappresenta prendono forma. Comprendere
storicamente l’odierno spazio giuridico europeo significa ricostruire
il gioco sottile delle continuità e delle discontinuità che segnano il
rapporto fra il nuovo ordine e le precedenti esperienze, fra il
presente e il passato.
Il passato (relativamente) prossimo è la tradizione (il complesso
delle tradizioni) dei diversi Stati nazionali; non è però soltanto e
obbligatoriamente il passato prossimo il termine della comparazione
diacronica proposta dal “Quaderno”: la dilatazione dei tempi storici,
la compiuta storicizzazione dell’oggetto ‘Europa’, non può obbedire
a scansioni rigide e previe, ma è affidata alla sensibilità del singolo
ricercatore e alla specifica definizione del suo oggetto di ricerca.
Proprio perché il processo di formazione del nuovo ordine europeo
è, insieme, effetto e acceleratore della crisi delle sovranità nazionali
otto-novecentesche, un problema interessante (e discusso nel “Qua-
derno”) riguarda proprio la possibilità di gettare un ponte fra
contesti molto lontani, di creare una sorta di corto circuito fra quella
realtà post-statuale cui la nuova Europa sembra tendere e le espe-
rienze pre-statuali dell’Europa medievale o proto-moderna.
Situare l’ordine giuridico europeo entro un orizzonte temporale
dilatato rispetto all’immediatezza del presente: è questo l’approccio
proposto dal “Quaderno”; un approccio specificamente storico-
giuridico, sempre che si dia a questo termine non un’accezione
burocratica, evocativa di raggruppamenti ministeriali e concorsuali,
ma una valenza culturale e sostantiva, coincidente con l’esigenza di
stabilire un rapporto ineludibile (ancorché problematico) fra passato
e presente.
Guardare in una prospettiva storico-giuridica all’ordine giuri-
dico europeo, tentare di offrirne una compiuta storicizzazione, non
può essere però il monopolio di una specifica disciplina, ma esige
l’abbandono di ogni miope campanilismo disciplinare e il ricorso
alla sinergia di saperi diversi. Non è quindi un caso che fra i
collaboratori del “Quaderno” figurino, accanto agli storici del diritto
in senso stretto, giuristi, sociologi, filosofi, storici; non è un caso, ma
è una necessità imposta dalla complessità dell’oggetto e dall’approc-
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cio suggerito. È l’ordine giuridico europeo l’oggetto comune ai vari
saggi ed è condiviso da tutti il tentativo di contribuire ad una più
compiuta storicizzazione di questo complesso e sfuggente feno-
meno. Al contempo però la condivisione dell’oggetto e del pro-
gramma coesiste con una salutare e istruttiva varietà di prospettive e
di metodi, legati alla formazione culturale dei singoli studiosi non
meno che alle loro personali scelte e inclinazioni.
Il compito che i collaboratori del “Quaderno” hanno generosa-
mente assunto non è facile: è il tentativo di gettare un ponte fra il
presente e il passato, di offrire dell’ordine giuridico europeo una
rappresentazione multidimensionale, sottratta alla tirannia dell’im-
mediatezza; proprio per questo tutti loro, gli storici come i giuristi,
i giuristi come i sociologi o i filosofi, hanno contribuito, ciascuno a
suo modo, a fare di questo “Quaderno” un esempio di storia del
diritto interessata a cogliere le ‘radici’ del presente.
2. Sarà ovviamente il lettore a giudicare dei risultati dell’im-
presa e a muoversi fra le pagine del volume seguendo l’itinerario più
consono ai suoi interessi e alle sue curiosità. Può essere però di una
qualche utilità offrirgli alcune brevi ‘istruzioni per l’uso’ di un
volume che si presenta, sia per la dimensione che per i contenuti,
piuttosto impegnativo.
Occorre innanzitutto sgombrare il campo da una possibile
aspettativa: nonostante la mole, il “Quaderno” non persegue alcun
obiettivo di completezza e sceglie, fra i molti possibili, solo alcuni
profili tematici di indubbio rilievo. Ciò non impedisce però al
“Quaderno”, al di là del suo taglio selettivo e delle diverse angola-
zioni dei saggi che lo compongono, di possedere una sua unitarietà
di fondo proprio in quanto attento a situare l’oggetto ‘Europa’ in un
orizzonte storico-temporale più ampio e complesso di quanto ap-
procci esclusivamente tecnico-giuridici o esclusivamente storiogra-
fici avrebbero permesso.
Studiare storicamente il fenomeno ‘Europa’ significa fissare
quelle coordinate spaziali e temporali che permettano di coglierne la
specificità: proprio per questo il saggio di apertura (di Maria Rosaria
Ferrarese) è dedicato all’Europa nella cornice dei processi di ‘glo-
balizzazione’, mentre il saggio successivo (di Paolo Grossi) si inter-
roga sulle caratteristiche e sui rischi (cui la rappresentazione del-
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l’odierno spazio giuridico europeo può andare incontro) di una
commistione fra ‘tempi storici’ profondamente diversi.
Sono rischi cui intende sfuggire questo volume, interessato a
cogliere i tratti caratterizzanti del fenomeno ‘Europa’ indicando le
differenze e le continuità che collegano il nuovo ordine con le
tradizioni e i modelli culturali appartenenti al recente o meno
recente passato. È appunto in questa direzione che si muovono (pur
con grande libertà e varietà di impostazione e di risultati) i saggi che
compongono il “Quaderno”.
Un primo gruppo di saggi ruota intorno alla dimensione poli-
tico-giuridica della nuova Europa, per mettere a fuoco alcuni profili
tematici di assoluto rilievo: dall’identità europea (affrontata, in
un’ottica storico-costituzionale, da Antonio Padoa Schioppa) alla
sovranità (studiata in differenti prospettive da Dimitri D’Andrea,
Giuseppe Duso, Sabino Cassese, Corrado Malandrino ed Enzo
Cannizzaro), alla costituzione (analizzata da Maurizio Fioravanti).
Il successivo nucleo tematico appartiene ancora al momento
politico-giuridico, ma ha a che fare non con le strutture portanti
dell’ordine bensı̀ con il rapporto fra l’individuo, i diritti e la comu-
nità politica, analizzato sotto il profilo della cittadinanza e della
partecipazione politica (nel saggio di Richard Bellamy e Dario
Castiglione) e della resistenza (nel saggio di Angela De Benedictis).
Dall’esperienza politico-giuridica europea si passa al funziona-
mento stricto sensu giuridico del nuovo ordine; prima vengono messi
a fuoco alcuni dei princı̀pi generali che lo sorreggono — dal
principio di sussidiarietà (studiato da Giorgio Berti) al problema
delle fonti (esaminato da Ugo Mattei) — mentre poi vengono
discusse le trasformazioni cui vanno incontro, entro il nuovo scena-
rio europeo, diversi settori disciplinari: dal diritto del lavoro (cui è
dedicato il saggio di Silvana Sciarra) al diritto penale (cui è destinato
il contributo di Alessandro Bernardi), dal diritto amministrativo e
dal problema dei pubblici servizi (presi in esame da Bernardo Sordi)
alla politica economica e alla disciplina della concorrenza (discusse
rispettivamente da Knut Wolfgang Nörr e da Stefano Mannoni).
È dalla ricostruzione accurata delle vicende e dei profili intrin-
seci dell’ordine politico europeo che può scaturire una accurata
rappresentazione (una compiuta storicizzazione) di questo nuovo e
problematico fenomeno. Per il pieno conseguimento di questo
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obiettivo è però altrettanto importante tentare di ‘uscir fuori’ dallo
spazio europeo, tentare di guardare all’Europa da una qualche
prospettiva ‘esterna’, per rafforzare quella ‘profondità di campo’ cui
il “Quaderno” aspira: è a questa finalità che obbediscono esemplar-
mente i saggi di Bartolomé Clavero, di Gaetano Rametta e di
Richard Hyland, che concludono il volume.
Il trentesimo volume della nostra Rivista si apriva con una
‘pagina introduttiva’ dove il fondatore e direttore dei “Quaderni
Fiorentini”, Paolo Grossi, prendeva congedo dai lettori e presentava
loro i nuovi responsabili del Centro Studi e della Rivista. Il trentu-
nesimo volume, dedicato al tentativo di storicizzare l’ordine giuri-
dico europeo, è stato disegnato nella consapevolezza che una siffatta
impresa era concepibile soltanto all’insegna di un forte scambio fra
discipline diverse: proprio all’insegna di quel dialogo fra storici del
diritto e giuristi (e fra storici del diritto e cultori delle ‘scienze
umane’) che Paolo Grossi aveva promosso e perseguito nel lungo
periodo della sua direzione. È di questo dialogo e di questo pro-
gramma che il presente volume dei “Quaderni” vuol essere un’ideale
prosecuzione. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
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Modelli e dimensioni
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MARIA ROSARIA FERRARESE
IL DIRITTO EUROPEO
NELLA GLOBALIZZAZIONE: FRA TERRA E MARE
1. Diritto e prospettive spaziali. — 2. Ordine giuridico terrestre e antropologia della
paura. — 3. La proprietà tra valore d’uso e valore di scambio. — 4. Sovranità e proprietà.
— 5. Ordini giuridici tra tradizione e rivoluzione. — 6. Il nuovo pluralismo dell’ordine
giuridico europeo: tra democrazia, tradizione e aristocrazie.
1. Diritto e prospettive spaziali.
Per indagare la posizione giuridica dell’Europa di fronte alle
sfide della globalizzazione, intese come sfide agli spazi tradizionali
ed all’organizzazione politica e giuridica che su essi era allignata,
vorrei seguire alcune delle suggestioni che Carl Schmitt offre in un
libretto del 1942, recentemente ritradotto in italiano, in cui racconta
a sua figlia Anima una breve “storia del mondo” a partire dai quattro
elementi della filosofia greca (terra acqua, fuoco e aria), visti come
altrettante “possibilità dell’esistenza umana” ( ). Il racconto, che si
1
sviluppa soprattutto attraverso la dicotomia terra-mare, ci fa assi-
stere ad una progressiva sortita di umane possibilità delle certezze
della terraferma, per avventurarsi via via in un’“esistenza marittima”
che, dopo varie anticipazioni storiche, trova infine nell’Inghilterra
del 500 il paese protagonista, un paese che da “isola” volge le spalle
alla terraferma e si trasforma “in una parte del mare, in una nave, o,
meglio ancora, in un pesce” ( ). Il mare era già comparso nell’opera
2
di Schmitt, specie attraverso l’attenzione tributata al Leviatano,
( ) C. S , Terra e mare, Adelphi, Milano 2002. La precedente traduzione è
1 CHMITT
del 1986, per i tipi di Giuffrè e con introduzione a cura di A. Bolaffi.
) Ivi, p. 95. “come una nave o un pesce può raggiungere via mare un’altra parte
(
2
del pianeta, perché ormai non è altro che il centro mobile di un impero mondiale
frammentariamente diffuso in tutti i continenti” (ivi, p. 97).
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mostro marino hobbesiano; qui compare la balena con significato
fortemente simbolico: in quanto mammifero-pesce, idealmente col-
locata tra dimensione terrestre e dimensione marittima, che ha avuto
la capacità di fare da richiamo e da guida ai propri cacciatori,
).
attraendoli “verso l’oceano, emancipandoli dalla costa” (
3
La narrazione si chiude con un breve ma acuminato sguardo alla
possibilità di una nuova rivoluzione spaziale planetaria, sulla base
anche degli altri due elementi (aria e fuoco), non privo di geniali
intuizioni su quello che per l’Autore si poneva come futuro prossimo
e che è per noi il presente in cui siamo immessi, un presente che vede
). Dalla prospettiva
venire meno il vecchio nomos della terra (
4
“aerea” ( ) che Schmitt vede come l’esito estremo di una rivoluzione
5
spaziale totale, non si salva più nessun angolo della terra.
Dunque, dalla prospettiva adottata da Schmitt si può parlare di
tre epoche della storia umana: le prime due contrassegnate l’una
dalla separazione tra terra e mare, e l’altra dalla commistione tra
questi due elementi; la terza, infine, appena tratteggiata, che apre ad
una del tutto inedita rivoluzione degli spazi che noi oggi chiamiamo
globalizzazione. Per restare dentro questa tripartizione, si potrebbe
dire che la seconda epoca è stata compiutamente sperimentata solo
dal mondo anglosassone: dall’Inghilterra prima e dagli Stati Uniti
dopo. L’Europa continentale, invece, come una vecchia signora che
si è attardata in veterocostumi un po’ démodé, nonostante il rap-
porto di progenitrice di quel mondo, è dunque arrivata all’appun-
tamento con la globalizzazione senza aver mai abbandonato la
prospettiva della terraferma, per cedere al richiamo dell’esistenza
marittima. Ma, se è riuscita a resistere alla prospettiva “marittima”
dell’esistenza e del diritto, che gli Stati Uniti, “isola” non meno della
Gran Bretagna, hanno da questa ereditato, è stata infine travolta
dalla prospettiva “aerea”, che non si lascia più scegliere, non ha
bisogno del richiamo della balena per uscire allo scoperto, poiché
( ) Ivi, p. 36. Schmitt rivisita in proposito Michelet e Melville, con il loro elogio
3
del baleniere.
) C. S , Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1991.
( 4 CHMITT
) Per la verità, Schmitt fonde l’idea dell’“aria, quale nuova sfera elementare
( 5
dell’esistenza umana” con il “fuoco”, al fine di caratterizzare la nuova rivoluzione
spaziale, una rivoluzione che sembra chiudere anche il tradizionale rapporto tra terra e
mare” (ivi, pp. 108-110).
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ormai “non è il mondo ad essere nello spazio, bensı̀ è lo spazio a
essere nel mondo” ( ).
6
L’idea schmittiana di una ”esistenza marittima”, a cui l’Europa
continentale si è sottratta, verrà qui utilizzata per indagare il volto
giuridico dell’Europa continentale. A partire da questa “assenza”, si
cercherà di ricostruire alcune linee divisorie tra l’universo giuridico
europeo, ancorato alla terraferma ed ai suoi miti, e quello anglosas-
sone, contrassegnato da una concezione “marittima” dell’esistenza,
che ha trovato il suo principale vettore negli Stati Uniti, dopo un
primo significativo avvio sul suolo britannico. Che vi fosse un
rapporto tra “esistenza marittima” e civiltà giuridica non sfuggı̀ a
Schmitt, che, come nota Volpi nella postfazione, già nel 1942, in uno
scritto precedente, aveva colto “la sfida che il mare rappresenta per
il pensiero giuridico” ( ). Del resto, già Marx ( ) aveva anticipato il
7 8
tema della “liquefazione” del mondo nel profetico scritto del 1948,
in cui avanzava l’idea che, con il capitalismo, “all solid melts into
air” ( ).
9
Si cercherà dunque di mettere a fuoco le implicazioni che una
concezione “terrestre” ed una concezione “marittima” dell’esistenza
hanno per il diritto e le istituzioni. Si tratta di una prospettiva già
nota, specie ai cultori di Hobbes. Come ricorda Portinaro, “in
Hobbes Behemoth simboleggia il disordine e la guerra civile, Levia-
than l’ordine e lo Stato e di qui, per estensione, l’uno il principio
della paura e del male, l’altro il principio della sicurezza e del
bene” ( ). Le due concezioni “riflettono la contrapposizione tra una
10
cultura oceanica, con la sua apertura al commercio e alla libertà
economica, ed una cultura della terra ferma, vicina al modello dello
( ) Cfr. ivi, p. 109.
6 ) Cosı̀ F. V , Il potere degli elementi, in C. S , Terra e mare, cit., p. 124.
( 7 OLPI CHMITT
) Forse anche con Marx Schmitt vuole dialogare alla fine del suo volume,
(
8
attraverso la mediazione di Hegel, di cui fa la seguente citazione, tratta da Lineamenti di
filosofia del diritto: “come per il principio della vita famigliare è condizione la terra, base
e terreno stabile, cosı̀ per l’industria l’elemento naturale che l’anima verso l’esterno è il
mare”. ) Il riferimento è al Manifesto del partito comunista, le cui traduzioni in italiano
( 9
hanno generalmente fatto perdere la immediatezza di questa frase.
) P. P , La crisi dello jus publicum europeum. Saggio su Carl Schmitt,
( 10 ORTINARO
Comunità, Milano 1982, p. 163. Va aggiunta l’osservazione di Portinaro secondo cui
Hobbes vede nel Leviatano, signore dei mari, il simbolo dell’unità statale (p. 180).
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stato commerciale chiuso e al centralismo degli antichi imperi a base
): esse sono dunque alla base di diverse ed anzi opposte
agraria” (
11
ingegnerie istituzionali: due ingegnerie che, con J. Elster, potremmo
efficacemente raffigurare come rispettivamente intente a “combat-
).
tere il vizio” o, al contrario, ad “incoraggiare la virtù” ( 12
Cercheremo dunque di ricostruire i principali tratti di tali
ingegnerie istituzionali, per cogliere infine la prospettiva mista adot-
tata dal diritto europeo nel mondo globale, quale nuovo sviluppo
istituzionale rispetto alle prospettive “terrestre” e “marittima”.
Al fine di sviluppare queste differenze, si ricorrerà ad un’ottica
comparata, mettendo a fuoco alcune delle differenze centrali tra
l’universo giuridico dell’Europa continentale e l’universo giuridico
degli Stati Uniti. Ma, come si è detto, la prospettiva del diritto
europeo in epoca globale non è puramente e semplicemente un
riflesso della prospettiva statunitense: essa risponde al bisogno di
nuovi e più complessi rimescolamenti e adattamenti, che recano
traccia sia del mondo “terrestre” che di quello “marittimo”.
2. Ordine giuridico terrestre e antropologia della paura.
L’ideologia europea della “terraferma” ha trovato riflesso in una
struttura giuridica fondamentalmente monolitica e tendenzialmente
statica. Entrambi questi caratteri possono essere collegati ad una
visione essenzialmente panlegislativa del diritto. La riduzione del
diritto ad un’unica versione di tipo legislativo, inizialmente derivata
dal Principe, e successivamente dal demos, ha dato una colonna
vertebrale piuttosto rigida al sistema giuridico, congelando le stesse
dinamiche istituzionali di divisione dei poteri, che hanno finito per
corrispondere a mere articolazioni di tipo funzionale di un unico
potere (inteso essenzialmente come legislativo), piuttosto che dar
voce a distinte espressioni di potere: la ratio legislativa è insomma
).
rimasta priva di contrappesi (
13
( ) Cfr. ivi, p. 167.
11 ) J. E , Argomentare e negoziare, Anabasi, Milano 1993.
( 12 LSTER
) Si pensi al ruolo tradizionalmente “ancillare” svolto dalla magistratura in
(
13
Europa, laddove negli Stati uniti essa ha tradizionalmente svolto un ruolo “against
government”. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 15
MARIA ROSARIA FERRARESE
La versione legislativa, riducendo il diritto a “norme” e “co-
mandi”, ha finito per corrispondere ad un intento di stabilità
giuridica, che trovava nel “mito” della legalità, “una preziosa cer-
), senza curarsi eccessivamente di esigenze di
niera conchiudente” (
14
raccordo con l’universo sociale. Il predominio della ratio legislativa
ha corrisposto ad un’idea forte della sovranità ed il mezzo più
congruo per indagare l’universo giuridico europeo è stato fornito
). In queste pagine,
dalla lente dello jus publicum europeum (
15
tuttavia, per rispondere all’interrogativo sul perché il diritto europeo
sia rimasto ancorato alla terraferma, si cercherà di procedere, invece
che attraverso questo percorso principale, già autorevolmente e
ripetutamente esplorato, attraverso alcuni percorsi secondari, forse
non meno rilevanti per comprendere la prospettiva “terrestre” delle
istituzioni, che deriva dalla concezione europea della sovranità.
Verranno, sia pur frettolosamente, e lungi da pretese di esau-
stività, intrapresi due sentieri. In primo luogo, il rapporto privile-
giato che esiste tra sistema giuridico europeo-continentale e pro-
prietà, fino a intravedere una somiglianza tra la concezione europea
della sovranità e la proprietà. In secondo luogo, si cercherà di
collegare il progetto delle istituzioni europee al trionfo di una classe
sociale: la borghesia, che tuttavia non aveva la capacità di assumere
valenze “universali” e ha generato un dualismo conflittuale. Ma
prima ancora di intraprendere questi due percorsi è necessario
caratterizzare storicamente la prospettiva terrestre del diritto, come
un derivato della dissoluzione dell’universo medievale e dell’antro-
pologia della paura, con cui la si fronteggiò.
Il riferimento alla guerra civile e al principio homo homini lupus
che sta alla base dell’antropologia hobbesiana del Leviatano, vede
un mondo mosso unicamente dalla paura e dal desiderio di evitare
il male: “ciascuno … è portato a desiderare ciò che per lui è il bene,
e a fuggire ciò che per lui è male, soprattutto il massimo dei mali
naturali, che è la morte; e questo con una necessità naturale non
). Dunque,
minore di quella per cui una pietra va verso il basso” (
16
( ) Cfr. P. G , Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, Milano 2001,
14 ROSSI
p. 75. ) P. P , La crsi dello jus publicum europeum, cit.
(
15 ORTINARO
) T. H , De Cive, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 84 (corsivo mio).
(
16 OBBES © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
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l’antropologia hobbesiana è determinata da una sorta di legge di
gravità che impedisce allontanamenti o voli dal terreno: è pesante,
negativa, pessimista, poco incline ad accettare sfide e pericoli ulte-
riori oltre a quelli che già gravano per natura sull’uomo, e perciò
impossibilitata a lasciare la dimensione terrestre. In un mondo in cui
“ogni uomo è un nemico per l’altro uomo”, “non vi è posto per
l’industria; poiché il frutto è incerto: e in conseguenza non vi è
cultura della terra, né navigazione, né uso dei beni che possono
essere importati per mare; né costruzioni per la comodità; né mezzi
per muoversi e rimuoversi, cose tali che richiedono molta forza; né
conoscenza del volto della terra; né importanza del tempo; né arti;
).
né lettere; né società” ( 17
Ed è proprio la gravità delle sfide presenti nell’universo hobbe-
siano che produce la necessità di un potere “supremo”, come
assicurazione contro la paura, ed una concezione politica ossessio-
). Ora, questa ossessione, che
nata dal tema dell’obbedienza (
18
permea le istituzioni europee, piegandole ad una logica di “discipli-
namento”, come ha mostrato l’opera di Michel Foucault, si riflette in
una visione spaziale e quasi architettonica delle stesse, ispirate come
sono al modello del Panopticon ( ), con tutta la sua terrestre visibi-
19
lità. Ma la sorveglianza panottica della società, attraverso le sue
molteplici istituzioni, non può non essere vista come una necessità
derivante da una cesura rispetto al passato storico europeo. Lo stato
moderno e le sue propaggini istituzionali devono dare l’ordine di
una fabbrica, se non di una prigione, al mondo di vagabondi,
sradicati, disperati e ribelli che ha prodotto la rottura dell’ordine
medievale. Per questo mondo sociale sconquassato, si tratta di
evitare che la proliferazione della “melancolia”, intesa come malattia
sociale, porti al rifiuto del patto sociale ed al rischio di comporta-
menti sovversivi ( ).
20
( ) T. H , Il Leviatano, 1. XIII-9.
17 OBBES
) Il “nesso che intercorre tra protezione e ubbidienza” viene ripetutamente
(
18 , Osservazioni in risposta a un discorso radiofonico di Karl
sottolineato da C. S CHMITT
, Ex Captivitate salus, Adelphi, Milano, 1987, p. 23.
Mannheim, in C. S CHMITT
) Ho sottolineato questa conformazione ancorata allo spazio delle istituzioni
( 19
nel mio Il diritto al presente, il Mulino 2002.
) P. S , Specchi della politica, Il Mulino, Bologna 1999, p. 361 e ss. In
( 20 CHIERA
particolare, si vedano pp. 380-383.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 17
MARIA ROSARIA FERRARESE
Il riferimento al passato medievale per intendere l’ordine giuri-
dico europeo appare importante ancor più se si considera come
proprio l’assenza di tale passato abbia contribuito a forgiare un
), come si dirà più
diverso universo giuridico in terra americana (
21
avanti. A partire da questo sfondo storico, dunque, possono essere
considerati due aspetti che hanno influito sullo scenario istituzionale
europeo, contribuendo a determinarne la prospettiva “terrestre”,
ossia compatta e poco mobile. Si tratta di due discontinuità rispetto
al passato medievale. Il primo aspetto è la preminenza assunta dalla
proprietà rispetto al contratto, fino a permetterci di scorgere un
rapporto significativo che esiste persino tra sovranità e proprietà. Il
secondo aspetto è la continuità che esiste tra “trionfo” della ragione
borghese ed esclusività della ratio legislativa, con conseguente ini-
bizione di un tessuto istituzionale più mobile e variegato.
3. La proprietà tra valore d’uso e valore di scambio.
L’ordine europeo medievale era fondato su alcuni “fatti norma-
). La terra era dunque
tivi fondamentali”: terra, sangue, e tempo (
22
un fatto fondante del diritto, ma non era intesa tanto come pro-
prietà, bensı̀ come “cosa produttiva per eccellenza” aperta all’ap-
propriazione collettiva ( ). L’ordine “terrestre” creato in Europa
23
può sembrare in continuità rispetto al medioevo, nel suo restare
ancorato a una ratio di tipo spaziale. E la proprietà è l’istituto
giuridico che meglio risponde all’esigenza di registrare un mondo di
spazi definiti e misurabili: essa diventa metafora giuridica di un
mondo che tende alla stabilità ed alla persistenza ( ). Tuttavia,
24
quando si parla di proprietà, è necessario avere presente la comples-
( ) Il tema è presente in L. H , La tradizione liberale in America. Interpreta-
21 ARTZ
zione del pensiero politico americano dopo la Rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1960.
) P. G , L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 74.
( 22 ROSSI
) “La caratteristica principale della concezione feudale è il suo riconoscimento
( 23
di una proprietà doppia, vale a dire la proprietà superiore del signore del feudo che
,
coesiste con la proprietà inferiore o possedimento, del feudatario”. Cosı̀ H. S. M
AINE
Diritto antico, Giuffrè, Milano 1998, p. 222.
) Sulla persistenza di forme di proprietà comunitarie, si veda M. G -
( 24 UIDETTI
, Il sangue e la terra. Comunità di villaggio e comunità familiari nell’Europa
P.H. S TAHL
dell’800, Jaca Book, Milano, 1977.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
18 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
sità della sua storia, che registra un lungo corso di mutazioni ( ) e
25
), ossia funzioni sociali della pro-
diversi modi “di possedere” ( 26
prietà che sono storicamente e geograficamente mutevoli. Si pensi
alla duplice possibilità, indicata già da Marx, di intendere la pro-
prietà sia come “valore d’uso”, ossia capace di provare una condi-
zione di status del soggetto, sia come “valore di scambio”, ossia
esposta alla contrattazione per fini utilitaristici. Ora, specialmente
questa differenza funzionale della proprietà ci può aiutare a com-
prendere due diverse storie della proprietà, con diversi gradi di
esposizione all’imprenditorialità, che hanno avuto luogo sul suolo
dell’Europa continentale e sul suolo anglo-americano.
A questa diversa storia ha corrisposto, sotto un profilo più
propriamente giuridico, un diverso e forse persino opposto equili-
brio tra proprietà e contratto, che ha avuto luogo in Europa e negli
Stati Uniti. Proprietà e contratto sono due istituti giuridici entrambi
essenziali per la vita economica capitalistica, ma con una diversa
ratio ed un diverso peso specifico per le relazioni di mercato. La
centralità della proprietà intesa come “valore d’uso” ha segnato
significativamente buona parte della storia del capitalismo: non solo
), ma anche di quello industriale, che
del capitalismo agrario ( 27
ancora reca con sé una grande solennità e visibilità della proprietà,
)
attraverso l’impresa intesa come oggetto di un “proprietario” (
28
che, come tale, inibisce la contrattualizzazione e dunque le relazioni
di mercato: si pensi al motto “chi vende, scende”, che ancora
costituiva comune consapevolezza sociale fino ad un passato recente.
) ottocentesco, stabilizzando la
L’“individualismo possessivo” (
29
proprietà in una dimensione solitaria ed individualistica, ed in una
finalità “di status”, svolse un ruolo ambivalente sotto il profilo della
( ) H. S. M , Diritto antico, cit., p. 185 e ss.
25 AINE
) P. G , Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di
(
26 ROSSI ., Il dominio e le
proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Giuffrè, Milano 1977, e, I D
cose. Percezioni medievali e moderne dei diritti reali, Giuffrè, Milano 1992.
) Si veda R. M , Capitalismo e anticapitalismo in Weber, Il Mulino, Bologna
(
27 ARRA
2002. ) Rimando al mio Della corporate governance, ovvero dell’imperfezione del
(
28
diritto societario, in Scritti giuridici per Guido Rossi, Giuffrè, Milano 2002.
) C. B. M , Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, Isedi,
(
29 ACPHERSON
Milano 1973. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 19
MARIA ROSARIA FERRARESE
funzionalità economica. Per un verso attuò una sorta di property
) ante litteram, nell’intento di potenziare l’efficienza
rights theory (
30
economica. Ma per un altro verso, la proprietà intesa in senso
individualistico tendeva a creare situazioni stabili e sicure, in con-
flitto con la possibilità di realizzare ulteriori frontiere di efficienza,
attraverso maggiore esposizione al contratto ed al mercato.
Nel caso europeo, l’opzione a favore della proprietà, che se-
gnava posizioni di status, ha resistito dando luogo ad un capitalismo
cosiddetto “renano”, caratterizzato dalla scarsa esposizione delle
imprese al mercato finanziario e dal legame privilegiato con le
banche: non il capitalismo, ma piuttosto le ragioni del welfare state
) intesa come “valore d’uso”. Nel
ponevano sfide alla proprietà (
31
caso americano, al contrario, la proprietà, chiamata subito a corri-
spondere ad esigenze di contrattualizzazione proprie del mercato, ha
prevalentemente viste mortificate le valenze di status, a favore di
finalità di scambio e di crescita economica, fino ad accettare tutte le
sfide che l’economia finanziaria ha posto alla ratio proprietaria.
Negli Stati Uniti, furono le ragioni dello sviluppo capitalistico,
ben più che quelle dello stato “amministrativo” ( ), a richiedere un
32
ridimensionamento dei diritti della proprietà: l’ideologia dei “diritti
naturali”, che tendeva a trasformare la proprietà in un diritto
“assoluto”, a misura esclusiva del soggetto proprietario, entrò in
conflitto con le ragioni dello sviluppo economico e dell’imprendi-
torialità ( ): il mercato impone una visione più socializzata del
33
valore dei beni, in contrasto con una interpretazione individualistica
dello stesso. Ancor più, l’affermazione dell’economia finanziaria
( ) “Per avere massimo rendimento dalla terra bisogna che le leggi provvedano
30
ad accentrare nel proprietario tutti i diritti e le facoltà che il feudalesimo ha sparpagliato”
R , Storia del liberalismo europeo, Feltrinelli, Milano 1977, p. 36).
(Cfr. G. D E UGGIERO
) S. R , Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, Il Mulino, Bologna
(
31 v
ODOTA
1981. ) Lo stato “amministrativo” può considerarsi la versione americana del nostro
( 32
welfare state, incentrata su valori di “bene pubblico”, ma legata alla centralità del
mercato. Rimando in proposito al mio Diritto e mercato. Il caso degli Stati Uniti,
Giappichelli, Torino 1992.
) M. J. H ricostruisce la storia della crisi della concezione naturalistica
( 33 ORWITZ
del diritto di proprietà in America in The Transformation of American Law 1870-1960.
The Crisis of Legal Orthodoxy, Oxford University Press, Oxford 1992, p. 128 e ss. e
passim. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
20 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
avrebbe interrotto la certezza e la visibilità della proprietà, come
): questa
Berle e Means denunciarono nel loro lavoro del 1932 (
34 ),
venne non solo frantumata e dispersa in “pacchetti di azioni” (
35
ma anche consegnata a nuove forme di incertezza e instabilità che
sono proprie del mercato finanziario. Via via che le esigenze di
reperire nuovi finanziamenti per le imprese pongono il mercato
finanziario al centro dell’economia, il volto proprietario delle im-
prese acquista contorni sempre meno definiti e stabili. Dopo il
decollo sul suolo inglese, l’economia finanziaria, trovata negli Stati
Uniti la propria patria d’elezione, costringe la proprietà sempre più
a condividere con il contratto, ed anzi con un meccanismo di estesa
contrattualizzazione, il proprio ruolo di istituto giuridico di riferi-
).
mento per il capitalismo (
36
Mentre gli Stati Uniti hanno consumato quasi integralmente il
vecchio volto proprietario delle imprese, fino agli eccessi della
), in Europa continentale (cosı̀ come in
“società dell’accesso” (
37
Giappone), il capitalismo è rimasto prevalentemente ancorato ad
un’idea proprietaria, mantenendo le imprese sulla terraferma della
ratio proprietaria e respingendo l’invito ad affrontare i rischi ma
anche le opportunità dell’economia finanziaria. Ciò ha significato
maggiore stabilità dell’economia, ma anche minore slancio impren-
ditoriale e ridotta capacità di innovazione.
( ) A. A. B -G. C. M , Società per azioni e proprietà privata, Einaudi,
34 ERLE EANS
Torino 1966. Gli autori analizzano sia il frazionamento della proprietà delle imprese (“la
disintegrazione del diritto di proprietà distrugge la base stessa su cui ha poggiato il
sistema economico degli ultimi tre secoli” p. 11), sia lo smantellamento dei diritti
proprietari dell’azionista in favore di chi esercita il controllo sulle società (“proprietà di
beni senza poteri di controllo e controllo di essi senza partecipare in misura apprezzabile
alla loro proprietà, sembrano essere le risultanti logiche dello sviluppo del sistema
societario” p. 69).
) Cosı̀ J. A. S , Capitalismo, socialismo, democrazia, Etas, Milano
( 35 CHUMPETER
1977, che coglie come la proprietà, con l’economia finanziaria, divenga “smaterializzata,
funzionalizzata e assenteista” (p. 113).
) Mi sono soffermata su questo distacco dell’economia finanziaria dalla pro-
( 36
prietà nel mio Il diritto al presente, cit., pp. 47 e ss.
) J. R , L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Mondadori,
( 37 IFKIN
Milano 2000, dove si descrive come, in “un’economia priva di peso”, mentre la proprietà
diventa sempre più un peso morto, ciò che diventa significativo è il “diritto all’accesso”.
Si vedano specie p. 316 e ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 21
MARIA ROSARIA FERRARESE
L’economia finanziaria, per cosı̀ dire, porta in mare la proprietà,
facendola divenire una nave in movimento piuttosto che una casa
). Come “la casa è quiete, la nave è
ancorata alla terraferma (
38
movimento”, cosı̀ per il diritto di proprietà il contratto è una sfida
continua, che erode la ratio proprietaria, scuotendo la terraferma del
“valore d’uso”, per portarla sui lidi dello scambio contrattuale.
4. Sovranità e proprietà.
La proprietà, intesa come “valore d’uso”, lascia un’altra impor-
tante traccia nell’Europa continentale attraverso lo stato e l’idea
della sovranità statale. A prima vista, questo accostamento può
apparire del tutto fuori luogo, tanto proprietà e sovranità sono
termini che indicano realtà giuridiche antitetiche. La prima, em-
blema per eccellenza del diritto privato e di quella “società civile”
rousseauiana che trova nell’economia il suo scenario principale. La
seconda, emblema eccellente del regno della politica e di tutto ciò
che è “pubblico”. Tuttavia, a dispetto di questa consueta maniera di
discriminare, si possono ravvisare non poche linee di continuità tra
). Ciò che si cercherà di osservare è un
proprietà e sovranità (
39
risvolto “proprietario” e forse persino “privatistico” della sovranità,
che si contrappone alla retorica fortemente “pubblicistica” della
comunicazione legislativa dello stato.
Del resto, a ben guardare, la parentela tra proprietà e sovranità
è emersa talora esplicitamente o implicitamente in letteratura. Non
è un caso se Botero, nel 1589, nell’individuare lo stato e la “ragione
di stato”, veda il primo come “dominio fermo sopra popoli” e la
( ) Casa e nave sono le due metafore di un’esistenza di terra o di mare: “casa e
38
proprietà, matrimonio, famiglia e diritto ereditario, tutto questo si forma sulla base di
un’esistenza terricola, e in particolare, agricola…Il nucleo dell’esistenza terrena è
dunque la casa. Quello di un’esistenza marittima, invece, è la nave che va e che è in sé
stessa un mezzo più intensivamente tecnico che non la casa. La casa è quiete, la nave è
movimento”. Cosı̀ in Dialogo sul nuovo spazio, che appare nel volume Terra e mare del
1986, a cura di Angelo Bolaffi, pp. 102-103.
) Nel fare luce su alcune di queste linee di continuità, un notevole contributo
( 39
è stato dato dai giusrealisti americani, all’interno di una linea di indagine tesa a rompere
, Property
la tradizionale opposizione tra pubblico e privato. In particolare, M. R. C OHEN
and Sovereignty, Cornell University Press, Ithaca 1927.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
22 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
seconda come “notizia de’ mezzi atti a fondare e conservare un
dominio”, sentendosi peraltro in dovere di precisare che “la conser-
vazione” ha preminenza sulla “ampliazione”, tanto quanto sulla
). E, nello stesso Hobbes, si può intravedere una
“fondazione” (
40
implicita caratura proprietaria della sovranità statale: questa, infatti,
pur avendo una fondazione di tipo contrattuale, costruisce un potere
sovrano cosı̀ centripeto e sottratto ad ogni diritto di resistenza, da
escludere ogni riferimento alle venature contrattuali del potere
pubblico medievale.
Per rilevare una certa affinità tra proprietà e sovranità, si
possono richiamare almeno due aspetti che meglio la evidenziano. In
primo luogo, la composizione del mondo dopo la pace di Westfalia
dà luogo ad uno spazio “internazionale”, che non ha una propria
spiccata identità e che assomiglia piuttosto ad una sommatoria di
spazi privati gestiti autonomamente dagli stati. La filosofia dello
stato sovrano “superiorem non recognoscens” presenta non poche
affinità con quel soggetto proprietario che, all’interno della propria
proprietà, si sente perfettamente autonomo nelle sue azioni ed
indenne da altrui supervisioni. La libertà del soggetto legislatore è
sconfinata ed assomiglia alla libertà di autonormazione del proprie-
tario sul proprio territorio, che non tollera limitazioni neanche dal
soggetto pubblico. Tutto ciò portava, nell’epoca degli stati sovrani,
a teorizzare lo spazio internazionale non come spazio specifico,
pervaso dall’idea di un “bene pubblico” internazionale, ma piuttosto
).
come mera sommatoria del “bene privato” di ciascuno stato ( 41
L’impotenza del diritto internazionale era visibile specie verso stati
che si rendevano autori sul proprio suolo di gravi attentati alle
libertà ed ai diritti fondamentali dei cittadini. Un’altra conferma di
questa idea “privatistica” della sovranità statale si riceve pensando
alla regola dell’unanimità, regola idealizzata dai liberisti più strenui
per l’adozione di decisioni collettive, e che vigeva rigidamente per
l’adesione ai trattati internazionali: regola che, solo oggi, una nuova
( ) Cfr. G. B , La ragion di stato, Donzelli, Roma 1997, p. 7.
40 OTERO
) Sul rapporto tra diritto statale e diritto internazionale, H. K , Il problema
(
41 ELSEN
della sovranità, Giuffrè, Milano 1989, dove si conclude per la necessaria rimozione del
concetto di sovranità, per creare un ordinamento internazionale che non abbia bisogno
di alcun “riconoscimento” (p. 469).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 23
MARIA ROSARIA FERRARESE
stagione del diritto internazionale, e specie l’ottica della sovranazio-
).
nalità e del multilateralismo, stanno modificando (
42
L’ispirazione essenzialmente “proprietaria” della sovranità sta-
tale riceve una ulteriore conferma se si guarda al fatto che lo stato
sovrano, non diversamente dal soggetto proprietario, si pone come
soggetto essenzialmente “monologante”, piuttosto che “dialogante”:
esso non ha bisogno di creare istituzioni capaci di dialogare con i
propri sudditi, di registrare i loro impulsi e reazioni. Esso ha bisogno
). Il diritto diventa cosı̀ una
di cittadini ubbidienti e “disciplinati” (
43
mera tecnica di trasmissione dei “comandi” del sovrano, che non ha
bisogno che di una legittimazione di tipo formale: la legislazione è lo
strumento più adatto a dare espressione a quei comandi, cosı̀ come
a garantire la più ampia libertà di scelta del soggetto normatore.
Il soggetto sovrano esprime insomma non solo un’idea essen-
zialmente centripeta del potere, allergica a divisioni e contrappesi,
ma anche una grammatica del potere di tipo rigidamente normativo,
ossia un universo istituzionale che adotta un’unica linea di comuni-
cazione con i sudditi, una linea che va unidirezionalmente dal potere
). Al nuovo Prin-
verso i sottoposti, e non in direzione contraria (
44
cipe non interessa registrare impulsi, sentimenti e commenti prove-
nienti dal basso della società e diretti al suo indirizzo. Sotto questo
profilo, è interessante notare come il compimento del progetto di
uno stato sovrano coincida con l’interruzione della pratica di quegli
specula principum, genere letterario antico, tornato in auge in epoca
carolingia, che per tutto il Medio Evo ebbe intenti didascalici nei
confronti del principe, affinché il suo potere corrispondesse alla
). Gli “specchi dei
legge morale condivisa ed al “buon governo” (
45
principi” rispondevano ad un’idea di monarchie contractuelle, che fu
viva per tutto il medio Evo, e alla pretesa di « orientare e contem-
( ) Rinvio in proposito al mio Le organizzazioni internazionali e gli stati con-
42
traenti, in corso di pubblicazione in “Rassegna italiana di sociologia” 2003.
) M. F , La microfisica del potere, Einaudi, Torino 1976.
(
43 OUCAULT
) C. Schmitt, nei giorni bui del suo coinvolgimento nel processo di Norim-
(
44
berga, considera “la stupefacente attitudine a farsi organizzare” dell’uomo tedesco,
collaborando “lealmente con tutto ciò che il governo di volta in volta legale ordinasse”.
Cfr. Osservazioni in risposta a un discorso radiofonico di Karl Mannheim, cit., p. 20.
) Si veda A. D B , Politica, governo e istituzioni dell’Europa moderna,
( 45 E ENEDICTIS
Il Mulino, Bologna 2001, p. 251 e ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
24 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
poraneamente condizionare la realtà secondo un sistema di valori
“naturali” dei quali il sovrano era portatore » ( ).
46
L’interruzione di questo tipo di comunicazione istituzionale
rispecchia l’instaurazione di un ordine politico e giuridico di tipo
tendenzialmente autoritario, che, per secoli, trovò nella metafora
dell’“orologio” la più appropriata rappresentazione ( ), fino al so-
47
gno illuminista di una società governata da un corpo di “leggi
perfette”, che, come notava Federico il Grande, “sarebbe il corona-
mento dello spirito umano per quel che concerne la politica di
governo; vi si osserverebbe un’unità di disegno e di regole cosı̀ esatta
e cosı̀ ben proporzionata che uno stato guidato da simili leggi
ricorderebbe un orologio” ( ). In questo tipo di ordine istituzionale,
48
con il tempo fisso e chiuso dell’orologio, le “prerogative dell’autorità
centrale erano l’informazione, la memoria, il giudizio e la decisione”
che venivano irradiati dall’alto sulla società, senza che fosse avvertito
il bisogno di una comunicazione di ritorno: ovviamente il suo
successo era affidato non solo alla capacità di varare programmi
adeguati, capaci di anticipare tutte le possibilità, ma anche alla
produzione di una società sufficientemente disciplinata e ubbi-
diente, nonché priva di eccessivi margini di iniziativa.
A questa concezione “autoritaria” dell’ordine, che fu condivisa
dalle società europee nei primi secoli moderni, sfuggı̀ solo l’Inghil-
terra che, tra il diciassettesimo ed il diciottesimo secolo, prese ad
indirizzarsi verso un modello politico di tipo liberale, a cui la
metafora dell’orologio si adattava poco: fu piuttosto l’immagine
della bilancia, con la sua capacità di autoregolazione e di registrare
i feedback, a rappresentare un diverso tipo di ordine, basato non più
su una concezione centripeta del potere, ma piuttosto sull’idea di
checks and balances ( ).
49
La differenza tra le due concezioni del potere e dell’ordine corre
sulle gambe di un’economia che, nel caso inglese, dopo avere
intrapreso le vie del mare, dando luogo alla cultura economica
( ) Cfr. ivi, p. 256.
46 ) Si veda O. M , La bilancia e l’orologio. Libertà e autorità nel pensiero
( 47 AYR
politico dell’Europa moderna, Il Mulino, Bologna 1988, nonché la bella introduzione di
Lorenzo Ornaghi.
) Cit. ivi, p. 191.
( 48 ) Ivi, p. 239 e ss.
( 49 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 25
MARIA ROSARIA FERRARESE
mercantilista, ancora incentrata su una logica di potere degli stati, si
diresse senza incertezze verso un modello di produzione e di distri-
buzione dei beni di tipo capitalistico. Un modello che muove da una
concezione positiva degli interessi individuali, visti come motori di
progresso e sviluppo economico. Non a caso è l’Inghilterra a rivelare
per prima l’antitesi tra “fautori della ‘terra’ e fautori del ‘dena-
), ossia tra ceti agrari e ceti finanziari, i primi legati ad una
ro’” ( 50
concezione della proprietà terriera trasmissibile ereditariamente, gli
altri come fautori non solo del commercio, ma soprattutto di quel
credito in cui gli altri ravvisavano una temibile fonte di corruzio-
). Se la proprietà rispondeva all’idea di un soggetto proprieta-
ne ( 51
rio detentore di virtù civiche, proprie di una società civile libera e
), l’economia finanziaria
forte, dunque anche aperta ai commerci (
52
si allontana dalla sponde sicure della proprietà, per imbarcarsi non
solo nelle acque tranquille del commercio, ma ancor più, nelle acque
agitate delle speculazioni e di forme contrattuali esposte al rischio.
Il modello e la concezione inglese presto troveranno nella
nazione americana non solo una nuova e più importante patria, ma
interpreti ben più estremisti, fino ad alimentare l’idea popolare degli
Stati Uniti quale terra della libertà per antonomasia. Una terra che,
pur restando a lungo estranea a quel richiamo degli oceani che tanto
avevano avvertito gli inglesi, riproduce un tipo di ordine giuridico e
di governo politico il più vicino possibile all’idea di una nave in
movimento, piuttosto che di una casa fissa al suolo: un ordine
giuridico, come suggerisce Hurst, perennemente in bilico tra “di-
( ) Si veda J. G. A. P , Il momento machiavelliano. Il pensiero politico
50 OCOCK
fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, Il Mulino, Bologna 1980, vol. II, La
Repubblica nel pensiero politico anglosassone, p. 556. Pocock peraltro insiste sul carattere
non netto della contrapposizione e sulle molte ambivalenze che attraversavano entrambi
i gruppi.
) In verità il commercio rimase indenne da attacchi polemici, poiché entrambi
(
51
i gruppi condividevano l’idea che il valore della terra fosse dipendente anche dal
commercio. Gli attacchi riguardarono piuttosto “il credito, accompagnato dalla trinità
diabolica della speculazione sui titoli, della fazione e dell’esercito permanente” (ivi,
p. 757). ) Questa prospettiva è stata esaltata specie dalla prospettiva del repubblicane-
( 52
simo, filone teorico a cui aderisce il volume di Pocock sopra citato.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
26 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
rection” e “drift” ed in cui è piuttosto il drift, la corrente spontanea,
).
a prevalere rispetto ai tentativi di direzione (
53
5. Ordini giuridici tra tradizione e rivoluzione.
Al fine di chiarire meglio l’immagine di un ordine giuridico e
politico di tipo “marittimo”, quale ha caratterizzato la civiltà anglo-
americana e soprattutto quella statunitense, si procederà per diffe-
renze rispetto all’ordine giuridico “terrestre”. Le differenze ver-
ranno rilevate facendo riferimento ad un diverso processo genetico,
da individuare nella natura più o meno rivoluzionaria dell’ordine
giuridico che fu instaurato in Europa continentale e negli Stati Uniti.
Si tratta di temi che meriterebbero una ben più approfondita analisi
e competenza storica. Qui si proverà solo ad avanzare schematica-
mente l’idea che l’ordine giuridico instaurato in Europa continen-
tale, rispondendo ad una esigenza di netta cesura storica rispetto al
vecchio ordine medievale, abbia avuto una natura autenticamente
“rivoluzionaria”. Al contrario, negli Stati Uniti, a dispetto della
cosiddetta “rivoluzione americana”, fu instaurato sı̀ un nuovo or-
dine, ma che, nella sua novità, conservò più numerosi elementi e
).
dinamiche tipici del passato medievale (
54
La natura rivoluzionaria dell’ordine giuridico europeo-conti-
nentale può dirsi segnata dalla vittoria di un soggetto sociale ben
riconoscibile: quella borghesia calvinista e accumulatrice che Weber
) e che Schmitt cosı̀
pone all’origine del processo capitalistico ( 55
caratterizza: “la fede nella predestinazione… è il massimo grado di
autocoscienza di un’élite sicura del suo rango e del suo momento
storico… è la certezza di essere salvati, e la salvezza è alla fin fine, a
( ) “Ciò che è accaduto nel processo di crescita di questa nazione — come
53
probabilmente in tutta la storia degli uomini — è accaduto senza piano o intento o scopo
, Law and Social Process in United
o desiderio di ciò che era in corso”. Cosı̀ J. W. H
URST
States History, Da Capo Press, New York 1972, p. 63.
) Del resto, questa era l’ipotesi originaria di diritto “europeo”, secondo la
( 54 , Alle radici del mondo giuridico europeo, Istituto
ricostruzione storica di M. L
UPOI
Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1994.
) Il riferimento è a M. W , L’etica protestante e lo spirito del capitalismo,
(
55 EBER
Rizzoli, Milano 1991.
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dispetto di qualsiasi idea razionale, il senso decisivo di ogni storia del
).
mondo” (
56
L’universo giuridico dell’Europa continentale fu segnato non
solo dalla forza ma anche dall’esclusività del modello borghese, che
a sua volta trovò riflesso nell’esclusività della fondazione legislativa
del diritto: si realizzò cosı̀ una concezione monolitica e “terrestre”
del potere, che trovava nell’idea di sovranità statale il proprio
monumento più significativo. Agli americani mancò “il legislatore, il
classico gigante che quasi invariabilmente nasce con la rivoluzione e
). I “rivo-
viene investito dell’autorità di gettare le fondamenta” (
57
luzionari” del 1776 infatti guardarono con riluttanza all’idea dell’ac-
) e
centramento di potere implicita nel concetto di sovranità (
58
preferirono affidarsi ad una dinamica di decentramento e di plura-
lismo istituzionale, ispirati da un profondo “conservatorismo”. Lad-
dove il diritto europeo restava inchiodato ad un’unica prospettiva
legislativa, protesa verso il futuro, il diritto americano sceglieva un
più complesso spettro istituzionale, ponendosi in grado di collo-
quiare con il presente, pur senza rinunciare sia ad elementi tradi-
). Alla mescolanza di elementi
zionalistici, sia alla ratio legislativa (
59
diversi si deve dunque anche una maggiore capacità del diritto
americano di giocare con il passato, il presente e il futuro, dando
luogo ad “una dialettica nuova”, capace di conciliare “le componenti
antagonistiche dello spirito europeo: il passato diventava un futuro
continuo, ed il Dio dei tradizionalisti sanzionava l’arroganza degli
).
uomini che lo sfidavano” (
60
Il predominio della legislazione apparve invece assoluto nell’Eu-
ropa continentale, cosicché la ratio legislativa rimase priva di con-
trappesi, creando una civiltà “unidimensionale, anchilosata nella sua
perenne terrestrità, apparentemente stabile su una sola base portan-
( ) Cfr. C. S , Terra e mare, cit., p. 85.
56 CHMITT
) Cfr. L. H , La tradizione liberale in America, cit., p. 53.
( 57 ARTZ
) Come osservò Sir W. Asheley, “non essendosi il feudalesimo trapiantato nel
(
58
Nuovo Mondo, non occorreva, per stroncarlo, il polso di ferro di un potere centrale”.
, La tradizione liberale in America, cit., p. 50.
Cit. in L. H
ARTZ
) Ancor più, attraverso gli influssi del pragmatismo, il diritto americano si
( 59
sarebbe messo in grado di colloquiare con il presente. Rimando in proposito al mio
Diritto al presente, cit.
) Cfr. H , La tradizione liberale in America, cit., p. 56.
( 60 ARTZ © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
28 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
te” ( ). Lo stile eminentemente legislativo del potere, d’altra parte,
61
annullò altri contrappesi, come quelli di carattere giudiziario e
“aristocratico”, che invece sia in Inghilterra, sia negli Stati Uniti,
continuarono a permanere, dando luogo ad una prospettiva giuri-
dica improntata al movimento, al riequilibrio ed alla diversificazione:
una prospettiva di tipo marittimo, anziché terrestre, che non per-
mette più definitivi radicamenti e fondazioni sicure, e che, come una
barca, è destinata al movimento, tanto che l’immobilità a cui co-
stringe la bonaccia viene percepita come innaturale e minaccio-
). La stessa istituzione legislativa negli Stati Uniti assunse presto
sa (
62
tratti di irrequietezza e di instabilità che non mancarono di impres-
sionare Tocqueville, il quale notò come “in America l’azione del
). Del resto, questa irrequietezza
legislatore non entri mai in stasi” (
63
legislativa può essere legata, in America, ad almeno due fattori che
si pongono oltre la naturale instabilità del governo democratico. In
), che
primo luogo, una concezione “open door” della legislazione (
64
pose subito lo strumento legislativo, piuttosto che come veicolo della
volontà del sovrano, come un canale di espressione di interessi,
anche di natura particolaristica, presenti nella società. In secondo
luogo, una qualche prossimità con il mandato imperativo, che la
nazione americana ha sempre mantenuto, a dispetto del formale
). Il mandato “imperativo” sup-
diniego che di esso viene fatto (
65
( ) Cosı̀ P. G , Un altro modo di possedere, cit., p. 8.
61 ROSSI
) È ancora J. C , specie in La linea d’ombra, a suggerire questa lettura
(
62 ONRAD
della bonaccia come infida e subdola: dalla prospettiva del mare, la bonaccia appare “un
malefico incanto”, una “muta calma” che consegna la nave al capriccio delle correnti,
privandola della sua capacità di movimento e della sua autonomia.
) A. T , La democrazia in America, Utet, Torino 1981, p. 295.
( 63 OCQUEVILLE
) Sulla concezione “open door” della legislazione in America, ossia esposta alle
(
64 , Dealing
pressioni dal basso, all’influenza ed al gioco degli interessi, si veda J. W. H
URST
with Statutes, Columbia University Press, New York 1982. In proposito mi permetto di
rimandare altresı̀ al mio Diritto e mercato, cit., p. 155 e ss.
) Ancora una volta è Tocqueville a cogliere tempestivamente questa sfumatura
(
65
istituzionale: “Si diffonde sempre più, negli Stati Uniti, un costume che finirà per
rendere vane le garanzie del governo rappresentativo: capita molto frequentemente che
gli elettori, nominando un deputato, gli traccino una linea di condotta e gli impongano
un certo numero di obblighi positivi da cui egli non può in nessun modo allontanarsi.
Tolti i tumulti, è come se la maggioranza stessa deliberasse sulla pubblica piazza”. Cfr.
ivi, p. 293. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 29
MARIA ROSARIA FERRARESE
pone una comunicazione istituzionale biunivoca che, a dispetto di
molte differenze, che discendono dalla pressione degli interessi e
dalla dinamica democratica, può ricordare quella propria degli
).
“specchi dei principi” di medievale memoria (
66
La “bonaccia istituzionale” è invece alla base del progetto
dell’Europa continentale, dove la preminenza del soggetto borghese
portò ad una completa espulsione di elementi di pluralismo istitu-
zionale che potessero dar luogo ad una dinamica di potere basata su
meccanismi di checks and balances: qui si assiste alla rimozione tanto
di elementi di natura tradizionalistica, che di quegli elementi di
natura aristocratica che erano stati presenti nell’ordine precedente:
una sorta di uccisione freudiana del padre, di cui l’America non
).
ebbe bisogno (
67
Proprio l’assenza di “oppressione arrogante del feudalesimo
aristocratico” determinò in America una conseguente assenza “di
quell’appassionata coscienza borghese di cui era permeato il pen-
siero liberale europeo” e la presenza, invece che di una borghesia
).
“sicura di sé”, di un “ceto medio trionfante” e pieno di fiducia ( 68
Dunque, quella che era stata in Europa la monolitica certezza di una
borghesia “trionfante”, in America si sfrangia sia verso il basso che
verso l’alto: in basso, nella sicurezza di un ceto medio privo di
frustrazioni, che “non fu mai costretto ad assumere una coscienza di
classe” ( ); in alto, in un ceto “aristocratico”, che rinacque, specie
69
nell’America del 700, se pur privo di privilegi di nascita e capace di
mescolarsi ai riti del capitalismo in ascesa.
Del resto, la capacità dei ceti aristocratici americani di affidarsi
alle dinamiche del capitalismo, trova un’ascendenza diretta nella
madrepatria inglese, dove tale capacità, oltre ad essere un luogo
consolidato della storiografia ( ), trova una celebrazione sintoma-
70
tica nella figura di J. Conrad, scrittore-marinaio per eccellenza, in cui
( ) L’idea di limitatezza del potere pubblico propria dell’età medievale va
66 , Una teoria
piuttosto connessa con una fondazione morale del giuridico, su cui P. P RODI
della giustizia, Il Mulino, Bologna 2000.
) Si veda L. H , La tradizione liberale in America, cit., p. 70.
(
67 ARTZ
) Cfr. ivi, pp. 57 e 58.
( 68 ) Cfr. ivi, p. 61.
( 69 ) Si veda L. S -J. C. F S , Un’élite aperta? L’Inghilterra tra 1540
( 70 TONE AWTIER TONE
e 1880, Il Mulino, Bologna 1989.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
30 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
questa mescolanza di somma ad un’altra significativa simbiosi: quella
tra l’elemento aristocratico e l’elemento borghese. Com’è stato
notato, la sua figura assurge a simbolo di una crisi che vede
congiungersi “i resti del mondo aristocratico, sopravvissuto oltre le
rivoluzioni ottocentesche, col furore dell’energia borghese coinvolta
a fondo nel demoniaco (non sempre di segno negativo) degli auto-
matismi capitalistici, ma parzialmente illusa di poter salvare l’ele-
). Per Conrad,
mento ‘liberale’ che aveva consentito la sua ascesa” ( 71
aristocratico polacco in fuga dal “raggelato oceano terrestre dell’im-
pero zarista, in cui tutti, polacchi compresi, sono ibernati”, l’impero
britannico, proteso sull’”aperto mondo dei mari” rappresenta la
prospettiva del liberalismo, di “uno spazio che estasia con le sue
possibilità”, di possibili conversioni e metamorfosi, sia pure al
prezzo “di norme minacciate, stravolte, contestate, anzi di micro-
norme conviventi nello spazio in cui sta scomparendo la Nor-
).
ma” (
72
E se in Inghilterra il passato aristocratico rivive soprattutto nella
Camera dei Lords, la presenza in America di elementi di natura
aristocratica rinuncia alle ragioni di nascita, per rispecchiare parti-
colari qualità delle persone: una presenza che non sfugge a Tocque-
), che in essa ravvisa un formidabile contrappeso al rischio di
ville (
73
“tirannia della maggioranza”: sono “i legisti”, secondo Tocqueville,
“padroni di una scienza indispensabile, la cui conoscenza non è
), che, con la loro naturale inclinazione per l’ordine e per
diffusa” (
74
le forme, formano “il solo elemento aristocratico che possa mesco-
larsi senza sforzo agli elementi naturali della democrazia e combi-
). La natura aristocra-
narsi in maniera felice e durevole con essi” ( 75
tica è ravvisabile soprattutto nel potere giudiziario, che serve “a
) e specialmente in quella
correggere gli errori della democrazia” (
76
Corte Suprema, che “è posta più in alto di ogni altro tribunale
( ) Cosı̀ A. G , in una bella introduzione a J. Conrad, Il compagno
71 RANZOTTO
segreto, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1975, p. 16.
) Le citazioni sono tratte ancora da G , cit., risp. p. 18 e p. 17.
(
72 RANZOTTO
) A. T , La democrazia in America, cit., p. 309 e ss.
(
73 OCQUEVILLE
) Cfr. ivi, p. 311.
(
74 ) Cfr. ivi, p. 314.
( 75 ) Cfr. ivi, p. 339.
( 76 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 31
MARIA ROSARIA FERRARESE
conosciuto, sia per la natura dei suoi diritti, che per la qualità dei
).
soggetti alla sua giurisdizione” ( 77
Insomma, il diritto negli Stati Uniti, invece di assumere una
prospettiva di terrestre stabilità, si costituisce ad un mosso crocevia
dove gli elementi di natura democratica (presenti nella legislazione,
ma anche nelle giurie delle corti) sono istituzionalmente sfidati sia da
elementi di tradizionalismo (presenti nella Costituzione, oltre che
nel common law), sia da sponde di carattere aristocratico (presenti in
un certo carattere sapienziale dell’attività dei giudici, nonché nella
Corte Suprema, specie attraverso la nomina a vita dei suoi compo-
nenti).
Se la proprietà troneggia come metafora giuridica della sovra-
nità politica europea, il contratto appare l’istituto giuridico più
adatto a interpretare le ragioni di un ordine giuridico “marittimo”.
A prima vista potrebbe apparire sorprendente l’apparentamento
della civiltà giuridica americana con il contratto piuttosto che con la
proprietà: infatti, la proprietà ha goduto di protezioni costituzionali
molto estese, sı̀ da ingenerare talora l’idea che la costruzione giuri-
dica americana sia stata incentrata soprattutto intorno a questo
). Come si è già detto, se la proprietà, intesa
diritto economico (
78
quale “valore d’uso” ha avuto, in America, una significativa ed
estremistica epopea, nella lunga stagione dell’economic due pro-
), essa si è poi indirizzata sempre più verso il “valore di
cess ( 79
scambio”, per reggere alle sfide del mercato e dell’economia finan-
ziaria, nonché a quelle dell’”era dell’accesso”. Come nota Hurst,
“noi abbiamo rispettato i diritti di proprietà e di contratto, ma
innanzitutto per la loro utilità nel tenere gli affari in un atteggia-
mento produttivo; laddove gli uomini cercavano semplicemente di
restare aggrappati ad una posizione raggiunta, senza promettere un
( ) Cfr. ivi, p. 179. Tocqueville aggiunge: “il potere dei giudici federali è
77
immenso ma si tratta di un potere essenzialmente morale. Essi sono onnipotenti fino a
che il popolo acconsente a obbedire alla legge; non possono nulla quando la disprezza”
(p. 180).
) Questa prospettiva ha trovato una significativa celebrazione in C. A. B ,
( 78 EARD
Interpretazione economica della Costituzione degli Stati Uniti d’America, Feltrinelli,
Milano 1959.
) Rinvio ancora al mio Diritto e mercato, cit., p. 176 e ss.
( 79 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
32 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
nuovo avanzamento, noi eravamo inclini a trovare strumenti dottri-
).
nali per lasciarli indietro (
80
L’importanza del contratto, che negli Stati Uniti segna anche la
storia del diritto pubblico, realizzando un ordine politico di carat-
tere contrattuale, secondo gli auspici di Locke, completa l’immagine
di una civiltà giuridica di tipo “marittimo”, segnato dalla pluralità
delle fonti e dei soggetti e dalla ininterrotta dinamica equilibratrice
che tra essi si verifica. Peraltro il contratto oggi si pone, attraverso
una continua ricerca di nuove forme e di nuovi beni, come compo-
nente principale di quella lex mercatoria che celebra fasti rinnovati
nel mondo senza confini delle grandi corporation transnazionali,
rinviando all’idea di nuovi “legisti”, che svolgono la funzione di
legislatori privati ed invisibili.
Questo pluralismo giuridico di fonti e di prospettive, rispec-
chiata altresı̀ dalla scelta federalista, che moltiplica i legislatori, ha
impedito negli Stati Uniti quella “teologia politica” che Schmitt vide
). All’America, priva del
incarnata nel mito europeo del legislatore ( 81
dio-legislatore, il diritto appare un universo in ricomposizione con-
tinua, che modifica ininterrottamente la sua immagine con sempre
nuovi movimenti ed increspature, come una superficie marittima.
6. Il nuovo pluralismo dell’ordine giuridico europeo: tra democrazia,
tradizione e aristocrazie.
Finora si è insistito, forse anche a costo di qualche forzatura,
sulla differenza tra l’ordine giuridico dell’Europa continentale, che
appare segnato da una fondazione “terrestre”, e l’ordine giuridico
che è proprio della civiltà anglo-americana, che appare segnato
piuttosto da una immagine “marittima”. Ma oggi, quale ordine
giuridico caratterizza l’Europa? Regge ancora il suo carattere “ter-
restre”? E come lo si deve guardare? Dal basso delle varietà nazio-
( ) Cfr. J. W. H , Law and Social Process in United States History, cit., p. 116.
80 URST
) C. S , Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna 1972, dove si vede
(
81 CHMITT
incarnato lo spirito razionalistico nell’idea che “le opere costruite da più uomini non
sono cosı̀ perfette come quelle a cui ha lavorato uno solo. ‘Un solo architetto’ deve
costruire una casa o una città; le migliori costituzioni sono opera di un solo ‘legislatore’
intelligente” (p. 70).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 33
MARIA ROSARIA FERRARESE
nali, ancora largamente sussistenti, o dall’alto del “patrimonio co-
) già esistente, e dei tentativi di rifondazione
stituzionale europeo” ( 82
costituzionale, che oggi puntano al varo di una Convenzione?
Nel considerare quanto sta avvenendo in Europa, che oggi
costituisce certamente il più interessante laboratorio istituzionale del
mondo, non si può non considerare le sue dinamiche istituzionali
alla luce del processo di globalizzazione. Questo ci pone di fronte ad
un paradosso: mentre avvicina le varie parti del mondo e mette in
moto spinte alla loro sincronizzazione, all’incontro ed all’armoniz-
zazione tra tradizioni diverse, fa apparire con maggiore evidenza
proprio quelle diversità di tradizioni e angolazioni culturali, che nel
passato restavano sotto traccia. Alla luce di questo paradosso, il
diritto europeo va innanzitutto considerato come frutto di una
continua e contraddittoria dinamica che è insieme tendente alla
unificazione ed armonizzazione, tanto quanto a tentativi di distin-
). Una dinamica ancor più interessante se
zione e diversificazione (
83
si considera che oggi, più che mai, l’Europa non ha confini certi e
definitivi ( ): “è uno spazio aperto. Il luogo Europa è anche un’area
84
— un insieme di luoghi — dai limiti sfuggenti” ( ). Questa irreso-
85
lutezza spaziale dell’Europa, che oggi non è più soltanto culturale,
ma anche politica, significa una ancor più accentuata dinamica del
gioco diversificazione-unificazione.
Ma la irresolutezza spaziale dell’Europa viene accentuata altresı̀
dall’impatto che sul suo continente hanno altre culture giuridiche, e
specialmente quella anglo-americana che domina nel mondo degli
affari. Sarebbe tuttavia una frettolosa approssimazione quella di
vedere le attuali istituzioni europee come un mero riflesso di ten-
denze americane: l’Europa sta compiendo un suo cammino giuridico
peculiare che si potrebbe collocare tra terra e mare, e forse oltre
terra e mare, per riprendere le metafore schmittiane usate in questo
scritto. L’“influenza” della cultura giuridica anglo-americana, che
( ) A. P , Il patrimonio costituzionale europeo, Il Mulino, Bologna 2002.
82 IZZORUSSO
) L’argomento è sviluppato da M. T , Sui confini. Scritti sulla giustizia
(
83 ARUFFO
civile, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 99 e ss.
) Sull’idea insiste B. G , L’ambigua potenza dell’Europa, Guida,
( 84 DE IOVANNI
Napoli 2002, p. 19 e ss.
) Cfr. L’Europa. Una geografia, Comunità, Milano 1999, p. 59. Traggo la
( 85 G , L’ambigua potenza dell’Europa, cit.
citazione da B. DE IOVANNI
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
34 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
indubbiamente si fa sentire, rispecchia tuttavia non solo e non tanto
la potenza economica americana, ma anche e soprattutto una atti-
tudine, che è diventata globale, a pensare le istituzioni in maniera
economica, ossia alla luce dei costi e dei vantaggi che esse procu-
rano, oltre che in maniera funzionale alle nuove forme di individua-
): due ottiche che si
lismo, che percorrono le nostre società ( 86
scontrano immediatamente con la grammatica normativa del nostro
tradizionale diritto.
Oggi l’Europa conosce un pluralismo di fonti giuridiche, che
sotto più profili ci richiama il passato medievale. Mentre la legisla-
zione perde posizioni, ma soprattutto perde il ruolo di indiscussa
regina dello scenario giuridico e si stinge nelle forme attenuate del
“soft law”, nuove fonti, che erano state bandite dalla cultura giu-
spositivista e dalla sua “teologia politica”, riacquistano nuovo vigore
e protagonismo. Il contratto, ergendosi a modulo giuridico a misura
delle esigenze di sempre nuovi incontri del mondo globale, supera i
confini delle relazioni private, dove svolge un ruolo di grande rilievo,
e suggerisce un nuovo stile di formazione e formulazione del diritto
pubblico, anche in settori di particolare solennità, come il diritto
). Persino usi e costumi ritrovano
costituzionale ed amministrativo (
87
un proprio ruolo nel mondo giuridico, diventando non solo adatta-
tori di moduli giuridici troppo astratti e generali a contesti partico-
), ma anche strumenti di efficienza economica,
lari e specifici (
88
perché fanno risparmiare i costi di nuove artificiali attrezzature
istituzionali. Infine, le istituzioni giudiziarie, o a postura giuri-
sdizionale (come le Autorità indipendenti o i grandi arbitri privati
delle controversie transnazionali), riacquistano ruolo di primo piano
come fonte, dando luogo ad un diritto pretorio capace di incarnare
nuovi ideali di giustizia a misura sovranazionale e transnazionale.
Ora, non è difficile vedere dietro queste nuove fonti, un mondo
giuridico che si ricompone secondo linee che non rispecchiano più
criteri solo democratici, rispondenti alla volontà legislativa legitti-
( ) Ho ricostruito queste due nuove maniere di pensare le istituzioni in Diritto al
86
presente, cit., pp. 53 e ss.
) Si veda S. C , La crisi dello stato, Laterza, Roma-Bari 2002.
( 87 ASSESE
) Sul ritorno di usi e costumi in ambito commerciale, si veda F. G , Lex
(
88 ALGANO
mercatoria, Il Mulino, Bologna 2001.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 35
MARIA ROSARIA FERRARESE
mata elettoralmente. Accanto a fonti di natura rappresentativa, sono
riconoscibili fonti di natura privata, tradizionalistica, e persino
“aristocratica”. Il nuovo omaggio tributato a costumi, usi e tradi-
zioni, che, in modo diverso e per diverse ragioni, riacquistano
protagonismo, nel rispecchiare criteri di natura tradizionalistica,
permette anche di compensare il senso di estraniazione che deriva da
un mondo che va perdendo la cultura dei confini. Ma specialmente
visibili sono i tratti di natura “aristocratica” di alcuni soggetti
istituzionali che oggi movimentano il quadro giuridico europeo,
come alcune corti o figure di giudici, e che non rispondono più a
criteri di schietta natura democratica ( ). Si pensi alle Autorità
89
indipendenti, affidate a personalità di alto profilo, che svolgono
funzioni “di garanzia”, e dunque di controbilanciamento dei poteri
democratici, in virtù di un carattere aristocratico loro riconosciuto.
Altrettanto si avverte un certo carattere aristocratico in alcune
istituzioni giudiziarie internazionali e sovranazionali: specie la Corte
europea di giustizia, che ha svolto un ruolo decisivo per la costitu-
zionalizzazione dell’ordine giuridico europeo ( ), sembra aver rico-
90
perto un ruolo del genere: ponendosi alla guida di un processo di
costruzione di un nuovo catalogo di diritti, non necessariamente
coperti dalla protezione legislativa degli stati, essa ha corrisposto a
fini di giustizia, più che a fini di legalità, ponendosi come nuova
fonte di diritto processuale e sostanziale.
La Corte europea ha reso particolarmente visibile in Europa la
tendenza alla giurisdizionalizzazione del diritto, che rappresenta un
rovesciamento dell’ottica tradizionale europea, che si può cosı̀ rias-
sumere: non il diritto come fonte della giustizia, ma piuttosto la
giustizia come fonte di un diritto che, pertanto, non è più necessa-
riamente rigido e definito, ma che si presta a continue revisioni e
correzioni, attraverso dinamiche di tipo giudiziale.
Quanto è avvenuto e sta avvenendo in Europa si può vedere
tuttavia non solo come una conferma di quel processo di giuri-
( ) Del resto, la stessa avventura unitaria dell’Europa, come ha osservato Padoa
89
Schioppa, fu inaugurata dal “dispotismo illuminato” di alcuni statisti europei, senza il
S , Europa, forza gentile, Il
quale non avrebbe mai avuto avvio. Si veda T. P
ADOA CHIOPPA
Mulino, Bologna 2001, p. 21.
) A. S S , Governing with Judges. Constitutional Politics in Europe,
( 90 WEET TONE
Oxford University Press, Oxford 2000.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
36 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
sdizionalizzazione del diritto, che sta avvenendo nell’intero mondo,
ma anche come parziale eccezione. Mentre l’Europa partecipa a
quella una nuova cordata transnazionale di giudici, corti e sentenze,
che sviluppa un “dialogo di costituzionalismo” sempre più esteso ed
), sganciato da logiche e
aperto alle corti di tutto il mondo” (
91
procedure democratiche, essa tende anche a costituire una ecce-
zione, tornando a proporre “il momento della scrittura” costituzio-
) Proprio quando le tradizionali costituzioni scritte, pur
nale (
92
continuando ad esistere, sono sempre più sfidate da una realtà
costituzionale complessa, in cui si sommano e si integrano, ma anche
si scontrano e si elidono, spinte diverse, dovute non necessariamente
a testi costituzionali, di natura sovranazionale o internazionale, ma
anche a “fatti costituzionali” sempre più produttivi di effetti, l’im-
). È come se, con
presa di una costituzione scritta appare ardita (
93
una Costituzione scritta, l’Europa, oltre a voler dare un testo
unificato al proprio territorio, volesse proporre il proprio progetto
costituzionale al mondo intero, ponendosi come un faro giuridico,
), al
con le proprie specificità ed i propri punti irrinunciabili (
94
crocevia della comunicazione costituzionale, che percorre il mondo
intero. E tuttavia, nonostante la scrittura, neanche il diritto costitu-
zionale europeo può sottrarsi alla curvatura sempre più giuri-
sdizionale, resa necessaria da un mondo di relazioni globali che
sembrano riproporre la foggia antica di “una cultura dominata dalla
questione della giustizia e quindi dalle discipline che della giustizia
si occupavano, cioè, insieme al diritto, la teologia, e in generale delle
discipline della filosofia pratica aristotelica: l’etica, l’economia e la
).
politica” (
95
( ) M. S , Judicial Globalization, in “Virginia Journal of International
91 LAUGHTER
Law”, vol. 40 (2000).
) C. P , Il momento della scrittura. Contributo al dibattito sulla Costitu-
(
92 INELLI
zione europea, Il Mulino, Bologna 2002.
) Ho fatto ripetutamente riferimento a questo cambiamento in Il diritto al
( 93
presente, cit., specie p. 110 e ss.
) Si pensi ad esempio al divieto della pena di morte, che in Europa appare
( 94
quasi superfluo, ma che vuole segnalare quasi una contrapposizione costituzionale
rispetto alla cultura giuridica americana.
) A. D B , Politica, governo e istituzioni nell’Europa moderna, cit.,
( 95 E ENEDICTIS
p. 244. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 37
MARIA ROSARIA FERRARESE
Il diritto, anche in Europa, si avvia ad essere meno solitario ed
autosussistente di quanto non sia stato nel sogno del progetto
illuminista e nella sua realizzazione giuspositivista: rinuncia in buona
parte alle vesti di una “scienza” autoreferenziale, e, mescolandosi ad
altre scienze e ad altri linguaggi, si presta di più a rispecchiare
specifici tessuti sociali e peculiari esigenze spaziali e temporali. Esso
rinuncia altresı̀ alla fissità della misura statale, assumendo riferimenti
e misure più ampi: se la legge continua a sussistere e ad amplificarsi
negli stati, nell’Unione proliferano non solo varie espressioni di soft
law, ma anche contratti, usi e costumi giuridici, nonché risoluzioni
giudiziarie o para-giudiziarie, per dare risposta a bisogni giuridici
sempre più differenziati e mutevoli. Lo scenario giuridico europeo
mescola in forme nuove, ed in un equilibrio ancora incompiuto, la
dimensione terrestre della stabilità e quella marittima del movi-
mento.
Ma sarebbe erroneo vedere nel protagonismo del diritto giudi-
ziario, che oggi campeggia anche in Europa, sia una mera ripropo-
sizione della cultura giuridica medievale, sia un puro effetto della
cultura americana del judge-made law. Non ci ritroviamo di fronte
ad un nuovo medioevo, perché la ratio temporale dell’attuale diritto
europeo è rivolta soprattutto verso il presente e le sue mutevoli
esigenze e non più soprattutto verso il passato coagulato in una
). Non ci troviamo di fronte ad una mera “americanizza-
storia (
96
zione” del diritto europeo, perché il giudiziario, in Europa, non
assume un ruolo “erculeo”, non ha il compito di sorreggere tutte le
altre istituzioni giuridiche, come tende a fare nella realtà nord-
americana: pur diventando una istituzione sempre più paradigma-
tica, essa risponde piuttosto al “modello Mercurio”, un modello che
rispecchia esigenze di movimento e comunicazione tra le varie
).
istanze giuridiche (
97
Il nuovo diritto europeo si pone, per cosı̀ dire, tra terra e mare,
ed integra in forme nuove la dimensione spaziale fissa della terra ed
il movimento continuo della nave. Come Schmitt aveva lucidamente
( ) Per maggiori riferimenti su questa differenza di ratio temporale, rimando a Il
96
diritto al presente, cit.
) Rimando ancora a Il diritto al presente, cit., specie p. 197 e ss.
( 97 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
38 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
intravisto, assistiamo “alla fine del rapporto tra terra e mare invalso
finora”: “un nuovo senso sta lottando per il suo ordinamento. Non
vi è dubbio che il vecchio nomos stia venendo meno, e con esso un
intero sistema di misure, di norme e di rapporti tramandati” ( ).
98
( ) C. S , Terra e mare, cit., p. 110.
98 CHMITT
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
PAOLO GROSSI
v
UNITA GIURIDICA EUROPEA:
UN MEDIOEVO PROSSIMO FUTURO?
1. Maturità di tempi e illusioni continuistiche. — 2. L’esilio del medioevo giuridico
durante il ‘moderno’. Riscoperte novecentesche. — 3. La maturità di tempi medievale.
— 4. Messaggi fruttuosi.
1. Maturità di tempi e illusioni continuistiche.
Quando l’amico Pietro Costa mi ha invitato a collaborare a
questo ‘Quaderno’ monografico assegnandomi il tema indicato nella
intitolazione di queste mie pagine, sono stato lusingato e imbaraz-
zato. Lusingato, perché mi premeva (come mi preme) di essere
presente — solidale ed entusiasta — in questo primo ‘Quaderno’
diretto e organizzato da Costa; imbarazzato, però, per via del tema
proposto alle mie riflessioni, tema di cui avvertivo (come avverto)
l’ambiguità, in cui vero e falso, realtà e parvenza, venivano a
mescolarsi rischiosamente.
È che io sono sempre stato (come sono) un inguaribile insoffe-
rente a soluzioni continuistiche nella analisi storiografica, sia che
percepiscano il divenire come un progresso incessante, sia che
concepiscano la linea storica dominata da alcuni modelli insuperabili
e pertanto trapiantabili tranquillamente nell’oggi, come se il tempo
non fosse trascorso ad accumulare le sue inevitabili sedimentazioni,
modificazioni, trasformazioni.
La prima soluzione non ci interessa in questa sede, né sembra
comunque offrire troppi rischi culturali, per la più che semplice
ragione che nessuno — metodologicamente appena un po’ provve-
duto — si sentirebbe di tornare a danzare oggi il ballo Excelsior
come i nostri candidi antenati di cento anni addietro.
La seconda soluzione, invece, è rischiosissima, perché la ve-
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
40 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
diamo concretamente affacciarsi proprio nell’attuale dibattito euro-
peo, con un rigurgito che le iniezioni storicistiche del passato
potevano farci falsamente ritenere esorcizzate per sempre. È perciò
opportuno che si svolga qualche considerazione generale prima di
calare al nostro specifico oggetto, per liberare il passo da pesanti
ingombri capaci di viziare imperdonabilmente l’approccio metodo-
logico.
Il ‘modello’, come strumento comparativo caricato di intrinseca
assolutezza e tale da annullare o almeno attenuare la effettività della
comparazione instaurata, è un arnese inadatto sia per lo storico che
per il comparatista, perché implica sempre uno scarso rispetto sia
per il passato, sia per il presente, sia per il futuro.
La pretesa di proiettare sull’oggi modelli passati è un gesto di
suprema presunzione da parte di chi dovrebbe, al contrario, eserci-
tare la virtù somma dell’umiltà. Umiltà di rispettare il distendersi
della storia nella sua misteriosa sequela di tante maturità di tempi,
umiltà di rinunciare a costruire immodesti ingabbiamenti che non
possono che sacrificare e immiserire il mistero ma anche la ricchezza
della storia; mistero insondabile — certo — ma che è anche ric-
chezza esuberante e incoercibile.
Si tratta pur sempre di ingabbiamenti quando si vuol fissare
modelli positivi in rapporto ai quali misurare la varietà espressiva
delle diverse epoche ed esperienze, e pertanto modelli immobiliz-
zanti. Perché non arrestarci alla elementare verità che il corpo
sociale è realtà in continuo divenire, in una crescita continua ma non
segnata da scansioni, sviluppi, itinerarii predeterminabili? Il modello
non può non porsi per quel corpo che come un vestito troppo stretto
o troppo ampio, comunque goffo e non conveniente a esprimerne
tutte le capacità e a soddisfarne tutte le esigenze, anzi probabilmente
coartante. Si pensi a come sia stato pesantemente condizionante
nella storia della cultura il riferimento ricorrente all’archetipo del
‘classico’, e nella storia del diritto al ‘romano’ grossolanamente
inteso come modello archetipico.
La linea storica — soprattutto quando si tratta di una lunga,
lunghissima linea — va interpretata non come un forziere di modelli
da trapiantare nell’oggi e a cui ispirare l’azione dell’oggi; una linea
che, in mano dello storico, non solo non diminuisce il suo rispetto e
la sua disponibilità piena verso il passato e il presente, ma che
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 41
PAOLO GROSSI
significa soltanto ricchezza e consapevolezza per i suoi occhi. Una
linea discontinua fatta di tante maturità di tempi, ciascuna delle
quali capace di offrire un messaggio meritevole di essere ascoltato.
Non modelli carichi necessariamente di assolutezza, ma qualcosa
di ben diverso: momenti dialettici da porre in contatto e collegamento
con il patrimonio di cui siamo portatori. Momenti dialettici che vo-
gliono semplicemente, nella relatività del loro messaggio, rendere più
complessa e pertanto più ricca la coscienza del giurista di oggi. Il
passato non serba archetipi trapiantabili, giacché nella storia dei corpi
sociali i rigetti sono assai più violenti che nei corpi fisici. Il passato
serba la testimonianza di una vita interamente vissuta, esprèssasi e
maturàtasi in tutta la sua compiutezza, e perciò meritevole di essere
raffrontata con quel moncone incompiuto di vita che noi stiamo vi-
vendo nel nostro presente. Per di più, diverse, tante maturità, ciascuna
con un volto tipico, ciascuna con soluzioni sue proprie e che nel loro
insieme non possono che affinare lo sguardo critico di chi le contempla
disponibilmente. Se lo sguardo è attento, si irrobustisce lo stesso pro-
getto per la costruzione del futuro.
In altre parole, il nostro presente noi non possiamo che edifi-
carlo in base alle nostre esigenze, grazie alle nostre forze, tenendo
dietro ai nostri valori, cioè rispettando la maturità del nostro tempo.
Solo che questa ha un difetto grave ai nostri occhi miopi; è la
maturità che stiamo vivendo e che ci è pertanto difficile oggettivare
criticamente anche per la sua incompiutezza. L’acqua in cui siamo
immersi — se ci è permessa una immagine — è ancora smossa dalla
nostra presenza viva e convulsa, e tarderà a chiarificarsi. Occorrono
dei puntelli, occorrono dei momenti da porre dialetticamente in
approccio, e momenti più riposati, che la storia si è dato cura di
decantare e consolidare. Però solo momenti comparativi, non da
imitare fedelmente o da tradurre passivamente, bensı̀ contributi alla
nostra riflessione critica e pertanto contributi alla nostra autonomia
di costruttori della nostra maturità.
Chiudevo un mio intervento di qualche anno fa in seno a un
provvido Incontro internazionale dedicato al tema scottante della
), sottolineando
virulentissima neo-pandettistica di fine Novecento (
1
( ) Mi riferisco all’Incontro internazionale organizzato in Ascona da Pio Caroni e
1
Gerhard Dilcher nell’aprile 1996. Il mio intervento: Modelli storici e progetti attuali nella
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
a chiare lettere il monito dell’antica sapienza: “omnia tempus ha-
). Quel monito vorrei oggi
bent”, ogni cosa ha il suo tempo ( 2
riprendere come precetto di elementare buonsenso, prima ancora
che come guida epistemologica.
Malgrado tutto quel che ora si è detto, il modello riaffiora
sempre, e sempre protagonisti sono la sprovvedutezza culturale,
l’ingenuità, la pigrizia del giurista. L’esempio più lampante è quella
— ohimè convinta! — riaffermazione di un usus hodiernus Pan-
dectarum quale fondamento sicuro dell’unità giuridica europea di
oggi e di domani, riaffermazione tanto virulenta quanto insensata.
Ma un altro esempio è certamente dato dall’affiorare sparso ma
preciso di un medioevo giuridico prossimo futuro, con un modello
medievale riesumato a bella posta e appiccicato forzosamente alla
realtà cosmopolitica che stiamo costruendo.
Discorso ambiguo — come dicevamo all’inizio —, perché por-
tatore congiuntamente di falso e di vero, e pertanto rischiosissimo.
Al solito, il rischio maggiore è dato dalla pigrizia dell’odierno
giurista, che può trovare comodo ripararsi all’ombra di un modello
prefabbricato. Qui giova sicuramente l’intervento dello storico del
diritto proprio nella veste che gli è più congeniale (anche se troppo
spesso abbandonata) di coscienza critica del cultore del diritto
positivo. Cosciente della complessità della linea lunga della storia,
cosciente quale nessun altro che questa linea è impastata di passato,
di presente e di futuro, egli è — per sua indole — un relativizzatore
e un demitizzatore. In questa veste è il miglior compagno di corsa
per il giurista, giacché, richiamandolo a visioni culturalmente più
appaganti, gli può impedire di operare scelte avventate e di costruire
un futuro senza reali fondamenti.
Per il nostro oggetto, l’ufficio dello storico non è facile, e nasce
da questo il dichiarato imbarazzo nell’accettare il cómpito genero-
samente offertomi da Costa. Non è facile. Non v’è dubbio che tra
soluzioni medievali e soluzioni dell’oggi e dell’immediato domani
assonanze ci siano. Io credo che non possiamo restarne appagati e
formazione di un futuro diritto europeo, può leggersi, oltre che negli ‘atti’ dell’Incontro,
anche in “Rivista di diritto civile”, XLII (1996), parte prima (la citazione fatta nel testo
è a p. 286).
) Qoèlet (Ecclesiastes), 3, 1.
( 2 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 43
PAOLO GROSSI
parlare — come si fa — di un medioevo prossimo futuro. Io credo
che si debba evitare il rischio di cadere in un suadente ricorso
modellistico. Ma credo anche che sia opportuno e fertile riflettere
sui messaggi che da quella esperienza interamente vissuta e com-
piuta possono provenirci.
Una maturità di tempi storici (il medioevo) — lo si diceva
all’inizio — quale momento dialettico per la nostra maturità tem-
porale. Se si riuscisse nell’intento, il profitto culturale non sarebbe
poco. Ma — ripeto — l’ufficio nostro non è facile.
2. L’esilio del medioevo giuridico durante il ‘moderno’. Riscoperte
novecentesche.
Non v’è dubbio che il ‘moderno’ si è costruito e strutturato
come rifiuto del ‘medievale’: un momento di regresso storico da
dispregiare in ogni aspetto e relegare tra le soffitte non edificanti
della storia. All’interno di quella civiltà, ovviamente, anche il diritto
che ne era espressione fedele. A differenza del diritto romano, che
l’individualismo umanistico riesuma; che riesuma sforzandosi di
restituirlo in tutta la sua purezza di messaggio per le sintonie
ideologiche riscontrate; che diventa pertanto nervatura portante del
‘moderno’, sia pure nelle variazioni dell’usus modernus Pandectarum
e della Pandettistica tedesca, il diritto medievale si vide condannato
senza appello.
Era un rifiuto basato su ‘buone’ ragioni. Il ‘moderno’ si affer-
mava come rifondazione della società su valori diversi, anzi opposti
a quelli convintamente vissuti dall’età precedente.
Là si era creduto intensamente in una società di società, valo-
rizzando ogni aggregazione comunitaria, tanto da impedire od osta-
colare per tutta la sua durata la realizzazione d’una conversione della
società in quella entità unitaria che sarà, poi, lo Stato. Il medioevo è,
pertanto, caratterialmente una società senza Stato, e il diritto — che
ha come referente la società — può ben dirsi un diritto senza
Stato ( ).
3
( ) È la tesi che fa da supporto alla nostra ricostruzione tentata nel volume:
3 9
. Osservazioni puntuali e altresı̀
L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari 2002
una puntuale fondazione teorica sono offerte nel nostro saggio specificamente dedicato
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
Là si era vissuto la assoluta fusione tra dimensione religiosa e
dimensione politico-economico-sociale, tra metafisica e storia, tanto
da farci apparire una terrestrità che ha per tetto il cielo.
Il ‘moderno’ puntava, al contrario su una pervicace opera di
individualizzazione: rifiuto e dispregio della nebulosa comunitaria,
ma realizzazione di una individualità politica compatta e valorizza-
zione del singolo individuo. Per di più, imboccata la strada di una
decisa secolarizzazione, si tese a liberarsi di tutti i condizionamenti
piovuti dall’alto; fra questi, primi, quei moralismi che avevano
sacrificato la vita economica medievale e che apparivano repellenti
all’embrionale ma progrediente capitalismo.
Il ‘moderno’ è, insomma, una sorta di zona vuota dove di
medioevo meno si parla meglio si fa. L’esempio più clamoroso nel
campo del diritto riguarda la persona giuridica. Perno della civiltà
giuridica medievale, perno della struttura della Chiesa Romana che
non l’ha solo applicata quotidianamente ma raffinatamente teoriz-
zata, perno — aggiungiamo — ineliminabile di ogni società com-
plessa, eppure per quel lezzo di medievale e di chiesastico che
evocava subı̀ il più letale esorcismo: quello del silenzio. Infatti, se il
legislatore rivoluzionario — sul piano politico — spazzava d’un
colpo le strade di Francia da ogni ingombro corporativo, il Codice
napoleonico — sul piano giuridico — si limitava a non farne parola
come se si trattasse di un istituto tibetano ignoto all’esperienza
francese.
Nell’Ottocento italiano parve sicuramente ben strano se non
ereticale la voce di un civilista culturalmente singolarissimo, Vin-
cenzo Simoncelli, il quale, non pago delle dommatiche del ‘diritto
romano attuale’, in un momento di persistente sordità verso i valori
sociali e soprattutto verso la perturbante dimensione sociale del
lavoro, si immerse con gusto nei cartarii altomedievali dissepolti e
appena pubblicati da una storiografia eruditissima, sottolineando
alla attenzione dei giuristi alcuni contratti agrarii consuetudinarii nel
tessuto dei quali il lavoro diventava — horribile dictu per la quieta
a: Un diritto senza Stato - La nozione di autonomia come fondamento della costituzione
giuridica medievale (1996), ora in Assolutismo giuridico e diritto privato, Giuffrè, Milano
1998, nonché, in lingua tedesca, in Staat, Politik, Verwaltung in Europa - Gedächtnis-
schrift für Roman Schnur, Duncker u. Humblot, Berlin 1997.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 45
PAOLO GROSSI
società borghese — addirittura un modo d’acquisto della proprie-
); Simoncelli vi aggiunse una attenzione tutta nuova per l’enfi-
tà (
4
teusi, altra creatura giuridica esorcizzata da un silenzio prevalente a
). Meno
causa dello sdoppiamento del dominio che provocava (
5
ereticale dovette invece sembrare lo zelo di Cesare Vivante per i
), giacché ai
primordii medievali del contratto di assicurazione (
6
commercialisti — personaggi coltivatori, agli occhi sdegnosi dei
civilisti, di una scienza empirica e tecnicamente grossolana — era
consentito di allontanarsi dalle purezze di Gaio e del Codice civile.
Dalle pagine civilistiche di Simoncelli scaturı̀ tuttavia, sia pure con
parecchie ingenuità, un elogio sincero del medioevo giuridico; ma si
trattò di voce abbastanza solitaria.
I riferimenti medievali si infittiscono durante il Novecento,
quando le ferme certezze dell’età borghese divengono instabili,
quando i due pilastri dell’ordine giuridico, lo Stato e l’individuo,
subiscono incrinature in una società sempre più di massa e sempre
più sollecitatrice di una ‘sgradevolissima’ dimensione colletti-
va,quando il rigido individualismo proprietario è costretto a conces-
sioni per il montare delle lotte sociali.
V’è chi, come il giovane Panunzio, non ha esitazione a richia-
mare il modello medievale per legittimare la presenza tutta nuova dei
), posizione macroscopicamente ingenua e antistorica che
sindacati (
7
viene severamente respinta innanzi tutto proprio da storici del
diritto. Ma vi sono giuristi che, deposte senza un rimpianto le
vecchie repulsioni, hanno un atteggiamento culturalmente provve-
duto e corretto che fa del medioevo né una bottega da rigattiere né
un paradiso di modelli, bensı̀ un forziere di messaggi storici.
Santi Romano vi sorprenderà tracce consistenti di pluralismo
( ) Il principio del lavoro come elemento di sviluppo di alcuni istituti giuridici
4 , Scritti giuridici, vol. I, Soc. Ed. del Foro Italiano, Roma
(1888), ora in V. S IMONCELLI
1938. ) Nei tardi anni Ottanta vi dedicò parecchie ricerche, oggi tutte ricomprese
( 5
sotto la dizione Studi sull’enfiteusi nei sopracitati Scritti giuridici, vol. I.
) Si vedano i tre volumi che il Vivante pubblica su Il contratto di assicurazione,
( 6
Hoepli, Milano 1885-1887-1890.
) S. P , Sindacalismo e medio evo (Politica contemporanea), Casa Ed.
( 7 ANUNZIO
Partenopea, Napoli s.d. (ma 1911).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
giuridico ( ) e il grande sistematore italiano della teoria della persona
8
giuridica, il civilista Francesco Ferrara, metterà a frutto la lezione
). Per le
medievale in una cospicua parte storica del suo volume ( 9
) e al suo
nuove teorie dell’apparenza e del possesso, a Venezian (
10
) sembreranno preziosi gli ammonimenti provenienti
allievo Finzi (
11
dallo schema — addirittura hochmittelalterlich — della Gewere, e lo
stesso Finzi, rifondatore negli anni Venti e Trenta di una teoria non
), attingerà alle spregiudi-
più solo soggettivistica della proprietà ( 12
cate intuizioni dei medievali che erano arrivati alla geminazione del
dominio. Non solo. Quando, negli anni Venti sempre del Nove-
cento, ritenute insoddisfacenti le architetture astratte del diritto
civile, si guarda più da vicino ai fatti economici e in nome di essi si
comincia a costruire un diritto della produzione agraria, un diritto
agrario, si ritiene necessario di allungare lo sguardo oltre i limiti
).
dell’età borghese ( 13
È questa soltanto una esemplificazione parzialissima, perché il
secolo XX è ricco di indicazioni in proposito.
Ma vi fu un contributo non secondario anche degli stessi storici
del diritto. Il medio evo era stato sempre studiato dai tempi di
Pertile in poi; anzi, non si era studiato che quello; anzi, si era
studiato specialmente il suo momento più remoto. È che, sul fon-
damento delle sue premesse positivistiche, quella storiografia giuri-
dica aveva ficcato ben a fondo il suo sguardo nei documenti della
prassi, e, invasata dal sacro fuoco di una concretezza ‘positiva’, si era
data a ricerche minuziose, eruditissime, il più delle volte localmente
2
( ) S. R , L’ordinamento giuridico, Sansoni, Firenze 1946 .
8 OMANO
) F. F , Teoria delle persone giuridiche, Marghieri-Ute, Napoli-Torino
( 9 ERRARA
1915. ) G. V , La tutela dell’aspettativa (1900), ora in Opere giuridiche, vol. II,
( 10 ENEZIAN
Athenaeum, Roma 1930.
) E. F , Il possesso dei diritti (1915), Giuffrè, Milano 1968.
( 11 INZI
) E. F , Le moderne trasformazioni del diritto di proprietà, in “Archivio
(
12 INZI
giuridico”, LXXXIX (1923); Diritto di proprietà e disciplina della produzione, in Atti del
Primo Congresso Nazionale di Diritto Agrario, Accademia dei Georgofili, Firenze 1936.
) Giangastone Bolla, il massimo sollecitatore in questa direzione, si dedica lui
( 13
stesso a ricerche medievistiche, colloquia con gli storici del diritto medievale, apre la sua
‘Rivista di diritto agrario’ a contributi medievistici e fonda negli anni Trenta lo ‘Archivio
Vittorio Scialoja per le consuetudini giuridiche agrarie e le tradizioni popolari italiane’,
dove si dà un ruolo giustamente protagonistico a fonti medievali e a scrittori medievalisti.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 47
PAOLO GROSSI
determinate. Il colloquio con i giuristi di diritto positivo era sostan-
zialmente mancato, fatta salva qualche rara eccezione. Fu un grande
merito di Francesco Calasso, uno storico che aveva profondamente
avvertito la lezione dell’idealismo, di spostare l’attenzione sul se-
condo medioevo, sul medioevo sapienziale, su una grande maturità
di scienza giuridica. I risultati positivi furono parecchi; uno di questi
è, a mio avviso, la ripresa di un colloquio, e, con la ripresa, una
maggiore familiarità di civilisti e pubblicisti con la civiltà giuridica
artificiosamente rimossa e minimizzata ( ).
14
Oggi, questa familiarità si è addirittura trasformata in un attin-
gimento ripetuto. Lo storico dovrebbe essere ricolmo di soddisfa-
zione, soprattutto uno come me che non ha mai mancato di valo-
rizzare quella rilevante esperienza giuridica e di ritenerne doveroso
(e fruttuoso) lo studio.
Il problema è però di indole squisitamente culturale: ben ven-
gano questi riferimenti, non è certo un cattivo segno. Ma una
domanda si impone: sono frutto di analogizzazioni frettolose, di
entusiasmi infondati? Nascono da una conoscenza reale di quello
che il medioevo fu? E fino a che punto si spinge il riferimento? Si
ricade, forse, in quella modellistica che si deprecava all’inizio?
L’esempio del buon Panunzio, che vedeva — bontà sua — un
medioevo rigoglioso di sindacati e di sindacalismo autentico è lı̀
proprio ad ammonirci e a impedirci di fare scelte criticamente
incaute, inaccettabili culturalmente e fonti soltanto di equivoci
grossolani. E il futuro resta totalmente da costruire. Cerchiamo,
pertanto, di far chiarezza o di tentar di farla.
3. La maturità di tempi medievale.
Il medioevo giuridico fu creatura storica originale, perché fu
costruzione lentissima di una prassi investita del cómpito di edificare
( ) Si veda il colloquio di Calasso con Santi Romano, di cui è evidente testimo-
14
nianza il volume scientifico-didattico Gli ordinamenti giuridici del rinascimento medie-
vale, Giuffrè, Milano 1948; o quello più tardo dello stesso Calasso con i civilisti in tema
di negozio giuridico (Il negozio giuridico, Giuffrè, Milano 1959), in un libro che ha molte
debolezze ma che segnala una sincera istanza colloquiale; o il colloquio con Calasso del
R , Ordinamenti giuridici privati (1955), ora in Scritti minori,
civilista S
ALVATORE OMANO
vol. I, Giuffrè, Milano 1980.
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
dopo il crollo della civiltà romana. Fu creatura originale proprio
perché il crollo della civiltà giuridica precedente costrinse quella
prassi a lavorare su due vuoti — un vuoto politico e un vuoto
culturale — riscoprendo forze e valori che non traevano autorità da
modelli già sperimentati.
Forze e valori furono reperiti nell’esperienza quotidiana, spar-
samente, empiricamente, facendo emergere giorno dopo giorno
nella lunghissima durata un costume giuridico che la nuova civiltà
ebbe modo di consolidare e definire in quasi mille anni di vita;
giacché in un millennio si distese quella grande maturità storica che
la retorica velenosa del futuro umanesimo avrebbe chiamato ridut-
tivamente media aetas. Il canone vincente non fu la validità, ossia la
corrispondenza a un modello autorevole, bensı̀ la effettività, ossia la
forza interiore che certi fatti recavano in sé incidendo sulla vicenda
).
storica senza ricorsi a sussidii esterni (
15
Il medioevo fu originale perché fu fattuale: i fatti nascono nel
particolare e del particolare si impregnano, trovando in esso la loro
cifra; voce che viene dal basso, il fatto non ha la capacità di tradire
la domanda storica eludendola o mistificandola con dei modelli.
Questo è, per esempio, avvenuto nel tempo medievale in relazione a
quel modello forte che è il ‘romano’: se lo vedremo talora riaffiorare,
se — dopo il secolo XI, divenuta ormai la nostra una civiltà
sapienziale — constatiamo un gremio di giuristi chiamarsi glossatori
e commentatori e fare i conti con testi romani, fu un mantello
formale di autorevolezza che essi si misero addosso, ma non fu mai
tradimento delle aspettative a loro contemporanee, restando quei
giuristi più interpreti dei fatti di costume circolanti che del lontano
frammento del Digesto.
Civiltà di prassi, tanto fattuale che noi non abbiamo esitato a
qualificare come ‘primitivo’ il suo momento iniziale, primitivo in un
significato squisitamente antropologico: civiltà dove i soggetti subi-
scono la imponenza dei fatti, si mescolano con essi fino a essere
( ) Per maggiori chiarimenti non posso che rimandare al mio libro L’ordine
15
giuridico medievale, cit., dove a intelaiatura della analisi storiografica si utilizza la
dialettica validità/effettività (si veda soprattutto p. 56 ss.).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 49
PAOLO GROSSI
incapaci di oggettivarli ( ). Qualificarla primitiva — almeno nella
16
sua genesi — significa coglierla nascente in una incandescenza
socio-economica, senza ipoteche, senza eteronomie.
Sta qui la motivazione della nostra insistenza sulla fattualità ai
fini del discorso che stiamo facendo. Ci permette di cogliere la
originalità della civiltà medievale, che certamente non nasce dal
nulla perché la storia è sempre una concatenazione, ma che certa-
mente è un anello munito di una sostanziale autonomia. Da qui
l’originalità anche del processo di costruzione del diritto medievale,
dalla indole sostanzialmente consuetudinaria. La fattualità impone
questa scelta, giacché la consuetudine è soltanto un fatto osservato e
ripetuto, striscia per terra e di terra si impregna, registrando in
assoluta libertà i bisogni emergenti e corrispondèndovi.
Fattualità significa, dunque, che non c’è un potere centrale e
centralizzante forte, intenzionato e capace di controllare i fatti
riconducèndoli a modelli imperativi generali. Significa che il diritto
medievale ha una sua irripetibile storicità: è un diritto che si adagia
sui fatti, che percepisce e segue le forze storiche e le loro domande,
restando nella terrestrità bassa dove quelle forze vivono e segnalano
bisogni. È all’insegna del particolarismo più esasperato ma anche di
un sostanziale pluralismo.
Il pluralismo giuridico. Ecco il punto. Non è una concessione
dello Stato (che non c’è), ma l’assestamento spontaneo della dimen-
sione giuridica di una civiltà che vive autonomamente e con auto-
nomia si realizza. Medioevo giuridico significa appunto una co-
scienza collettiva che genera forme giuridiche plastiche, dalla intensa
storicità, che individua il diritto come sua espressione riconducèn-
dolo alla globalità e complessità della società e non di una cristal-
lizzazione politica ingombrante, o di un apparato forte di potere. In
un mondo politico-giuridico senza burattinai invadenti il pluralismo
è nelle cose. Non una fonte unica di produzione che impone canoni
sui quali misurare la giuridicità, ma pluralità di fonti, convivenza di
fonti e di diritti: non a caso Santi Romano guardava al medioevo
come a un laboratorio di ordinamenti giuridici conviventi e covi-
genti.
( ) Su questa qualificazione primitivistica del proto-medioevo mi sia consentito
16
di rinviare ancora a L’ordine giuridico medievale, cit., p. 61 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
50 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Questo spiega anche perché, nel mondo giuridico medievale, si
stemperi assai quella distinzione su cui il mondo moderno si è
strutturato: pubblico e privato come realtà separate e che debbono
restar separate; con il risultato sclerotizzante di riservare al ‘pubbli-
co’ la misura della giuridicità, di fare del principio di validità il vero
fondamento di una sorta di Grundnorm non scritta ma imperiosa.
Nel mondo medievale è invece una continua interconnessione di
fonti, ciascuna rappresentante una dimensione specifica della so-
cietà. È la Chiesa che produce regole nel proprio ordine, o è il ceto
feudale, o quello mercantile, senza che l’una dimensione misuri
sull’altra il proprio grado di giuridicità. Diritto plurale, espressione
di una realtà plurale, plurale e sfaccettatissima: la società.
Assumiamo un esempio oggi corrente. Oggi, infatti, si parla
frequentemente, anche da chi è immerso nella prassi giuridica, di lex
mercatoria, tributando forse l’ultimo omaggio a una lingua latina che
nessuno conosce più, nemmeno i chierici di una Chiesa che si
qualifica come romana. E il riferimento è chiaro all’età del maturo
medioevo, quando un vivace e intelligente ceto mercantile intuı̀ e
costruı̀ un complesso attivo di strumenti congeniali alle attività
mercatorie.
Allora, i mercanti poterono tranquillamente gettare la loro rete
giuridica transnazionale di nuove invenzioni efficaci a snellire e a
vieppiù garantire i proprii traffici economici. Lo fecero spontanea-
mente, liberamente, perché le cose lo esigevano, creatori di un
ordinamento giuridico che si aggiungeva ad altri (quello canonico,
quello feudale, per esempio), senza alcun complesso di inferiorità o
di eccessiva separatezza. Essi si limitavano a corrispondere alle
esigenze d’una dimensione della società vista e sentita come un
naturale intreccio di più dimensioni. Quel che mancava era una
presenza ingombrante che pretendesse di fornire la misura della
giuridicità o, peggio ancora, che pretendesse il monopolio del
‘giuridico’.
Facciamo l’esempio più limpido, e cioè di una serie di istituti,
ignoti al paradiso dei modelli romani ma affiorati con vigoria nel
groviglio convulso ed incerto di traffici commerciali ormai a livello
transnazionale: i titoli di credito, che nacquero come invenzione
tipicamente mercantile, frutto di fantasia giuridica e di sicura per-
cezione dei bisogni economici da parte di una prassi ignara di
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 51
PAOLO GROSSI
sapienza romana, carte che incarnavano un diritto, che potevano
circolare come se fossero merci senza avere la pesantezza immobi-
lizzante delle merci.
Oggi, i grandi mercanti del mondo contemporaneo hanno dato
vita alla cosiddetta globalizzazione giuridica, ma si tratta di un canale
che corre accanto al grande canale del diritto dello Stato e degli
). Lo Stato lo ignora voluta-
Stati, con una reciproca ignoranza (
17
mente, ritenendosi il depositario della giuridicità, mentre i mercanti
si infischiano della superbia e sufficienza dello Stato e tiran diritto
per la loro strada.
Però, al fondo, c’è sempre questo spettro dello Stato, che non è
certamente smentito dall’esistenza di comunità transnazionali, che
sono comunque comunità di Stati. E c’è una cultura statalistica che
ancora domina e che determina nella coscienza comune, malgrado le
elucubrazioni di taluni dotti, la inconcepibilità d’un diritto senza
Stato.
Il post-moderno cerca di liberarsi dalle grinfie del moderno, ma
non c’è ancora riuscito. E continuiamo a esser figli del ‘moderno’ o
da questo almeno profondamente condizionati e segnati. Del ‘mo-
derno’ c’è restato il peso e l’ingombro dello Stato, un peso e un
ingombro che il medioevo non conobbe. Il suo modo di generarsi e
di svilupparsi portò a quel totale pluralismo giuridico, che è ancora
lontano da noi e sul quale la più gran parte dei giuristi attuali
continua pervicacemente ad essere più che perplessa.
La maturità di tempi medievale fu realtà originale, storicamente
tipica, perché provocata dalla incandescenza di quel momento sto-
rico. Una sua riproduzione manca di fondamento, sa di antistoricità.
Quel medioevo è irrimediabilmente consumato nella sua vicenda
storica. Ovviamente, cade anche l’ipotesi arrischiata di un modello;
e non solo per le cautele metodologiche sopra segnate, ma in grazia
della sua assoluta e irripetibile tipicità.
( ) Su di un piano rigorosamente giuridico, ho tentato io stesso una recente
17
sintesi: Globalizzazione, diritto, scienza giuridica, in Il foro italiano, maggio 2002, V. Sul
piano sociologico-giuridico, si può contare su una ricca e pregevole letteratura a livello
internazionale; in quella italiana fanno spicco due intelligenti e cólti volumi di M. R.
, Le istituzioni della globalizzazione - Diritto e diritti nella società transnazionale,
F
ERRARESE
Il Mulino, Bologna 2000 e Il diritto al presente - Globalizzazione e tempo delle istituzioni,
Il Mulino, Bologna 2002.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
52 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Può servire da momento dialettico: storia compiuta, intera-
mente vissuta da un pianeta storico di intensa originalità, ha dei
messaggi forti, soprattutto in questo momento in cui abbiamo
gettato alle ortiche quei vestimenti antimedievali di cui i moderni
polemicamente si ammantarono e in cui i valori di quella civiltà sono
ormai oggetto di spassionata considerazione. Oggi che tentiamo di
liberarci dell’abbraccio soffocante dello Stato, oggi che tentiamo la
costruzione di un diritto sempre più aperto a una proiezione trans-
nazionale se non addirittura universale, il messaggio medievale può
riuscire proficuo.
Non so, invece, se siamo convinti di tentare la realizzazione di
un vero e non dimidiato pluralismo giuridico. Ad avviso di chi
scrive, sta qui un messaggio da ascoltare con attenzione e rispetto,
ma su cui, all’opposto, constato distrazione o, peggio ancora, infa-
stidimento. Ma sarà bene un esame più specifico.
Con una precisazione. Qualcuno potrebbe eccepire che non
vede distinzione alcuna fra il seguire un modello o ascoltare con
rispetto un messaggio. Rispondo: il modello va imitato e tradotto; la
realtà storica vi si deve conformare. Il messaggio è un contributo al
rafforzamento d’una riflessione in ricerca, ma non esige passività,
non esige obbedienza. Esige una cosa, di cui abbiamo tanto bisogno:
ascolto rispettoso e confronto con gli attuali valori, esige una
comparazione dialettica, dove le rispettive diversità non solo non
vengano annullate o contratte, ma siano messe in evidenza. Con la
coscienza — ripetiàmolo — che ogni cosa ha il suo tempo.
4. Messaggi fruttuosi.
Vediamo, dunque, quali possono essere i messaggi che ci pro-
vengono e che paiono confortarci nell’attuale momento di scelte
superatrici delle vincolanti soluzioni della modernità.
La prima voce netta, che viene da una esperienza come quella
medievale caratterizzata da un diritto senza Stato, è sicuramente che
la giuridicità è connessa alla società. Allo Stato sono speculari le
branche giuridiche strettamente legate all’esercizio della sovranità
(un esempio: il diritto amministrativo; un altro: il diritto penale), ma
il diritto regolatore della vita quotidiana dei privati, espressione di
soggetti che agiscono nella società da privati, può e deve ritrovare
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 53
PAOLO GROSSI
quella plasticità che sembra oggi richiesta da un mutamento (soprat-
tutto economico e tecnico) in rapidissimo sviluppo. Altrimenti, il
costo da pagare è lo sdoppiamento pernicioso tra un diritto ufficiale
e canali ‘privati’ che corrono paralleli. Oggi, non a torto si dubita del
grande strumento ordinatore ma controllore della vita giuridica dei
privati, che è stato ed è il Codice, ammirevole invenzione della
modernità ma inadeguato a tener dietro con coerenza al mutamento.
Accanto alla legge-madre, si dubita anche della inadeguatezza dello
strumento legislativo in genere.
E qui si aggiunge un’altra voce netta strettamente consequen-
ziale alla prima. La legge non è l’unico canale di manifestazione della
giuridicità. Lo è se il potere esige di controllarla, ma oggi il controllo,
sempre a causa della rapidità del mutamento, rischia di essere
inefficace provocando situazioni di crisi (crisi politica ma anche
socio-giuridica) fra un diritto legale inosservato e un osservatissimo
diritto non legale. Nel medioevo non fu la legge lo strumento
ordinatore, anche perché il genuino Principe medievale non si sentı̀
legislatore, rispettando una acquisizione della coscienza collettiva
che coglieva il diritto alle radici della società e pertanto da identifi-
carsi prevalentemente nella fonte materna della consuetudine affi-
data alla interpretazione dei giuristi (giudici e dottori). Il medioevo
non fu un pianeta legalitario — malgrado quanto si è sostenuto
) —, anche se
nell’onda di una plagiante sub-coscienza moderna (
18
fu un pianeta dove alla dimensione giuridica spettò una centralità
senza uguali. Un motivo di impellente riflessione, nel momento
attuale in cui teorici del diritto e giuspubblicisti si interrogano
sempre più fittamente sul ruolo di una legalità formale come quella
che abbiamo ereditato dalla modernità.
Il che ci introduce a un altro messaggio forte. Questa giuridicità
intuita cosı̀ centrale per la società, non affidata se non marginal-
mente a legge e legislatore, fu identificata nel medioevo in una realtà
di radici profonde — realtà squisitamente òntica — che il costume
( ) Un esempio vistoso è il volume di U N , Il principio di legalità nelle
18 GO ICOLINI
democrazie italiane - Legislazione e dottrina politico-giuridica dell’età comunale, Marzo-
rati, Milano s.d. (ma 1946), che risente del parossismo legalitario di quegli anni, un
parossismo che nasceva dalla fallace convinzione nella funzione garantistica e benefica
della legge. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
e, a livello giuridico, un fascio enorme di consuetudini avrebbero
avuto il cómpito di consolidare e definire senza farle perdere il
requisito fondamentale d’essere ordinamento del sociale, ossia mo-
dellatrice plastica e aperta di questo. Ma le consuetudini potevano
essere matrici propulsive in una società statica, interamente agraria,
come il primo medioevo; viziate dal particolarismo che è proprio di
ogni manifestazione usuale, si dimostreranno inadeguate per la
seconda fase di sviluppo della civiltà medievale percorsa e dominata
da una dinamica intensa e da una circolazione parimente intensa. La
soluzione — di fronte alla esigenza crescente di categorie generali
ordinanti — fu l’affidamento alla scienza giuridica e, secondaria-
mente, al giudice. E il secondo medioevo, medioevo sapienziale,
dette vita al forse più completo e riuscito modello storico di Juri-
stenrecht, di autentico diritto giurisprudenziale.
Riflettere oggi più criticamente su questo modello (che certa-
mente non fu l’unico nella lunga storia del diritto occidentale) può
portarci a qualche (ormai necessaria) scelta coraggiosa. Non sarebbe
l’ora di smettere di ripetere a noi stessi e ai nostri allievi la vieta
favoletta della gerarchia delle fonti e del culto acritico della legge?
Non sarebbe l’ora di riesaminare il ruolo della scienza giuridica?
Non sarebbe l’ora di riesaminare il rilievo del ruolo del giudice? È
rischioso ripetere (anche se solo su un ipocrita piano formale)
vecchie favolette, quando la società pos-moderna le sta mettendo da
parte, dando a scienza e prassi il ruolo sostanziale che spetta ai reali
).
meccanismi propulsori dell’ordine giuridico ( 19
Scienza e prassi applicativa hanno goduto di una duplice e
giustificatissima rivalutazione: teorica, con la notevole riflessione
ermeneutica, che ha ridicolizzato il giudice bocca della legge o il
maestro di diritto quale esegeta; pratica, perché attualmente è il
trionfo di invenzioni tecniche novissime che la prassi ha intuito e
cominciato a vivere, e la scienza ha prontamente principiato a
categorizzare, che il legislatore — al contrario — o non ha avvertito
o ha tardato ad avvertire e a disciplinare.
( ) Ho tentato di riflettere assai recentemente su questo ruolo della prassi,
19
discorrendo con gli allievi della fiorentina ‘Scuola di specializzazione per le professioni
legali’: Il diritto tra norma e applicazione - Il ruolo del giurista nell’attuale società italiana,
in “Rassegna forense”, XXXV (2002).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 55
PAOLO GROSSI
Si aggiunga che, oggi, v’è una coscienza nuova nel giurista, più
attiva, più propulsiva. Il giurista vede le deficienze e le sordità del
legislatore e tenta di supplirvi; soprattutto, tenta — ed è questo un
profilo rilevantissimo — di farsi lui portatore di un diritto finalmente
insofferente alle artificiose frontiere statuali gettando la rete al di là
e al di sopra delle tante insularità nazionali e cominciando a creare
un tessuto comune: i recenti esperimenti europei per la fissazione di
principii regolatori dei contratti e dei contratti commerciali in
specie, che hanno visto protagonistica la migliore scienza giuspriva-
tistica europea, sono il segno di questa rinnovata coscienza. Un
grande insegnamento della civiltà giuridica medievale è che il diritto
è cosa non da politici ma da giuristi, ed è precisamente l’insegna-
mento che quella civiltà ha trasmesso al suo figlio diretto, il common
law. Recuperare il diritto ai giuristi può essere una divisa per il
nostro impegno culturale e di politica del diritto.
Un altro recupero va fatto, ma, in fondo, discende già da quanto
si è detto più sopra, ed è un recupero pluralistico. Si deve realizzare
un più sincero pluralismo giuridico. Il medioevo lo visse intera-
mente, e il suo mondo socio-giuridico fu autenticamente pluriordi-
namentale. Del resto, non stiamo vivendo forse noi un pluralismo
latente con la montante globalizzazione giuridica? Un pluralismo
fattuale, che lo Stato continua a ignorare e di cui i tanti giuristi
statalisti beatamente si disinteressano; che però c’è, è forte, è
virulento, e mette in crisi — nel concreto dell’esperienza dove il
diritto si misura quotidianamente — il sublime castello legalistico.
Dobbiamo affrettarci verso una mèta che è un diritto senza Stato; il
conseguimento di questa mèta è anche conseguimento di un effet-
tivo pluralismo giuridico. Conseguimenti, però, che dobbiamo in-
nanzi tutto realizzare nella nostra coscienza di giuristi. Non si può
pretendere dall’apparato statuale quel rinnovamento che manca
almeno nella consapevolezza dei più. La complessità della società,
elementare dato omnipresente ma tanto più presente oggi, deve
rispecchiarsi nella complessità plurale dell’universo giuridico.
Diritto senza Stato significa che al diritto ripugna di immiserirsi
all’interno di confini invalicabili, significa che il diritto è una ragione
del vivere civile e che la sua proiezione più naturale è quella
universale. Più che un sentimento, è una percezione che si fa strada
nelle menti più aperte: dopo che l’Europa è stata ridotta nell’età
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
56 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
moderna e post-moderna a un arcipelago, cioè a un coacervo di
isole, si avverte l’esigenza politica e culturale di paesaggi più ampii,
di unità più comprensive. E si può giustificare il richiamo ricorrente
a quel pre-moderno in cui l’allora Europa civilizzata conobbe una
unità giuridica. Da questo riferimento non scorretto ma sommario si
può calare a messaggi che non sono da sottovalutare. Non v’è
dubbio che il medioevo compie la sua giuridicità come ius commune,
diritto doppiamente comune, accomunante cioè la dimensione reli-
giosa e quella civile (ius civile/ius canonicum), nonché le varie regioni
formanti il campo europeo. Diritto universale, dunque, a più di un
titolo, del quale vogliamo sottolineare qui due peculiarità degne
della nostra riflessione.
Lo ius commune è diritto scientifico. Anche se vi sono coinvolti
i giudici con le loro sentenze e i notai con i loro formularii, i
protagonisti sono uomini di scienza, certamente non disdegnanti
lavori di consulenza per i poteri costituiti, per i giudici, per i privati
ma, innanzi tutto, maestri di diritto, doctores, demiurghi grandi e
piccoli della nuova scientia iuris che trovava nella folta diaspora
universitaria del secondo medioevo il suo luogo d’elezione. Qui la
scienza, sulla base dei testi romani del Corpus iuris civilis e canonici
del Corpus iuris canonici, crea diritto sia pure nella forma di una
tipicissima interpretatio. Alla scienza è confidato il cómpito di
ordinare giuridicamente il tessuto socio-politico del proprio tempo.
E la scienza fa il mestier suo: questi dottori che, insieme agli
studenti, erano cittadini d’Europa insegnando a Bologna come a
Salamanca, a Orléans come a Oxford, che sentivano il diritto come
realtà non legata alle miserie dei particolarismi politici, costruiscono
in una proiezione universale, sovraordinata ai confini che la miopia
e la superbia degli uomini d’arme e di governo han segnato sul
terreno.
Ma v’è una seconda peculiarità, che mi sembra di gran rilievo.
Questo tessuto universale dòtto non soffocò i particolarismi giuri-
dici. Il diritto di questa o quella città comunale, di questo o quel
principato laico od ecclesiastico, le mille consuetudini striscianti in
un territorio determinato, le regole dei mercanti e del ceto feudale,
continuarono a vivere intatte. Ius commune e iura propria costitui-
rono un grande sistema percorso da una fertilissima dialettica
universale/particolare, come intuı̀ felicemente tanti anni addietro
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 57
PAOLO GROSSI
Francesco Calasso ( ). L’universale né disturbò il particolare né fu
20
da questo disturbato: v’è piuttosto un sistema di integrazione,
perché il tessuto universale è plastico, complesso, articolatissimo. È
lo Stato che si propone quale struttura rigida e compatta, struttura
intollerante. La sua manifestazione naturale, geograficamente preci-
sata, è la sovranità, ossia un potere assolutamente indipendente cui
ripugna ogni posizione di autonomia, anche se la autonomia —
come indipendenza relativa — non è una concorrente né ostile né
insidiosa per la sovranità.
Nel momento in cui scrivo queste note, sono appena ritornato in
Italia da un soggiorno nel Messico per conferenze e lezioni, e,
parlando colà con egregii colleghi messicani, ho avuto la riprova di
quanto ora si sta dicendo. Trattando con loro il problema cosı̀
scottante in quel paese delle lotte di popolazioni indigene in difesa
delle loro immemorabili autonomie, i colleghi messicani mi sottoli-
neavano che, finché il Messico fu un Virreynato all’interno della
grande coinè ispanica, pochi problemi sorsero. Cominciarono, in-
vece, a porsi in modo clamoroso dopo le lotte ottocentesche di
indipendenza e la nascita dello Stato messicano completamente
separato dalla madrepatria e dalle altre ex-colonie spagnole, uno
Stato che, come tutti gli Stati di questo mondo, ha immediatamente
téso alla compattezza e si è rivestito di intolleranza come il vecchio
re di Spagna e il suo viceré non lo erano stati per il passato.
Sotto questo profilo il mondo del diritto comune, mondo di
autonomie e non di sovranità, tessuto universale unitario ma com-
plesso, non compatto anzi articolatissimo, non vorrei dire che ci si
può proporre come modello, perché mi smentirei, ma può fornirci
un messaggio degno di essere ascoltato soprattutto nella feconda
simbiosi fra scienza, costruzioni scientifiche, invenzioni della prassi
e regole di comunità particolari.
In una grande Europa unita, comunità sofferenti per la violenza
operata contro di loro dagli Stati, potranno trovare un rispetto
maggiore.
( ) In ripetuti saggi ed esperimenti didattici. Una enunciazione limpidissima è in
20
Il problema storico del diritto comune (1939), ora in Introduzione al diritto comune,
Giuffrè, Milano 1951. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
La dimensione giuridica
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
ANTONIO PADOA SCHIOPPA
NOTE SU ORDINE GIURIDICO EUROPEO
v
E IDENTITA EUROPEA
IN PROSPETTIVA STORICO-COSTITUZIONALE (*)
1. La questione dell’identità europea ha assunto un rilievo
crescente negli ultimi anni, in coincidenza con l’evoluzione istitu-
zionale e politica comunitaria. La natura giuridica e istituzionale
dell’Unione europea forma attualmente l’oggetto di accese discus-
sioni. Una delle teorie sostenute dalla dottrina è che essa abbia
tuttora le caratteristiche di un’organizzazione internazionale finaliz-
zata essenzialmente alla creazione e alla corretta disciplina di un
libero mercato tra stati sovrani. In questa prospettiva, che chi scrive
ritiene non fondata, una definizione dell’identità europea nella sfera
dell’ordine giuridico sarebbe evidentemente superflua. Un’altra teo-
ria tra le più accreditate è che l’Unione presenti invece molti dei
caratteri propri di uno stato federale in via di formazione, dal
momento che il perseguimento delle sue finalità economiche e
politiche sono affidate ad un complesso di istituzioni (Parlamento
europeo, Consiglio, Commissione, Corte di giustizia) che presentano
molti elementi propri della statualità.
Se cosı̀ fosse, un primo aspetto vorremmo sottolineare: non
consta che in passato il processo di formazione di nuovi stati abbia
di norma comportato la preventiva o concomitante ricerca di un
criterio di identità. La fondazione di un nuovo stato fu spesso il
risultato di una conquista militare e di una guerra vittoriosa (cosı̀
avvenne ad esempio per i regni germanici altomedievali, cosı̀ per
l’Inghilterra e la Sicilia normanne, cosı̀ in infiniti altri casi dall’età
(*) Queste pagine sono dedicate ad Erik Jayme e figureranno anche negli Scritti
in suo onore. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
62 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
antica all’età contemporanea). Altrettanto spesso il consolidamento
di uno stato derivò dalla politica di potenza e dalle vicende dinasti-
che (cosı̀ avvenne in Francia dal medioevo all’età moderna, mediante
la successiva aggregazione alla corona di principati o stati confi-
nanti).
In taluni casi l’identità di uno stato emerse dalle rivendicazioni
di libertà economica o politica rispetto allo stato egemone (si pensi
alle Provincie Unite delle Fiandre nei confronti della Spagna o alle
Colonie americane alla vigilia della guerra di indipendenza nei
confronti dell’Inghilterra). In altri casi l’identità nazionale venne
invece data per presupposta — e preesistente alla fondazione dello
stato — da quelle correnti di cultura che miravano a far coincidere
l’identità linguistica e culturale con la nazione e la nazione con lo
stato (cosı̀ per l’Italia e per la Germania dell’Ottocento).
2. Negli stati europei di più antica formazione l’identità na-
zionale nella sua accezione “moderna” venne dunque di norma
costruita a posteriori, come risultante del nuovo ordine giuridico
imposto dalla potenza egemone alle terre, alle regioni, alle etnie e
alle popolazioni conquistate o comunque in essa progressivamente
incorporate. Tuttavia sarebbe del tutto antistorico ricondurre all’an-
tico regime la genesi di una tale identificazione tra stato e nazione.
Per creare un’unione effettiva — giuridica, culturale, linguistica —
dei territori via via annessi alla corona di Francia si richiesero secoli
di sforzi da parte della monarchia. Ma per secoli la nazione non
coincise né con la patria né con lo stato: in Italia la “patria” indicava
la città d’origine, la “nazione” la regione storica, mentre lo stato
poteva non coincidere né con l’una né con l’altra; in Francia ancora
alla fine del Settecento i Bretoni, i Provenzali, i Piccardi e cosı̀ via
costituivano altrettante “nazioni” all’interno del regno.
Solo a partire dalla rivoluzione francese stato e nazione vennero
identificandosi, attraverso un processo che raggiunse l’acme nel
secondo Ottocento e nel Novecento. In occasione della prima guerra
mondiale il ricorso alla guerra di trincea che comportava la morte di
migliaia di uomini per la conquista (o per la perdita) anche solo di
pochi ettari di terra venne giustificato in nome dell’ideologia dello
stato-nazione, trasformato ormai in un concetto politico apicale e
caricato di simboli esplicitamente sacrali: si dichiarò “sacra” ogni
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 63
ANTONIO PADOA SCHIOPPA
zolla del suolo della “patria”. La patria divenne allora l’equivalente
dello stato-nazione. E la nazione divenne una “patria” esclusiva e
totalizzante, la sola identità in nome della quale si poteva chiedere
(anzi imporre) il sacrificio della vita mercé la coscrizione obbligato-
ria. Prima d’allora, per secoli, la morte in battaglia costituiva più
semplicemente il rischio professionale di chi aveva scelto il mestiere
delle armi. E il passaggio di intere regioni e popolazioni da uno stato
ad un altro, dal dominio di una corona a quello di un’altra corona —
per l’Italia si pensi alla Lombardia o alla Sardegna del primo
Settecento, dopo Utrecht e Rastadt — non sembrava creare traumi
particolari.
Altra cosa, naturalmente, era il rischio della perdita della libertà
di una “città-stato” o di un’etnia sotto la minaccia di conquista da
parte di una potenza vicina: un rischio rispetto al quale già nel
mondo antico e poi di nuovo nel medioevo e nell’età moderna non
solo gli uomini in armi ma anche popoli interi si dimostrarono
disposti ad affrontare la morte.
3. Esiste un’identità europea nella sfera dell’ordine giuridico?
La questione può porsi con riferimento a due dimensioni distinte,
ciascuna delle quali si scinde a sua volta in due rami. Da un lato ci
si può chiedere, in chiave storica, se il diritto e le istituzioni che
hanno visto la luce e si sono succedute nei diversi stati d’Europa nel
corso dei secoli dal primo medioevo sino all’età contemporanea
abbiano una loro unità o addirittura una loro specificità rispetto al
diritto e alle istituzioni proprie delle altre civiltà della storia. D’altro
lato si tratta di valutare se le istituzioni che dapprima la Comunità e
poi l’Unione europea si sono date nella seconda metà del Novecento
presentino una fisionomia particolare nel panorama internazionale e
se esse debbano mantenere questi eventuali caratteri distintivi nel
processo di riforma oggi in atto ad opera della Convenzione.
La risposta è a nostro avviso affermativa per ciascuna di tali
questioni.
4. In altra sede chi scrive ha tentato di tracciare alcune linee di
prospettiva storico-giuridica con lo scopo di mostrare come la storia
del diritto dei diversi ordinamenti territoriali dell’Europa medievale
e moderna sia talmente interconnessa da formare in effetti un’unica
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
storia. Consuetudini, leggi, dottrine, uomini e libri hanno costante-
mente viaggiato scavalcando le frontiere politiche: dall’età tardo
antica all’alto medioevo germanico, dalle istituzioni feudali alle
consuetudini rurali, dalla svolta della nuova scienza giuridica al
diritto canonico classico, dalle istituzioni pubbliche dei comuni a
quelle degli stati moderni in via di formazione, dalle correnti del
moderno pensiero umanistico e giusnaturalistico sino alle riforme
dell’illuminismo, dalle codificazioni ottocentesche alle dottrine della
scuola dell’esegesi, dalla scuola storica alla pandettistica, sino agli
indirizzi di pensiero dell’età contemporanea.
Anche il sistema di common law inglese, pur cosı̀ diverso e cosı̀
originale, ha in diverse sue fasi ricevuto apporti fondamentali dal
continente ed ha a sua volta influenzato, nel tardo Settecento e
soprattutto nell’Ottocento, l’evoluzione legislativa continentale. Il
diritto processuale penale, il diritto commerciale e marittimo, il
diritto del lavoro sono alcuni dei settori in cui tali influssi biunivoci
si sono manifestati. Per tacere dell’influsso profondo esercitato dal
costituzionalismo britannico sulla genesi del moderno costituziona-
lismo europeo.
5. Sulla base dei quattro grandi lasciti culturali del mondo
antico — i profili filosofici del pensiero greco, i profili giuridici della
civiltà romana, i profili religiosi della civiltà ebraica e del cristiane-
simo — ci limitiamo ad enumerare alcuni istituti che hanno avuto
diffusione transnazionale e possono dirsi propri della storia della
civiltà europea nella sfera del diritto. Alcuni sono stati creati e poi
sono scomparsi nel corso dell’età medievale e moderna, altri sono
tuttora ben vivi: ormai non solo in Europa ma su scala più vasta,
sovente addirittura su scala planetaria.
Citiamone semplicemente alcuni, tratti sia dall’àmbito pubbli-
cistico che da quello privatistico. Il principio fondamentale della
distinzione, sul terreno del diritto, tra la sfera temporale e la sfera
spirituale, tipico dell’occidente cristiano a partire già dalla fine del
mondo antico. Il sistema delle istituzioni feudali, pur caratterizzato
dalle differenze tra le regioni europee che la moderna storiografia ha
posto in evidenza. La signoria fondiaria con l’esercizio dei poteri
economici, fiscali e giurisdizionali concessi o comunque acquisiti,
legati al controllo della terra e degli uomini che vi vivevano. L’or-
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 65
ANTONIO PADOA SCHIOPPA
ganizzazione delle istituzioni comunali cittadine e rurali nel loro
variegato assetto di autonomia politica e giuridica. Le corporazioni
di mestiere e le molteplici funzioni economiche, sociali, legislative e
giurisdizionali da esse esercitate. La scienza giuridica e il metodo di
matrice bolognese, fondato sui testi romani, interpretati e applicati
col supporto di nuovi strumenti concettuali. Il diritto della Chiesa e
il suo complesso sistema di regole e di istituzioni. La dottrina e la
disciplina delle persone giuridiche. L’università come fucina, ad un
tempo, di ricerca scientifica e di formazione superiore. Il notariato e
il pieno valore probatorio attribuito all’atto pubblico. Le teorie
relative alle procedure di decisione proprie degli organi collegiali,
anzitutto il principio maggioritario. Lo stato moderno e il suo
complesso apparato di istituzioni e di regole per l’esercizio del
potere e per il controllo del territorio, in alternativa o in sostituzione
rispetto alle istituzioni concorrenti e non statuali. La disciplina
giuridica e istituzionale del patriziato di antico regime nei suoi
risvolti privatistici e pubblicistici. Il sistema penale del diritto co-
mune, fondato sulle prove legali. La costruzione dei sistemi di diritto
naturale. Le dottrine giuridiche dell’illuminismo e le riforme sette-
centesche sul sistema delle pene, sulla separazione dei poteri, sul
governo della famiglia, sulle libertà economiche. Le regole sulle
società commerciali a responsabilità limitata e per azioni. La dottrina
costituzionale dei diritti dell’uomo e del cittadino, con l’enuncia-
zione delle libertà individuali e collettive, versione secolarizzata dalla
fondamentale nozione cristiana della dignità della persona umana: di
ogni persona.
Il principio di legalità dei reati e delle pene. Le codificazioni del
diritto privato, penale e processuale. Le garanzie di imparzialità e di
terzietà dei giudici e le nuove regole del processo civile e penale ad
esse ispirate. Le garanzie costituzionali delle moderne democrazie
fondate sulla sovranità popolare. Il controllo di costituzionalità delle
leggi ordinarie. La tutela giurisdizionale dei privati nei confronti
delle pubbliche amministrazioni. Il diritto del lavoro.
L’elenco potrebbe continuare. È appena il caso di sottolineare
che ciascuno di questi complessi di regole e di istituzioni è nato in
luoghi specifici, per opera di singoli individui e in circostanze
precise, spesso senza la piena consapevolezza delle sue implicazioni
pratiche e ideali, né delle difficoltà connesse alla sua affermazione,
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
66 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
né della sua durata nel tempo. Anche i modi della realizzazione —
parziale o compiutamente attuata, improvvisa o protratta nel tempo,
coerente o contraddittoria rispetto al contesto storico — sono stati
infinitamente vari nelle diverse realtà politiche, economiche, sociali,
culturali d’Europa: nel tempo e nello spazio.
6. L’ordine giuridico che è proprio dell’Unione europea di oggi
elude le categorie consuete della dottrina giuridica. Nato e sviluppato
sino al presente nella forma collaudata del trattato di diritto interna-
zionale, tale ordine presenta indubbiamente molti dei caratteri che
sono propri degli accordi tra stati sovrani. Ogni modifica dei trattati
deve essere sancita unanimemente da tutti i governi dell’Unione e deve
essere ratificata da ciascuno stato nelle forme previste dalle rispettive
costituzioni per i trattati internazionali. Anche all’interno delle com-
petenze attribuite dai trattati all’Unione, le decisioni più rilevanti ri-
chiedono l’assenso unanime dei governi che compongono il Consiglio.
Nei settori della politica estera e della sicurezza, degli affari interni e
della giustizia, inseriti tra le competenze dell’Unione a partire dal
1992, ogni decisione effettiva è riservata al Consiglio, cioè ai governi
nazionali, e richiede inoltre l’unanimità.
Tuttavia nel tempo, in particolare negli ultimi anni, alla pro-
spettiva internazionalistica con la quale a lungo si sono analizzate le
regole e le istituzioni comunitarie si è venuta affiancando la prospet-
tiva costituzionalistica. L’Unione è stata progressivamente percepita
dalla dottrina sotto il profilo costituzionale, nel senso che le istitu-
zioni di cui essa è composta sono state valutate con il metro adottato
per valutare le istituzioni politiche di stampo statuale.
Sotto questo profilo le quattro principali istituzioni dell’Unione
— chiaramente delineate già nel 1951 con il Trattato della Comunità
del carbone e dell’acciaio e mantenute sino al presente, pur con le non
esigue trasformazioni istituzionali decise nel 1957, nel 1974, nel 1986,
nel 1992, nel 1997 e nel 2000 — possiedono alcune caratteristiche
comuni alle istituzioni politiche delle esistenti federazioni di stati ed
altre che invece ne differiscono e sono peculiari dell’Unione europea.
7. Il quadro istituzionale dell’Unione è ben noto. Il Consiglio
dei ministri ha poteri legislativi e poteri esecutivi insieme. I primi
esercitati in comune con il Parlamento europeo mediante la proce-
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 67
ANTONIO PADOA SCHIOPPA
dura di codecisione introdotta nel 1992 e con le altre varie proce-
dure previste dai trattati, che però di norma non operano quando la
decisione del Consiglio richiede l’unanimità, richiesta in molte tra le
materie di maggior rilievo. Dalla metà degli anni Settanta le decisioni
più importanti e quelle di impulso politico per l’Unione sono
assunte dal Consiglio europeo composto dai capi di stato e di
governo. Il Parlamento europeo ha ereditato le competenze della
primitiva Assemblea composta di parlamentari nazionali ed è, dal
1979, eletto a suffragio universale ogni cinque anni dai cittadini di
tutti gli stati membri dell’Unione, sicché possiede nei confronti
dell’Unione il medesimo grado di legittimazione democratica che è
proprio dei parlamenti nazionali rispetto agli stati nazionali. Dal
1992 il Parlamento europeo vota la nomina del presidente della
Commissione proposta dal Consiglio europeo (dal 2000 anche a
maggioranza qualificata) nonché quella dei commissari scelti dal
presidente stesso d’intesa con il Consiglio. La Commissione ha
l’esclusiva dell’iniziativa legislativa comunitaria, esercita funzioni di
controllo sull’attuazione dei trattati e ha vasti poteri esecutivi quanto
al primo pilastro, concernente l’unione economica, la concorrenza, il
mercato unico, la politica commerciale internazionale dell’Unione e
le altre attribuzioni connesse, inclusa la disciplina di bilancio degli
stati membri adottata con il patto di stabilità che pure fa capo
principalmente ai governi e al Consiglio. La Commissione dispone di
una non certo pletorica burocrazia comunitaria, accentrata a Bru-
xelles. La Corte di giustizia dirime (dal 1997 con il Tribunale di
primo grado) le controversie tra singoli, stati membri e Comunità
europea nelle materie di competenza di quest’ultima. La sua giuri-
sprudenza, come pure il diritto comunitario dei trattati, ha imme-
diata e diretta applicazione all’interno degli ordinamenti nazionali.
Da questa pur sommaria elencazione delle funzioni appare già
chiaro come là dove la procedura richiesta dai trattati esige l’inter-
vento del solo Consiglio deliberante alla unanimità non si possa
ritenere operante se non una forma di cooperazione tra stati sovrani,
che non raggiunge neppure l’assetto istituzionale di una confedera-
zione. E questo vale oggi per settori cruciali del mercato unico e
dell’unione economica che costituiscono il primo pilastro, dall’ar-
monizzazione fiscale alla sicurezza sociale alle politiche di coesione.
E vale per la massima parte delle politiche e delle azioni relative alla
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
68 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
politica estera, alla sicurezza, alla difesa, alla giustizia e all’immigra-
zione, cioè per il secondo e per il terzo pilastro.
Dove si può decidere a maggioranza l’unione certamente esiste.
Ma quando le opzioni di natura legislativa o le decisioni di governo
politicamente rilevanti non richiedono l’intervento del Parlamento
eletto, ciò che ne risulta è un’unione priva del requisito costituzio-
nale che è alla base delle moderne democrazie, l’ancoraggio alla
sovranità popolare. Se è vero che in ciascuna di esse il ruolo del
parlamento è assai differenziato in politica economica, in materia
fiscale, in politica estera o in tema di operazioni militari, non è meno
vero che in tutti questi settori nessun governo democratico può
esimersi dal controllo parlamentare.
Nei campi in cui esse operano congiuntamente, le tre istituzioni
— Consiglio, Parlamento, Commissione — formano un insieme
istituzionale assimilabile a quello di una federazione, con il governo
costituito dalla Commissione e con il bicameralismo che rappresenta
da una parte gli stati, dall’altra la sovranità popolare. Il Consiglio
costituisce in effetti, dove vi è la possibilità di decisione a maggio-
ranza, non un semplice luogo d’incontro tra ministri nazionali bensı̀
un collegio, cioè un organo dell’Unione, rappresentativo degli stati
membri come avviene in ogni struttura politica di stampo federale.
E la Corte di giustizia chiude il classico triangolo montesquiviano,
che nonostante gli sforzi meritorii di una parte della dottrina e
nonostante le trasformazioni profonde dell’ultimo mezzo secolo
ancora non è stato sostituito da un modello di pari efficacia descrit-
tiva e normativa. Se a ciò si aggiunge la Banca centrale europea, alla
quale spetta la piena sovranità monetaria all’interno del gruppo di
dodici stati membri che hanno adottato la moneta unica (Eurogrup-
po), quanto meno rispetto a questi ultimi si ha l’immagine di una
federazione in fieri.
8. Quali tessere ancora manchino al raggiungimento di un
compiuto assetto federale dell’Unione europea non è difficile ve-
dere. Occorre che nei settori residuali del primo pilastro in cui opera
tuttora l’assetto interstatuale ed intergovernativo questo venga so-
stituito con la procedura maggioritaria che sola consente la forma-
zione di una volontà comune. Occorre la piena legittimazione del
parlamento europeo (in codecisione con il Consiglio) nella funzione
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 69
ANTONIO PADOA SCHIOPPA
legislativa primaria e nella nomina della Commissione e delle altre
autorità dell’Unione. Occorre l’attribuzione allo stesso parlamento
europeo della piena potestà di bilancio (funzione originaria e ineli-
minabile di ogni parlamento eletto) con l’affermazione del principio
delle risorse proprie dell’Unione.
Occorre poi che la politica estera e la difesa siano riconosciute
quali competenze concorrenti dell’Unione rispetto agli stati membri,
con le ineludibili conseguenze costituzionali che ne derivano quanto
alle risorse necessarie e quanto alle procedure (deliberazioni a
maggioranza qualificata del Consiglio europeo, ruolo di controllo
del Parlamento europeo sia per le spese che per le decisioni essen-
ziali). Quanto alla presidenza dell’Unione, è singolare che mentre si
va rafforzando la richiesta di dare una sola voce all’Europa, vi sia chi
propone a questo fine la nomina di un presidente del Consiglio
europeo non più a rotazione, ma istituzionalmente distinto dal
presidente della Commissione. La diarchia istituzionale del governo
dell’Unione e dei connessi poteri — che pure in taluni ordinamenti
esiste: si pensi anzitutto alla Francia, ma anche all’Italia che attri-
buisce al presidente della repubblica e non al presidente del consi-
glio la guida delle forze armate e la presidenza dell’organo di
governo della magistratura — diverrebbe, se non inevitabile, quanto
meno probabile e dunque rischiosa ai fini dell’auspicata unità di
indirizzo dell’Unione europea.
Il coinvolgimento del Parlamento e della Commissione va at-
tuato, pur se in forme in parte diverse, anche per le normative e per
le azioni comuni in tema di giustizia, di immigrazione dai paesi terzi
e di polizia, cioè per il terzo pilastro, che costituisce materia tipica di
competenza concorrente con gli stati. Anche la rappresentanza
esterna dell’Unione nei fori internazionali (a cominciare dall’Onu e
dal Fondo Monetario) dovrebbe evidentemente essere unitaria come
già lo è per la politica commerciale. Inoltre: la Carta dei diritti va
integrata nel trattato costituzionale. E ancora: il metodo di votazione
entro il Consiglio dovrebbe basarsi sulla regola della doppia mag-
gioranza degli stati e della popolazione europea, la sola regola
coerente con la doppia legittimazione dell’Unione, fondata ad un
tempo sulla sovranità popolare e sugli stati nazionali.
Infine: l’entrata in vigore del trattato costituzionale dovrebbe
essere legata al raggiungimento di una soglia di ratifiche pari a una
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
maggioranza superqualificata di stati membri e di popolazione su
scala europea, con validità nei soli confronti di chi l’abbia ratificato.
Nessuno potrebbe obbligare uno stato membro a procedere sulla via
dell’unione, ma nessuno stato o governo dovrebbe poter impedire
agli altri di farlo.
9. Se questi elementi venissero inseriti nel trattato costituzio-
nale che la Convenzione sta predisponendo potremmo ritenere
raggiunta la fase di stabilità istituzionale e costituzionale dell’Unione
europea. Essa presenterebbe in tal modo alcuni caratteri distintivi
rispetto alle altre federazioni politiche oggi esistenti, tali da raffigu-
rare un’identità costituzionale originale. Il che non può sorprendere,
dal momento che mai prima d’ora si era giunti alla formazione di
una libera e consensuale federazione di preesistenti stati nazionali.
I principali aspetti peculiari di tale costituzione sono cosı̀ rias-
sumibili. Poche competenze esclusive dell’Unione: concorrenza,
politica commerciale, moneta. Competenze concorrenti: politica
economica e settori connessi, politica estera, difesa, giustizia, immi-
grazione. Gestione delle competenze concorrenti mediante un ca-
pillare ricorso al principio di sussidiarietà monitorato ex ante dai
governi e dai parlamenti nazionali, ex post dalla Corte di giustizia.
Legislazione europea come legislazione di principı̂, con largo ricorso
alla potestà regolamentare della Commissione e al meccanismo delle
direttive che lasciano spazio a modulazioni differenziate nei diversi
stati membri. Limitazione della legislazione europea ai soli settori in
cui lo esige il mercato unico o lo suggeriscono le esigenze dell’eco-
nomia. Principio del mutuo riconoscimento normativo. Ricorso alle
amministrazioni nazionali come terminali operativi della Commis-
sione, senza la necessità di istituire organi esecutivi periferici. Cosı̀
pure per le sedi diplomatiche, salvo alcune eccezioni. Procedura
coinvolgente i parlamenti nazionali quando si deve decidere di
fissare o di modificare il tetto delle risorse proprie dell’Unione,
anche mediante trasferimenti di risorse (ad esempio in tema di
difesa) dal bilancio nazionale a quello europeo, con conseguenti
economie di scala a parità di carico fiscale per il cittadino. Apertura
permanente agli stati europei che intendessero rimanere (almeno
temporaneamente) fuori dalla rinnovata Unione. Predisposizione di
accordi di associazione con gli stati extraeuropei che vogliano
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 71
ANTONIO PADOA SCHIOPPA
entrare in rapporto stretto con l’Unione sul terreno dell’economia.
Infine: riconoscimento del diritto alla pace come diritto degli indi-
vidui e delle collettività, con la conseguente disponibilità a trasferire
quote di sovranità all’Onu e alle altre organizzazioni planetarie,
debitamente riformate, analogamente a quanto previsto nell’art. 11
della nostra Costituzione.
È da sottolineare che tutte queste innovazioni sono in linea
diretta di continuità con quanto i trattati e la prassi comunitaria del
mezzo secolo trascorso hanno prescritto e ormai realizzato. Nessuna
rottura, nessuna deviazione, bensı̀ prosecuzione rettilinea di un
cammino da tempo intrapreso.
10. Ponendosi in una prospettiva storico-giuridica non si può
non osservare che diversi profili del paesaggio istituzionale del-
l’Unione europea — quale è già oggi e ancor più quale potrebbe
divenire domani — richiamano elementi non secondari di tradizioni
che sembravano solo pochi anni orsono quanto meno inattuali, se
non tramontate definitivamente. Ci riferiamo in particolare a tre
profili, distinti anche se tra loro collegati.
Sussidiarietà. Il principio introdotto a Maastricht nel 1992 e
perfezionato ad Amsterdam nel 1997 è lungi dall’aver ricevuto piena
attuazione, ma ormai informa comunque l’intero sistema comunita-
rio affidando al livello europeo, in tema di competenze concorrenti,
solo le scelte e le azioni che al livello inferiore non potrebbero
ottenere risultati soddisfacenti. Occorre rammentare che il diritto
comune poneva al primo posto nella graduazione delle fonti proprio
i diritti locali?
Pluralità dei livelli normativi. Il tendenziale monopolio norma-
tivo dello stato è ormai venuto meno. La maggioranza delle innova-
zioni legislative nazionali nel diritto dell’economia deriva non da
oggi da direttive comunitarie. Al livello nazionale si è aggiunto il
livello europeo e si è aggiunto il livello regionale negli stati che lo
riconoscono. Anche qui si può rammentare il modello di una
plurisecolare tradizione costituita dalla sovrapposte stratificazioni
normative. E inoltre vi è ormai il fondamentale principio del mutuo
riconoscimento normativo, che traspone all’interno di un ordina-
mento nazionale regole degli ordinamenti di altri stati membri
dell’Unione. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
72 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Dottrina e consuetudine quali fonti del diritto. Una volta di più
si coglie la crisi di un elemento non certo secondario del modello di
origine illuministica: si torna a riconoscere il ruolo creativo della
dottrina elaborata dai giuristi e il ruolo ineliminabile, a sua volta
creativo e tutt’altro che statico, delle consuetudini, che sovente
travalicano senza ostacoli i confini nazionali e perfino i confini
continentali. Due fonti di produzione del diritto che per lunghi
secoli erano state riconosciute come tali, prima del bisecolare trionfo
della legislazione statale. La quale peraltro non scompare (ed è
giusto che non scompaia), ma assume un ruolo sia orizzontalmente
che verticalmente più circoscritto.
11. Sarebbe davvero dar prova di ingenuità il ritenere che gli
obbiettivi costituzionali per l’Unione europea sopra accennati siano
condivisi o condivisibili da tutti. Tra le obiezioni più frequenti,
espresse da qualificati studiosi e riecheggiate da una parte conside-
revole delle classi politiche e dei governi nazionali, ci limitiamo a
rammentarne alcune e a formulare sinteticamente un principio di
risposta.
Una prima obiezione nasce dal timore che l’Unione possa
assumere i caratteri di un “superstato” europeo. Ma qui occorre
intendersi. Nel momento in cui la moneta, la spada e la toga già
hanno acquistato o potranno acquistare una dimensione europea
mediante l’attribuzione di competenze esclusive o concorrenti al-
l’Unione, questa non potrà non essere inquadrata nelle categorie
proprie della statualità. Anche se è chiarissimo che tali categorie
sono a loro volta categorie storiche e perciò profondamente diffe-
renziate e differenziabili nel tempo e nello spazio. Possiamo anche
non impiegare il termine “stato” a proposito dell’Unione. Tuttavia il
problema di configurare correttamente checks and balances del-
l’Unione — in direzione verticale e in dimensione orizzontale — è
un problema costituzionale di natura statuale.
D’altra parte le competenze dell’Unione e le dimensioni stesse
del suo bilancio di oggi (pari all’1,27 del Pil complessivo) ed anche
quelle di un possibile futuro bilancio inclusivo di una quota di spese
militari (in tal caso il bilancio dell’Unione potrebbe essere circa
doppio, dunque dell’ordine del 2,5 del Pil complessivo, ma con
un’auspicabile connessa diminuzione degli oneri di bilancio nazio-
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 73
ANTONIO PADOA SCHIOPPA
nali) non sono certo di tale entità da configurare uno stato leviatano.
Infine, va osservato che già oggi le decisioni essenziali in tema di
politica della concorrenza ed anche quelle relativo all’equilibrio di
bilancio dei singoli stati dell’unione sono assunte al livello europeo.
Una seconda obiezione muove dall’assunto che “un popolo
europeo non esiste” né può esistere, perché incompatibile con la
realtà e con l’identità dei singoli popoli nazionali. A questo riguardo
occorre invece non dimenticare che il concetto di “popolo” è tra i
più polivalenti della storia. La concezione monistica e totalitaria di
“popolo” deve ritenersi ormai superata o da superare, al pari di
quella monistica e totalitaria di “cittadinanza”. Si può e si deve
essere ad un tempo cittadini di una città, di una regione, di uno stato
nazionale, di un’unione federale, del mondo. Sono livelli diversi, ma
non incompatibili perché ancorati a interessi e a valori in parte
comuni, in parte distinti e specifici di ciascun livello. È questo un
ulteriore profilo per il quale l’esperienza storica del diritto comune
offre interessantissimi spunti: si pensi alle teorizzazioni del concetto
di populus da parte di giuristi del livello di Bartolo da Sassoferrato
o di Baldo degli Ubaldi.
Esiste dunque, anche se tuttora in via di formazione, un “popolo
europeo” che non contraddice affatto l’esistenza e la permanenza dei
popoli nazionali (cosı̀ come questi a loro volta non sostituiscono né
sminuiscono le realtà tuttora vivissime — anche sul terreno del
diritto vivente — delle identità regionali e addirittura cittadine):
perché il popolo europeo si manifesta nei processi che coinvolgono
l’Unione, le sue competenze, le sue istituzioni, i suoi interessi e i suoi
valori. Tra i quali certamente figurano — accanto a quelli propri
delle moderne democrazie di matrice europea: sovranità popolare,
equilibrio dei poteri, diritti dell’uomo, libertà religiosa — la concor-
renza, la solidarietà, la sussidiarietà, la pace istituzionalmente garan-
tita. Quando questi valori sono in gioco, il demos europeo viene ad
emergere e si manifesta se (e solo se) le istituzioni dell’Unione gliene
danno la concreta possibilità, istituzionalmente garantita.
Altrettanto frequente è l’obiezione che “la sovranità è indivisi-
bile” e appartiene agli stati nazionali. Anche questa nozione di
sovranità non corrisponde alla realtà del presente né ai valori pur
condivisi da molti se non da tutti, in particolare ai valori della
sussidiarietà, della solidarietà e dei diritti dell’uomo. Gli stati euro-
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
74 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
pei da tempo non sono più veramente sovrani se non di nome.
L’ideologia dello stato “superiorem non recognoscens” è una crea-
zione della storia risalente addirittura al secolo XIII, che però solo
nell’età contemporanea (nel Novecento) ha raggiunto i confini di
un’ideologia totalizzante, come si è già ricordato. Ma la sovranità
formale, che è prerogativa di ciascuno dei quasi duecento compo-
nenti dell’Assemblea delle Nazioni Unite, non corrisponde affatto
alla nozione sostanziale di sovranità.
Se sovranità significa non già l’astratta facoltà di non riconoscere
alcuna autorità politica superiore ma il concreto potere di determi-
nare il destino del popolo e dello stato — la pace e la guerra, la
giustizia e le sanzioni, la moneta e l’economia — oggi questi poteri
sfuggono ai singoli governi europei. Chi decide sono altri, eccetto
che per le competenze economiche e monetarie trasferite dagli stati
all’Unione, ove in effetti le posizioni europee hanno riacquistato un
peso planetario. Un’Unione compiutamente strutturata in senso
federale, lungi dal sottrarre quote di sovranità fittizia agli stati,
consentirebbe semmai di recuperarla.
Sul piano dottrinale la sovranità va concepita come un’attribu-
zione che in ultima istanza fa capo al singolo individuo, il quale la
esercita liberamente e collegialmente nelle diverse formazioni e ai
diversi livelli in cui si articolano le istituzioni politiche: dal municipio
alla regione, dallo stato nazionale all’Europa, sino al livello planeta-
rio, oggi (imperfettamente) rappresentato delle Nazioni unite. So-
vrano non è né lo stato nazionale né alcuna altra istituzione politica
sovra o infranazionale bensı̀ soltanto il cittadino: attraverso il mec-
canismo complesso delle istituzioni della democrazia rappresenta-
tiva, ma anche attraverso i mercati, la democrazia diretta, la libera
espressione degli interessi e dei valori (di qui l’importanza di una
nuova disciplina di rilevanza costituzionale per i sondaggi e per i
mezzi di comunicazione di massa che inevitabilmente condizionano
una quota non irrilevante del consenso nelle moderne comunità). È
un meccanismo a più livelli verticali e a più comparti orizzontali,
nessuno dei quali, da solo, può ritenersi detentore della sovranità:
solo la loro somma può essere considerata titolare di una sovranità
che è comunque loro delegata direttamente o indirettamente dai
cittadini. Un meccanismo per il quale una nuova teorizzazione in
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 75
ANTONIO PADOA SCHIOPPA
termini di strutture costituzionali costituisce un compito arduo ma
fondamentale della dottrina giuridica del secolo da poco iniziato.
12. Qualora i principı̂ di cui si è detto sopra e i connessi
mutamenti istituzionali dell’Unione europea fossero riconosciuti
dalla Convenzione e accettati dai governi in occasione della confe-
renza intergovernativa che seguirà, l’Unione non solo raggiunge-
rebbe lo stadio della stabilità e della irreversibilità, ma costituirebbe
un modello di federazione continentale di straordinaria valenza
perché davvero nuovo sia in prospettiva storica che nel panorama
internazionale. Qui risiederebbe l’identità europea sul terreno cru-
ciale dell’ordine giuridico.
Quante probabilità vi siano che le linee sopra indicate giungano
a realizzarsi è impossibile prevedere. Ed è anche vano. La storia è
sempre matrice di innovazioni impreviste. Anche la vera natura e
l’identità costituzionale della Comunità e poi dell’Unione europea
erano sfuggite alla massima parte degli osservatori. Sicché le con-
clusioni stesse della Convenzione (che costituisce già di per sé un
fatto senza precedenti nell’iter della costruzione europea) potranno
essere valutate solo a distanza di tempo. La storia costituzionale
recente e remota conosce d’altronde anche involuzioni e crisi non
reversibili, cosı̀ da rendere tutt’altro che inverosimile, in luogo di un
esito “alto” e coerente con il percorso sin qui compiuto, un esito al
ribasso dei lavori della Convenzione e del processo di allargamento,
che segnerebbe l’inizio del declino dell’Unione, in linea con la
prospettiva auspicata da alcuni governi, che lavorano per la sua
trasformazione riduttiva in una semplice zona di libero scambio.
In tal caso l’Unione entrerà nei libri di storia costituzionale
come uno dei non pochi tentativi falliti — forse il più ambizioso,
forse il più avanzato — di incanalare le vere o presunte sovranità
degli stati lungo il cammino segnato ormai da secoli dalla ragione
umana.
Nota bibliografica.
Ci limitiamo a poche indicazioni di testi che approfondiscono alcune delle tema-
tiche sopra accennate sulla costituzione europea, in direzioni spesso diverse rispetto a
quelle espresse in queste pagine.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
76 , (2002)
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momento della scrittura, Contributo al dibattito sulla Costituzione europea, Bologna 2002;
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L’impostazione di chi scrive riguardo ad una storia del diritto europeo è delineata
in Verso una storia del diritto europeo, in “Studi di storia del diritto”, III (2001), pp. 1-26;
per le tesi qui esposte sulle istituzioni comunitarie e la loro riforma, si vedano in
S , Il Trattato sull’Unione europea, in “Il Mulino”, 41
particolare: A. P
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(1992), pp. 59-72; Id., Il diritto comune in Europa: riflessioni sul declino e sulla rinascita
di un modello, in “Il Foro italiano” 121 (1996), V, 14-20; anche in I giuristi e l’Europa,
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a cura di L. Moccia, Roma-Bari 1997, pp. 40-55; I
D ., L’assetto istituzionale
di Amsterdam, in “Il Federalista”, 40 (1998), pp. 8-23; I
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dell’Unione europea, in “Il Mulino”, 51 (2002), pp. 281-292.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
DIMITRI D’ANDREA
v
OLTRE LA SOVRANITA
. LO SPAZIO POLITICO EUROPEO
v
TRA POST-MODERNITA E NUOVO MEDIOEVO
1. Crisi della sovranità o crisi dello Stato-nazione? — 2. Un mondo neo-medievale? —
3. La sovranità protomoderna. — 4. Sovranità: evoluzione e persistenza. — 5. Medioevo
o Impero: quale metafora per l’età globale? — 6. Un’Europa neo-medievale?
1. Crisi della sovranità o crisi dello Stato-nazione?
Nel 1962, in piena Guerra fredda, un realista classico coniava
l’espressione “New Medievalism” per indicare la direzione verso cui
sembrava convergere una serie di trasformazioni della politica inter-
nazionale: la perdita di distinzione fra dimensione interna e arena
v
internazionale, l’affermarsi di lealta multiple e l’esistenza di livelli
). Si trattava di
sovrapposti e confliggenti di potere/autorità ( 1
un’espressione esplicitamente metaforica e allusiva che mirava a
segnalare una direzione di trasformazione, ma che subito lasciava il
posto al riconoscimento della sua insostenibilità analitico-scientifica.
Se il virgolettato segnalava la consapevolezza dell’uso improprio
dell’espressione, il seguito dell’argomentazione evidenziava le resi-
stenze che, malgrado la presa d’atto dei cambiamenti, si frappone-
vano al riconoscimento del suo nucleo di verità. Nonostante il venire
in essere di relazioni politiche che trascendevano i confini nazionali,
le relazioni interstatali — tra attori sovrani — continuavano ad
occupare il centro della scena. I pur drastici cambiamenti verificatisi
non sembravano portare al superamento della politica di potenza
interstatale tipica dell’epoca moderna ( ).
2
( ) Cfr. A. W , Discord and Collaboration: Essays on International Politics,
1 OLFERS
John Hopkins University Press, Baltimore 1962, pp. 241-2.
) Ivi, p. 242.
(
2 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
78 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Sarà soltanto una quindicina di anni più tardi che Hedley Bull
si impegnerà in una definizione meno approssimativa della nozione
e in una discussione serrata della plausibilità del suo impiego che
segneranno l’ingresso di questo concetto nel panorama della filosofia
). La definizione di Bull
politica e delle Relazioni internazionali (
3
contiene gli elementi chiave che orienteranno tutta la discussione
successiva: il riferimento alla cristianità medievale e al Sacro romano
impero come esempi di una articolazione del potere politico che
sfugge all’esclusività tipica della sovranità. “It is […] conceivable
that sovereign states might disappear and be replaced not by a world
government but by a modern and secular equivalent of the kind of
universal political organisation that existed in western Christendom
in the Middle Ages. In that system no ruler or state was sovereign in
the sense of being supreme over a given territory and a given
segment of the Christian population; each had to share authority
with vassals beneath, and with the Pope and (in Germany and in
Italy) the Holy Roman Empire above. The universal political order
of Western Christendom represents an alternative to the system of
states which does not yet embody universal government. […] It is
familiar that sovereign states today share the stage of world politics
with ‘other actors’ just as in medieval times the state had to share the
stage with ‘other associations’ (to use the ‘medievalists’ phrase). If
modern states were to come to share their authority over their
citizens, and their ability to command their loyalties, on the one
hand with regional and world authorities, and on the other hand
with sub-state or sub-national authorities, to such an extent that the
concept of sovereignty ceased to be applicable, then a neo medieval
).
form of universal political order might be said to have emerged” (
4
La plausibilità di uno scenario neo-medievale appare legata al
prodursi di un sistema con una pluralità di autorità politiche legit-
time che esclude la possibilità di definire una di esse l’autorità
suprema su di un dato territorio. Che cosa significhi ‘concretamente’
in termini di modalità di organizzazione del potere politico un
sistema di autorità legittime sovrapposte e di lealtà multiple Bull lo
chiarisce subito dopo con un esempio: “We might imagine, for
( ) H. B , The Anarchical Society, Palgrave, Basingstoke 1977, pp. 248-271.
3 ULL
) Ivi, p. 245-6 (corsivo mio).
( 4 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
’ 79
DIMITRI D ANDREA
example, that the government of the United Kingdom had to share
its authority on the one hand with authorities in Scotland, Wales,
Wessex and elsewhere, and on the other hand with European
authority in Brussels and world authority in New York and Geneva,
to such an extent that the notion of its supremacy over the territory
). La conclu-
and people of the United Kingdom had no force” ( 5
sione è che “if such a state of affairs prevailed all over the globe, this
is what we may call, for want of a better term, a neo-medieval
). L’insistere sopra un determinato territorio di una plura-
order” (
6
lità di autorità legittime magari differenziate funzionalmente ma
comunque tra loro non gerarchicamente ordinate configurerebbe
uno scenario neo-medievale. La legittimità del concetto di nuovo
medioevo si gioca per Bull sulla verosimiglianza di uno scenario
planetario caratterizzato da un sistema di autorità sovrapposte e di
lealtà multiple (obblighi nei confronti di autorità regionali e mon-
diali, ma anche nei confronti di autorità sub-nazionali) che mette in
discussione la capacità esplicativa del concetto di sovranità. La vera
posta in gioco è costituita, infatti, dalla nozione di sovranità: New
Medievalism indica la diffusione e la generalizzazione di forme
politiche post-sovrane, di tipi di potere politico legittimo ai quali la
categoria di sovranità non è più applicabile, perché non possiedono
più la titolarità esclusiva del comando e dell’obbligo politico.
Dopo aver per la prima volta definito in modo non puramente
metaforico il concetto, Bull si impegna anche a verificarne l’efficacia
descrittiva, a verificare, cioè, se i processi politici, le metamorfosi
delle forme politiche contemporanee legittimino o meno il ricorso a
questo concetto. Quali sono i fenomeni politici che possono fornire
argomenti alla tesi di una direzionalità neo-medievale nella politica
contemporanea? Quali sono le novità della politica contemporanea
che possono essere portate a sostegno di una trasformazione delle
forme politiche nel senso della diffusione di un sistema di autorità
)?
sovrapposte e segmentate (
7
Bull si sofferma su cinque fenomeni: l’integrazione regionale fra
gli Stati, la disintegrazione degli Stati-nazione in nuovi corpi politici
( ) Ivi, p. 246.
5 ) Ibidem.
( 6 ) Ivi, p. 254.
( 7 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
80 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
sub-nazionali, il risorgere della violenza privata internazionale, lo
sviluppo di organizzazioni transnazionali, l’unificazione tecnologica
). Nel primo e nel secondo caso vengono discussi come
del mondo (
8
fenomeni a sostegno dell’ipotesi neo-medievalista i processi —
aggregativi e scompositivi — di ridefinizione dei territori che già alla
fine degli anni Settanta investivano in particolare l’Europa: da un
lato l’integrazione europea (CEE), dall’altro le spinte disintegrative
che nella seconda metà degli anni Settanta investivano oltre alla
Jugoslavia anche diversi paesi occidentali — dal Canada alla Spagna,
dalla Gran Bretagna al Belgio. Ciò che emerge con forza e chiarezza
dal ragionamento di Bull è la divaricazione fra il destino dello
Stato-nazione e quello della sovranità. La crisi dello Stato-nazione —
indubitabile ed evidente — in entrambi i fenomeni di ridefinizione
dello spazio politico è cosa profondamente diversa dalla crisi della
sovranità. La sovranità è una modalità di organizzazione dello spazio
politico che prescinde dalle sue dimensioni, dalla sua ampiezza. La
crisi dello Stato-nazione è, invece, crisi di un determinato ambito,
della dimensione prevalentemente nazionale dei corpi politici. In
altri termini: è la crisi della nazione come dimensione dell’attore
politico adeguata al governo dei processi economici, politici e sociali
che condizionano il benessere dei cittadini. La crisi dello Stato-
nazione non implica nulla in merito alla sovranità perché la que-
stione delle dimensioni dello spazio non decide della sua forma,
della sua qualità. Ridimensionamento o integrazione dei corpi poli-
tici possono avvenire senza intaccare minimamente la loro qualità:
dalla scomposizione dei territori possono nascere soggetti politici
sovrani a carattere sub-nazionale, cosı̀ come processi integrativi
possono portare a soggetti sovrani di dimensioni sovranazionali.
La possibilità che i processi di ridefinizione spaziale degli attori
politici vengano chiamati a sostegno di un’ipotesi neo-medievalista è
legata perciò non al mutare delle loro dimensioni, ma al fatto che da
tale ridefinizione spaziale emergano soggettività politiche ibride,
( ) Per una accurata ricostruzione della argomentazione di B , cfr. A. G ,
8 ULL AMBLE
(ed.), European
Regional Blocs, World Order and the New Medievalism, in M. T v
ELO , The
Union and New Regionalism, Ashgate, Aldershot 2001, pp. 30-1 e J. F RIEDRICHS
Meaning of New Medievalism, in “European Journal of International Relations”, n. 4,
VII (2001), pp. 483-6.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
’ 81
DIMITRI D ANDREA
incompiute, incompletamente sovrane: “As in the case of the inte-
gration of states, the disintegration of states would be theoretically
important only if it were to remain transfixed in an intermediate
state. If these new units were to advance far enough towards
sovereign statehood both in terms of accepted doctrine and in terms
of their command of force and human loyalties, to cast doubt upon
the sovereignty of existing states, and yet at the same time were to
stop short of claiming that same sovereignty for themselves, the
situation might arise in which the institution of sovereignty itself
). I processi integrativi e disintegrativi che
might go into decline” ( 9
investono molti paesi occidentali testimoniano la crisi della dimen-
sione nazionale dello Stato, ma non dicono di per sé ancora nulla sul
destino della sovranità. La crisi della dimensione nazionale degli
Stati potrebbe infatti approdare ad una riproposizione della sovra-
nità come modus essendi di corpi politici le cui dimensioni possono
essere sia più ridotte, sia più ampie di quelle delle nazioni moderne.
Fin dal suo esordio la legittimità della metafora neo-medievalista
rimanda alla crisi della sovranità nella sua differenza specifica dal-
l’inadeguatezza dello spazio politico della statualità nazionale. La
plausibilità di uno scenario neo-medievalista è legata per Bull al
fissarsi delle nuove entità politiche che si profilano all’orizzonte nello
spazio di una condizione ibrida irriducibile alla sovranità.
Che tale condizione ibrida sia il risultato dei processi scompo-
sitivi che investono anche alcuni Stati della vecchia Europa è per
Bull possibile, ma poco probabile. Molto più probabile è che
un’entità politica di tal genere costituisca l’approdo di un’esperienza
integrativa come quella europea. Il paradigma neo-medievale scom-
mette sulla permanenza del processo di integrazione europea in uno
stadio intermedio fra lo Stato-nazione e una Europa super-Stato, gli
Stati uniti d’Europa che sarebbero soltanto uno Stato “writ lar-
ge” ( ). La tesi del New Medievalism trova un sostegno nell’espe-
10
rienza dell’integrazione europea soltanto se ipotizziamo che la na-
tura ibrida dell’entità alla quale ha dato luogo non costituisce la
forma preliminare di un’entità che riproporrà alla fine del processo
i tratti di uno Stato anche se non più di carattere nazionale. Esiste,
( ) H. B , The Anarchical Society, cit., p. 257.
9 ULL
) Ivi, p. 256.
( 10 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
82 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
quindi, fin dal suo esordio propriamente concettuale un legame
privilegiato fra integrazione europea (l’allora CEE) e la possibilità di
).
diagnosi neo-medievalista (
11
) dell’integrazione europea è, tuttavia, un
La natura ibrida ( 12
argomento a sostegno del paradigma neo-medievale soltanto se si
scommette sul suo carattere esemplare e anticipatore. Il nuovo
medioevo è, infatti, per Bull la metafora di un superamento gene-
ralizzato della fisionomia vestfaliana dei corpi politici e delle loro
relazioni su scala mondiale. In questa prospettiva l’Europa politica
può essere un argomento soltanto se non viene letta e interpretata
come fenomeno legato a condizioni storiche, politiche e culturali
uniche, tipiche ed esclusive dell’Europa. Solo se si riesce ad argo-
mentare il carattere esemplare e anticipatorio dell’Europa politica
rispetto a processi di metamorfosi delle forme politiche contempo-
ranee, l’integrazione in atto in Europa può essere utilizzata come
argomento di un nuovo medioevo, di una fisionomia delle relazioni
internazionali che testimonia il superamento della territorialità
esclusiva degli Stati sovrani.
2. Un mondo neo-medievale?
Il terzo trend che Bull discute come argomento di un paradigma
neo-medievale è l’erosione, l’incrinatura del monopolio statale della
forza fisica legittima. Il fenomeno empirico a cui Bull fa specifica-
mente riferimento non è costituito dall’esistenza di un’organizza-
zione internazionale che rivendica il diritto all’esercizio della forza
su scala internazionale (ONU), ma dal proliferare di attori non
statali e spesso neppure pubblici che non soltanto ricorrono alla
violenza — nei confronti sia del loro avversario diretto (il governo
del loro paese, quello di un paese straniero ‘occupante’, ecc.), sia di
paesi o soggetti terzi —, ma che possono anche contare sul ricono-
scimento della legittimità della loro violenza da parte di una por-
( ) Sul carattere fortemente in anticipo sui tempi di questa osservazione di B
11 ULL
cfr. A. G , Regional Blocs, World Order and the New Medievalism, cit., p. 30.
AMBLE
) Bull è stato tra i primi ad impiegare questo aggettivo (hybrid) per indicare la
(
12 , The Anarchical Society, cit., pp.
natura sui generis dell’Europa politica. Cfr. H. B ULL
256-7. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
’ 83
DIMITRI D ANDREA
zione significativa della società internazionale. Il riferimento empi-
rico è ai numerosi gruppi rivoluzionari e terroristici (interni e
internazionali: dai Palestinesi ai Tupamaros) che nella seconda metà
degli anni Settanta operavano un po’ in tutti i continenti e al
riconoscimento di cui godevano da parte di molti paesi del blocco
sovietico e del terzo mondo.
Si tratta di fenomeni tutt’altro che nuovi o senza precedenti. La
vera novità di queste forme, solo in parte inedite, di lotta politica e
di uso della forza sul piano interno e internazionale sta, tuttavia,
nella loro scala ormai globale e nel riconoscimento di cui questi
gruppi godono da parte di una larga fetta della società internazio-
nale. Ciò che impedisce di trasformare questa novità in un argo-
mento a sostegno della tesi neo-medievalista, in una prova del
tendenziale superamento della sovranità statuale, e segnatamente del
monopolio della forza fisica legittima che la definisce, è la constata-
zione del fatto che, come nel caso delle integrazioni e delle scom-
posizioni territoriali, l’obiettivo di questi gruppi è, in realtà, proprio
l’edificazione di uno Stato territoriale sovrano nel senso più tradi-
zionalmente moderno del termine. Si tratta, cioè, di forme nuove di
lotta per un potere che queste forze tendono a concepire e edificare,
laddove hanno successo, in modo sostanzialmente conforme ai
dettami della modernità politica.
Il quarto fenomeno che Bull prende in considerazione come
argomento per l’ipotesi neo-medievale è quello del vertiginoso in-
cremento delle organizzazioni transnazionali, delle forme molteplici
e variegate di attori politici economici e sociali che agiscono perfo-
rando i confini politici degli attori statuali: dalle aziende multinazio-
nali alle organizzazioni internazionali non governative, dalla Chiesa
Cattolica Romana alla Banca mondiale. Malgrado la pluralità dei tipi
di attori transanazionali presi in esame, l’attenzione di Bull si
concentra sulle imprese multinazionali e sul loro ruolo nell’econo-
mia mondiale. Le obiezioni di Bull alla significatività delle multina-
zionali per una ipotesi neo-medievalista si organizzano sostanzial-
mente intorno a due argomenti: il carattere tutt’altro che inedito del
fenomeno di imprese che oltrepassano i confini degli Stati, e che ne
condizionano la politica (l’esempio è quello della Compagnia delle
Indie Orientali); e la perdurante capacità dello Stato di mettere sotto
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
84 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
controllo l’attività delle multinazionali imponendo restrizioni, vin-
coli e condizioni al loro operare.
L’ultimo processo preso in considerazione da Bull come argo-
mento per un’imminente epoca neo-medievale è costituito dall’uni-
ficazione tecnologica del mondo, dalla nascita del villaggio globale,
dalla compressione dello spazio e dalla crescita esponenziale dell’in-
terazione e dell’interdipendenza su scala planetaria. A questo argo-
mento Bull replica con quello che diverrà un topos nella letteratura
sulla globalizzazione: la semplice interdipendenza e la compressione
spazio-temporale non implicano l’unificazione politica del globo e
non contraddicono la perdurante attualità dei confini e la suddivi-
sione del mondo in unità territoriali discrete.
La conclusione del ragionamento di Bull è all’insegna di un
cauto scetticismo: “A time may come when the anomalies and
irregularities are so glaring that an alternative theory, better able to
take account of these realities, will come to dominate the field. If
some of the trends towards a ‘New Medievalism’ that have been
reviewed here were to go much further, such a situation might come
about, but it would be going beyond the evidence to conclude that
‘groups other than state’ have made such inroads on the sovereignty
of states that the states system is now giving way to this alternati-
). Due sono i punti significativi: la questione della sovranità
ve” (
13
come elemento decisivo per la verifica dell’ipotesi neo-medievale e il
carattere ancora limitato e iniziale dei processi che indicano un
superamento della sovranità. La legittimità del New Medievalism è
legata al declino, al superamento della categoria che definisce la
modernità politica: la sovranità. In tanto si può parlare di nuovo
medioevo, in quanto si prende atto della inadeguatezza descrittiva
della sovranità di fronte ad una serie di trasformazioni della politica
contemporanea. La risposta di Bull pone una questione di ampiezza
e di profondità dei processi: esistono processi che indicano una
direzione neo-medievale, ma l’entità di tali processi non autorizza a
( ) H. B , The Anarchical Society, cit., p. 275. Poco sotto si legge: “We have
13 ULL
recognised, after all, that there are certain trends — particularly in relation to the
possible emergence of a ‘new medieval’ form of universal order — which do make
against the survival of the state system, and which, if they went a great deal further, might
threaten its survival”.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
’ 85
DIMITRI D ANDREA
diagnosticare la fine del sistema degli Stati sovrani. Per giungere a
questa conclusione occorrerebbe che i processi in atto si rafforzas-
sero e si diffondessero ulteriormente, che acquisissero un’ampiezza
e una profondità che ancora non possiedono, ma che è possibile —
anche se tutt’altro che certo — che assumano in un non lontano
futuro. In altri termini: la diagnosi neo-medievale è prematura anche
se non mancano gli indizi di una trasformazione del sistema politico
mondiale in tale direzione.
Fin qui l’analisi bulliana della efficacia descrittiva della categoria
New Medievalism. Ma l’ipotesi neo-medievale suscita in Bull, ac-
canto ad un pacato scetticismo analitico, riserve anche più profonde
in merito alla sua desiderabilità. Si tratta di un punto decisivo anche
per la discussione odierna sul neo-medievalismo: è tutt’altro che
scontato che il superamento della sovranità come principio organiz-
zatore del sistema degli Stati coincida con un incremento della pace
). Il medioevo della cristianità fu un epoca di
e della sicurezza ( 14
conflittualità endemica e non esistono garanzie che una sua ‘ripro-
posizione’ sfugga a quella che fu una delle sue caratteristiche salienti.
Sebbene non inevitabile, esiste il rischio tutt’altro che residuale che
il superamento della sovranità come principio cardine del sistema
degli Stati si associ al ritorno di un sistema di lealtà multiple che
renda nuovamente endemico il conflitto violento.
L’ipotesi neo-medievale si definisce con Bull come un para-
digma interpretativo della politica mondiale che allude al tramonto
della sovranità. La grande ampiezza semantica del New Medievalism
nel dibattito scientifico degli ultimi venticinque anni è legata, dun-
que, non tanto al carattere metaforico e allusivo del concetto, quanto
a due radici di ambiguità che hanno accompagnato la fortuna di
questa metafora. Da una parte, la difficoltà di una definizione chiara
e condivisa della categoria di sovranità. Lo stesso Bull, pur defi-
nendo un possibile assetto neo-medievale a partire dall’elemento —
( ) “The case for doubting whether the neo-medieval model is superior is that
14
there is no assurance that it would prove more orderly than the states system, rather than
less. It is conceivable that a universal society of this kind might be constructed that
would provide a firm basis for the realisation of elementary goals of social life. But if it
were anything like the precedent of Western Christendom, it would contain more
ubiquitous and continuous violence and insecurity than does the modern states system”
, The Anarchical Society, cit., p. 246). Cfr. anche ivi, p. 275.
(H. B
ULL © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
a mio avviso decisivo — della dispersione delle funzioni del potere
sovrano su una pluralità di territorialità non coincidenti, adduce
nondimeno come argomenti a sostegno di questa ipotesi fenomeni
che poco hanno a che fare con il prodursi di questo scenario,
indicando semmai una crisi della sovranità declinata in direzione
non della dispersione dell’autorità legittima, ma della perdita di
autonomia e di effettività. Dall’altra, l’intreccio e la sovrapposizione
fra la metafora del nuovo medioevo e quella dell’impero. L’impero,
il Sacro romano impero è, come abbiamo visto, un elemento costi-
tutivo e definitorio della metafora neo-medievale fin dalle origini, ma
a partire soprattutto dall’89 e dal crollo del sistema bipolare ha finito
per assumere una valenza profondamente ambigua, essendo sempre
più spesso evocato per indicare proprio ciò che la metafora neo-
medievale tendeva ad escludere: l’esistenza di un centro, di una
gerarchia anche se dai contorni non sempre giuridicizzati. Questa
doppia ambiguità ha consentito la presenza del concetto di New
Medievalism, con significati diversi e spesso non coincidenti, sia
nell’ambito della riflessione sull’assetto delle relazioni internazionali
nel mondo post-bipolare, sia nell’ambito della riflessione sulla na-
tura dell’Unione europea come principale esperienza di integrazione
regionale.
Tentare di mettere ordine in questo dibattito impone, in primo
luogo, di affrontare una riflessione sulla categoria di sovranità e di
valutarne le trasformazioni storiche. Su questa base si tratterà, in un
secondo momento, di distinguere la fine della sovranità come con-
tenuto concettuale della metafora neo-medievale da contenuti con-
cettuali diversi connessi, invece, a quella di impero per poi valutare
quali siano i fenomeni politici del mondo contemporaneo ai quali la
metafora neo-medievale possa applicarsi. La mia tesi è che il New
Medievalism — in quanto metafora di un mondo post-sovrano —
possa essere impiegato in modo pertinente, anche se non piena-
mente adeguato, soltanto in relazione agli assetti politici dell’Ue.
Partendo da una definizione il più possibile univoca della crisi della
sovranità, si tratterà poi di ‘liberare’ il ricorso analitico-descrittivo al
New Medievalism da implicazioni e significati che non sono concet-
tualmente inseparabili dalla metafora, ma che il dibattito ha finito
per associare strettamente ad essa.
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DIMITRI D ANDREA
3. La sovranità protomoderna.
Una delle principali difficoltà per una definizione del concetto
di sovranità è legata alla pluralità delle versioni che ne sono state
fornite e alle profonde trasformazioni che questa nozione ha subito
nel corso della modernità. La mia strategia argomentativa sarà quella
di caratterizzare, in prima istanza, il concetto protomoderno di
sovranità e, dopo averne tracciato sommariamente le metamorfosi,
isolarne le invarianze, e valutare se le forme di organizzazione del
potere politico — nel mondo generalmente inteso o in alcune parti
con caratteristiche peculiari — ne impongano il superamento e
l’abbandono.
La sovranità è, innanzitutto, una categoria con cui si intende
significare non semplicemente la titolarità di un potere di decisione
legittimo, ma una determinata forma di organizzazione del potere
politico e una prevalente — e idealtipica — modalità di esercizio
(modus operandi). Partendo da questa distinzione, e assumendo
come paradigmatica della versione protomoderna della sovranità
l’immagine elaboratane da Thomas Hobbes, ritengo sia possibile
descrivere la specificità della forma sovrana di organizzazione del
potere politico specificando cinque diverse accezioni in cui essa può
dirsi assoluta.
La sovranità è assoluta, in primo luogo, nel senso della mono-
polizzazione della forza fisica legittima all’interno di un determinato
territorio. Questo implica lo scioglimento di qualsiasi condivisione
della legittimità di ricorrere all’uso della forza con altri poteri sia
interni, sia esterni ai confini dello spazio politico. Sovrano è quel
potere politico che all’interno di un determinato territorio non
spartisce con nessuna altra autorità — né interna, né esterna ai
confini dello Stato — la possibilità di ricorrere legittimamente
all’uso della forza a garanzia degli ordinamenti. La sovranità realizza
un prosciugamento assoluto delle fonti della legittimità: il suo
carattere superiorem non recognoscens ne garantisce l’indipendenza
di diritto rispetto ad altri poteri politici esterni, mentre il suo
carattere di summa potestas indica l’assenza di poteri che all’interno
del territorio detengano autonomamente un potere legittimo di
decisione politica. La sovranità è la detenzione in forma esclusiva
della capacità legittima di ricorrere al mezzo che rende politica una
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
autorità: la forza. Un potere è sovrano quando è la fonte esclusiva
del comando politico, quando nessuno all’interno o all’esterno di un
dato territorio può rivendicare legittimamente il diritto di coman-
dare (politicamente) o di determinare (politicamente) la validità di
un ordinamento. Sovrano è, dunque, chi non deve coesistere nel-
l’esercizio del potere politico con nessun’altra autorità che sia
legittimamente autonoma o indipendente.
La sovranità moderna segna, dunque, il debutto della territo-
rialità esclusiva. Quello che distingue la sovranità da altre forme di
organizzazione del potere politico non è l’adozione dello spazio
come forma della validità degli ordinamenti, ma la sua torsione in
direzione dell’esclusività del suo riempimento politico, del carattere
). La proiezione spaziale
monopolistico della legittimità politica ( 15
della validità degli ordinamenti costituisce, infatti, la forma generale
astratta dell’esistenza autonoma e ordinata di un corpo politico, la
conditio sine qua non della sua esistenza: una sorta di requisito
ontologico minimo. I gruppi politici possedevano anche nel mondo
feudale una delimitazione di tipo spaziale, ma su di uno stesso
territorio insistevano una pluralità di soggetti politici differenziati per
contenuti e per funzioni: un solo gruppo per una sola funzione;
molteplici gruppi per molteplici funzioni. Il tratto caratteristico della
spazialità premoderna non è l’assenza del principio di territorialità,
ma la coesistenza di una pluralità di autorità e di poteri politici.
Viceversa, ciò che definisce lo Stato come forma moderna della
comunità politica è l’avere prosciugato la società dalla pluralità delle
autorità che potevano esercitare “con diritto” la coercizione fisica.
Lo spazio politico della sovranità è lo spazio omogeneo di un
controllo politico che non ammette smagliature o eccezioni.
Nella sua fisionomia originaria la sovranità è, in secondo luogo,
una forma di organizzazione del potere politico assolutamente mo-
( ) Su questo aspetto particolarmente interessante è il saggio di J.G. R ,
15 UGGIE
Territoriality and beyond: Problematizing Modernity in International Relations, in “In-
ternational Organization”, n. 1, XLVII (1993), in particolare pp. 148-9 anche se non mi
sembra condivisibile la tesi dell’esistenza di comunità politiche a carattere non territo-
riale. Ancora più discutibile l’affermazione di Kobrin circa la non territorialità dei modi
, Neomedievalism and the Postmo-
di organizzazione politica premoderni: cfr. S.J. K
OBRIN
A , H J A. (eds.), Globalization
dern Digital World Economy, in P RAKASH SEEM ART EFFREY
and Governance, Routledge, London 1999, p. 167.
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DIMITRI D ANDREA
nolitica. Nella versione protomoderna sovranità e divisione dei
poteri sono termini inconciliabili e antitetici. L’esclusività si declina,
dunque, non soltanto spazialmente, ma anche funzionalmente: un
solo potere politico — una sola autorità legittimata a ricorrere alla
forza — significa non soltanto saturazione dello spazio, ma anche
assoluta indivisibilità, compattezza e coesione delle funzioni. La
totalità delle funzioni sovrane è concentrata in un unico detentore:
l’unicità del potere politico all’interno di un dato territorio implica
l’impossibilità di una suddivisione delle funzioni politiche essenziali
alla creazione e alla conservazione dell’ordine fra una pluralità di
soggetti.
Se la sovranità delle origini esclude la condivisione del potere
politico con altre autorità, questo riguarda non soltanto la coesi-
stenza con poteri concorrenti (interni o esterni al territorio), o la
suddivisione delle funzioni politiche fondamentali fra differenti
autorità centrali, ma anche la frammentazione dei poteri sovrani su
base territoriale. Divisione dei poteri e federalismo sono ugualmente
estranei alla sovranità protomoderna. Lo scandalo dei corpi inter-
medi riguarda anche i corpi intermedi a carattere territoriale, vale a
dire qualunque forma, per quanto attenuata, di federalismo o di
decentramento dei poteri. L’attribuzione di alcuni poteri politici ad
entità territoriali diverse da quella sovrana è decisamente esclusa in
una dottrina della sovranità come quella hobbesiana ossessionata
dall’equazione fra pluralità e fragilità.
L’assolutezza della sovranità si declina, in quarto luogo, nel suo
essere legibus soluta. Le norme da cui si definisce legittimamente
indipendente non sono soltanto quelle poste da autorità altre in
senso estremamente lato, ma anche quelle eventualmente poste in
passato dal titolare della sovranità. L’assenza di vincoli legittimi
all’esercizio del potere si estende anche ai vincoli costituiti dalle
decisioni pregresse di chi detiene la sovranità. La sovranità non è
obbligata alla fedeltà a se stessa, il sovrano non può essere obbligato
neppure a se stesso. L’incondizionatezza e l’indipendenza radicale
della prima sovranità si traducono nella libertà anche rispetto alle
norme precedentemente poste dal medesimo sovrano.
Questa assenza di vincoli legittimi — siano essi dovuti alla
dipendenza da autorità politiche esterne, alla compresenza di altre
autorità legittime all’interno (corpi intermedi eventualmente anche
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
a carattere territoriale), o alla suddivisione funzionale della sovra-
nità (divisione dei poteri) — si completa, infine, nella mancanza di
qualsiasi forma di controllo o di legittimo condizionamento da
parte di coloro che al sovrano si sono sottomessi con il patto
istitutivo. Il titolare della sovranità è escluso dal patto, non è parte
contraente, e la sua autorizzazione da parte degli individui non
configura nessuna limitazione politica legittima del suo operato. Il
singolo suddito può legittimamente opporsi ad un’eventuale puni-
zione, ma la legittimità di questa resistenza si scontra con il diritto
del sovrano di punirlo e soprattutto con l’obbligazione degli altri
sudditi all’obbedienza. Il paradigma contrattualista si declina cosı̀
nell’assoluta mancanza di qualsiasi potere legittimo dei sudditi nei
confronti del sovrano.
Oltre a questa forma del potere politico (forma essenzialmente
giuridicizzata e comunque relativa all’articolazione del potere poli-
tico legittimo), la nozione di sovranità indica, tuttavia, anche un
modus operandi, una modalità prevalente — o idealtipicamente
ricostruita — del funzionamento del potere politico nella forma
della sovranità. In altri termini, mentre la sovranità come forma di
organizzazione del potere politico individua la forma dell’indipen-
denza legittima, il modus operandi si riferisce al modo in cui ideal-
tipicamente tale indipendenza dovrebbe manifestarsi nella condotta
del potere sovrano sia all’interno che all’esterno del proprio territo-
rio. Non si tratta qui del modo in cui un determinato potere è
legittimato a comportarsi, ma del modo in cui effettivamente si
comporta, o si comporta di norma o dovrebbe comportarsi coeren-
temente con l’asserita-riconosciuta indipendenza del proprio ordi-
namento ( ).
16
L’idea dell’assenza di una subordinazione legittima ad un altro
potere politico si è intrecciata fin dall’inizio della storia concettuale
della sovranità con l’indicazione del modo di agire che sarebbe
( ) Per questa distinzione cfr. tra gli altri R.O. K , Hobbes’s Dilemma and
16 EOHANE -
Institutional Change in World Politics: Sovereignty in International Society, in H ANS
H , G S (eds.), Whose World Order? Uneven Globalization and
H ENRIK OLM EORG ØRENSEN
the End of the Cold War, Westview Press, Boulder 1995, in particolare pp. 175-7, ma
, Democracy, the Nation State, and the Global System, in “Economy and
anche D. H
ELD , Introduction:
Society”, n. 2, XXIX (1991), in particolare pp. 150-1, e R. J
ACKSON
Sovereignty at the Millennium, in “Political Studies”, n. 2, XLVII (1999), p. 424.
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’ 91
DIMITRI D ANDREA
proprio o tipico di un potere politico sovrano: l’autonomia e l’ugua-
glianza nei rapporti con gli altri attori politici sullo scenario inter-
nazionale, e la completezza del controllo, la capacità effettiva di
governo politico verso l’interno, nei confronti della totalità dei
fenomeni sociali che avevano luogo in un determinato territorio. La
titolarità di un potere assoluto all’interno e indipendente all’esterno
si è cioè declinata fin dall’inizio nella teorizzazione di una condotta
che si presentava come la proiezione fattuale adeguata di una
nozione relativa alla legittimità.
Lo Stato moderno in senso pieno intreccia la propria indipen-
denza giuridica con la propria capacità di stare in modo autonomo
sulla scena internazionale. La capacità di decidere autonomamente
in ambito internazionale viene vista come il correlato normativo
della indipendenza giuridica. È Stato in senso forte soltanto quel-
l’entità politica che dalla propria forma di organizzazione politica, fa
discendere un modo di stare in mezzo agli altri stati coerente con la
sua indipendenza giuridica.
Ma oltre che dall’autonomia in ambito internazionale, il modo
di agire dello Stato sovrano della prima modernità è caratterizzato
anche dalla tendenziale completezza del controllo politico. Per
produrre ordine il comando del sovrano non deve avere smagliature,
non deve conoscere zone d’ombra o di dubbia efficacia. La sovranità
delle origini interpreta il proprio ruolo in termini di esercizio di un
controllo pervasivo che raggiunge anche le forme del culto e la
professione di fede — appunto secondo la logica cuius regio eius
religio.
Presupposto della pervasività di questo controllo è non soltanto
la capacità della politica di controllare l’insieme dei fenomeni sociali,
ma anche la convinzione della sua autonomia. Le decisioni del
sovrano sono indifferenti a qualsiasi logica che non sia quella
politica, e non possono incontrare in linea di principio — in caso di
un perfetto funzionamento del meccanismo statuale — nessuna
resistenza efficace né da parte dei cittadini, né da parte di altri
soggetti sociali. La volontà politica del sovrano si trasmette in modo
lineare e diretto all’intera società informando di sé la condotta dei
cittadini. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
92 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
4. Sovranità: evoluzione e persistenza. ) e di
La storia della sovranità è storia di un debutto assoluto ( 17
un lento e graduale addomesticamento e imbrigliamento nel progre-
dire della modernità. Nata come categoria portante di una modalità
essenzialmente politica di produzione dell’ordine, la sovranità deriva
la propria assolutezza da una concezione antropologica che esaspera
il carattere polemogeno dell’individuo moderno. La sovranità deve
essere assoluta perché gli individui sono recalcitranti all’ordine,
perché comportamenti pacifici sono in contrasto con la propensione
degli individui a sfruttare tutte le smagliature del comando politico
come occasioni per attivare comportamenti conflittuali e violenti.
L’ossessione hobbesiana per il carattere assoluto e monolitico della
sovranità è legata alla sua visione del carattere contro-natura dell’or-
dine.
A fronte di questo debutto, la parabola evolutiva della sovranità
è scandita da un processo di de-assolutizzazione che procede lungo
quattro linee guida: giuridicizzazione, divisione dei poteri, articola-
). A questa tra-
zione spaziale (federalismo), democratizzazione (
18
sformazione del concetto, della natura della sovranità e delle sue
caratteristiche definitorie corrisponde una altrettanto radicale tra-
sformazione della sua modalità di esercizio.
La storia della sovranità è, in primo luogo, storia del suo inca-
tenamento giuridico, del suo venir ricondotta alla legge come sua
misura e limite allo scopo di limitarne il carattere arbitrario. La ri-
mozione della sua natura legibus soluta non consiste soltanto nella
limitazione della discrezionalità assoluta di un potere che non è sot-
toposto neppure al vincolo di una decisione pregressa, ma si muove
anche in direzione della traduzione giuspositiva dell’idea — che si
afferma con Locke — che i diritti naturali costituiscono il fine e per
ciò stesso anche il limite del potere politico. Il percorso della sovranità
moderna è, infatti, anche quello della sua limitazione propriamente
( ) Su questo aspetto cfr. B. G , L’ambigua potenza dell’Europa, Guida,
17 DE IOVANNI
, Dopo il Leviatano. Individuo e comunità, Giappi-
Napoli 2002, p. 39 e G. M ARRAMAO
chelli, Torino 2000, pp. 300-1.
) Per una ricostruzione del percorso della sovranità nei termini di un inizio
( 18 , La sinistra sociale. Oltre la civiltà
assoluto e di una successiva mitigazione cfr. M. R
EVELLI
del lavoro, Bollati Boringhieri, Torino 1997, pp. 103-4.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
’ 93
DIMITRI D ANDREA
liberale in virtù dell’individuazione di un nucleo di libertà negative che
rappresentano qualcosa di indisponibile per la decisione sovrana.
De-assolutizzazione della sovranità significa, in secondo luogo,
una divisione dei poteri che la definiscono fra una pluralità di
attori-titolari almeno parzialmente autonomi. In linea con l’incate-
namento giuridico si fa strada anche una articolazione della sovra-
nità che delimita le diverse competenze, le separa e rende possibili
forme di controllo reciproco fra detentori di funzioni essenziali per
l’ordine politico. È l’idea che oltre alla limitazione strettamente
giuridica sia praticabile — e auspicabile — una limitazione legata
alla pluralità degli attori e al loro bilanciamento reciproco.
Forma particolare di questa scomposizione della sovranità è la
sua distribuzione territoriale, ovvero il suo articolarsi nel variegato
insieme di assetti federali. La linea della scomposizione, del bilan-
ciamento e del reciproco controllo trova qui una mediazione di tipo
territoriale. La dinamica fra potere federale e poteri locali raddoppia
l’effetto di bilanciamento fra i poteri realizzato dalla loro divisione in
poteri almeno parzialmente autonomi, inserendo una diversifica-
zione, una discontinuità territoriale all’interno dello spazio sovrano.
Funzioni tipiche del potere politico sono cosı̀ divise non soltanto fra
attori diversi, ma anche fra entità territoriali diverse.
Di questo itinerario moderno di de-assolutizzazione della sovra-
nità fa parte, infine, anche la sua riappropriazione democratica, la
riconduzione del potere sovrano sotto il controllo dei cittadini. Si
tratta di un processo più ambiguo dei precedenti che illustra effica-
cemente il rapporto concettualmente problematico fra liberalismo e
democrazia. In questo caso, infatti, la rimozione della separatezza e
dell’assoluta indipendenza della sovranità politica protomoderna non
intrattiene un rapporto necessario con la sua mitigazione liberale. I
processi di democratizzazione hanno operato una ridefinizione del
carattere intangibile della sovranità, della sua estraneità-indifferenza
alla volontà dei cittadini, ma non rendono concettualmente inevitabile
il riproporsi assoluto della sovranità nella sua forma popolare.
La modernità ha, inoltre, operato una ridefinizione sempre più
profonda della concreta modalità di esercizio della sovranità, in
primis della sua pretesa di completezza ed esaustività. Concepita
originariamente come strumento di un ordine non-naturale, se non
addirittura contro-natura, la sovranità si caratterizzava per l’estrema
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
94 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
ampiezza della sua funzione regolativa, un’ampiezza che tendeva a
coincidere con ogni forma di agire sociale. La tendenza della mo-
dernità è viceversa quella alla riduzione della estensione della sovra-
nità: la politica moderna tende a liberare settori sempre più ampi di
agire sociale dai vincoli normativi imposti dalla sovranità. La sovra-
nità e la politica si riducono e si concentrano nei punti decisivi per
la produzione e la riproduzione dell’ordine, lasciando spazi sempre
più ampi alla libertà di agire dei cittadini. È la storia della tolleranza
e della privatizzazione di questioni un tempo pubbliche. L’uso della
sovranità politica tende a mutare in direzione della crescente limi-
tazione dei settori su cui interviene la decisione politica che rende
cosı̀ disponibili per la discrezionalità privata ambiti di agire sociale
prima ritenuti di rilevanza pubblica.
La seconda trasformazione del modo concreto di esercizio della
sovranità avviene in direzione della crescente limitazione della sua
autonomia a partire dallo sviluppo di una rete sempre più fitta di
interdipendenze. Anche se il modello di Stati pressappoco uguali e
autonomi è sempre stato più un modello teorico che una realtà
pratica, e anche se la storia della politica internazionale della mo-
dernità occidentale è stata piuttosto storia di rapporti tra diseguali
che intrecciavano indipendenza giuridica e condizionamento di fatto
delle scelte dei deboli da parte dei più forti, il fenomeno nuovo che
è venuto via via emergendo è quello di una crescente interdipen-
denza generalizzata che toglie sempre più spazio ad una capacità di
decisione autonoma che abbia anche i requisiti dell’efficacia.
Infine, sempre più incerto diventa il carattere politico della so-
vranità, sia nel senso della presenza crescente di apparati burocratici
che limitano di fatto la capacità politica di governo dei fenomeni sociali
— la burocrazia di Max Weber —, ma anche nel senso di una perdita
di centralità del sottosistema politico (Luhmann) e di una sua subor-
dinazione di fatto alle logiche di altri sottosistemi, in particolare alla
logica dell’economia. Qui la metamorfosi, prima, e la crisi, poi, della
sovranità si radicano negli effetti di lungo periodo delle trasformazioni
antropologiche che segnano la tarda modernità, e su cui non possiamo
).
soffermarci in questa sede (
19
( ) Sul rapporto fra sovranità e costituzione antropologica dell’individuo mo-
19 , Prigionieri della modernità. Individuo e politica nell’epoca della
derno cfr. D. D’A NDREA
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
’ 95
DIMITRI D ANDREA
Malgrado la profondità delle trasformazioni della sovranità sia
dal punto di vista concettuale, sia da quello del suo modo di operare,
il pensiero politico moderno è stato almeno fino alla metà del secolo
scorso un pensiero della sovranità. Per rendere ragione di questa
centralità occorre brevemente discutere due questioni: la prima
riguarda il ruolo della modalità di esercizio nella definizione della
sovranità; la seconda i caratteri persistenti che al di là delle meta-
morfosi persistono nel concetto di sovranità.
La sovranità, in quanto forma specifica di organizzazione del
potere politico, si definisce a prescindere dal modo in cui il potere
politico viene esercitato perché la sua semantica si dispone sul piano
della validità e non su quello dell’effettività: individua cioè la forma
di organizzazione legittima — declinata essenzialmente in modo
giuridico — dell’esercizio della forza all’interno di un determinato
territorio. Sovraccaricare il concetto di sovranità del riferimento alla
modalità effettiva con cui il potere politico viene esercitato all’in-
terno o all’esterno significa non soltanto introdurre il riferimento ad
elementi difficilmente valutabili — e ad una soglia di autonomia
difficilmente individuabile —, ma anche sminuire il significato della
distinzione fondamentale fra autonomia fattuale e indipendenza
legittima, o, se si preferisce, fra potenza e potere, fra rapporti di
influenza e condizionamento più o meno reciproco e rapporti di
obbligazione legittima. Pretendere che nella definizione di sovranità
entri a pieno titolo il riferimento al modo in cui il potere sovrano
viene esercitato sarebbe come pretendere il libero arbitrio per
riconoscere la nostra titolarità a decidere ciò che è bene o meglio per
noi. L’altra questione è, invece, quella a mio avviso decisiva. Esiste
nella nozione di sovranità un nucleo concettuale costante e persi-
stente nonostante tutte le trasformazioni che questo concetto ha
subı̀to? La mia risposta è senz’altro positiva, e gli elementi che
giustificano la persistenza di questo concetto nella modernità — ma
anche, come vedremo, la sua difficile riproponibilità in alcuni con-
testi — è legata a tre aspetti.
Il primo è costituito dalla antitesi fra la spazialità sovrana e una
globalizzazione, in D. D’A , E. P , (a cura di), Filosofie della globalizzazione,
NDREA ULCINI
ETS, Pisa 2001, pp. 41-9.
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96 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
spazialità politica a geometria variabile. Per quanto articolato anche
spazialmente, il potere sovrano mantiene sempre una rigida demar-
cazione interno-esterno: il confine esterno dello Stato rappresenta il
margine all’interno del quale si dispongono tutte le funzioni sovrane.
Le funzioni cardine del governo politico insistono su un territorio
che può essere articolato soltanto all’interno, ma che in nessun modo
accomuna lo Stato ad altri soggetti politici o che vede parti del
territorio sottratte all’esercizio di alcune funzioni. Anche nella sua
versione federale la sovranità dello Stato è articolata al massimo su
due livelli, e quello interno è rigorosamente distinto dall’esterno nel
senso che non è sottoposto ad alcuna istanza legittima situata al di là
del confine federale che è identico per tutte le competenze non
attribuite ai poteri locali.
Il secondo elemento costante nella teoria della sovranità è
costituito dal carattere chiaramente gerarchizzato dei poteri titolari
delle funzioni politiche fondamentali. All’unicità-rigidità del confine
interno-esterno corrisponde il carattere gerarchizzato delle funzioni
politiche sovrane. La dislocazione delle diverse funzioni del potere
politico all’interno del confine dello Stato si traduce in un sistema
ordinato e gerarchizzato in cui è sempre formalmente riconoscibile
il titolare della sovranità.
Il terzo elemento persistente della sovranità è costituito dalla
coincidenza fra chi detiene la capacità di decidere politicamente in
modo legittimo e chi detiene in modo monopolistico la capacità di
ricorrere legittimamente alla violenza. Lo Stato sovrano è l’entità
politica che detiene in modo monopolistico la possibilità di ricorrere
in modo legittimo all’uso della forza e che deriva da questo mono-
polio il proprio carattere di unico decisore legittimo all’interno di un
certo territorio. Anche dove non si lascia ridurre alla monolitica
concentrazione hobbesiana, lo spazio politico sovrano è, comunque,
sempre uno spazio chiuso, chiaramente gerarchizzato, monopoliz-
zato da un detentore della forza fisica legittima che è anche titolare
della legittimità politica a decidere.
5. Medioevo o Impero: quale metafora per l’età globale?
Anche se la Guerra fredda aveva già suscitato — con le dottrine
della sovranità limitata — forti perplessità sulla utilizzabilità del
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
’ 97
DIMITRI D ANDREA
concetto di sovranità, le sfide globali ( ), la rapida progressione
20
della globalizzazione economica, tecnologica e comunicativa, il
crollo del muro di Berlino hanno costituito un incentivo potente al
ripensamento della politica mondiale alla luce di un superamento
della categoria di sovranità. È indubbio, infatti, che gli anni che ci
separano dal crollo del muro di Berlino abbiano visto una potente
accelerazione ed intensificazione dei processi di unificazione econo-
mica, tecnologica e comunicativa del pianeta, un vertiginoso incre-
mento degli attori politici non statuali — dalle organizzazioni inter-
nazionali alle organizzazioni non governative. Sulla scia di Bull, la
crescente interdipendenza economica, l’intensificazione della coope-
razione tra gli Stati ed il connesso sviluppo delle organizzazioni
internazionali, il sorgere di organizzazioni regionali, lo sviluppo di
forme embrionali di società civile globale intorno alle organizzazioni
non governative costituiscono appunto i fenomeni più spesso invo-
).
cati dai sostenitori della tesi neo-medievalista (
21
In questa prospettiva, l’analogia neo-medievale funge da para-
digma per la politica mondiale, viene utilizzata, cioè, per significare
un generalizzato superamento, o una generalizzata tendenza al su-
peramento, della forma sovrana degli attori politici. Kobrin, ad
esempio, lega la crisi della territorialità esclusiva della sovranità alle
conseguenze integranti della crescente finanziarizzazione e digitaliz-
zazione del commercio e della finanza, all’emergere di un’economia
mondiale incentrata sulle reti, all’incremento della complessità e
delle dimensioni di scala delle tecnologie, al formarsi di élites
). Per Friedrichs il ricorso alla metafora neo-me-
transnazionali (
22
dievale costituisce una valida alternativa teorica al paradigma della
globalizzazione perché consente di evidenziare l’esistenza degli ele-
( ) Sulla nozione di sfide globali, nella sua specifica diversità da quella di
20 , Sfide globali e istituzioni sovranazionali, in “Discipline
globalizzazione cfr. F. C ERUTTI , Le sfide globali e l’esito della modernità,
filosofiche”, n. 2, (1995) V, n.s., pp. 75-96 e I DEM
, E. P , (a cura di), Filosofie della globalizzazione, ETS, Pisa 2001.
in D. D’A NDREA ULCINI
) Per una discussione critica del ruolo attribuito allo sviluppo delle ONG nella
( 21 , Attori nell’economia globale, in E. B ,
tesi di un nuovo medioevo cfr. R. G ILPIN ATINI
, (a cura di), Culture e conflitti nella globalizzazione, Olschki, Firenze 2002,
R. R AGIONIERI
pp. 54-9.
) Cfr. S.J. K , Neomedievalism and the Postmodern Digital World Eco-
( 22 OBRIN
nomy, cit., pp. 175-83. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
98 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
menti universalistici che, sia pure in competizione tra loro, bilan-
ciano le forze frammentanti della globalizzazione: il sistema interna-
).
zionale degli Stati e l’economia transnazionale di mercato ( 23
Questi due sostituti funzionali della Chiesa e dell’Impero medievali
hanno i loro portatori nella élite manageriale transnazionale e nei
policy-makers e i burocrati delle organizzazioni internazionali. David
Held insiste, invece, sia pure all’interno di un discorso che non sposa
), sul ruolo di quattro fattori:
interamente la tesi neo-medievalista (
24
la globalizzazione economica, il ruolo delle organizzazioni interna-
zionali e delle organizzazioni non governative, lo sviluppo del diritto
internazionale, la politica di sicurezza sempre più legata all’appar-
tenenza a blocchi.
Il limite fondamentale di questo tipo di argomenti consiste nel
non tenere ferma la distinzione fra la dimensione de jure e quella de
facto della sovranità, o fra indipendenza e autonomia. Generalmente
riferita alla politica mondiale, la metafora del New Medievalism può
essere legittimata soltanto da processi che mettono sicuramente in
discussione l’autonomia degli Stati nazionali, ma che sono insuffi-
cienti di per sé a giustificare il superamento di una nozione che ha
il suo cuore nell’indipendenza giuridicamente sancita dell’insieme
del potere politico su di un dato territorio. Proprio su questa base
Keohane ha proposto di parlare non di un superamento della
sovranità, ma di una ridefinizione del suo ruolo nell’ambiente inter-
nazionale, insistendo sulla sua funzione di risorsa per la contratta-
zione: “What sovereignty does confer on states under conditions of
complex interdependence is legal authority that can either be exer-
cised to the detriment of other states’ interests or be bargained away
in return for influence over others’ policies and therefore greater
gains from exchange. Rather than connoting the exercise of supre-
macy within a given territory, sovereignty provides the state with a
legal grip on an aspect of a transnational process, whether involving
multinational investment, the world’s ecology, or the movement of
migrants, drugs dealers, and terrorists. Sovereignty is less a territo-
( ) Cfr. J. F , The Meaning of New Medievalism, cit., pp. 479-81 e
23 RIEDRICHS
486-93. ) Cfr. D. H , Democracy, the Nation State, and the Global System, cit., in
( 24 ELD
particolare pp. 150-7.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
’ 99
DIMITRI D ANDREA
rially defined barrier than a bargaining resource for a politics
characterised by complex transnational networks. […] I suggest,
therefore, that within the OECD area the principle and practice of
sovereignty are being modified quite dramatically in response to
changes in international interdependence and the character of in-
). La sovranità è non più titolarità di un
ternational institutions” (
25
potere autonomo e autosufficiente, ma possesso di una risorsa di
decisione politica che ha una destinazione costitutivamente interna-
zionale: è risorsa destinata ad essere spesa in contrattazioni interna-
zionali, anziché potestà “monologica” in ambito nazionale. La crisi
dello Stato-nazione si traduce in generale nella ridefinizione del
modus operandi della sovranità, più che in un suo superamento tout
court.
Il ricorso alla metafora medievale per la descrizione dei caratteri
della politica internazionale trascura il fatto decisivo che il prolife-
rare delle organizzazioni internazionali, delle organizzazioni non
governative, dell’interdipendenza economica e non solo limita dra-
sticamente l’autonomia degli Stati, ma non ne intacca di per sé la
sovranità, non ne erode l’indipendenza giuridica: trasforma il modo
in cui gli Stati agiscono nell’ambiente internazionale, ma non ne
trasforma la natura.
La metafora medievale applicata in modo generalizzato all’in-
sieme delle relazioni politiche internazionali trascura il peso della
cifra giuridica, formale — della legittimità — della titolarità della
decisione politica. Questo vale anche per quelle interpretazioni che
del panorama medievale hanno valorizzato la struttura imperiale,
piuttosto che quella del policentrico convivere di autorità multiple
non gerarchizzate. Non è rilevante discutere in questo contesto
quale versione abbia migliori argomenti dal punto di vista storico,
quanto sottolineare come a partire dall’inizio degli anni Novanta si
sia affacciata una declinazione della metafora neo-medievale in una
direzione diversa da quella messa a fuoco da Bull e centrata sulla
valorizzazione della struttura imperiale: una interpretazione spesso
tematicamente pensata in alternativa o addirittura in contrasto con la
tesi medievale. Punto discriminante fra le due letture — e ragione del
( ) R.O. K , Hobbes’s Dilemma and Institutional Change in World Politics:
25 EOHANE
Sovereignty in International Society, cit., p. 177.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
100 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
‘successo’ della metafore imperiali — è la sottolineatura della que-
stione del centro: il ricorso all’impero come metafora per le relazioni
internazionali trova le sue migliori ragioni in una analisi che insiste sul
carattere comunque gerarchico dei rapporti tra gli attori politici a
carattere territoriale. Il mondo post-vestfaliano e post-Guerra fredda
sarebbe un mondo organizzato intorno a centri — o ad un centro a
seconda delle versioni —, e quindi più o meno fortemente gerarchiz-
zato. In questa prospettiva il limite della metafora neo-medievale sa-
rebbe proprio la sua assenza di un centro, l’impossibilità di restituire
concettualmente l’esistenza di una gerarchia.
La fine della Guerra fredda con la sopravvivenza di un’unica
superpotenza e la virata unipolarista dell’amministrazione Bush
specialmente dopo l’11 settembre hanno poi fornito buoni argo-
menti a sostegno della tesi dell’impero (americano) come categoria
capace di restituire l’attuale organizzazione del sistema politico
). Anche se in questa accezione l’impero di riferi-
internazionale (
26
mento non è più quello cristiano-medievale ma quello romano, la
tesi — almeno in parte normativa — dell’impero americano come
forma del sistema internazionale insiste sia sul carattere post-sovrano
degli assetti politici contemporanei, sia sulla capacità degli Stati
Uniti di interpretare anche le funzioni integrative tipiche dell’uni-
versalismo del Papato medievale: “[...] l’America incarna e produce
tanto i valori del potere imperiale, quanto quelli dell’autorità papale:
e se il potere è rimasto nell’assenza sempre uguale a se stesso (sia pur
costituzionalizzato nelle modalità d’esercizio), l’autorità sembra in-
vece essersi traslata dall’area della fede religiosa a quella della fede
nell’economia di mercato. [...] I valori del liberalismo politico,
dell’istituzionalismo democratico e di un liberismo economico più o
meno temperato sembrano potersi ben dire i “valori comuni” all’in-
). Il ricorso esplicito alla distin-
terno dell’egemonia americana” (
27
zione proposta da M.W. Doyle fra impero formale e impero infor-
) rende comunque evidente che l’efficacia descrittiva della
male (
28
metafora imperiale è condizionata alla plausibilità di una messa tra
( ) V.E. P , L’Impero come fato? Gli Stati uniti e l’ordine globale, in “Filosofia
26 ARSI
politica”, n. 1, XVI (2002), pp. 83-113.
) Ivi, p. 86.
( 27 ) Cfr. M.W. D , Empires, Cornell University Press, Ithaca 1986, p. 135.
( 28 OYLE
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
’ 101
DIMITRI D ANDREA
parentesi della distinzione fra egemonia e dominio, fra subalternità-
soggezione e obbligazione. Soltanto se la distinzione fra la dipen-
denza giuridico-legale e la dipendenza politica di fatto perde la sua
rilevanza la tesi dell’impero come metafora della politica mondiale
acquista plausibilità.
6. Un’Europa neo-medievale?
L’insistenza sulla natura giuridico-legale dell’indipendenza
come elemento decisivo per la discussione sul destino della sovranità
consente di cogliere la differenza decisiva fra i processi di “interna-
zionalizzazione della sovranità” — di un suo funzionamento come
risorsa di contrattazione in ambiente internazionale — diffusi in
tutto il mondo e lo scenario a tutt’oggi unico che viene invece offerto
dall’Ue. Nel caso dell’Unione europea siamo infatti di fronte non ad
una semplice trasformazione della sovranità, del suo modus operandi
a seguito di condizioni di interdipendenza e di complessità, ma ad
). L’assetto istituzionale dell’Ue infrange,
un suo superamento ( 29
infatti, almeno tre capisaldi dell’organizzazione sovrana dello spazio
politico. In primo luogo, gli Stati-nazione europei hanno concesso
all’Unione poteri sovrani soltanto in alcune materie, conservando nel
contempo saldamente nelle proprie mani altri poteri tipici della
sovranità. Non si tratta semplicemente di un diverso uso della
propria sovranità, ma della sua scomposizione, attraverso l’attribu-
zione del potere legittimo di decidere su alcune materie ad un potere
pienamente sovranazionale, senza che questo comporti la forma-
zione di uno Stato che possieda tutti i poteri tipici della sovranità.
Oltre a ciò in alcuni casi (devolution britannica, Catalogna) una
parte delle funzioni sovrane è stata trasferita ad entità politiche
subnazionali le quali esercitano le proprie competenze di concerto
con le istituzioni dell’Unione — scavalcando la mediazione statuale
—, oppure definiscono le proprie policies (soprattutto in ambito
( ) Sulla possibilità di cogliere la specifica natura dello spazio politico dell’Ue
29 , Un
soltanto a condizione di rinunciare al ricorso alla categoria di sovranità cfr. B. B
ADIE
monde sans souveraineté. Les États entre ruse et responsabilité, Fayard, Paris 1999; trad.
it. Il mondo senza sovranità. Gli stati tra astuzia e responsabilità, Asterios, Trieste 2000,
pp. 18-9. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
102 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
economico) trattando direttamente con altri soggetti substatuali
all’interno dell’Unione, ma al di là dei confini e in sostanziale
autonomia rispetto al controllo dello Stato nazionale. Siamo, dun-
que, di fronte ad una vera e propria dispersione dei poteri sovrani
fra attori politici non gerarchizzati, e disposti in modo non coerente
).
rispetto al confine interno-esterno (
30
Il secondo aspetto significativo è il carattere variabile degli spazi
su cui si esercitano i vari poteri fuoriusciti dalla cornice dello Stato
nazionale. Non c’è omogeneità fra gli spazi disegnati dai vari poteri
): l’Europa dell’euro, ad esempio, non
sovranazionali dell’Unione (
31
coincide con quella dei poteri sovranazionali del primo pilastro. Il
carattere variabile della geometria politica della Comunità
europea/Ue non è stato soltanto una caratteristica decisiva del
processo di integrazione (le diverse fasi di adesione all’euro o al
): prevedibilmente costi-
trattato di Schengen) fin qui realizzato (
32
tuirà una costante dell’Ue anche dopo l’allargamento.
Infine, l’aspetto forse più rilevante è costituito della conserva-
zione del monopolio della forza fisica legittima verso l’interno da
parte degli attori statuali anche per l’esercizio di quei poteri che
vengono ceduti a entità politiche sovranazionali e subnazionali. La
questione non è tanto la disponibilità della forza verso l’esterno, il
), quanto piuttosto il
carattere civile o meno della potenza Ue ( 33
( ) Per questi aspetti della polity europea cfr. A. L , Per un’analisi critica
30 ORETONI
, (a cura di), Mondi globali. Identità, sovranità, confini,
della globalizzazione, in B. H
ENRY
ETS, Pisa 2000, in particolare p. 83.
) Su questo aspetto insiste particolarmente B. Badie, La fin des territoires. Essai
( 31
sur le désordre international et sur l’utilité sociale du respect, Fayard, Paris 1995; trad. it.
La fine dei territori, Asterios, Trieste 1996, pp. 200-1.
) A questo proposito M. Telò parla dell’opting out, della geometria variabile,
( 32
della flessibilità istituzionale come differenziazioni ormai stabilizzate nell’ambito del
, Lo stato e la democrazia internazionale. Il
sistema giuridico europeo. Cfr. M. T v
ELO
contributo di N. Bobbio oltre globalismo giuridico e relativismo, in “Teoria politica”, nn.
2-3, XV (1999), p. 551.
) Per l’interpretazione dell’Unione europea come potenza civile cfr. M. T ,
( 33 v
ELO
, L’Europa “potenza civile” e la
Lo stato e la democrazia internazionale, cit., e I DEM
costituzionalizzazione del “governo misto”, in “Filosofia politica”, n. 1, XVII (2003), pp.
61-81. Per una ricostruzione del dibattito sull’alternativa potenza civile — potenza
, La polis europea. Un’introduzione, in I (a cura di), La polis
militare cfr. S. L UCARELLI DEM
europea. L’Unione Europea oltre l’euro, Asterios, Trieste 2003, in particolare pp. 35-9.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
’ 103
DIMITRI D ANDREA
fatto che la capacità coercitiva rimanga concentrata in forma mono-
polistica presso gli Stati anche per quei poteri che sono stati trasferiti
ad un piano sovranazionale. Assistiamo, cioè, al permanere del
carattere monopolistico della capacità di ricorrere alla violenza
legittima a fronte del disseminarsi dei titolari delle decisioni che da
essa sono, in ultima istanza, garantite. L’Ue presenta uno scenario
segnato dal divorzio fra detenzione del monopolio della forza fisica
legittima e capacità di decisione politica: in sostanza dal delinearsi di
poteri incapaci di coercizione e di coercizione senza potere.
Il disperdersi dei poteri sovrani fra attori diversi tra loro non
gerarchizzati e che non insistono sul medesimo territorio (non
possiedono le stesse dimensioni territoriali), il formarsi di poteri
sovranazionali a cui si riconosce autorità legittima, ma senza dispo-
nibilità di forza fisica legittima, il progressivo erodersi del confine
interno-esterno con regioni che promuovono una loro autonoma
politica estera almeno in alcune materie e non soltanto all’interno
dell’Ue, la supremazia del diritto comunitario su quello nazionale:
tutto questo configura un corpo politico irriducibile alla categoria di
sovranità ( ).
34
L’Unione non è un super-Stato, ma non è nemmeno un’orga-
nizzazione internazionale o un’area di libero scambio. La sovranità
che si perde sul piano nazionale non passa ad alcun nuovo soggetto:
sembra evaporare in una pluralità di entità politiche, talora a geo-
metria variabile, nessuna delle quali può più dirsi sovrana ( ). Nei
35
vari ambiti della vita comunitaria la sovranità nazionale è stata
progressivamente erosa, ma non c’è stato un trasferimento delle
sovranità statali ad un livello superiore, come nel caso degli Stati
federali tradizionali. Al venir meno della sovranità degli Stati-
nazione non fa riscontro un suo trasferirsi omogeneo e invariato su
scala amplificata, bensı̀ un suo decostruirsi, un suo scomporsi spa-
zialmente e funzionalmente fra entità politiche che non insistono
nemmeno sullo stesso territorio. L’esito di questo processo non è la
( ) “The European Community is not by any means a sovereign State, although
34
it is an unprecedented hybrid, for which the traditional conception of sovereignty is no
O. K , Hobbes’s Dilemma and Institutional Change in
longer applicable” (R OBERT EOHANE
World Politics: Sovereignty in International Society, cit., p. 175).
) G. A , All’Europa non serve un sovrano, intervista a cura di Barbara
( 35 MATO
Spinelli su “La Stampa”, 13 luglio 2000.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
104 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
fine dei territori o la fine dei confini e della proiezione spaziale del
corpo politico, ma la fine della spazialità sovrana, della sua natura
).
gerarchizzata, esclusiva, coerente (
36
È proprio in riferimento a questa natura ibrida dell’Europa
politica che la metafora neo-medievalista ha rivelato una indubbia
efficacia descrittiva, finendo per costituire una delle categorie ricor-
). Il paradigma del
renti nella letteratura sull’integrazione europea (
37
nuovo medioevo coglie la natura ambigua della polity europea e
consente di esprimere la natura non più sovrana dell’Europa poli-
tica, scommettendo nel contempo che tale aspetto non sia una
condizione temporanea destinata ad essere superata nel riproporsi di
forme tradizionali di statualità sovrana (una federazione europea).
L’Europa politica costituisce l’unico esempio reale di un fuori della
), di una organizzazione del potere politico che
modernità politica (
38
ri-propone il divorzio fra politica e sovranità, che presenta una
forma non sovrana di organizzazione del potere politico che meta-
foricamente è plausibile evocare con il termine New Medievalism.
Nonostante un consenso generalizzato sulla natura definitiva-
), la metafora neo-medie-
mente post-sovrana della polity europea ( 39
vale continua, tuttavia, a suscitare opposizioni e diffidenze. Queste
( ) Sulle trasformazioni del rapporto politica-spazio nell’epoca della globalizza-
36 , Globalizzazione o metamorfosi dello spazio. I territori oltre la
zione cfr. D. D’A NDREA , R. R , (a cura di), Culture e conflitti nella globalizza-
modernità?, in E. B ATINI AGIONIERI
zione, Olschki, Firenze 2002.
) Fra i molti cfr. in particolare J. Z , Enlargement and the Finality of
(
37 IELONKA
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( 38
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T v
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, La polis europea. Un’introduzione, cit., in particolare
beyond, cit., p. 139, e S. L UCARELLI
pp. 37-8.
) Sul carattere post-sovrano dell’Unione europea cfr., tra gli altri, C. G
( 39 ALLI
C , Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, il Mulino, Bologna 2001, in particolare
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, Il crepuscolo della sovranità. Filosofia
fine dei territori, cit., pp. 198 e sgg., e A. B OLAFFI
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
’ 105
DIMITRI D ANDREA
non sono dovute esclusivamente alle debolezze del suo carattere
esplicitamente metaforico, o alla dubbia vettorialità temporale a cui
allude, ma, in questo caso, ad un’ambiguità di segno opposto a
quella che ho segnalato in relazione all’impero. L’accusa esplicita
che alcuni rivolgono all’ipotesi neo-medievale è di contenere una
velata indicazione normativa in direzione della costruzione di un’en-
tità politica europea con un basso contenuto politico, con un
): “What do we
costitutivo e istituzionalizzato deficit politico (
40
mean by a new, overlapping and fragmented European polity?
According to the “new-Medievalist” school of thought the European
Union would only become a diplomatic co-ordination of apparently
“sovereign” Nation-States, occupying territorial spaces but no lon-
ger controlling what goes in those spaces. The political authority lost
by Nation-States would not be centralised at supranational level but
would mainly shift elsewhere, towards public and private bo-
). La posta in gioco è chiara: è la soggettività politica
dies” (
41
dell’Unione europea. Nuovo medioevo significherebbe in questa
prospettiva non tanto assenza di governo tout court, ma assenza di
governo politico. L’ipotesi neo-medievalista viene accusata di essere
una lettura — implicitamente prescrittiva — della realtà politica e
istituzionale dell’Ue che sostanzialmente prefigura un declino — se
non proprio una fine — della politica, che allude ad un futuro fatto
di entità politiche sempre più deboli e sempre meno capaci di
governare politicamente i processi reali.
L’idea che il New Medievalism implichi una sostanziale assenza
di direzione politica, una mancanza di soggettività politica dell’entità
Ue trova sicuramente buoni argomenti nella realtà storica del me-
dioevo cristiano e nell’uso della metafora medievale in parte della
letteratura sull’integrazione europea. Tuttavia, non esiste nessun
e politica nella Germania del Novecento, Donzelli, Roma 2002, in particolare pp. IX-
XIII. ) Per una formulazione efficace di questo tipo di critica cfr. A. G ,
( 40 AMBLE
Regional Blocs, World Order and the New Medievalism, cit., in cui pure non si nega in
, A. P (eds.), Regionalism and
toto l’efficacia descrittiva della metafora, e A. G AMBLE AYNE
World Order, Macmillan, Basingstoke 1996.
) M. T , Reconsiderations: Three scenarios, in I (ed.), European Union
(
41 v
ELO DEM
and New Regionalism. Regional actors and global governance in a post-hegemonic era,
Ashgate, Aldershot 2001, p. 255.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
106 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
legame concettuale fra superamento della sovranità e declino della
capacità di governo politico. Decisione-soggettività politica e sovra-
).
nità non sono né coincidenti ne reciprocamente implicantesi (
42
Può esserci una capacità di decisione politica legittima anche se il
potere che la esprime non può essere definito sovrano. La questione
della politicizzazione dell’integrazione europea non implica la sua
trasformazione in uno Stato federale: ed è legata essenzialmente al
fatto che — mentre alcuni poteri politici sono stati trasferiti ad
autorità sovranazionali, per di più tra loro estremamente diverse —
uno specifico potere — la titolarità a decidere in materia di politica
estera e di sicurezza — è rimasto sostanzialmente nelle mani degli
). L’istituzionalizzazione di una volontà unica in
Stati-nazione ( 43
materia di politica estera e di sicurezza comune non configurerebbe
di per sé la trasformazione dell’Europa in uno Stato federale, o il
recupero di una dimensione di sovranità: a maggior ragione se ciò
l’Europa della politica estera comune non dovesse coincidere con
quella dell’euro o con quella a sua volta diversa del primo pilastro.
Declino della sovranità e crisi della dimensione stato-nazionale
convivono con la centralità della questione delle dimensioni dell’at-
tore politico. Con la centralità della questione di chi decide su cosa.
Il ricorso alla metafora neo-medievale non si accompagna tut-
tavia soltanto ai rischi connessi alla sua ambiguità. Un ultimo
problema è costituito dalla sua incapacità di restituire due differenze
profonde della realtà politica dell’Ue dallo scenario medievale. La
prima è la mancata proliferazione dei centri che aspirano o rivendi-
cano con successo il possesso (sia pure non monopolistico) della
forza fisica legittima. La seconda differenza, strettamente collegata
all’altra, è l’assenza di quella conflittualità endemica che era stata
( ) Dalla identificazione di sovranità e politica nasce, invece, l’appassionata
42
difesa della necessità analitica e prescrittiva della sovranità dell’Unione in B. D E
G , L’ambigua potenza dell’Europa, cit., in particolare pp. 149-52 e 164.
IOVANNI
) Sul ruolo centrale che la capacità di decidere unitariamente sulla pace e sulla
( 43 , Peace
guerra ha nella definizione della piena capacità politica di un attore cfr. F. C ERUTTI
, E. R (eds.), A Soul for Europe,
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© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
’ 107
DIMITRI D ANDREA
una delle caratteristiche della politica medievale e tra le ragioni
profonde della sua inadeguatezza funzionale.
La conservazione del monopolio della coercizione fisica legit-
tima si accompagna al suo esercizio in forme e secondo modalità
sempre più eteronome, ma questo divorzio fra capacità coercitiva e
titolarità legittima di decisione politica rende visibile il progressivo
tecnicizzarsi dell’ordine, il suo trasformarsi sempre più in qualcosa
di neutro che non viene investito dal conflitto politico. L’Ue dimo-
stra, dunque, che si può avere ordine senza sovranità, e che la
disseminazione dei poteri politici, in certe condizioni, non genera
conflittualità violenta. Quella che sembra tramontare è l’idea che la
costruzione e la garanzia dell’ordine richiedano ancora la compat-
tezza e l’ampiezza della sovranità che hanno definito lo Stato mo-
derno: la sovranità eccede le esigenze di una convivenza ordinata e
pacifica quando la politica cessa di essere il terreno di scontro fra
modalità “opposte” di concepire l’organizzazione della società.
Nota bibliografica.
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GIUSEPPE DUSO v
L’EUROPA E LA FINE DELLA SOVRANITA
1. Il concetto moderno di sovranità. — 2. La logica della sovranità e la fondazione
dell’autorità. — 3. Sovranità e costituzione. — 4. Lo stato costituzionale contemporaneo.
— 5. Perché guardare alla Politica di Althusius. — 6. La difficile comprensione del
presente e il processo di decostituzionalizzazione.
Per pensare i processi in atto che determinano la realtà del-
l’Unione europea, appare necessario uno sforzo di riflessione critica
sui concetti mediante i quali siamo abituati a pensare la politica.
Nell’attuale dibattito sono certo presenti concezioni della politica
diverse e a volte anche in conflitto tra loro, ma tuttavia si collocano
tutte all’interno di un orizzonte comune, determinato dalla tendenza
a pensare come indispensabili i concetti che si sono sviluppati
nell’alveo della dottrina dello Stato, e che hanno avuto la loro genesi
nel laboratorio teorico costituito dal giusnaturalismo, nel quale di
Stato, in senso concettualmente preciso, non è in buona parte,
ancora possibile parlare ( ). Intendo riferirmi non solo a concetti
1
politici centrali quali sovranità, costituzione, popolo, rappresen-
tanza, ma anche a quelli — non politici — senza i quali questi
concetti specificatamente politici non sarebbero mai nati: individuo,
diritti individuali, uguaglianza, libertà.
Nel dibattito relativo alla costituzione europea, noti costituzio-
nalisti hanno individuato una difficoltà nel pensare la costituzione
europea a causa del legame che l’idea di costituzione ha avuto nella
storia, non solo con la formazione degli stati nazionali, ma anche e
soprattutto con quel modo di pensare la politica che nasce con le
( ) Cfr. a questo proposito la voce “Staat und Souveränität” dei Geschichtliche
1
Grundbegriffe, Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, Bd. 6,
Klett-Cotta, Stuttgart 1990, sp. la parte scritta da R. Koselleck, “Staat im Zeitalter
revolutionärer Bewegung”, pp. 25-64.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
110 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
concezioni del contratto sociale, e che ha al suo centro il concetto di
sovranità e dunque una unità che si presenta come rottura nei
confronti del pluralismo complesso e, alla luce della nuova raziona-
lità, caotico, che avrebbe caratterizzato la precedente storia euro-
). Per inquadrare i processi attuali bisogna avere presente la
pea (
2
distinzione tra costituzione e contratto, e ciò è possibile se si guarda
ad uno scenario più ampio di quello che si forma con le dottrine
contrattualistiche moderne, uno scenario in cui la figura del con-
tratto ha una funzione radicalmente diversa che in queste ultime:
non cioè quella di produrre qualcosa di nuovo — il potere politico
— facendo scomparire la dimensione propria dei soggetti con-
traenti, ma piuttosto quella di confermare e rafforzare il ruolo
politico di quei soggetti, che rimangono presenti e capaci di azione
). Naturalmente ciò non significa certo che
anche dopo il contratto ( 3
la situazione odierna sia quella della prima età moderna, ma piut-
tosto che per intendere i processi in atto dobbiamo non solo avere
una visuale storica ampia, ma anche riuscire ad emanciparci da quei
concetti che, pur essendo segnati da un’epocalità determinata, sono
spesso assunti in una dimensione universale e valida per sempre.
Intendo in questa sede proporre una schematica riflessione sulla
logica propria della sovranità moderna, per ricordarne la genesi e
per intenderne contemporaneamente anche la crisi, o per lo meno
per indicare la difficoltà di utilizzare il concetto di sovranità, come
pure gli altri concetti che a quello risultano strettamente legati, al
fine di comprendere la realtà odierna e di trovare un orientamento
nella prassi. Tale compito, che non può essere affrontato se non
( ) Cfr. D. G , Braucht Europa eine Verfassung? Siemens-Stiftung, München
2 RIMM ,
1994 (il saggio è anche tradotto in Il futuro della costituzione, a cura di G. Z AGREBELSKY
, J. L , Einaudi, Torino 1996, pp. 339 ss.). Su ciò sono già
P.P. P ORTINARO UTHER
intervenuto in Tra Unione europea e forma stato: pensare il federalismo, in L’Europa e il
futuro della politica, Società libera, Milano 2002, pp. 199- 218, saggio che è tenuto
presente anche nelle considerazioni che seguono.
) Ciò non appare possibile nella logica delle dottrine contrattualistiche del
(
3
giusnaturalismo moderno, proprio perché in esse contraenti il patto sono gli individui,
che non hanno già una dimensione politica, ma che piuttosto fondano una società
politica basata sulla dualità di comando e ubbidienza, di persone pubbliche, che
esercitano il potere, e sudditi. Per la logica del contratto sociale, rimando alle analisi
(a cura di), Il contratto sociale nella filosofia politica
testuali contenute in G. D USO 3
.
moderna, Franco Angeli, Milano 1998
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 111
GIUSEPPE DUSO
presupponendo i lavori di ricerca condotti su questa tematica, ha un
suo aspetto di radicalità: infatti, se è vero che il concetto di sovranità
non ha una sua storia autonoma e indipendente, ma è il prodotto di
un modo di pensare la politica che ha la sua base nella funzione
fondante del concetto di individuo e dei suoi diritti ( ), allora appare
4
subito evidente che ripensare alla politica senza la sovranità, significa
anche mutare il modo di intendere l’uomo e riflettere criticamente
sui valori da tutti accettati come pilastri dell’organizzazione della
vita in comune degli uomini.
1. Il concetto moderno di sovranità.
Parlare della sovranità significa riferirsi alla dimensione del
potere: “In senso lato, il concetto politico-giuridico di sovranità
serve ad indicare il potere di comando in ultima istanza in una
società politica e, conseguentemente, a differenziare questa dalle
altre associazione umane, nella cui organizzazione non vi è un tale
potere supremo, esclusivo e non derivato. Perciò tale concetto è
strettamente collegato a quello di potere politico…” ( ). Si può dire
5
che l’uno sia all’altro cosı̀ collegato da avere la stessa storia, che è
una storia tutta moderna. Poco importa che la parola che solitamente
si traduce con “sovranità” esista e sia rilevante anche in un contesto
di pensiero precedente a quel concetto che nell’epoca moderna è
racchiuso nel termine e che risuona nella nostra mente quando lo
usiamo. La maiestas medievale o della prima età moderna ( ), non è
6
( ) Oltre a Il contratto sociale cit., cfr. anche G. D (a cura di), Il potere. Per la
4 USO
storia della filosofia politica moderna, Carocci, Roma 1999.
) N. M , Sovranità, in Dizionario di politica, UTET, Torino 1983, p.
( 5 ATTEUCCI
1102. ) Mi riferisco, ad esempio, all’uso del termine nei sistemi politici tedeschi della
( 6 , Dalla virtù alla
fine del Cinquecento e del primo Seicento; cfr. su ciò M. S CATTOLA
scienza. La fondazione e la trasformazione della disciplina politica nell’età moderna,
Franco Angeli, Milano 2003, pp. 203-300 e Die Frage nach der politischen Ordnung:
“Imperium”, “maiestas”, “summa potestas” in der politischen Lehre des frühen siebzehnten
Jahrhunderts, in Souveränitätskonzeptionen, Beiträge zur Analyse politischer Ordnung-
svorstellungen im 17. bis zum 20. Jahrhundert, hrsg. M Peters, P. Schröder, Duncker &
Humblot, Berlin 2000, pp. 13-39. Per quanto riguarda gli iura maiestatis in Althusius e
la loro irriducibilità al concetto di sovranità, rimando al mio Una prima esposizione del
pensiero politico di Althusius: la dottrina del patto e della costituzione del regno,
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
112 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
una forma diversa del concetto di sovranità: insomma non c’è una
storia del concetto di sovranità che comprenda quella maiestas e
quella diversa sovranità che nasce con il giusnaturalismo e sarà
determinante per lo Stato moderno. Non si tratta di modalità diverse
dello stesso concetto, ma di un modo diverso di pensare la politica
e l’uomo. Sovranità e potere politico sono cosı̀ sedimentati nel
nostro pensiero che solo emancipandoci da essi possiamo compren-
dere una diversa concezione della politica, che il concetto di potere
ha cercato di azzerare e che si esprime con il termine di maiestas nel
). Per un lavoro
contesto precedente il moderno giusnaturalismo (
7
storico concettuale, che non può che essere, nello stesso tempo,
anche esercizio teoretico del pensiero, è indispensabile sottoporre a
riflessione critica i concetti che sono sedimentati nei termini che
usiamo.
“Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, n. 25 (1996), pp.
65-126, sp. pp. 87-95.
) Anche a questo proposito si può verificare che il concetto non si identifica con
( 7
la parola. Quando il termine di maestà viene usato nel quadro della concettualità
moderna — questo il caso dei trattati giusnaturalistici di fine Settecento in terra tedesca
—, essa viene in realtà a perdere il rapporto con il pensiero della tradizione che tale
termine usava e veicola invece il concetto moderno di sovranità; si vedano alcuni tra i
, Lehrsätze des Naturrechts und der damit verbun-
molti esempi possibili. G. H UFELAND
denen Wissenschaften, Jena 1795, § 460: il potere dello Stato risultante dalla somma di
tutte le forze è indicato come “höchste Gewalt, die Majestät (potestas civilis, sive summa,
imperium civile)”, e poi: “Höchste Gewalt heisst sie, weil sie keiner andern untergeor-
dnet seyn kann, indem es sonst möglich bliebe, den Bestimmungen des allgemeinen
Willens auszuweichen. Man nennt sie darum auch die Souveränität”. Molto significative,
per mostrare come la parola maestà indichi l’intreccio di sovranità e rappresentanza,
, Das natürliche Saatsrecht, Koenigsberg 1794, § 80:
sono le espressioni di T.A.H S CHMALZ
“Das dem Souverain anvertraute Recht, die Mittel zum Zweck des Staats zu waehlen,
heisst die hoechste Gewalt, oder Majestät“; § 81: “Die Übertragung der Majestät kann
ursprünglich nur durch Einstimmigkeit aller Staatsbürger geschehen”; § 82: “Der
Souverain ist gänzlich unabhängig. Denn da ihm die Majestät einstimmig übertragen ist:
so ist sein Wille wirklich der Wille des Volks, und folglich so unabhängig als dies selbst”.
, Allgemeines StatsRecht und StatsVerfassungsLehre, Goettingen 1793,
In A. L. S
CHLOEZER
Abschnitt I, § 2-3, pp. 95-97, viene in chiaro come la parola Majestät veicoli un concetto
nuovo: lo Herrscher (Princeps, besser Imperans) è il depositario della volontà generale; la
Maestà comporta indipendenza e irresponsabilità: essa appartiene al popolo, ma questi,
inteso come la folla dei singoli, non può esercitarla e dunque deve essere trasferita a
qualcuno che la esercita e che mantiene cosı̀ il diritto in ultima istanza. La conclusione:
in tal modo nasce eine neue Art von Majestät.
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GIUSEPPE DUSO
Se si volessero richiamare alcuni elementi essenziali che si sono
imposti nella storia della sovranità fino alla nostra contemporaneità,
potremmo indicare l’idea della naturale uguaglianza tra gli uomini,
o in ogni caso la convinzione che non vi è una differenza tra gli
uomini tale da condurre alla conclusione che sia razionale e utile
essere sottomessi alla volontà di qualcuno a noi superiore. Si badi
bene che è qui in questione non tanto una subordinazione momen-
tanea legata a fini particolari da ottenere, ma una sottomissione
stabile come quella che caratterizza l’obbligazione politica e l’ubbi-
dienza dovuta alla legge a causa della sua natura di legge e della sua
dimensione formale, a prescindere dai particolari contenuti che di
volta in volta essa esprime. Dal momento che l’ordine nello Stato è
garantito dall’ubbidienza di tutti alla legge, e dunque al potere che
lo esprime, tale potere non può appartenere a qualcuno in partico-
lare. Per trovarci di fronte al concetto di sovranità non è dunque
sufficiente riconoscere che si tratta di una summa potestas che, a
differenza di quanto avviene in una concezione gerarchica della
società, non è tanto la più alta tra una molteplicità di potestates, ma
che è summa nel senso che è l’unica: è necessario anche riconoscere
che tale potestas non è più prerogativa legata alle qualità di una
persona, ma appartiene al corpo comune, che è costituito in modo
uguale da tutti.
È la stessa sottomissione ad un uomo o ad una assemblea —
quella sottomissione che caratterizzava la nozione antica di governo,
necessaria per comprendere il pensiero politico che giunge fino alla
rottura epistemologica costituita dal moderno giusnaturalismo —
che si tratta di negare in via di principio e di impedire nella realtà
storica. Insomma l’unica potestas costituita dalla sovranità comporta
che venga ad essere negata l’essenza stessa dell’essere potestas, la
differenza tra gli uomini che essa implica, con il connesso aspetto
gerarchico. Nell’epoca in cui le potestates erano molteplici e gerar-
chicamente organizzate il comando, che attraverso esse si esprimeva,
non era concepito come una relazione formale tra volontà, ma era
legato ad un contesto reale segnato da punti di orientamento, a cui
potevano e dovevano guardare non sono coloro che esercitavano
l’imperium, ma anche coloro che erano governati, ai quali, in molti
casi, non solo era riconosciuto il diritto di resistenza, ma anche la
supremazia, attraverso organi collegiali, nei confronti di colui che
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114 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
governava. In questo contesto della tradizione era anche pensabile
giudicare “tiranno” il governante, in rapporto ai contenuti determi-
nati del suo agire che potevano essere giudicati sulla base di elementi
considerati oggettivi, fossero questi i comandamenti divini e le sacre
scritture, o i contratti di signoria, o i diversi diritti delle parti
).
costituenti la società ( 8
Nel concetto di sovranità o di potere politico tali elementi
oggettivi vengono cancellati, sia che si tratti dei contenuti della
religione, sia delle diverse convinzioni su ciò che è giusto e bene, sia
delle tradizioni giuridiche molteplici e non univoche del passato, sia
delle differenze che caratterizzano nella realtà gruppi e associazioni,
differenze che non possono più tradursi in diritti particolari.
Ognuno deve essere libero di decidere su ciò che ritiene suo bene,
essere arbitro di sé, dipendere solo dalla propria volontà, natural-
mente in un contesto in cui tale situazione deve essere strutturale per
tutti. Ma le leggi necessarie a ciò non possono che essere da tutti
volute e sono allora le condizioni per la libertà e l’indipendenza di
ognuno. La sovranità, cosı̀ implicata dall’uguaglianza e dalla libertà
dei singoli individui, perde allora il carattere di dominio tra le
persone. In quanto rapporto formale, quello del potere non può che
essere legittimo, e l’unica vera legittimazione è costituita dal fatto
che ubbidire al comando espresso dal corpo politico deve signifi-
).
care, in fondo, ubbidire alla propria volontà ( 9
È istruttivo a questo proposito pensare, per quanto riguarda la
( ) Rimando, per lo specifico del principio del governo e per la radicale differenza
8
con il concetto di potere, al mio Fine del governo e nascita del potere, in La logica del
potere. Storia concettuale come filosofia politica, Laterza, Bari-Roma 1999, pp. 55-85, e
alle prime due parti del lavoro collettaneo Il potere. Per la storia della filosofia politica,
Carocci, Roma 1999. Sulla pertinenza dell’uso del termine tirannia a questo contesto che
, Il concetto di tirannide
precede la concettualità politica moderna, si veda M. S CATTOLA
nel pensiero politico tedesco della prima età moderna, “Filosofia politica”, X (1996)
(Tirannide), pp. 391-420.
) L’elemento della formalità e il fondamento della legittimità sono evidenti nella
( 9
definizione weberiana della Herrschaft, intesa come potere politico, comando che si trova
di fronte la disponibilità all’ubbidienza, e nella correlativa definizione della ubbidienza,,
secondo cui colui che ubbidisce accetta il comando come norma del proprio agire per
, Wirtschaft und Gesellschaft, hrsg. J. Winckelmann,
suo stesso volere (Cfr. M. W EBER
5
, p. 123; tr. it. con introduzione di P. Rossi, Ed. Comunità,
Mohr, Tübingen, 1976
Milano 1974, p. 209).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 115
GIUSEPPE DUSO
Germania, alla storia del termine Herrschaft, che in un primo tempo
connotava appunto rapporti di dominio personali e poi diventa il
). Ma
veicolo per il concetto di sovranità e di potere politico (
10
l’aspetto antico di “dominio”, che permane nel termine, lo marca
con un significato negativo, facendo sı̀ che il suo uso sia sempre
meno frequente. Anche nella nostra lingua il termine di potere
mantiene l’evidenza del processo che va dall’alto in basso, della
costrizione e della coazione, e in quanto tale assume un senso
negativo: è sempre il termine a cui si contrappone qualcos’altro di
). È significativo
positivo a cui il potere deve essere finalizzato (
11
anche l’uso attuale del termine di democrazia, che spesso viene inteso
come opposto o limitante il potere, contraddittoriamente non solo al
modo in cui è concepita la costituzione democratica, che istituisce il
potere dello Stato e nello Stato, ma anche allo stesso etimo del
termine, o meglio al modo in cui questo etimo viene normalmente
).
inteso nella modernità ( 12
Una sorte analoga coinvolge anche la parola autorità. Nel mo-
mento in cui appunto scompare un mondo in cui possono essere
determinate differenze qualitative e in cui si impongono le questioni
( ) Cfr. sulla trasformazione della Herrschaft il saggio di B , Bemerkungen
10 RUNNER
zu den Begriffen “Herrschaft” und “Legitimität”, del 1962, poi in Neue Wege cit., pp.
e G. R , “Filosofia politica”, 1987, n. 1, pp.
64-79; tr. it. a cura di M. P ICCININI AMETTA
101-120. Sulla differenza tra governo e dominio e sull’atteggiamento moderno in
, Drei Würzel der Politik, in Schriften, II,
relazione alla Herrschaft, si veda D. S
TERNBERGER
1, Frankfurt a. Main, 1978, e Immagini enigmatiche dell’uomo, tr. it. Il Mulino, Bologna
1991, sp. la parte III, pp. 129 ss. (per una discussione critica della posizione di
Sternberger rimando al mio La morsa del potere e la nostalgia per il “vero cittadino”,
“Filosofia politica”, VI (1992), pp. 121 ss.).
) Per intendere l’uso contemporaneo del termine bisogna registrare le trasfor-
( 11
mazioni epistemologiche avvenute con il pensiero weberiano, riflettere sul rapporto tra
Herrschaft e Macht, e comprendere come avvenga che l’astrazione scientifica necessaria
a isolare un rapporto tra volontà (indipendente dai contesti e dalla concretezza dei
contenuti che permettano un giudizio su tale rapporto) diventi realtà e, in quanto tale,
oggetto della scienza.
) Il significati di potere e di popolo, che determinano la parola democrazia nella
(
12
Modernità, non hanno niente a che vedere con ciò che i termini di demos e di kratos
indicano nel pensiero greco, in particolare in quello di Platone e di Aristotele, e con il
significato di democrazia come forma di governo, che è consona a un contesto in cui ha
centralità per la politica la nozione di governo e non a quello dominato dal concetto di
potere (per il chiarimento di questo punto rimando al cap. VII di La logica del potere cit.).
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
della giustizia e del bene come questioni non risolvibili mediante la
volontà soggettiva, scompare anche il senso antico del termine, come
denotante qualcuno che è da ascoltare e da seguire perché è
). Il termine si carica del significato apportato dal
autorevole (
13
concetto moderno di potere, e connota colui a cui si deve ubbidire.
È chiaro che la sottomissione stabile all’autorità, in un pensiero della
politica basato sull’uguaglianza e sulla considerazione formale della
libertà (come indipendenza della volontà), non può avere che una
condizione: il consenso di chi ubbidisce, la cui volontà rende
possibile l’autorità. Non c’è autorità se questa non si fonda su un
processo di autorizzazione, alla cui base stanno coloro che dovranno
essere sottomessi, appunto per propria volontà, ad essa.
In un mondo cioè in cui non c’è un ordine delle cose da
riconoscere, e si considera come fonte di conflitto la diversità delle
opinioni sulla verità e sulla giustizia, appare necessario una volontà
che decida in modo univoco ciò che si deve fare per la convivenza.
Una volontà politica sovrana, che ha perso qualsiasi punto di
riferimento oggettivo, non può basarsi a sua volta che sulla volontà
di coloro che saranno soggetti ad essa, i quali, in questo modo,
ubbidiranno — indirettamente — a se stessi. L’assolutizzazione
della volontà propria del concetto di sovranità comporta la dimen-
sione fondante della volontà individuale.
2. La logica della sovranità e la fondazione dell’autorità.
Sembra che si siano fino a qui descritti alcuni elementi che si
sono diffusi nel modo comune di intendere la politica e che per-
mangono nella nostra contemporaneità, spesso condizionando an-
che quei tentativi di pensare il presente che pur si muovono nella
consapevolezza della necessità di trovare nuovi strumenti di com-
prensione. Si pensi a quanto una tale assolutizzazione della volontà,
assieme agli altri elementi qui descritti, venga a connotare l’espres-
sione spesso usata di “legittimazione democratica”. Tuttavia se fosse
vero che gli elementi sopra indicati caratterizzano il modo diffuso
( ) Cfr. S , Immagini enigmatiche cit., sp. 134 ss., e naturalmente il
13 TERNBERGER
, What was Authority (tr. it. in H. A , Tra passato e futuro,
noto saggio di H. A RENDT RENDT
Firenze, Vallecchi 1970).
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GIUSEPPE DUSO
nel moderno di intendere la sovranità, come potere politico, allora
verrebbe a questo punto evidente riconoscere in Hobbes il padre di
questa concezione, e dunque rintracciare in lui il fondatore della
sovranità moderna. Non è difficile infatti ravvisare, sullo sfondo
delle riflessioni sino a qui svolte, i concetti fondamentali che carat-
terizzano il suo modo scientifico di pensare la politica.
Riconoscere in Hobbes il padre della sovranità significa ritenere
che la vera chiave di quest’ultima — della sua stessa assolutezza —
consiste nell’aspetto formale, nel processo di legittimazione, nel-
l’idea dunque che il punto di vista del potere non può che essere il
punto di vista di tutti in quanto costituenti il corpo politico. Quella
del potere non è un’istanza altra e opposta a quella costituita dagli
individui e dai loro diritti. Perciò il giusnaturalismo, per quanto
riguarda la costruzione teorica, non consiste nella limitazione del
potere, ma piuttosto nella sua fondazione. È questo aspetto fonda-
mentale della sovranità a non essere presente in Bodin, che per una
lunga tradizione è stato considerato il padre della sovranità mo-
derna. Nella sua opera è bensı̀ affermata la summa potestas, ma
questa da una parte mantiene il carattere di potestas, e dall’altra è
resa necessaria proprio a causa di un mondo plurale, fatto di
differenze, che non viene cancellato. Ci troviamo in un contesto in
cui non è assolutizzata la volontà e perciò manca quell’elemento
essenziale della sovranità che è costituito dalla forma e dalla legitti-
). Di fronte al
mazione formale mediante la volontà dei singoli (
14
sovrano di Bodin permane una realtà complessa; di fronte al sovrano
di Hobbes non c’è più nessuno; non ci sono più i governati, perché
essi, come si evidenzia nel frontespizio del Leviatano, sono nel corpo
del sovrano, sono il corpo del sovrano. La loro volontà, per quello
che riguarda la vita comune, la loro volontà politica dunque, è la
volontà del sovrano. La formalità che connota la sovranità richiede
che la volontà sovrana sia la volontà di tutti, sia la volontà del corpo
collettivo, cioè del popolo, non una volontà che possa avere il
popolo di fronte a se. Perciò dalla sua nascita la sovranità è destinata
( ) Per una visione della complessità del pensiero di Bodin, irriducibile alla
14 , I limiti della sovranità, Cedam,
univocità della sovranità moderna, cfr. D. Q UAGLIONI
, Ordine della giustizia e dottrina della sovranità, in
Padova 1992, e anche M. S
CATTOLA
B , in Il potere cit., pp. 61-75.
J
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
ad essere democratica, ad essere potere del popolo, e la democrazia
moderna è pensata sulla base della dottrina della sovranità.
Non è qui possibile ripercorrere ancora una volta i punti salienti
della costruzione hobbesiana per mostrare la funzione che in essa
svolgono i concetti, la ferrea logica che li lega tra loro, la consequen-
zialità secondo la quale il potere del corpo politico esercitato dal
sovrano è risultato necessario del nuovo concetto di libertà, l’asso-
luta rilevanza della legittimazione e della formalità della costruzione
sopra indicata per la determinazione dell’assolutezza del potere ( ).
15
È tuttavia utile qualche precisazione. Per non fraintendere la vera
ragione dell’assolutezza del potere in Hobbes è da tenere presente
che l’ubbidienza è dovuta in fondo al corpo politico nella sua
totalità: l’ubbidienza implicata dal concetto moderno di potere, a
causa della sua caratterizzazione formale, non può essere dovuta a
nessun altro se non al soggetto collettivo formato da tutti. È dovuta
alla persona del sovrano solo in quanto egli è l’attore di questo corpo,
colui che conferisce vita alla persona civile, rendendola capace di
volontà e di azione. In altri termini l’assolutezza del sovrano consiste
nel fatto che la persona del sovrano è rappresentativa, che egli è solo
attore per tutti, che egli è stato fatto attore da tutti. Come è ben noto,
nel Leviatano è descritto quel processo di autorizzazione in base al
quale viene pensata nell’epoca moderna l’autorità. E il processo di
autorizzazione non è altro che il processo costitutivo del concetto
moderno di rappresentanza: ne costituisce l’essenza, quella dialettica
secondo cui la persona civile è concepibile in base all’idea che tutti
sono attori delle azioni che l’attore compirà, perché tutti lo hanno
autorizzato ( ).
16
Il concetto di sovranità e quello di rappresentanza nascono
insieme. Si può dire di più: nel Leviatano senza l’invenzione del
concetto di rappresentanza — che non ha più niente a che vedere
con il compito di riportare ad un livello più alto la volontà, i bisogni,
i punti di vista, la dignità, i diritti di un gruppo della società, ma
( ) Si vedano le parti dedicate ad Hobbes in La logica del potere cit.
15 ) Rimando per la logica della rappresentanza e per il ruolo di Hobbes nella
( 16
storia del concetto al mio La rappresentanza politica: genesi e crisi di un concetto, Franco
,
Angeli, Milano 2003; ma sulla rappresentanza è soprattutto da vedere H. H OFMANN
Repräsentation. Studien zur Wort- und Begriffsgeschichte von der Antike bis ins 19.
2
.
Jahrhundert, Duncker & Humblot, Berlin 1990
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GIUSEPPE DUSO
piuttosto consiste nella produzione di qualcosa di nuovo e non
esistente prima dell’atto rappresentativo, cioè la volontà unica della
persona civile e conseguentemente la sua azione — non sarebbe
possibile raffigurarsi la persona civile con il suo potere. Difatti la
teoria della rappresentanza, come unico modo di intendere come
una una moltitudine, precede e rende possibile la formazione del
corpo politico mediante il contratto sociale. E la cifra di questo
indissolubile legame di sovranità e rappresentanza è quella del-
l’unità. Non si tratta tanto dell’unificazione nel senso del raccordo,
del coordinamento, — si potrebbe dire anche del governo — di
istanze diverse, di diversi soggetti politici, ma di quell’unità semplice
che connota la persona civile in quanto questa costituisce l’esito di
un itinerario teorico che parte dall’indifferenziata molteplicità degli
individui. Questo intreccio di potere, rappresentanza e unità deve
essere tenuto presente anche per l’esito finale di questa riflessione.
Superare la sovranità significa superare questa rappresentanza (mo-
derna) e questo modo di concepire la persona civile, il soggetto
collettivo, un popolo che come soggetto non c’è mai se non attra-
verso la voce del suo attore.
Il processo di autorizzazione e l’espressione di volontà che si ha,
da parte dei singoli, nel contratto sono il fondamento dell’ubbi-
dienza. Non è pensabile che i singoli non ubbidiscano alla legge,
perché ciò sarebbe una contraddizione, in quanto consisterebbe nel
non volere ciò che si è voluto. Ecco l’aspetto formale, della legitti-
mazione che è essenziale al potere politico (mentre non può essere
presente là dove la politica è pensata mediante il principio del
governo, poiché in un contesto di tal genere la volontà dei singoli
non può — in quanto tale — essere fondamento della politica e della
giustizia che la deve regolare) e che si trova raffigurato in quel
frontespizio del Leviatano, che può ancora essere significativo per
indicare un’aporia di fondo del modo moderno di intendere la
democrazia. La differenza con Rousseau, per quanto riguarda l’ob-
): consiste soprat-
bligazione politica, non è dunque cosı̀ rilevante (
17
tutto nella formulazione da parte di Hobbes e nella negazione da
( ) Ritengo a questo proposito sempre di grande efficacia i due saggi di A. B
17 IRAL
su Hobbes e Rousseau contenuti in Il contratto sociale cit. e anche in A. B , Storia e
IRAL
critica della filosofia politica moderna, Franco Angeli, Milano 1999.
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
parte di Rousseau del concetto nuovo di rappresentanza. Ma anche
il pensiero di Rousseau si muove all’interno di quella tematica della
sovranità che è imposta dal punto di partenza delle dottrine con-
trattualistiche, costituito dalla dimensione dell’individuo. Anche in
).
Rousseau perciò è essenziale la cifra dell’unità politica (
18
Nell’impostare il problema politico mediante i due elementi
costituiti dal soggetto individuale e dal soggetto collettivo, ciò che
deve essere necessariamente negato è la dimensione politica del
gruppo determinato da differenze specifiche e oggettive e inteso
come tramite per la partecipazione politica dei cittadini. Non è
sufficiente il capitolo del Leviatano dedicato ai gruppi sociali per
mostrare la rilevanza politica di un tessuto plurale e complesso del
commonwealth: basti considerare come anche il rapporto del citta-
dino con il gruppo passi attraverso il suo rapporto con la volontà
autorizzante del sovrano. Anche in Rousseau la dimensione di
gruppo è intesa come corruzione dello Stato, in quanto crea coaguli
di volontà particolare e di pretese che risultano pericolosi in rela-
zione all’espressione della volontà generale nella sua universalità;
mentre pericolose non sono le differenze delle volontà dei singoli,
che sono cosı̀ numerose da neutralizzarsi vicendevolmente, ren-
dendo perciò evidente la vanità della possibile pretesa di ognuna di
identificare la propria particolarità con la volontà del soggetto
collettivo. Perciò il verbo giusnaturalista, per la sua logica intrinseca,
appare distruttivo di quella società cetuale che sopravviverà in
Europa almeno fino alla Rivoluzione francese.
3. Sovranità e costituzione.
Un esame dei concetti che non si muova all’interno dell’astra-
zione della storia delle idee, ma che voglia essere attento a quanto i
concetti condizionino non solo il modo di pensare, ma anche la vita
degli uomini, non può non guardare all’aspetto costituzionale, nel
senso più ampio ed etimologico del termine. Nel caso della sovranità
questa operazione deve attraversare il significato più ristretto del
( ) Proprio per questo lo stesso Rousseau non può sfuggire totalmente alla logica
18
rappresentativa, come dimostra la figura del grande legislatore (cfr. su ciò “Il popolo
contro il rappresentante”, in La rappresentanza politica cit., pp. 92-95).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 121
GIUSEPPE DUSO
termine, a cui siamo abituati a partire dalle rivoluzioni americana e
francese, quello cioè della carta che fissa l’ordinamento giuridico
fondamentale dello Stato, che ne stabilisce i distinti poteri e che li
regola mirando alla difesa dei diritti fondamentali dei cittadini.
Tenendo presente che, in questo stesso quaderno, il tema è espres-
samente affrontato con ben maggiore competenza, mi limito ad
alcune osservazioni relative al tema della sovranità.
Anche se la costituzione, nel senso che viene a prendere a
partire dalla Rivoluzione francese, delinea i diritti dei cittadini che
devono essere garantiti e stabilisce la separazione dei poteri, tuttavia
essa non è pensabile se non in relazione al concetto di sovranità. Lo
implica infatti necessariamente in un duplice modo: innanzitutto in
quanto ci può essere costituzione giusta solo in quanto vi è un
soggetto che legittimamente può stabilirla, e questo soggetto, dopo
la lezione di Rousseau, altri non può essere che il popolo. Cosı̀ si
procede sull’onda della neutralizzazione moderna e dell’assolutizza-
zione della volontà: se non ci sono punti di riferimento condivisi a
cui riferirsi in relazione a ciò che è giusto fare nella vita in comune
degli uomini, non resta che la decisione sovrana dell’unico soggetto
legittimato a prenderla, cioè quello che si identifica con la totalità dei
cittadini. Nella costituzione viene in luce quella dimensione costi-
tuente del popolo emersa con Rousseau, che era sconosciuta alla
tradizione pre-moderna. Questa dimensione del popolo resta pre-
sente anche nella realtà costituita e riemerge nel tentativo ricorrente
di interrogare direttamente la volontà del soggetto collettivo, al di là
della mediazione istituzionale del corpo rappresentativo.
Ma l’altro aspetto secondo il quale la sovranità opera nella
costituzione è quello della determinazione del corpo che ordinaria-
mente esprime la volontà del popolo, in quanto è da esso eletto al
). La formazione della legge è
fine della formazione della legge (
19
elemento tipico e primario della sovranità: in ciò sta la novità del
concetto, nei confronti di una millenaria tradizione in cui il pro-
( ) Naturalmente non è il popolo che vota, ma sono i singoli individui: il
19
cosiddetto “popolo” è il risultato della volontà espressa dalla maggioranza del corpo
, Repräsentative Demokratie: Entstehung, Logik und Aporie ihrer
degli eletti (cfr. G. D USO
Grundbegriffe, “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 30
(2001), pp. 45-80). © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
122 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
blema di colui che esprimeva atti di comando era di governare
secondo le leggi. Il sovrano in senso moderno (o il rappresentante del
popolo sovrano) non deve tanto governare secondo le leggi, ma
decidere la legge. E perciò sia il comando dell’unico soggetto legit-
timo, cioè del popolo come soggetto collettivo, sia il modo nuovo di
intendere il governo come potere esecutivo appaiono dipendenti dal
concetto di sovranità.
Tale seconda modalità di espressione della sovranità richiama
quell’elemento della rappresentanza che, come si è detto, è ad essa
strettamente intrecciato. La rappresentanza, nella sua logica, appare
come la messa in atto concreta del concetto che era stato elaborato
da Hobbes. Non solo infatti si costituisce un corpo rappresentativo
che dà voce e azione al soggetto collettivo, ma, attraverso la concreta
procedura dell’elezione, si realizza quel processo di autorizzazione
che già nel Leviatano si mostrava come necessario a costituire
l’autorità. Anche qui il concetto di sovranità del corpo collettivo è
pensabile solo a partire dalla funzione fondante dei singoli individui.
È quasi inutile ripetere che, in una concezione in cui non c’è
mandato imperativo, in cui i singoli, astratti da ogni rapporto reale
e da ogni determinazione differente — gli individui uguali —
esprimono un voto che consiste nella indicazione della persona del
rappresentante, e nella quale la funzione della rappresentanza è
quella di dare forma alla volontà comune, non c’è nessun passaggio
di volontà determinate; piuttosto la cosiddetta espressione di vo-
lontà in cui consiste l’elezione si risolve appunto nel processo di
autorizzazione, secondo il quale qualcuno viene autorizzato non ad
esprimere la volontà di coloro che lo hanno eletto, ma a dare forma
).
a qualcosa di nuovo: la volontà unitaria del corpo elettivo (
20
Ci troviamo di fronte, con la prima costituzione del 1791, a
quell’intreccio di sovranità, rappresentanza e unità politica che è
stato sopra indicato come caratterizzante la nascita dei fondamentali
concetti politici della modernità. In questo quadro, come risulta
chiaro da quanto dice Sieyes su ciò che è da rappresentare —
l’interesse generale e quello del singolo, ma non certo l’interesse di
gruppo — e dalla legge Le Chapelier, che intende fare piazza pulita
( ) Su questo aspetto delle elezioni contemporanee ho insistito in Repräsentative
20
Demokratie, cit.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 123
GIUSEPPE DUSO
di una società cetuale e corporativa, ciò che appare categoricamente
escluso è la dimensione politica plurale dei gruppi e delle aggrega-
zioni. Le modalità della rappresentanza, sia per quanto riguarda la
sua base elettiva, costituita dai i cittadini uguali, che singolarmente
e fuori da ogni differenza e aggregazione si presentano all’urna, sia
per quanto concerne l’operare del corpo rappresentativo come
un’unica persona, secondo quella legge della maggioranza che Hob-
bes aveva bene chiarito nel capitolo XVI del Leviatano, escludono a
priori la pluralità dei soggetti politici. Da un punto di vista costitu-
zionale il gioco che si viene a determinare è quello che vede da una
parte il soggetto individuale, il cittadino, il cui atto politico consiste
nell’investire qualcuno del compito di decidere politicamente in sua
vece, e dall’altra il soggetto collettivo che esprime la volontà e
).
l’azione dell’unica persona civile ( 21
4. Lo stato costituzionale contemporaneo.
Si può pensare che questa presenza insopprimibile della logica
della sovranità nella costituzione sia un portato della fase costitu-
zionale immediatamente successiva alla Rivoluzione francese. Molto
è cambiato con il Novecento, con l’estensione del suffragio, con la
nascita dei partiti organizzati, con la nuova dimensione delle demo-
crazia di massa, con la complessificazione della società e conseguen-
temente anche dei compiti dello Stato, non solo, ma anche con la
modificazione delle costituzioni e della loro funzione in relazione ai
processi materiali. Ci sono molte ragioni per delineare un quadro a
( ) Naturalmente non intendo qui riferirmi alle differenze ideologiche rappre-
21
sentate dai partiti, che sono insieme una complicazione, ma anche un prodotto di questa
logica dell’unità politica e dello scarto esistente tra la molteplicità delle opinioni
individuali e la necessità di esprimere una volontà unica. Che la forma politica sia aperta
costitutivamente a questo tipo di differenziazione ideologica dei partiti appare chiaro fin
dall’inizio e non appena ci si ponga la domanda su chi e come esprimerà la volontà di
tutto il popolo. Le differenze che sono negate nel loro significato politico sono piuttosto
quelle esistenti tra i gruppi sociali, dipendenti da elementi materiali, da collocazioni
specifiche nella società e tali da identificare in modo diverso bisogni, interessi, compe-
tenze, punti di vista prospettici dei singoli. Si tratta di differenze molteplici ma
determinate e non delle infinite differenze che possono esserci tra i singoli e che vengono
azzerate dal meccanismo della rappresentanza.
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124 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
noi più vicino in cui gli elementi propri della sovranità non appaiono
). Al fine di intendere la
più espressivi della realtà costituzionale ( 22
realtà contemporanea si può riconoscere l’insignificanza in cui sono
caduti elementi caratterizzanti la forma politica moderna, quali
quelli del popolo sovrano, della rappresentanza come forma di
legittimazione, della indipendenza del corpo rappresentativo nel
decidere la legge, della superiorità della volontà generale nei con-
fronti degli interessi privati di gruppi e organizzazioni: tutto ciò
appare destituito di forza ermeneutica e anche di capacità legitti-
mante in relazione all’obbligazione politica e ai processi di quella
che è stata chiamata la costituzione materiale.
Non è difficile ravvisare nello Stato costituzionale contempora-
neo anziché atti di decisione sovrana, piuttosto il tentativo di
coordinamento e di arbitrato in relazione ad una pluralità di forze
socialmente esistenti. Potrebbe sembrare prevalente l’elemento as-
sociativo che caratterizza i gruppi che esercitano funzioni nella
società e pressioni sul corpo politico. Nei confronti della pluralità
dei gruppi è la giurisdizione ad esercitare una funzione di regola-
zione, quasi come accadeva in quella prima età moderna in cui la
sovranità non era nata e non determinava quindi il quadro della
politica. La stessa costituzione prende un ruolo sempre più attivo
nella costruzione di limiti rigidi all’interno dei quali legislativo e
governo si muovono, limiti che escludono la strapotenza che il
concetto di sovranità comporta. La stessa pretesa della maggioranza
di imporre la sua volontà come volontà unitaria della nazione viene
in tal modo ridimensionata e limitata.
È significativo che sempre più si senta il bisogno di garanzie
costituzionali, esercitate da organi, come le corti costituzionali, che
non sono elettivi e sembrano adatti a regolare possibili eccessi degli
). Da questo punto di vista si potrebbe pensare che
organi elettivi (
23
( ) Tengo qui presente la proposta interessante degli ultimi lavori di Maurizio
22
Fioravanti, che culminano in un tentativo di porre in modo nuovo il problema di una
, Stato e costituzione, in Lo stato moderno
costituzione per l’Europa (cfr. M. F IORAVANTI
, Laterza, Bari-Roma 2002, pp. 3-36, e dello stesso,
in Europa, a cura di M. F IORAVANTI
La scienza del diritto pubblico, Giuffrè, Milano 2001, tomo II, pp. 835-906, sp. 835-853).
) Ha opportunamente richiamato l’attenzione su questo tema P. P , Gli
( 23 ASQUINO
organi non-elettivi nelle ‘democrazie’, in L’Europa e il futuro della politica cit., p. 149-163;
è la stessa nozione di democrazia che tende a cambiare in relazione a quelli che sono stati
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 125
GIUSEPPE DUSO
regolazioni costituzionali vadano in direzione di una migliore e più
sana democrazia, contro il principio semplice della democrazia come
potere del popolo, che, come si è detto è il prodotto del concetto di
sovranità.
Tale limitazione, o addirittura espunzione del principio di so-
vranità all’interno corrisponde ad una evidente perdita di sovranità
degli Stati verso l’esterno, innanzitutto per i condizionamenti che
provengono dalla situazione politica internazionale e da movimenti
economici che hanno una portata mondiale: All’interno di una
situazione strutturale di questo tipo è del tutto irrealistico pensare a
“decisioni sovrane”, e dunque autonome e indipendenti, da parte
delle entità statali. Ma anche processi come quelli che hanno portato
all’Unione europea presentano una situazione nuova, non più leg-
gibile secondo la logica della sovranità, secondo la quale o ci sono
trattati internazionali stipulati da soggetti sovrani, o c’è una realtà
nuova che li supera presentandosi come Stato sovrano essa stessa.
Tutto ciò può fare suggestivamente pensare — e molte voci vanno in
questa direzione — ad un ritorno, dopo la parentesi dello jus
publicum europaeum, dominato dalla sovranità, alla complessità e al
).
pluralismo che si possono ravvisare nella prima età moderna. (
24
Non in dissonanza, mi sembra, con tale descrizione si può
pensare a quanto si siano modificate le modalità concrete in cui
avvengono le scelte politiche, che sono il risultato di un incrocio
complesso di forze di vario tipo, e non appaiono più il frutto di una
decisione libera del corpo da tutti autorizzato ad esprimere la
volontà sovrana del popolo. Le decisioni sembrano addirittura
sottratte ai luoghi istituzionali deputati a ciò. La stessa distinzione
tra un punto di vista statale, superiore agli interessi di parte e teso
alla difesa uguale dei diritti dei cittadini, e lo spazio sociale della
competizione dei gruppi appare superata, al punto che pubblico e
privato non possono più essere determinati mediante una netta
i suoi concetti fondamentali. A questo proposito si può tuttavia osservare che l’aspetto
di legittimazione democratica legato all’espressione della maggioranza del popolo attra-
verso il corpo rappresentativo o forme referendarie non è, attraverso tali organi
costituzionali, tacitato o eliminato, come mostrano i recenti dibattiti legati sia alla
situazione italiana, sia a quella europea.
) F , Lo stato moderno in Europa cit., sp. pp. 32-34 e D. G , Die
( 24 IORAVANTI RIMM
Zukunft der Verfassung, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1991, p. 434.
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126 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
separazione. Da questo punto di vista si può dire che determinare il
problema politico a partire dal legame e dalla distinzione insieme di
soggetto individuale e soggetto collettivo appare un atteggiamento
teorico superato da una realtà in cui, come le decisioni statali
appaiono condizionate da spinte e influenze di gruppi e associazioni,
cosı̀ anche i singoli trovano modalità molteplici e diverse di espres-
sione all’interno di forme aggregative, partecipando a processi che
non trovano certo nell’individuo indipendente il loro fondamento. È
tuttavia da chiedersi se la conclusione di queste osservazioni sia
quella del riconoscimento di un nuovo modello costituzionale, che
ha superato quello legato alla sovranità, oppure se non ci si trovi
piuttosto di fronte ad un quadro di crisi e di trapasso, nel quale si fa
fatica a staccarsi da un modello che sembra obsoleto e soprattutto da
quelli che sono stati i suoi concetti fondamentali.
5. Perché guardare alla Politica di Althusius.
Prima di tentare una risposta a questa domanda è tuttavia utile
fare alcune osservazioni in relazione ai richiami che dalla nostra
contemporaneità si possono fare a un quadro storico e di pensiero
rintracciabile nella prima età moderna, dal momento che un tale
riferimento appare sempre più diffuso nel dibattito attuale, assieme
a quello che riguarda un pensatore politico notevole, ma fino a poco
tempo fa quasi totalmente ignorato, quale è Johannes Althusius. Una
giustificazione per un tale interesse è stata indicata già all’inizio: la
comprensione della nostra contemporaneità ci è inibita se rima-
niamo acriticamente all’interno dei concetti nati con la forma poli-
tica moderna, quasi fossero concetti necessari ed eterni, e se non
abbiamo un orizzonte più ampio, nel quale i concetti moderni sono
relativizzati e visti nella loro genesi e, probabilmente anche nella loro
crisi. Lo sguardo non solo alla prima età moderna, in cui sono
presenti una serie di concezioni e di realtà che non hanno ancora
subito il taglio decisivo della scienza politica moderna, ma anche al
pensiero politico dei greci e della tradizione medievale, appare da
questo punto di vista importante. Ugualmente appare importante, al
di là dei giudizi sulle conquiste della modernità, comprendere cosa
è andato perduto nella semplificazione formale dell’ordine moderno;
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 127
GIUSEPPE DUSO
e qui, tra le altre cose che si possono nominare, pluralità, differenze,
partecipazione e consenso hanno probabilmente il loro posto.
Trovo dunque appropriato e denso di sollecitazioni il riferi-
mento ad Althusius quando si vuole riflettere criticamente sulla
sovranità, nella consapevolezza della sua crisi. Dal momento che da
tempo ho cercato di indirizzare l’attenzione sulla ricchezza di pen-
siero che si manifesta nella sua Politica e sui vantaggi che ci offre
pensare oggi ad essa, proprio in quanto non è fagocitata dalla logica
dei concetti moderni, cioè quelli delle moderne costituzioni e quelli
che operano ancora nella nostra mente quando pensiamo la politi-
), mi sembra necessario fare alcune precisazioni sui pericoli che
ca ( 25
possono mediante un riferimento troppo immediato a questo autore,
nell’ottica del reperimento di un modello politico o costituzionale, di
un modello federalistico, inteso magari come quello in cui prevale
una dimensione orizzontale o quella della formazione del potere dal
basso. Mi sembra che una tale proposta, che si muove all’interno di
una scienza politica che si esprime per modelli, da una parte faccia
torto al pensiero di Althusius e rischi di fraintenderlo, e dall’altra,
visto che i danni operati da una distorta comprensione del passato
sono legati — spesso dipendendone — dalla riduttività mediante la
quale si pongono i problemi del presente, non colgano la comples-
sità del compito che ci sta oggi di fronte, non risolvibile con modelli,
tanto meno con un presunto “modello althusiano”.
Ho recentemente cercato di mostrare come non solo il concetto
di maiestas populi quale si trova nella Politica di Althusius non
costituisca nessuno scalino o punto di passaggio nella storia mo-
derna della sovranità, ma al contrario, che quest’ultima nasce solo
nel momento in cui il modo di pensare la politica in cui hanno un
senso determinato nella Politica i termini di maiestas e populus è
( ) Rimando per i punti principali del pensiero di Althusius e per la sua
25
differenza nei confronti dei concetti nati con il giusnaturalismo al mio Mandatskontrakt,
, W.
Konsoziation und Pluralismus in der politischen Theorie des Althusius, in G. D USO
, D. W (Hrsg), Konsoziation und Konsens. Grundlage des modernen
K RAWIETZ YDUCKEL
Föderalismus in der politischen Theorie, Duncker & Humblot, Berlin 1997, pp. 65-81, e
a Una prima esposizione del pensiero politico di Althusius cit. Per una proposta sul
, Sozietaler
federalismo di Althusius e la sua possibile attualità si veda Th. H UEGLIN
Föderalismus. Die politische Theorie des Johannes Althusius, W. De Gruyter, Berlin-New
York 1991 (discusso nel n. 21 (1992) di “Quaderni Fiorentini”, pp. 611-622).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
128 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
destituito di ogni valore ( ). È proprio nella direzione della cancel-
26
lazione di questo pensiero della politica che nasce quella costruzione
teorica che, a partire dai diritti degli individui, dalla loro uguaglianza
e libertà, fonda la sovranità moderna, cioè il potere che realizza i
diritti. Con Althusius ci troviamo fuori della dimensione della
sovranità e dunque fuori della dimensione del potere e di un modo
formale di intendere il rapporto tra comando e ubbidienza. Nei
diritti di maestà abbiamo tutt’altro che l’idea di una volontà sovrana
che decide, sia essa quella del sommo magistrato, sia essa quella del
popolo. E ciò perché ci troviamo in un quadro complesso, in cui
tutto ciò che è rilevante non dipende dalla volontà di qualcuno, sia
costui colui che governa oppure chi è governato. Non c’è qui
quell’assolutizzazione della volontà che è nata con il nichilismo
moderno e con l’operazione di cancellazione del pensiero del pas-
sato e dell’esperienza che è presente nella descrizione contrattuali-
stica dello stato di natura.
Se questo è vero, allora si può affermare che, non solo non è
presente la dimensione di comando propria del potere, che viene
dall’alto, ma nemmeno quella della sua formazione dal basso: am-
bedue queste direzioni (non a caso formali, geometriche, prive di
valenza qualitativa, estranee alla determinatezza dei contenuti) sono
pensabili solo in un contesto di assolutizzazione della volontà e di
determinazione formale dei rapporti e del significato della legge, che
è estraneo al pensiero di Althusius. Perciò l’elemento consociativo
della politica althusiana non indica una dimensione opposta a quella
verticale del potere, ma è un’altra cosa, come si può evincere dalla
convinzione, esplicitamente espressa, che, come tra gli uomini è
naturale e primario il rapporto con l’altro e dunque la dimensione
della koinonia e della comunione, altrettanto è naturale e razionale
che ci sia un rapporto di governo, secondo il quale chi ha più forza
e saggezza governa gli altri: ciò è bene per chi governa e per chi è
governato. Senza governo non è pensabile il fenomeno associativo.
L’istanza di governo comporta un necessario elemento di unità
proprio in quanto ci si muove in un quadro che contempla la
( ) Cfr. G. D , La maiestas populi chez Althusius et la souveraineté moderne, in
26 USO
Penser la souveraineté à l’époque moderne et contemporaine, a cura di G.-M. C AZZANIGA
e Y.-C. Z , ETS e Vrin, Pisa e Paris 2001, pp. 85-106.
ARKA © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 129
GIUSEPPE DUSO
pluralità dei soggetti politici (che non sono gli individui). Il rapporto
ad unum è dunque corrispettivo al riconoscimento della pluralità dei
soggetti che caratterizza il popolo: è proprio questa pluralità e la
diversità che connota le parti della società a richiedere una funzione
di guida e di coordinamento. Tale rapporto ad unum è tutt’altro
dall’unità politica che connota la sovranità, se è vero che ad essa è
connaturato l’aspetto formale sopra indicato, secondo cui il popolo
coincide con il sovrano e si manifesta attraverso la sua funzione
rappresentativa.
Ambedue le dimensioni della società, quella consociativa e
quella del governo, intrinsecamente legate tra loro, sono negate dal
nuovo concetto di potere con la sua assolutizzazione della volontà.
Tra il principio di governo, che, come dice Brunner, ha organizzato
per una millenaria tradizione le discipline pratiche, etica, economica
e politica, e il concetto moderno di potere vi è una differenza
). Il secondo nasce solo come negazione del primo e in
radicale ( 27
connubio necessario con il nuovo concetto di libertà. Intendere
l’imperium di Althusius come una forma di potere comporta dunque
intenderlo mediante quel concetto che è nato con Hobbes proprio al
fine di negare una relazione di governo tra gli uomini. In questo
modo non solo si fraintendono le fonti del passato, ma essendo figli
della svolta epistemologica weberiana, si tende ad ipostatizzare il
potere e ad intenderlo come realtà oggettiva. Da qui può derivare o
una lettura di Althusius ridotta ad un modello di costruzione del
potere dal basso, oppure, se non si cancellano le dimensioni reli-
giosa, etica, giuridica della Politica, una lettura che demanda al
regno dell’ideologia le giustificazioni della razionalità dell’imperium
che appunto non si riducono alla espressione di volontà degli
individui.
Di dimensione orizzontale e dimensione verticale noi possiamo
propriamente parlare solo all’interno di quella neutralizzazione di
elementi qualitativi che si attua nell’ambito della moderna teoria
della sovranità: in questa il potere non può essere esercitato che
dall’alto, dal momento che appartiene all’unica persona civile e non
ai singoli, e richiede ubbidienza assoluta e negazione di ogni resi-
stenza, proprio per garantire l’uguaglianza e impedire i soprusi del
( ) Rimando ancora al mio Fine del governo e nascita del potere cit.
27 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
130 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
più forte sul più debole; tuttavia ciò è possibile solo in quanto la sua
fondazione proviene dal basso, cioè da coloro stessi che sono
soggetti al comando, come si è visto. I rapporti tra i singoli possono
quindi essere considerati su di un piano orizzontale, determinato da
una uguaglianza che elimina ogni possibile gerarchia, ma tali rap-
porti sono privi di qualsiasi significato politico, sono appunto rap-
porti privati, la cui orizzontalità è resa possibile solo grazie al potere
della persona sovrana. In Althusius invece la dimensione plurale
della società, costituita da differenti raggruppamenti tra gli uomini,
nei quali si danno gerarchia e status diversi, richiede necessaria-
mente una forma di governo, mediante la quale non si instaura un
rapporto formale di comando e ubbidienza, ma piuttosto si pone in
atto un esercizio di guida e coordinamento (appunto di governo),
che implica bensı̀ una serie continua di comandi, ma comandi che
prendono il loro senso in relazione a realtà e contenuti concreti e che
si danno all’interno di un quadro di elementi considerati oggettivi e
indipendenti dalla volontà, che costituiscono punti di riferimento
per i governanti e anche per i governati, per il giudizio di questi
ultimi sul comando e per la negoziazione della loro ubbidienza.
In questo quadro, il diritto di resistenza non si basa su un
presunto potere sovrano del popolo, ma, al contrario, proprio sulla
mancanza del concetto di una volontà sovrana. Il diritto di resistenza
implica la pluralità dei soggetti (pluralità che è possibile in quanto i
soggetti sono gruppi e consociazioni e non singoli individui), il
dualismo tipico della società cetuale, tra l’istanza del principe e
quella dei ceti, e inoltre la rilevanza di un quadro reale, nel quale è
possibile orientarsi, di cui fanno parte il buon diritto antico, l’ambito
della giurisdizione, i testi sacri, la religione, la conformazione del
regno e l’esistenza delle sue parti, cioè dei membri del regno.
L’istanza del governo, presente in tutti i livelli consociativi della
), non esprime il corpo collet-
Politica, perfino in quello familiare ( 28
tivo, il quale si manifesta piuttosto attraverso gli organi collegiali,
che affiancano e si contrappongono (non necessariamente nel senso
( ) È da ricordare che non è possibile qui la distinzione tipica della politica
28
moderna e caratterizzante le costituzioni, tra società e Stato: anche la famiglia, che pur
è consociazione privata non di meno è trattata nella Politica: politico non si identifica con
pubblico. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 131
GIUSEPPE DUSO
dell’opposizione, ma normalmente in quello della collaborazione e
del controllo) a quella istanza di governo in concomitanza con la
). A differenza che nel concetto di potere, nel
quale sono pensati (
29
principio del governo il soggetto collettivo non è mai il soggetto del
governo (l’azione di governo è attribuibile proprio a colui che
governa e non al popolo), ma è piuttosto di fronte a chi governa;
perciò nella democrazia — che qui è ancora una forma di governo
e non ha niente a che vedere con il potere del popolo e dunque con
la sovranità — l’istanza del soggetto collettivo non è incarnata dalla
forma democratica di governo, ma dagli organi collegiali che con-
trollano quel governo. A differenza che nel frontespizio del Levia-
tano, il popolo non è attraverso il sovrano, ma di fronte al sovrano,
e non in senso ideale, ma reale: è cioè soggetto capace di azione.
Ciò è possibile solo a patto che il popolo non sia inteso come
totalità degli individui uguali, come cioè una dimensione ideale che
non passa all’effettività se non attraverso l’opera formatrice del
rappresentante, sia esso il sovrano rappresentante o il rappresen-
tante del popolo sovrano. Nella Politica il popolo non è grandezza
), e formata non da
costituente, ma piuttosto grandezza costituita ( 30
( ) Il ragionamento a questo proposito richiede una maggiore complessità, come
29
è evidente se si pensa all’aspetto rappresentativo che connota pure il sommo magistrato
in relazione al regno. Tale elemento rappresentativo non mi pare debba e possa essere
tuttavia interpretato nell’ottica della moderna rappresentazione dell’unità politica, ma
piuttosto all’interno di una concezione complessa e plurale della rappresentanza. Se
questa, per quanto riguarda il pensiero di Althusius, è considerata in modo unitario e
all’interno della concezione - moderna - del potere, allora ci si può immaginare una
procedura di formazione dal basso del potere (che, come si è visto, è tipica della moderna
concezione della sovranità); se invece si ravvisa nella Politica di Althusius una duplicità
di forme rappresentative, una prima identitaria, espressa dagli organi collegiali, ed una
seconda, cerimoniale e regale, espressa dal sommo magistrato, si comprende come il
quadro sia assai diverso e più complesso in relazione al nesso sovranità-rappresentanza
tipico della concezione politica moderna. Cfr. su ciò il mio Una prima esposizione del
, Repräsenta-
pensiero politico di Althusius cit. sp. pp 107 ss., e soprattutto H. H
OFMANN
tion in der Staatslehre der frühen Neuzeit. Zur Frage des Repräsentativprinzips in der
“Politik” des Johannes Althusius, in Politische Theorie des Johannes Althusius cit., pp.
, Recht, Politik, Verfassung, Metzner
513-542 (lo stesso saggio è anche in H. H OFMANN
Verlag, Frankfurt am Main 1986, pp. 1-30).
) Il popolo può avere una funzione costituente, come avviene nel caso della
( 30
costituzione del regno, ma ciò solo a patto di essere una grandezza costituita, dunque
composta di parti differenti e determinate.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
132 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
individui, ma da parti, cioè da gruppi, all’interno dei quali i singoli
hanno la loro concreta realtà e trovano le modalità della loro
partecipazione politica; conseguentemente non è l’individuo ad
essere posto alla base della costruzione. Un federalismo che pensi gli
individui come i veri soggetti che stanno alla base della politica e che
ragioni in termini di potere non sembra essere quello che traspare
). Piuttosto in quest’ultimo l’elemento primario
dai testi althusiani (
31
è costituito dalla consociazione e dal diritto simbiotico, all’interno
del quale sono pensati gli individui. Si badi bene, non è che non
abbiano rilevanza o dignità gli uomini singoli, le persone; piuttosto
è l’individuo in quanto tale, come cioè astratto dai rapporti che lo
costituiscono, a non avere realtà e a non poter essere fondamento
della politica. Non solo l’individuo, ma nemmeno la volontà — sia
pure quella degli organi collegiali — può essere fondamento della
politica: non può essere una volontà autonoma e indipendente a
potere essere decisiva per l’azione: condizionanti e rilevanti per
l’orientamento di quest’ultima sono piuttosto i punti di riferimento
che sono stati sopra indicati.
Tutto ciò è qui solo schematicamente ricordato per indicare che,
se il riferimento al pensiero di Althusius rappresenta una mossa
felice del pensiero, esso tuttavia ci fa comprendere quanto arduo sia
il compito di pensare la politica nel nostro presente. Se ravvisiamo
nella sua dottrina un modo diverso da quello della sovranità mo-
derna di intendere il potere (all’interno della cui ottica, in tal modo,
continuiamo a pensare), non solo non cogliamo la dimensione
caratteristica della sovranità, in quanto non intendiamo la sostanzia-
lità per essa del processo di autorizzazione, ma rischiamo di man-
tenerci, in modo acritico, all’interno dei due presupposti fondamen-
tali della scienza politica contemporanea, costituiti da Hobbes e da
Weber, e di proiettare il prodotto di questa scienza nella realtà
ipostatizzandolo, di modo che il rapporto di potere è concepito
come una realtà sempre presente nella storia. Mettere in questione
( ) Dico ciò non solo per denunciare il travisamento del pensiero althusiano in
31
chiave liberale contemporanea, ma anche per mostrare i compiti nuovi che abbiamo
nella nostra società, che è assai diversa da quella cetuale propria del pensiero di
Althusius: si vedano per questo i problemi avanzati in relazione al tentativo di pensare
il federalismo oggi in Tra Unione europea e forma-Stato cit., sp. pp. 222 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 133
GIUSEPPE DUSO
attraverso Althusius il quadro della sovranità, significa anche mettere
in questione gli elementi che hanno permesso la costruzione teorica
di quest’ultima, innanzitutto la dimensione fondante dell’individuo,
della sua volontà e dei suoi diritti. Di più: è lo stesso modo di
pensare la politica a partire dai diritti degli individui ad essere messo
in questione, nel momento in cui si presenta alla nostra riflessione
una concezione che situa i singoli uomini all’interno del diritto
simbiotico, all’interno di un contesto di koinonia, nel quale solo il
singolo ha un suo significato. Si potrebbe dire allora che in questo
caso è il rapporto con l’altro a costituire l’elemento originario,
anziché la sfera del proprium e dei diritti individuali. Tale conce-
zione dell’individuo all’interno del diritto simbiotico e non come
elemento primario e fondante è intrinseca al significato che ha la
consociazione.
Ma un altro aspetto determinante è da tenere fermo. Non solo
l’essenza della consociazione è inseparabile dalla necessità del go-
verno, ma dimensione comunitaria e dimensione di governo sono
pensabili solo all’interno di un contesto che costituisce un quadro di
realtà condivise: come si è detto sopra, per Althusius religione,
diritto, costituzione del regno, delineano un orizzonte in cui quelle
due dimensioni sono pensabili, altrimenti non ci sono punti di
orientamento per l’agire (appunto per governare la nave della re-
pubblica in una direzione) e manca un quadro comune e condiviso
che permetta a coloro che sono sottomessi al governo di controllare,
giudicare e anche opporsi. Lo stesso pluralismo che si può rintrac-
ciare nel federalismo althusiano non è certo reso possibile da una
messa tra parentesi della fede, da un ordine formale basato sul
relativismo, ma, al contrario, da un quadro condiviso, come mostra
la rilevanza del patto con Dio. Anche la figura dell’impero, contra-
riamente dall’uso oggi corrente, come forza che tutto rende omoge-
neo e ingloba, è segno di un quadro di relazioni nel quale l’istanza
superiore di governo è intrinsecamente legata al pluralismo dei
soggetti e dei corpi territoriali.
Se si astrae da questo contesto complesso e si ritengono reli-
gione, testi sacri, diritto antico, tradizioni, realtà delle aggregazioni e
dei gruppi, come inessenziali e si riduce il pensiero espresso nella
Politica a un modello di organizzazione del potere, si è in realtà
riportato il pensiero di Althusius all’interno del quadro di neutra-
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
134 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
lizzazione della questione della verità e della giustizia che caratte-
). Dunque
rizza il processo di nascita della sovranità moderna (
32
questo tentativo di attualizzazione immediata del pensiero di Althu-
sius non solo porta al suo fraintendimento, ma riduce la rilevanza
che esso ha, proprio in quanto irriducibile all’orizzonte del potere, in
relazione al compito — nuovo — che oggi ci troviamo di fronte.
6. La difficile comprensione del presente e il processo di decostitu-
zionalizzazione.
Questo compito nasce dalla necessità di pensare il pluralismo in
un tempo, nel quale il pensiero e la storia della soggettività si sono
intrecciati con fenomeni politici ed economici, con lo sviluppo della
statualità moderna, con l’affermarsi della produzione capitalistica,
un tempo dunque che non è caratterizzato da una società cetuale, in
cui non è un’unica religione o il patrimonio di comuni testi sacri a
determinare un piano comune di condivisione, né è presente, nel
senso sopra indicato, la figura dell’impero e nel quale si è avuta
l’esperienza secolare dello Stato come fonte del diritto. Per uscire
dal presupposto della sovranità e dalla morsa dell’unità politica
bisogna superare la funzione che ha ancora nelle stesse procedure
costituzionali (vedi elezioni) la dimensione fondante dell’individuo,
la logica dei diritti e il nichilismo che caratterizza il concetto
moderno di libertà, in cui l’affermazione dell’indipendenza della
volontà si accompagna con la destituzione di significato della realtà
(intesa nel senso più ampio e complesso). Ugualmente appare
necessario riuscire a ritrovare un orizzonte di condivisione (questo
( ) La denuncia dei problemi intrinseci al nichilismo moderno non va nella
32
direzione del richiamo di un quadro di verità, che organizzi in modo gerarchico la
società, ma piuttosto di un pensiero sulla realtà che si muova all’interno della domanda
di ciò che è giusto, della domanda e non della pretesa verità delle risposte a questa
domanda. Del resto la questione della giustizia si mostra all’origine della stessa costru-
zione della scienza politica moderna, anche se viene tacitata da quella risposta formale
che ha come suoi poli appunto la sovranità e il suo fondamento, costituito dal concetto
di libertà, che diviene centrale nel pensiero della politica. Su questa centralità che il
nuovo concetto di libertà viene ad assumere, in luogo dell’antica domanda sulla giustizia,
, Introduzione alla filosofia del diritto e della politica, Laterza,
si veda H. H
OFMANN
Bari-Roma 2003.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 135
GIUSEPPE DUSO
uno degli insegnamenti di Althusius), un piano etico comune, dove
il termine di eticità è privato di ogni carattere moralistico, del dover
essere, e indica invece, quasi hegelianamente, la rilevanza del rap-
porto con gli altri per la costituzione del sé.
Le lotte per i diritti possono essere considerate in tutta la loro
portata quando non è il ragionare sulla base dei diritti ad essere la
chiave della loro comprensione. Sono i diritti degli individui ad aver
prodotto — mediante quella logica che si fa evidente nella domanda
“chi deve dare ciò di cui ognuno ha diritto” — la sovranità e il
monopolio della forza. Il riprodursi di questa logica al livello
mondiale riproporrebbe le contraddizioni proprie del nesso di
sovranità-rappresentanza e porrebbe la domanda inquietante sul
soggetto che eserciterebbe la forza in un quadro in cui il problema
politico è ridotto a quello della polizia. Se sono i “diritti” di coloro
che non hanno riconosciuta la loro dignità umana a contare, allora
il piano comune è quello della rilevanza per me dell’altro e ciò a tutti
i livelli. In un tempo segnato da fenomeni che hanno carattere
mondiale non è difficile scoprire l’importanza e la ripercussione che
ha per noi quanto avviene in luoghi assai lontani, e ciò a livello
dell’economia, della politica, dei processi naturali o degli interventi
dell’uomo sulla natura, dei disastri ecologici ecc. Sembra anche
necessario trovare un terreno comune tra le diverse fedi; ma non
nella direzione di quella tolleranza che è insita in un modello di
democrazia formale, che in realtà è basato sulla convinzione della
irrilevanza delle fedi: una tale tolleranza appare infatti debole in
rapporto alle diverse forme di integralismo, che non possono essere
superate grazie alla comune accettazione di un orizzonte relativi-
stico. Piuttosto appare necessario rintracciare un piano che riesca a
valorizzare le fedi e a mostrare la possibilità e la fecondità della vita
in comune di uomini di diverse religioni e senza religione. Un
motivo non ultimo di questo incontro sta forse nella consapevolezza
della natura arrischiata della fede che è tradita dal suo trasformarsi
in un presunto possesso della verità.
Se ritorniamo al quadro sopra delineato dello stato costituzio-
nale contemporaneo, possiamo fare alcune considerazioni per ten-
tare di rispondere alla domanda che era emersa in relazione alla
comprensione insieme dell’Europa e delle trasformazioni delle co-
stituzioni statali. Certo è da condividere l’opinione che quello che
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
136 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
sta avvenendo in relazione all’Unione europea comporti una trasfor-
mazione delle costituzioni statali e non sia riducibile ad un semplice
accordo temporaneo di soggetti che rimangono sovrani, e che
tuttavia tale superamento della contingenza e temporaneità dell’ac-
cordo non comporti la nascita di una nuova sovranità. Il compito è
allora quello di pensare tali processi e i soggetti che a questi processi
danno luogo e che in essi si trovano con mezzi diversi da quelli della
concettualità segnata dalla sovranità. Non solo dunque al di là del
concetto di sovranità, ma al di là dei concetti che lo hanno prodotto
e dei principi e delle procedure che nella costituzione sono ancora
contraddistinti dalla logica della sovranità.
Se è vero che si è dato un processo di costituzionalizzazione, nel
quale la costituzione da una parte ha influenzato con i suoi valori e
), e dall’altra ha limitato e
le sue regole i vari ambiti del diritto ( 33
guidato l’espressione di una volontà sovrana del soggetto collettivo,
nella sua dimensione maggioritaria, si può tuttavia anche dire che si
è manifestato anche un processo diverso e in parte opposto, che
),
possiamo a buon diritto chiamare di de-costituzionalizzazione ( 34
nel quale sempre meno gli organi dello Stato mostrano di godere di
indipendenza (che sembrava all’origine necessaria ai fini della legit-
timazione dell’obbligazione politica) nelle decisioni loro spettanti, e
questo da una parte in seguito a fenomeni che hanno una portata
mondiale, di tipo economico e politico, o di realtà quale quella
appunto che sfocia nell’Unione europea, ma dall’altra a causa della
complessità e vischiosità dei processi in cui elementi economici,
istituzionali, politici, di gruppi e organizzazioni private si intrecciano
in modo tale da rendere la descrizione costituzionale dei soggetti e
( ) Cfr. H. H , Vom Wesen der Verfassung, Humboldt-Universität, Berlin
33 OFMANN
2002, p. 14.
) Anche Hasso Hofmann parla, di fronte ad un processo di costituzionalizza-
( 34
zione, di un processo di Entkonstitutionalisierung, che ha significato per le relazioni
interne e esterne dello Stato e che mostra in modo palese l’esaurirsi del significato che
la costituzione ha avuto nel suo legame con lo stato nazionale e con i principi nati con
il giusnaturalismo. Sulla nostra come epoca di decostituzionalizzazione si veda anche G.
, I paradossi della riforma costituzionale, in Il futuro della costituzione cit., pp.
Z AGREBELSKY
293-314, il quale critica i tentativi astratti di grande riforma, in favore di un atteggia-
mento che tenti costantemente con interventi particolari apparentemente limitati, di
unificare processi materiali e forma costituzionale.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 137
GIUSEPPE DUSO
degli organi di decisione del tutto inefficace in relazione alla com-
prensione di ciò che sta effettivamente avvenendo e degli elementi
che sono rilevanti per le decisioni. È lo stesso aspetto formale che
denota, ai diversi livelli, il soggetto della decisione nella costituzione
ad essere incapace di descrivere, comprendere e normare questi
processi. Si può dire che la costituzione manca anche del linguaggio
per nominare tali processi, in cui gli stessi momenti istituzionali
vengono a svolgere funzioni che non hanno rapporto con quanto
indicato e prescritto dalla costituzione.
Anche Dieter Grimm, che da una parte si interroga sulla
necessità di una costituzione per l’Europa, dall’altra esprime la
consapevolezza della drastica diminuzione che ha subito quella
capacità normativa che ha caratterizzato, a partire dalla Rivoluzione
francese, le costituzioni moderne ( ). Se si pensa che il concetto di
35
sovranità, nato nella teoria del nel lontano Seicento, ha preso una
sua dimensione storica con la Rivoluzione francese proprio mediante
la questione della costituzione e della nazione come suo soggetto
legittimo, allora può sembrare che assieme alla sovranità e allo stato
nazionale sia anche la costituzione a tramontare, almeno nel signi-
ficato che ha storicamente avuto. Il quadro che ci troviamo di fronte
mi pare, più che quello di un nuovo modello che ha preso congedo
dalla sovranità moderna, piuttosto quello nel quale un complesso
concettuale, nato attorno alla sovranità e calatosi nelle costituzioni
per normare la vita pubblica, emblematicamente rivela la sua diffi-
coltà a costituire un armamentario valido per comprendere oggi la
realtà e orientare l’agire individuale e collettivo.
A sostegno di tale affermazione sta la constatazione della per-
sistenza di elementi centrali della logica della sovranità nelle costi-
tuzioni contemporanee e nelle loro procedure. Penso non solo alla
funzione costituente del concetto di popolo e alla sua natura di unità
dei cittadini uguali e indifferenziati, ma anche alla valenza del-
l’espressione della volontà individuale per la costituzione della
( ) Cfr. D. G , Die Zukunft der Verfassung, Suhrkamp, Frankfurt am M.
35 RIMM
1991, sp. pp. 241 ss. Sulla posizione di Grimm, come pure su quella espressa da E. W.
, in Staat, Verfassung, Demokratie. Studien zur Verfassungstheorie und
B } }
O CKENFO RDE
Verfassungsrecht, Suhrkamp, Frankfurt am M. 1991, si vedano le interessanti osservazioni
, Quale futuro per la costituzione, in La scienza del diritto pubblico cit.,
di M. F IORAVANTI
835-853. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
138 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
volontà maggioritaria del corpo politico e alle procedure di forma-
zione della rappresentanza, che implicano la concezione del singolo
al là di ogni concreta differenza e si risolvono in una forma di
autorizzazione, con i dualismi e la mancanza di partecipazione che
caratterizzano la sovranità. Penso inoltre alla difficoltà costituzionale
di pensare la pluralità dei soggetti: una posizione abnorme hanno i
partiti che con la loro organizzazione non solo incanalano o contri-
buiscono a formare l’opinione pubblica e prefigurano soluzioni
prefissate per le scelte dei rappresentanti, ma anche mediante l’ag-
gregazione del loro personale, riescono a rendere vani alcuni degli
).
elementi tipici della costituzione, quale la divisione dei poteri (
36
Una difficoltà ancora maggiore ha la costituzione a pensare i gruppi
di interesse. Questi sempre più mostrano la capacità di influenzare
le decisioni politiche e diventano parti nella negoziazione delle scelte
pubbliche, e tuttavia sono ancora considerati come parte sociale
piuttosto che attori politici con la responsabilità che ne consegui-
rebbe. In altri termini la costituzione appare fondata sulla distin-
zione teorica — che sempre meno ha un significato reale — tra
società civile e stato e non è indirizzata ad una situazione plurale che
è pensabile solo in quanto risulti superata questa dicotomia ( ).
37
Tutto ciò non ha per altro un carattere negativo, di fronte a cui
rassegnarsi, né il dilemma a cui ci troviamo di fronte mi sembra
essere quello di una nuova capacità prescrittiva della costituzione o
di un abbandono ai flussi incontrollabili della realtà. Piuttosto il
problema che a noi si propone sembra essere quello di pensare la
realtà superando gli strumenti che appaiono inservibili, ma dai quali
si fa fatica a congedarsi: pensare la realtà significa non certo foto-
grafarla, o riprodurla nella teoria, ma piuttosto trovare i punti di
orientamento per non essere passivi all’interno dei processi e per
riuscire a guidarli alla luce della questione originaria della giustizia.
Pensare l’Europa ci aiuta ad essere sempre più consapevoli della
( ) Cfr. D. G , Die Zukunft der Verfassung, pp. 431 ss. (tr. it. 157 ss.): i partiti
36 RIMM
sono peraltro un fenomeno prodotto dalla costituzione e legato all’ottica dell’unità
politica e alla conquista del potere piuttosto che una forma di pluralismo politico.
) Cfr. anche quanto dice Grimm: “… Insofern setzt die moderne Verfassung
( 37
die Differenz von Staat und Gesellschaft voraus. Ungekehrt ist sie auf Akteure, Institu-
tionen und Verfahren, die sich auf diese Grenzlinien nicht festlegen lassen, nicht
eingerichtet” (Ibid).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 139
GIUSEPPE DUSO
crisi della concettualità che ha nei diritti degli individui e nel potere
del soggetto collettivo i suoi due poli. Pensare una costituzione per
l’Europa, è possibile a patto di cambiare il significato che la costi-
tuzione ha avuto nell’epoca moderna e di ripensare criticamente i
suoi principi, che si è soliti dare per scontati. Bisogna investire di
una domanda radicale gli elementi di base del pensiero politico
moderno: dunque il concetto di individuo e il suo ruolo, il concetto
di libertà che la riduce esclusivamente all’autonomia e all’indipen-
denza, la funzione dei diritti individuali e il concetto in cui questi
elementi si concentrano: quello di rappresentanza politica ( ).
38
Ma pensare in modo nuovo l’Europa non è possibile se non
pensando in modo nuovo la realtà che è stata rappresentata dalla
forma-stato, e ciò fino in fondo, non solo perché l’Unione Europea
è una realtà irriducibile alla statualità, ma anche perché il pensiero
che essa sollecita per la sua comprensione comporta il superamento
della concettualità classica dello Stato pure per quelle realtà statali
che ad essa danno luogo. In rapporto all’Europa la pluralità dei
soggetti può forse essere pensata in una accezione diversa da quella
della pluralità degli Stati, che sono pensati e organizzati sulla base
della sovranità e dei suoi concetti. Bisogna riuscire a pensare plura-
lità e partecipazione politica all’interno di quella realtà che è stata
delimitata e organizzata dalle costituzioni attraverso i poli costituiti
dal soggetto individuale e da quello collettivo. Non è tanto da
trovare la mediazione tra l’individuo e l’unità dello Stato, quanto da
riconoscere il loro essere astrazioni, riuscendo a dare dimensione
politica a quelle concrete e plurali forme in cui i cittadini si trovano
concretamente a vivere ed ad operare. Tutto ciò significa avere
anche la capacità di ripensare criticamente il modo in cui si è
determinata la democrazia come forma costituzionale che ha preso
l’avvio dai concetti sopra indicati di popolo e di sovranità, e ha
trovato nella moderna rappresentanza politica il suo strumento.
( ) Una nuova capacità del pensiero è sollecitata da H. H , Das Wesen der
38 OFMANN
, La scienza del diritto pubblico cit.,
Verfassung, cit., sp. p. 23, e anche da M. F
IORAVANTI
sp. p. 851. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
SABINO CASSESE v
CHE TIPO DI POTERE PUBBLICO E
L’UNIONE EUROPEA? (*)
1. Introduzione. — 2. L’Unione europea e gli ordinamenti compositi del passato. — 3.
Utilità e problemi di questo tipo di comparazione. — 4. Il carattere composito degli Stati
nazionali. — 5. Gli elementi comuni degli ordinamenti compositi: a) estensione geogra-
fica ed apertura. — 6. Gli elementi comuni degli ordinamenti compositi: b) figure di
composizione e grado di integrazione. — 7. Gli elementi comuni degli ordinamenti
compositi: c) organizzazioni fluide, non gerarchiche, diffuse. — 8. Gli elementi comuni
degli ordinamenti compositi: d) l’arena pubblica: “ius inventum” contro “ius positum”.
— 9. I fattori di crisi degli ordinamenti compositi del passato.
1. Introduzione.
L’Unione europea è un condominio, un consorzio, una costel-
lazione di istituzioni, una fusione di funzioni di governo, una
). Questa varietà di qualificazioni
struttura di reti di “governance” (
1
è il sintomo di una difficoltà, quella di stabilire che tipo di potere
pubblico sia l’Unione europea.
Non è la prima volta, tuttavia, che le scienze sociali incontrano
tale difficoltà. Anche di molti ordinamenti del passato, lontano e
vicino, si afferma che sono un cosmo o intrico di strutture (tali gli
)), un “loose bundle of widely differing,
ordinamenti medievali (
2
heterogeneous and independent territories” (cosı̀ l’Impero asburgi-
(*) Ringrazio i professori Stefano Battini, Giacinto della Cananea, Antonio Padoa
Schioppa e il dottor Matteo Gnes, che hanno letto una prima versione di questo scritto
e mi hanno fatto avere i loro commenti.
) F. S , Verso una teoria della multi-level governance in Europa, in “Rivista
( 1 CHARPF
italiana di politiche pubbliche”, 2002, n. 1, pp. 13 e 15.
) G. T , Sperimentazioni del potere nell’alto Medioevo, Einaudi, Torino,
( 2 ABACCO
1993, pp. 41 e 8. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
142 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
co ( )), un aggregato eterogeneo di territori (tale il ducato di Savoia
3 )), un mosaico di ordinamenti (cosı̀ il principato
nel Rinascimento ( 4
)).
dei Medici (
5
Può essere, allora, utile porre in rapporto tra di loro, avviando
una analisi storica comparativa, queste diverse esperienze, che
hanno in comune d’essere dominate da ordinamenti compositi.
Il tentativo può essere utile non solo per l’ovvio motivo che la
storia di altri ordinamenti similari del passato può aiutarci a com-
prendere meglio i caratteri dell’ordinamento europeo attuale, ma
anche per altri due motivi, che si passa ad indicare.
La comunità internazionale è riuscita, specialmente nella se-
conda metà del XX secolo, a far prevalere il principio della egua-
glianza formale dei soggetti del diritto internazionale, gli Stati.
Questo livellamento nasconde diversità che sono maggiormente
visibili in epoche precedenti, quando erano più evidenti gli squilibri
e le differenze tra i soggetti dell’ordinamento internazionale. Questi
squilibri e differenze portavano alcuni Stati nell’orbita di altri,
dando luogo a figure di composizione della più diversa natura, quali
gli Stati tributari, gli Stati vassalli, le unioni personali e reali di Stati,
le unioni coloniali, ecc. Tali figure di composizione, a loro volta,
producevano entità sovranazionali (o si dovrebbe dire a-nazionali?),
il cui esame può essere istruttivo per lo studio dell’Unione europea
d’oggi.
Queste entità sovranazionali, poi, presentavano caratteristiche
diverse da quelle degli Stati nazionali, che poi prevarranno, impo-
nendo, anche grazie al sopra indicato principio di eguaglianza
affermatosi nell’ordinamento internazionale, una visione Stato-cen-
trica. A questa si deve l’opinione prevalente per la quale tutti i poteri
pubblici vengono correntemente denominati Stati, con effetti per-
sino comici se si pensa che nelle scienze che si occupano di questi
temi prevale l’opinione secondo cui sarebbero assimilabili gli Stati-
( ) W. O , The Habsburg Monarchy in the Eighteenth Century: The Birth of the
3 GRIS -S (ed.), Legislation and Justice, Clarendon,
Modern Centralized State, in A. P ADOA CHIOPPA
Oxford, 1997, p. 312.
) A. B , Il ducato di Savoia, Amministrazione e corte di uno Stato franco-
( 4 ARBERO
italiano (1416-1536), Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 6.
) L. M , Il sovrano tutore - Pluralismo istituzionale e accentramento
( 5 ANNORI
amministrativo nel principato dei Medici (secc. XVI - XVIII), Giuffrè, Milano, 1994, p. 21.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 143
SABINO CASSESE
città della Grecia antica o dell’Italia nel basso Medioevo, gli Stati
nazionali unitari, come la Francia, e gli Stati federali, come gli Stati
Uniti d’America.
Dunque, l’avvio di un’analisi storico-comparativa dei poteri
pubblici compositi presenta due motivi di interesse: serve a com-
prendere meglio la natura dell’Unione europea; consente di liberarsi
della “dittatura” culturale stato-centrica e di riprendere in forma più
completa e corretta l’analisi dei diversi tipi di poteri pubblici
generali.
In questo scritto si tenta di iniziare l’analisi storico-comparativa,
avvertendo, però, che questa ha carattere introduttivo: servono ben
altre forze e preparazione per percorrere una strada tanto ardua.
Lo scritto è articolato in cinque parti. Nella prima sono definiti
gli istituti da comparare ed è indicato il modo in cui può essere
svolta la comparazione. Nella seconda sono mostrati utilità e pro-
blemi di questo tipo di comparazione. Nella terza è spiegato che
anche la storia degli Stati non è dominata dai paradigmi unitari e
centralistici in cui si è a lungo creduto. Nella quarta sono individuati
gli elementi caratteristici comuni all’Unione europea e agli ordina-
menti compositi del passato e sono poste a raffronto le relative
esperienze. Nell’ultima sono valutati i fattori di crisi degli ordina-
menti compositi del passato.
2. L’Unione europea e gli ordinamenti compositi del passato.
Gli ordinamenti da porre a raffronto sono quello europeo
odierno e quelli compositi del passato (o alcuni di essi).
L’ordinamento europeo risulta dalla parziale integrazione tra
quindici Paesi; ha una costituzione sovranazionale e quindici costi-
tuzioni nazionali, con prevalenza della prima su quelle nazionali,
salvo che per i principi fondamentali (ma solo per i Paesi con
costituzione scritta); ha due organi che si spartiscono le funzioni
governative, Commissione e Consiglio, il secondo dei quali è, a sua
volta, organo misto, composto di titolari della funzione governativa
in sede nazionale; ha un potere giudiziario, non organicamente, ma
funzionalmente sovraordinato sugli apparati giudiziari degli Stati; ha
un limitato potere esecutivo, perché per lo più esegue le decisioni
prese avvalendosi degli uffici degli Stati membri.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
144 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Gli ordinamenti del passato hanno presentato una grande quan-
tità di unioni o combinazioni, variamente classificate. Secondo un
punto di vista accettato, ma insoddisfacente, i generi principali
sarebbero stati quattro: unioni storico-politiche, unioni giuridiche
inorganiche, unioni giuridiche organiche, Stati federali. Al primo
genere apparterrebbero le unioni coloniali, le incorporazioni e le
unioni personali. Al secondo genere apparterrebbero le unioni
risultanti da trattati, da occupazione ed amministrazione, da al-
leanze, gli Stati tributari, gli Stati vassalli patrimoniali, i protettorati,
gli Stati compositi (o Stati di Stati). Del terzo genere farebbero parte
le seguenti specie: unioni internazionali, unioni d’ordine interno,
confederazioni di Stati e unioni reali. Al quarto genere apparterreb-
). Non tutti questi generi e specie
bero i diversi tipi di Stati federali ( 6
interessano per la comparazione con l’Unione europea, ma solo
quelli più vicini, come le unioni, reali e personali, e gli Stati
compositi. Solo questi, infatti, da un lato, comportano la coesistenza
di più ordinamenti; dall’altro, si accompagnano ad un certo grado di
equilibrio tra di loro.
Va notato, peraltro, che tra gli ordinamenti compositi del
passato e l’Unione europea (nonché gli altri ordinamenti compositi
odierni) vi sono due differenze fondamentali: nel passato, gli esecu-
tivi e la forza bellica giocavano un ruolo fondamentale; nell’Unione
europea, invece, i poteri legislativi e giudiziario sono in primo piano;
la guerra e l’uso della forza sono banditi e la stessa forma del-
l’Unione è frutto di limitazioni volontarie della sovranità.
Entità politiche comuni per il fatto di essere composite, ma
tanto diverse non solo per il fatto di appartenere ad epoche diffe-
renti, ma anche per il fatto di essere dominate da forze opposte,
come possono essere poste a raffronto? L’ipotesi che qui si affaccia
è la seguente: l’Unione europea, istituzione nuova ed originale nel
suo disegno complessivo, per cui è difficile ricondurla ai macro-
), è composta,
modelli o ideal-tipi utilizzati nelle scienze sociali (
7
( ) A. B , Unioni e combinazioni fra gli Stati. Gli Stati composti e lo Stato
6 RUNIALTI
federale, in Biblioteca di scienze politiche, vol. VI, parte prima, Utet, Torino, 1891, p.
XXXIV.
) In questo senso F. S , Verso una teoria della multi-level governance in
( 7 CHARPF
Europa, cit., pp. 15 e 36.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 145
SABINO CASSESE
tuttavia, di elementi che ricorrono anche negli ordinamenti compo-
siti del passato. Per cui occorre porre a raffronto non i modelli nel
loro insieme, ma alcuni dei loro tratti caratteristici, non gli edifici,
ma i materiali con cui sono stati costruiti.
Occorre, dunque, procedere scomponendo gli ordinamenti
nelle parti essenziali; rilevando somiglianze e differenze tra gli
elementi comuni; rintracciando, se possibile, il loro archetipo e la
loro evoluzione storica, in modo da accertare quanto abbiano con-
tribuito al successo e alla decadenza degli ordinamenti compositi.
Il metodo indicato presenta numerosi vantaggi. In primo luogo,
consente di non rinunciare all’analisi teorica dell’Unione, come
accade se si afferma che essa è istituzione “sui generis”, e quindi non
comparabile ad altre istituzioni. In secondo luogo, permette di
collocare l’Unione tra i diversi tipi di reggimenti politici generali, e
di sfuggire all’ottica Stato-centrica prevalente. Infine, consente di
valutare l’evoluzione dei diversi elementi e di compiere ragionevoli
previsioni sulla base della comparazione. Dunque, la storiografia, in
questo caso, non serve un’esigenza di conoscenza puramente storica,
diventa parte integrante della comparazione.
3. Utilità e problemi di questo tipo di comparazione.
Prima di procedere, è importante fare alcune avvertenze. La
prima riguarda l’utilità della comparazione che si può chiamare
storica per gli studi sull’Unione europea. Questi, fermi alla compa-
razione Unione-Stati federali, rischiano di rimanere asfittici, mentre
l’interrogazione del ricco repertorio del passato può arricchirli.
La seconda riguarda l’utilizzazione degli ordinamenti giuridici
compositi del passato. Per essi si pongono non pochi problemi.
Innanzitutto, con riguardo alla scelta dell’area geografica: Cina,
Giappone, Americhe presentano esempi di ordinamenti compositi.
È preferibile, però, far riferimento agli esempi europei, sia perché
più numerosi, sia perché è in questa area che si è sviluppata l’Unione
detta, appunto, europea.
In secondo luogo, con riferimento alla selezione del periodo,
perché gli ordinamenti compositi sono cambiati nel tempo, e la
comparazione può tener conto della fase iniziale, dell’apogeo, degli
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
146 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
ulteriori sviluppi. Per questo, la comparazione storica va fatta indi-
cando quale dei momenti si tiene in considerazione.
In terzo luogo, relativamente agli studi. L’analisi giuridica si
sofferma in prevalenza sulla normazione e sulla scienza giuridica. Le
) e di Attilio
eccezioni sono costituite dagli studi di Georg Jellinek (
8
). Ma questi due contributi sono influenzati dall’epoca (la
Brunialti (
9
fine del XIX secolo) in cui furono scritti: l’attenzione è rivolta al
problema della personalità giuridica; è frequente l’uso di concetti e
distinzioni privatistici, come quelli di “unio realis aequalis” e “unio
realis inaequalis”, di “unio per suppressionem”, “per confusionem”,
“per novationem”, di “incorporatio plena” o “minus plena”; è
dominante l’ideal-tipo statale unitario e centralizzato, col quale le
forme composite vengono comparate.
L’analisi storica è più recente, ma è ancora agli inizi. Gli scritti
) e di
più importanti sono quelli di Helmut G. Koenigsberger (
10
). Questi contributi si riferiscono in prevalenza
John H. Elliott (
11
all’inizio dell’età moderna, tracciano le prime distinzioni (quella tra
unioni di poteri politici eguali e diseguali o quella tra unioni su
territori contigui o su territori distanti e separati dal mare, come
Inghilterra-Irlanda) e misurano i fattori di integrazione e i fattori di
crisi.
In realtà, va attribuita alla forte presenza dello Stato unitario e
centralizzato, nel periodo che va dall’inizio del XIX secolo alla metà
di quello successivo, la circostanza che l’interesse delle scienze
storiche e sociali per gli ordinamenti compositi sia in una fase
elementare, e sia anzi regredito rispetto al XVII e al XVIII secolo.
Per comprendere quanti passi indietro siano stati fatti, si consideri il
capitolo nono del primo libro de “I sei libri dello Stato” di Jean
Bodin (XVI secolo), oppure si prendano le acute distinzioni di un
giurista spagnolo del XVII secolo, Juan de Solórzano Pereira, e di un
( ) G. J , Die Lehre des Staatsverbindungen, Holder, Wien, 1882.
8 ELLINEK
) A. B , Unioni, cit.
( 9 RUNIALTI
) H.G. K , “Dominium Regale” or “Dominium Politicum et Rega-
( 10 OENIGSBERGER
, Politicians and Virtuosi: Essays in Early Modern History,
le”, in H.G. K OENIGSBERGER
Hambledon Press, London, 1986.
) J.H. E , A Europe of Composite Monarchies, in “Past and Present”,
( 11 LLIOTT , Lo Stato moderno. Profili storici, Laterza,
1992, p. 48 ss. Si veda anche G.G. O
RTU
Roma-Bari, 2001, pp. 22-23 e 56.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 147
SABINO CASSESE
giudice italiano del XVIII secolo, nessuno dei due rinomati. Il primo
dedicava un intero capitolo della sua vasta opera all’esame di sei
“gradi” di limitazioni della sovranità, elencando lo Stato tributario,
quello sotto protezione, quello indipendente, ma vassallo per un
feudo, quello vassallo, ma non suddito, il vassallo ligio, ma non
). Il secondo distingueva unioni “acces-
suddito, quello suddito ( 12
sorie”, da unioni “aeque principaliter”. Nel primo caso, esemplifi-
cato dalle Indie spagnole incorporate nella corona di Castiglia e
dall’Unione del Galles nell’Inghilterra con gli atti del 1536 e 1543,
un territorio è unito a un altro e considerato parte di questo,
sottoponendo gli abitanti alle stesse leggi. Nel secondo, di cui sono
un esempio i regni e le province della monarchia spagnola, Aragona,
Valenza, Catalogna, Sicilia, Napoli, province olandesi, le due parti
sono trattate come entità distinte, conservando leggi, privilegi, di-
ritti, e governate come se il re fosse il monarca di ciascuno di
).
essi (
13
Nel 1769, invece, un giudice dell’Italia centrale riassumeva in tre
le “maniere per le quali un popolo può congiungersi all’altro”. Nella
prima, “[…] la nazione dominante conserva in parte la sovranità del
popolo a lei congiunto, registrandola solo a certi riguardi”. Nella
seconda, “[…] la nazione vittoriosa incorpora in se stessa il popolo
soggiogato”, assicurandogli però “il dominio delle proprie cose,
l’uso della [sua] legge e i beni destinati pel mantenimento del
Comune”. Nella terza, “[…] la nazione annientisce talmente il
popolo soggiogato, che sottopone il medesimo alle sue leggi, e toglie
tutti i di lui beni trasferendoli sotto il proprio dominio e proprie-
).
tà” (
14
4. Il carattere composito degli Stati nazionali.
Il modello dello Stato nazionale unitario e centralizzato, sia per
la sua lunga durata, sia per il modo in cui è servito alle esigenze di
( ) J. B , I sei libri dello Stato, tr. it., Utet, Torino, 1964 (rist. 1988), I,
12 ODIN
p. 407 ss.
) Le distinzioni del giurista spagnolo sono riassunte in J.H. E , A Europe,
( 13 LLIOTT
cit., pp. 52-53.
) I testi sono in L. M , Il sovrano tutore, cit., pp. 37-54.
(
14 ANNORI
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148 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
potere, sia, infine, per il richiamo esercitato dalla sua costruzione
concettuale, non ha avuto soltanto una forza attrattiva rispetto agli
altri tipi di poteri pubblici, ma ha anche oscurato la stessa storia
degli Stati nazionali, la cui fase iniziale è caratterizzata anch’essa
dalla presenza di una moltitudine di altri organismi politici.
Lo Stato ha le sue basi nel Rinascimento e si sviluppa fino al
XIX secolo con percorsi diversi, più rapidi in Francia, Inghilterra e
). Il suo sviluppo avviene
Spagna meno veloci in Italia e Germania ( 15
in tre stadi: convergenza nel principe di diverse sfere di sovranità;
combinazione e rafforzamento dei diversi titoli di potere in una
sovranità territoriale unica; concentrazione nell’autorità unitaria
dello Stato, sovrana all’esterno e dotata di supremazia all’interno, di
).
tutte le competenze (
16
Ma già la circostanza che in Europa nel 1500 vi fossero circa 500
unità politiche più o meno indipendenti e che nel 1900 esse si
) dovrebbe far pensare che in uno di quei tre
fossero ridotte a 25 (
17
stadi vi sia l’aggregazione di più unità. Per cui è stato osservato che
“most states in the early modern period were composite states,
including more than one country under the sovereignty of one
). Oppure che “in tutti i paesi europei, lo Stato moderno tra
ruler” (
18 ). In-
i secoli XV e XVII è […] un’aggregazione federativa” (
19
somma, “[…] più che essere un’unità politica dotata di potere
esclusivo su un territorio continuo e unitario, lo Stato si presenta
[…] come il conglomerato di una moltitudine di unità territoriali,
situate in differenti posizioni geografiche e geopolitiche [….] dotate
( ) S. C , Fortuna e decadenza della nozione di Stato, in “Scritti in onore di
15 ASSESE
Massimo Severo Giannini”, Giuffrè, Milano, 1988, vol. I, p. 93.
) Questa la sintesi dell’opinione di O. Brunner fatta da E.W. B ,
( 16 OECKENFOERDE
, State, Society
The Rise of the State as a Process of Secularization, in E.W. B OECKENFOERDE
and Liberty. Studies in Political Theory and Costitutional Law, tr. ingl., Berg, New
York-Oxford, 1999, p. 26.
) Cosı̀ C. T , Sulla formazione dello Stato in Europa, in C. T (a cura di),
(
17 ILLY ILLY
La formazione degli Stati nazionali nell’Europa occidentale, tr. it., Il Mulino, Bologna,
1984, p. 19.
) Cosı̀ H.G. K , “Dominium Regale”, cit., p. 12.
(
18 OENIGSBERGER
) J.A. M , Stato moderno e mentalità sociale, tr. it., Il Mulino, Bologna,
( 19 ARAVALL , The Habsburg Monarchy, cit.,
1991, tomo I, pp. 135-136; nello stesso senso, W. O GRIS
p. 315. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 149
SABINO CASSESE
di particolari autonomie e privilegi, e che abbisognano quindi di
).
peculiari e diversificate forme di governo” (
20
C’è un passaggio, insomma, che nei tre stadi indicati da Brunner
non è segnalato, e che è stato posto in luce di recente, il passaggio
), per cui dai “late-
“from segmental to consolidated States” (
21
medieval composite states” si passa alle “territorial sovereignties”
).
delle monarchie autocratiche e di quelle costituzionali (
22
Questo passaggio si può registrare nella storia del Sacro Ro-
mano Impero della Nazione tedesca (962-1806), e, poi, del secondo
Impero tedesco (1871-1918), dell’Inghilterra tra XVI e XIX secolo,
della Francia pre-rivoluzionaria, dell’Olanda tra XVI e XVIII se-
colo.
Il Sacro Romano Impero della Nazione tedesca è definito da
Samuel Pufendorf nel XVII secolo “non più una monarchia limitata
[…] e nemmeno una federazione di molti Stati, ma piuttosto una
) e da Johann Stephan Puetter nel
cosa intermedia tra le due” ( 23
XVIII secolo “respublica composita ex pluribus rebuspublicis spe-
). Infatti, l’imperatore ha un dominio su tutto l’impero
cialibus” (
24
(che si estende poco oltre la Germania), il “Landsherr” ha un
“dominium intermedium” o “Landeshoheit” sul suo territorio ( ).
25
( ) Cosı̀ L. B , Note sulla più recente storiografia in tema di “Stato moderno”,
20 LANCO
in “Storia amministrazione costituzione”, Annale ISAP, 2/1994, p. 266, che consiglia
quindi di non “ridurre, in via esclusiva, la storia dello Stato alla storia del potere centrale
e delle sue articolazioni periferiche” (p. 267; v. anche pp. 268 e 294). Sul pluralismo delle
(a cura di), Forme di potere e struttura sociale in Italia
prime forme di Stato, G. R
OSSETTI (a cura di), La crisi degli
nel Medioevo, Il Mulino, Bologna, 1977; G. C HITTOLINI
ordinamenti comunali e le origini dello Stato nel Rinascimento, Il Mulino, Bologna, 1979;
(a cura di), Dagli Stati preunitari d’antico regime all’unificazione, Il Mulino,
N. R APONI , A. M , P. S (a cura di), Origini dello Stato.
Bologna, 1981; G. C HITTOLINI OLHO CHIERA
Processi di formazione statale fra medioevo ed età moderna, Il Mulino, Bologna, 1994.
) C. T , European Revolutions 1492-1992, Blackwell, Oxford and Cambri-
(
21 ILLY
dge, 1995, pp. 29-35.
) W. T B , Shaping History. Ordinary People in European Politics 1500-
(
22 E RAKE
1700, Univ. of California Press, Berkeley, 1998, p. 184 (si vedano anche le pp. 178-179).
) Cit. in H. S , Corti e alleanze. La Germania dal 1648 al 1763, tr. it., Il
(
23 CHILLING
Mulino, Bologna, 1999, p. 109.
) La citazione è in E. B , Il diritto pubblico dal Sacro romano impero alla fine
(
24 USSI
del XVIII secolo, vol. I, II ed., Giuffrè, Milano, 1970, p. 187.
) Cosı̀ E. B , Il diritto pubblico, cit., p. 79 e 188; si veda anche il secondo
( 25 USSI
tomo dell’opera, Giuffrè, Milano, 1959, p. 340. Sul Sacro romano impero della nazione
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
150 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
L’esistenza di poteri intermedi sovrani si protrarrà nel secondo
Impero, durante il quale rimarranno in vita quattro regni (Sassonia,
Baviera, Württemberg, Prussia), sei granducati, cinque ducati, sette
principati, tre città libere, con i relativi principi regnanti, tutti con
propri poteri, tra cui quello di concludere trattati e di inviare propri
ambasciatori, e propri giudici, mentre l’imperatore si curava della
difesa, della moneta, del mercato unico e della legislazione uniforme
).
mediante codici (
26
La Gran Bretagna reca persino nella denominazione la sua
composizione con parti diverse, il Galles incorporato — come si è
già detto — alla metà del XVI secolo; la Scozia, oggetto di unione
prima personale, poi reale (1607 e 1707); l’Irlanda prima oggetto di
).
unione personale, poi incorporata (1541 e 1800) (
27
Nella stessa Francia pre-rivoluzionaria, portata come esempio di
Stato unitario, Bretagna, Linguadoca, Provenza, Delfinato e Borgo-
gna avevano un particolare “status” giuridico e proprie assem-
).
blee (
28
L’Olanda dal XVI al XVIII secolo era composta di sette pro-
vince sovrane, unite dal trattato di Unione del 1579, senza né una
costituzione unica, né una casa regnante, né una corte. Il capo di
tedesca sono anche importanti G. B , Il Sacro Romano Impero, tr. it., Hoepli, Milano,
RYCE , L’Europa e il diritto romano, tr. it., Sansoni,
1907, spec. pp. 95, 144 e 217; P. K OSCHAKER , Unioni, cit., p. XI; R.L.
Firenze, 1962, spec. p. 5, p. 33 ss. e il cap. VI; A. B
RUNIALTI VAN
C , An Historical Introduction to Western Constitutional Law, Cambridge Univ.
AENEGEM , The Holy Roman Empire as
Press, Cambridge (Mass.), 1995, pp. 63 ss.; D. W ILLOWEIT
-S (ed.), Legislation and Justice, cit., pp. 123 ss. Si
a Legal System, in A. P
ADOA CHIOPPA
, The Rise, cit., p. 75 e G. T , Sperimentazioni,
vedano anche E.W. B
OECKENFOERDE ABACCO
cit., p. 45, che criticano l’applicazione dello schema interpretativo dello sviluppo statale
, Sovereignty, Interna-
al mondo germanico. Infine, di particolare interesse A. O SIANDER
tional Relations and the Westphalian Myth, in “International Organization”, 2001, n. 2,
spring, spec. pp. 269 ss., dove osserva che l’Impero era “a system of collective restraint”
(p. 279). Secondo Johann Stephan Puetter, che scriveva nel 1777 (cit. a pp. 276-77),
“every estate of the empire is free to do good in his lands, but can be prevented from
doing evil by a higher power”.
) Si vedano A. B , Unioni, cit., p. XXXI; R.L. C , An
( 26 RUNIALTI VAN AENEGEM
, L’empire allemand, Puf, Paris, 1997,
historical introduction, cit., pp. 224 ss.; P. N EAU
p. 29. ) A. B , Unioni, cit., p. XLIV e W. R , Storia del potere politico
( 27 RUNIALTI EINHARD
in Europa, tr. it., Il Mulino, Bologna, 2001, pp. 47-48.
) W. R , Storia del potere, cit., p. 47.
( 28 EINHARD
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 151
SABINO CASSESE
Stato era per lo più preso dalla casa degli Orange, per cui questa era
una monarchia di fatto. Nell’assemblea ogni provincia aveva un
numero non precisato di membri, ma un solo voto, e con vincolo di
mandato. Gli Stati generali potevano decidere questioni belliche e
fiscali solo all’unanimità. Lo stesso Consiglio di Stato, che era
l’organo esecutivo, era composto di rappresentanti delle province,
).
con un segretariato (
29
Questo rapido esame del periodo della formazione degli Stati
nazionali ha consentito di accertare che non solo in età basso-
medievale, ma anche in epoca moderna le formazioni statali nelle
quali sono, poi, prevalsi i caratteri dell’unitarietà e della centraliz-
zazione erano caratterizzate da un elevato grado di policentrismo,
con sovranità distinte e corpi separati.
Gli storici vanno anche oltre, osservando che gli Stati nazionali
sono costruzioni della storia e prodotti di una retorica nazionalistica
ufficiale, sviluppatasi solo quando uno dei molti ordinamenti si è
imposto agli altri, assicurando, cosı̀, unità, uniformità, accentra-
mento, e notando che gli Stati nazionali sono stati, dal XIX secondo,
un modello, al quale si sono uniformati, per molti aspetti, anche gli
Stati multinazionali ancora esistenti ( ).
30
5. Gli elementi comuni degli ordinamenti compositi: a) estensione
geografica ed apertura.
Gli ordinamenti compositi esaminati nel paragrafo precedente
presentano tutti due caratteristiche, tra loro legate: di raggruppare
una sola nazionalità ( ) e di essersi trasformati, in un arco di tempo
31
più o meno lungo, in un solo Stato unitario, Germania, Gran
Bretagna, Francia, Olanda.
( ) R.L. C , An historical introduction, cit., pp. 142 ss.
29 VAN AENEGEM
) Si veda, in particolare, S. R , L’Europa dopo il 1989 e il futuro degli Stati
(
30 OMANO
nazionali, in « Nuova storia contemporanea », 4, 2002, pp. 5 ss.
) Questo criterio va considerato, peraltro, con molta cautela, perché molti
( 31
Stati-nazione comprendono più nazionalità, tanto è vero che si è distinto tra Stato
nazionale e Stato-nazione, e perché non va dimenticato il “multifaceted character of a
,
sense of identity in the process of European state-building”, come osserva J.H. E LLIOTT
A Europe, cit., p. 57, nota 29. Per questi motivi, si dovrebbe parlare di una sola
nazionalità dominante. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
152 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Diversa la sorte di altri ordinamenti compositi, più vasti, che
non si sono trasformati, bensı̀ si sono rotti in pezzi, dando luogo a
più unità ed organismi politici: Sacro romano impero (800-962),
Impero ottomano (1362-1923), Impero spagnolo (1469-1898), Im-
pero asburgico (1550-1918). È tra questi e l’Unione europea che può
ora farsi la comparazione storica di cui si è detto, prendendo uno ad
uno gli elementi comuni ed esaminando il modo diverso in cui si
).
pongono e in cui si evolvono nei diversi contesti (
32
Il primo di questi elementi è quello fisico: tutti gli ordinamenti
prescelti sono governi di aree o territori vasti, nel senso che hanno
).
un’ampia estensione geografica (
33
L’Unione europea include quindici Stati. Il Sacro romano im-
pero era un “vast supranational political home” che si estendeva alla
( ) Altri imperi vi sono stati, in particolare nel periodo tra il 1875 e il 1914,
32 , L’età degli imperi 1875-1914, tr. it., Laterza, Roma-Bari,
definito da E.J. H OBSBAWM
1987. Il titolo di imperatore era appannaggio dei sovrani di Russia, Gran Bretagna, Cina,
Giappone, Persia, Etiopia e Marocco. Gli imperi di questa fase fanno parte, però, di una
tipologia diversa: sono frutto prevalente della espansione economica di paesi europei a
danno di paesi dell’Africa e dell’Asia e risultato dell’imperialismo e del colonialismo.
(L’età, cit., p. 70) “imperi e imperatori erano realtà di
Come osserva E.J. H
OBSBAWM
vecchia data, ma l’imperialismo era una novità assoluta”. La circostanza che il fenomeno
storico e la tipologia siano diversi da quelli qui indagati non vuol dire, però, che non
siano presenti anche nell’età dell’imperialismo alcuni caratteri degli imperi-ordinamenti
compositi. Ad esempio, “intorno al 1890 poco più di 6000 funzionari britannici
governavano quasi 300 milioni di indiani con l’aiuto di poco più di 70.000 soldati
europei, le cui file erano composte, come quelle delle molto più numerose truppe
, L’età, cit., p. 96). Però l’“indirect rule”
indigene, da mercenari […]” (E.J. H
OBSBAWM
non si riscontra sempre: ad esempio, la Francia tendeva ad imporre i propri ordinamenti
, Trésor historique de l’Etat en France. L’Administration
alle colonie (P. L
EGENDRE
classique, Fayard, Paris, 1992, p. 155, dove osserva che la metropoli francese legifera,
governa e amministra le colonie). Può essere interessante aggiungere che, nell’ordinare
un altro Stato composito, i “padri fondatori” degli Stati Uniti d’America considerarono
come precedenti il Sacro romano impero (e la sua continuazione nell’Impero germani-
, J. M , J. J , Il
co), Polonia, Confederazione svizzera e Paesi Bassi (A. H AMILTON ADISON AY
federalista, tr. it., Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 246-256).
) Non è significativo, invece, il dato della popolazione, per l’aumento demo-
( 33
grafico mondiale che non rende comparabili i dati: si pensi soltanto che l’Impero
ottomano avrebbe avuto, intorno al XVI secolo, soltanto 8 milioni di abitanti (cosı̀ N.
, L’organizzazione dell’Impero ottomano (XIV-XV secolo), in R. M (a
B
ELDICEANU ANTRAN
cura di), Storia dell’impero ottomano, tr. it., Argo, Lecce, 1999, p. 153), mentre l’Unione
europea ne ha 376 milioni.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 153
SABINO CASSESE
Francia, alla Germania, al Belgio, all’Olanda, al Lussemburgo, alla
), e includeva longo-
Svizzera, a parte della Spagna e dell’Italia (
34
bardi, franchi, sassoni, bavari, borgognoni e andava dall’Ebro al-
l’Adriatico, all’attuale Austria, e dal mare del Nord al Mediterra-
).
neo ( 35
L’Impero ottomano si estendeva nel XVI secolo alle attuali
Ungheria, Romania, Bulgaria, Iugoslavia, Albania, Grecia, Ucraina,
Crimea, Turchia, Iraq, Siria, Libano, Israele, parte dell’Arabia e
dello Yemen, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, parte del Sudan e
dell’Etiopia e includeva mussulmani, cristiani, ebrei, e molte etnie,
).
come circassi, armeni, georgiani, greci, albanesi, ecc. (
36
L’impero spagnolo nacque intorno al regno di Ferdinando
d’Aragona e di Isabella di Castiglia (1479-1504) e si estendeva a
).
Catalogna, Navarra, Portogallo, Napoli, Sicilia, Sardegna e Perù (
37
L’impero asburgico, a sua volta, era composto da tre complessi
territoriali, a loro volta monarchie composite: territori ereditari
austriaci, come Austria, Stiria, Carinzia, Carniola, Tirolo; territori
della corona di Boemia, come Boemia, Moravia, Slesia; altri territori,
). La complessità dell’ordi-
come Ungheria, Transilvania, Croazia (
38
namento era tale che, nel 1765, Maria Teresa aveva un titolo che
comprendeva quaranta cariche, come regina di Ungheria, Boemia,
Dalmazia, Croazia, Slavonia, marchesa di altri territori, principessa
di altri, ecc.: per questo motivo l’impero era definito “Monarchische
).
Union von Ständestaaten” (
39
Degli ordinamenti compositi di cui si parla non è caratteristica
soltanto la vastità, ma anche un altro elemento, costituito dal fatto
che essi non sono unità chiuse. Basti dire che “il Medioevo durante
l’epoca feudale non conosce il concetto di frontiere, esistendo quello
( ) R.L. C , An historical introduction, cit., p. 43.
34 VAN AENEGEM
) G. V , Il Medioevo, Vallecchi, Firenze, s.d. (ma 1926), p. 117.
(
35 OLPE
) G. V , L’impero al suo apogeo (XVI secolo), in R. M (a cura di),
(
36 EINSTEIN ANTRAN
, Unioni, cit., pp. XCII-XCIII.
Storia, cit., pp. 180, 185 e 195 e A. B
RUNIALTI
) C. H , Multinationale Habsburg et Universalisme Chretien, in J.-P.
(
37 ERMANN
(ed.), L’Etat moderne: genèse. Bilans et perspective, Editions du C.N.R.S., Paris,
G ENET , Histoire des nations et du nationalisme en Europe, Seuil, Paris,
1990, p. 33; G. H ERMET , Storia, cit., p. 47.
1996, pp. 47-48; W. R EINHARD
) W. R , Storia, cit., p. 48 e pp. 63-64.
( 38 EINHARD
) W. O , The Habsburg Monarchy, cit., p. 315.
( 39 GRIS © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
154 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
di ‘marca’, che è regione di frontiera, zona instabile, senza organiz-
zazione fissa” ( ) e ricordare che l’Unione europea ha, al suo
40
interno, paesi tra i quali esistono forme di cooperazione rafforzata e
paesi con territori autonomi o d’oltremare con statuti particolari; ed
è parte del più vasto Spazio economico europeo ed è destinata ad
allargarsi ad un numero di Paesi più grande di quelli che ne fanno
ora parte.
Si evidenziano, cosı̀, due tratti che contraddistinguono questi
ordinamenti (l’estensione geografica e l’apertura) e li separano dagli
Stati, che, non solo hanno dimensioni minori, ma hanno ereditato
dalle città la “tendenza a costituirsi in unità chiuse […]”, autarchi-
che o autosufficienti ( ).
41
6. Gli elementi comuni degli ordinamenti compositi: b) figure di
composizione e grado di integrazione.
Il secondo elemento comune e caratteristico degli ordinamenti
che qui si considerano, dopo quello dell’ampiezza ed elasticità
geografica, è più complesso e consiste nel loro essere frutto di figure
di composizione tra ordinamenti, che vengono sı̀ variamente inte-
grati, ma permangono distinti. Ciò produce un forte pluralismo
interno ed è possibile grazie alla convivenza di più diritti, diversa-
mente ordinati, ma regolati da principı̂ che ne assicurano la com-
plementarità.
Dal punto di vista morfologico, negli ordinamenti compositi
vengono istituiti organi speciali comuni per la cura di interessi
pubblici comuni. L’organizzazione comune può essere più o meno
estesa, ma quello che importa è la circostanza della comunione degli
interessi e dell’unione degli ordinamenti di base, che divengono più
o meno comunicanti tra di loro.
Gli studiosi di filosofia politica e gli storici riconoscono in tutti
( ) J.A. M , Stato moderno, cit., p. 147.
40 ARAVALL
) J.A. M , Stato moderno, cit., pp. 101-103. Si veda anche E. B ,
( 41 ARAVALL USSI
Evoluzione storica dei tipi di Stati, Giuffrè, Milano, ristampa della III ed., 2002, pp.
175-176 e p. 201, dove osserva che l’evo di mezzo è caratterizzato dal fatto che “le
organizzazioni politiche di quei secoli erano quasi tutte sovranazionali o, meglio,
a-nazionali” e che “lo Stato — almeno come noi lo intendiamo — non esiste nel
medioevo”. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 155
SABINO CASSESE
i sistemi imperiali, oltre all’ampiezza dei domini, la compresenza di
un comando universale e di realtà politiche subordinate, e la con-
seguente interdipendenza tra i diversi sottosistemi, simboleggiate
dall’incoronazione imperiale, nel 1530, di Carlo V, sul capo del
quale furono poste tra corone; la prima d’argento del regno germa-
nico, la seconda di ferro del regno di Lombardia e la terza d’oro
dell’Impero di Roma ( ).
42
L’Unione europea è ordinamento composto della Comunità e
dell’Unione al centro, e di altri quindici ordinamenti statali. L’inte-
grazione avviene grazie alla sovraordinazione del diritto comunitario
sui diritti interni dei singoli Stati, sovraordinazione che, però, non è
uniforme, nel senso che vale solo per talune materie.
Più forte l’integrazione organizzativa, perché popoli, governi,
amministrazioni e giudici nazionali, sono integrati rispettivamente
nel Parlamento europeo, nei diversi Consigli, nei molti comitati e,
con il sistema del rinvio pregiudiziale, nel sistema giudiziario euro-
peo.
Il Sacro Romano Impero è costituito da vari regni ( ). Carlo
43
Magno è re dei Longobardi; la corona del Regno italico è unita a
quella imperiale o è affidata a un parente dell’imperatore ( ) per cui
44
“regia potestas” e “imperialis auctoritas” sono distinte ( ). “La
45
carica imperiale rivestita da Carlo Magno a partire dal Natale
dell’800 pose il sovrano carolingio su un piano più elevato sia nei
confronti degli altri re d’occidente, sia all’interno del regno franco;
ma la base del suo potere rimase il regno: la corona imperiale ne
costituı̀ un ulteriore potenziamento” ( ). “Imperium” e “regna”
46
coesistettero per lungo tempo. E il primo lasciò che i secondi
( ) Si veda A. M , L’impero spagnolo, in « Filosofia politica », I, 2002, aprile,
42 USI
pp. 63 s., con una ulteriore bibliografia sugli imperi; sugli imperi, ma intesi in altro senso,
, The Political System of Empires, Free Press of Glencoe, New
più ampio, S.N. E
ISENSTADT , Storia
York 1963 /e Transactions, New Brunswick 1993), nonché il classico E. F UETER
del sistema degli Stati europei dal 1492 al 1559, Nuova Italia, Firenze 1932 (rist. 1994).
) G. V , Il Medioevo, cit., p. 115.
( 43 OLPE
) G. D V , Lezioni di storia del diritto italiano. Il diritto pubblico
(
44 E ERGOTTINI
italiano nei sec. XII-XV, Giuffrè, Milano, rist. della III ed., 1993, p. 19.
) M. C , Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Il Mulino, Bolo-
(
45 ARAVALE
gna, 1994, p. 124.
) A. P S , Il diritto nella storia d’Europa. Il Medioevo - parte prima,
(
46 ADOA CHIOPPA
Cedam, Padova, 1995, p. 118.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
156 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
avessero propri eserciti e proprie usanze giuridiche (poi trasformate
in “lex”). Vi fu, dunque, organismo multinazionale e multicultura-
).
le (
47
Anche l’Impero ottomano “si fonda su basi giuridiche multi-
ple”, specialmente nei territori bizantini, serbi e bulgari, con tradi-
zioni giuridiche diverse da quelle dell’Islam, ma riconosciute da
).
questo nella speranza di trovare minori opposizioni (
48
I reami costitutivi dell’impero spagnolo sono anch’essi indipen-
denti l’uno dall’altro, per cui ciascuno riserva i propri uffici ai propri
cittadini e considera stranieri gli abitanti delle altre parti. L’integra-
zione avviene solo al vertice, nel sovrano. Per il resto, persino
l’esercito è posto sotto la stessa direzione, ma è composto di forze
). A causa delle diversità di regimi per i diversi
armate separate (
49 ), al
ordinamenti, per lungo tempo si parlò di re delle Spagne ( 50
plurale.
Egualmente composito l’Impero asburgico, ma secondo figure
di composizione più complesse di quella dell’Impero spagnolo, e
diverse nelle differenti epoche. Nel XVIII secolo la monarchia
consisteva di almeno quattro unioni di province (territori di eredità
tedesca, paesi della corona di Boemia, paesi della corona di Unghe-
ria, possessi olandesi e italiani), ognuna delle quali godeva di propri
specifici diritti politici, economici e sociali, aveva una Dieta che
custodiva gelosamente i diritti dell’unione e univa ducati, contee,
). Su questi ordinamenti si eserciterà l’opera unifica-
margraviati (
51
trice e livellatrice di Maria Teresa, che condurrà all’ordinamento
cosı̀ descritto alla fine del XIX secolo: “[I] Regni di Boemia,
Dalmazia, Galizia e Lodomiria con Cracovia; gli arciducati di Au-
stria sopra l’Enns e Austria sotto l’Enns; i ducati di Carniola,
( ) K.F. W , Nascita della nobiltà. Lo sviluppo delle élite politiche in Europa,
47 ERNER
tr. it., Einaudi, Torino, 2000, pp. 58 ss. e 123 ss.
) N. B , L’organizzazione, cit., p. 135-136. Sull’Impero ottomano si
( 48 ELDICEANU
, Imperial Response to Nationalism: The Ottoman case, in H.
veda anche F. A
DANIR
(ed.), Governance, Globalization and the European Union. Which Europe for
C AVANNA , The Emergence of Modern
Tomorrow?, Four Courts, Dublin, 2002, p. 47 e B. L EWIS
Turkey, Oxford Univ. Press, Oxford, 1961, spec. pp. 21-125.
) C. H , Multinationale, cit., p. 33.
( 49 ERMANN
) W. R , Storia, cit., pp. 74-76.
( 50 EINHARD
) W. O , The Habsburg Monarchy, cit., p. 316.
( 51 GRIS
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 157
SABINO CASSESE
Bucovina, alta e bassa Slesia, i margraviati di Moravia d’Istria colla
contea principesca di Gorizia e Gradisca, il territorio del Voralberg,
la città di Trieste, come pure i ducati di Stiria, Carinzia e Salisburgo,
nonché la contea del Tirolo, hanno ciascuno una Dieta, con estese
attribuzioni, ma l’Imperatore è il capo di tutto lo Stato, le Camere
imperiali lo rappresentano tutto, e vi sono soltanto cittadini au-
). Insomma, tra
striaci, non boemi, moravi, tirolesi e via dicendo” (
52
XVI e XVIII secolo, l’Impero asburgico presenta un “variegato
panorama di giurisdizioni”, tanto da esser definito non uno Stato ma
“un agglutinamento moderatamente centripeto di tanti elementi tra
loro oltremodo eterogenei”: si pensi soltanto che il Consiglio privato
dell’imperatore era affiancato da due cancellerie esecutive, quella
).
imperiale e quella austriaca (
53
Questo assetto composito produce in tutti gli ordinamenti un
notevole grado di pluralismo. Di “pluralità di presenze”, “plurali-
smo del diritto”, “coralità di apporti” si è parlato per l’“ordine
). E lo stesso si è detto dell’Impero spagnolo,
giuridico medievale” (
54
costituito da “molteplici corpi di varia natura, che mantengono la
loro individualità” ( ), tanto da tollerare forti eterogeneità interne,
55
ad esempio tra Castiglia centralizzata e assolutista e Aragona, Na-
varra e paesi baschi decentrati e gestiti con moduli contrattuali ( ).
56
Ma l’aspetto più interessante è di accertare come avvenga la
composizione e distinguere le sue diverse forme.
Nell’Unione europea, essa avviene, come si è prima notato, in
un duplice modo: da un lato, integrando in sede europea tutte le
parti che compongono gli Stati nazionali; dall’altro, con la suprema-
zia del diritto comunitario, al quale i diritti nazionali (ma solo in
talune materie) debbono essere armonizzati.
Nell’Impero carolingio l’integrazione è meno forte. Essa avviene
mediante la supremazia conferita all’Imperatore, che assicura, cosı̀,
( ) A. B , Unioni, cit., pp. XLVIII-XLIX.
52 RUNIALTI
) Le due citazioni e il dato sulle cancellerie in R.J.W. E , Felix Austria.
( 53 VANS
L’ascesa della monarchia absburgica: 1550-1700, tr. it., Il Mulino, Bologna, 1981, pp. 215,
559 e 193 (si vedano anche le pp. 215, 305, 391 ss.).
) P. G , L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari, 1995, spec.
(
54 ROSSI
pp. 47, 52 e 55.
) J.A. M , Stato moderno, cit., p. 136.
( 55 ARAVALL
) C. H , Multinationale, cit., p. 34.
( 56 ERMANN
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
158 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
la coesistenza di una “profonda unità” e di un “accentuato partico-
). Leggi particolari per i singoli regni, accanto a leggi
larismo” ( 57
generali, valevoli per tutto l’Impero, rendono possibile la convivenza
). L’aspetto più importante e studiato degli
di più nazionalità ( 58
ordinamenti medievali in generale è quello della convivenza di più
), quello consuetu-
diritti: quello dettato dai capitolari imperiali (
59 ),
dinario e quello dottrinale, che vanno al di là del diritto positivo (
60
più avanti quello statutario. Secondo la ricostruzione più efficace,
“iura propria” e “ius commune” vanno “concepiti quali elementi di
un unico sistema normativo” per cui questo garantisce l’unità del
).
sistema in presenza di una pluralità di ordinamenti giuridici (
61
Essenziale il “rapporto di complementarità” tra diritto comune e
diritto proprio, nel senso che il primo può operare in via residuale
e sussidiaria, in assenza di statuti e consuetudini, oppure fornire solo
canoni interpretativi, oppure ancora svolgere un ruolo predominan-
). Tutto ciò implica l’esistenza di un principio superiore, capace
te (
62
di graduare la validità delle norme concorrenti.
Diverso il modo in cui i due livelli (quello comune e quello
particolare) sono graduati nel sistema dell’Impero ottomano, ma
analoga la “dualità”: “la base giuridica dello Stato [sic!] ottomano si
fonda [...] su due pilastri: il diritto mussulmano (sharia) e i costumi
giuridici delle popolazioni annesse dagli ottomani nel corso delle
). A differenza del rapporto tra i due diritti
loro conquiste” ( 63
nell’area europea, però, nell’Impero ottomano il governo centrale
( ) L’osservazione sulla coesistenza di unità e particolarismo è di A. P
57 ADOA
S , Verso una storia del diritto europeo, in “Studi di storia del diritto”, III, Giuffrè,
CHIOPPA
Milano, 2001, p. 7.
) G. V , Il Medioevo, cit., p. 117.
( 58 OLPE
) G. F , La Santa Romana Repubblica - profilo storico del medioevo,
(
59 ALCO
Ricciardi, Napoli, 1942, p. 136.
) Su cui richiama l’attenzione O. B , Terra e potere. Strutture pre-statuali
(
60 RUNNER
e pre-moderne nella storia costituzionale dell’Austria medievale, tr. it., Giuffrè, Milano,
1983, pp. 189 e 199.
) F. C , Medio Evo del diritto, I, Le fonti, Giuffrè, Milano, 1954, pp. 470
( 61 ALASSO
e 453; si vedano anche le pp. 146, 150-151 e 372 ss.
) Ha richiamato l’attenzione sul rapporto di complementarità A. P
( 62 ADOA
S , Il diritto comune in Europa: riflessioni sul declino e sulla rinascita di un modello,
CHIOPPA
in “Foro italiano”, 1966, gennaio, V, p. 8 (dell’estr.).
) N. B , L’organizzazione, cit., p. 136.
(
63 ELDICEANU
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 159
SABINO CASSESE
riconosceva i diritti particolari, ma li faceva anche propri, attraverso
le raccolte dei sultani, veri codici, nei quali venivano assorbiti diritti
).
particolari dei territori conquistati (
64
Ancor diverso il modo in cui le diverse parti erano tenute
insieme negli Imperi spagnolo e asburgico. Nel primo, a tenere le
diverse parti c’erano la corona al vertice e un diritto consuetudinario
). Più vasto il legame iniziale dell’impero asburgico:
comune (
65
“quando Francesco I depose la corona imperiale e prese nel 1804 il
titolo di imperatore d’Austria, non costituı̀ uno Stato austriaco, ché
anzi si impegnò a rispettare l’esistenza indipendente e i diritti storici
dei vari paesi di cui era sovrano. Nessun legame organico riuniva le
varie nazionalità raccolte sotto lo scettro della Casa d’Asburgo;
ciascuna aveva la sua costituzione, le sue carte, i suoi privilegi, le sue
leggi. Formavano un tutto perché appartenevano alla medesima
dinastia, come domini privati possono essere privata proprietà della
medesima famiglia che li acquistò ad epoche ed a titoli diversi
).
[...]” (
66
Per concludere, gli ordinamenti considerati sono tutti compo-
siti, nel senso che lasciano sussistere diverse sfere di sovranità, a
differenza dell’unica e onnicomprensiva dello Stato. Ciò consente il
rispetto dell’eterogeneità etnica e del carattere multiculturale degli
ordinamenti messi insieme. Permette di tenere insieme il governo di
una area vasta e differenziata.
Ma le figure della composizione sono diverse. Alcuni ordina-
menti sono tenuti insieme da legami più stretti di altri. In alcuni il
centro riconosce un ampio decentramento e l’“indirect rule”. In altri
i rapporti sono più stretti. Tra questi vi sono governi centrali che si
limitano a includere altri poteri e governi centrali che, invece, si
sovrappongono agli altri poteri, pur riconoscendoli. Si va da sovrani
che esercitano i loro poteri sugli Stati che fanno parte dell’ordina-
mento complessivo a sovrani che esplicano la propria autorità
( ) N. B , L’organizzazione, cit., pp. 135-136.
64 ELDICEANU
) Su questo punto, G. H , Histoire, cit., pp. 47-48.
( 65 ERMET
) A. B , Unioni, cit., pp. CLIII-CLIV. Si noti che Francesco II assunse
( 66 RUNIALTI
nel 1804 il titolo di imperatore d’Austria come Francesco I e nel 1806 rinunciò alla
dignità imperiale come imperatore del Sacro Romano Impero.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
160 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
direttamente sui cittadini di tali Stati. Nel primo caso, il vincolo è
molto debole, nel secondo esso è più forte.
7. Gli elementi comuni degli ordinamenti compositi: c) organizza-
zioni fluide, non gerarchiche, diffuse.
Si è detto del primo e del secondo tratto comune ai diversi
ordinamenti compositi: vastità e carattere non rigido dell’area go-
vernata e natura composita, ma retta da figure di composizione
diverse, con l’effetto di ottenere gradi diversi di integrazione. Il terzo
tratto comune (ma, forse, sarebbe meglio, anche in questo caso,
parlare al plurale di complesso di tratti comuni) è riferito all’orga-
nizzazione ed è collegato al primo e al secondo. Mentre gli Stati
hanno organizzazioni rigide e compatte, gerarchicamente ordinate e
concentrate, negli ordinamenti compositi si registrano instabilità o
fluidità organizzativa, organizzazione polisinodale, strutture diffuse.
L’Unione europea, nel suo mezzo secolo circa di vita, si è
ispirata al principio detto del funzionalismo, ovvero della progres-
sività, adattando la sua organizzazione alle diverse esigenze, speri-
mentando organi, come il Consiglio, a composizione variabile, ad-
dirittura prevedendo sistemi di cooperazione rafforzata, e cioè
ordinamenti differenziati in base ad accordi di alcuni soltanto dei
suoi membri. Inoltre, non vi è nell’ordinamento europeo una rigida
divisione dei poteri, almeno come siamo abituati a conoscerla negli
Stati: il potere legislativo è a mezzadria tra la Commissione, che ha
il potere di iniziativa, e Consiglio e Parlamento, i quali, a seconda dei
casi, hanno potere deliberativo; il potere di governo spetta in parte
alla Commissione, in parte al Consiglio; il potere di eseguire è
condiviso, di regola, tra la Commissione, che delibera, e le ammini-
strazioni nazionali, che provvedono all’esecuzione materiale ( ).
67
Anche nell’alto Medioevo c’è “sovrapposizione di giurisdizioni
( ) S. C , La costituzione europea: elogio della precarietà, in “Quaderni
67 ASSESE , The Treaty of Nice, Institutional
costituzionali”, 2002, n. 3, p. 469 e A.M. S
BRAGIA
Balance, and Uncertainty, in “Governance”, 2002, July, n. 3, pp. 403 ss. Da quanto
osservato discende che l’Unione europea si ispira al “modo di abbinamento” o di
,
“mistione” dei tipi od ordinamenti di base, secondo la nota formula di A RISTOTELE
, I sei libri dello Stato
Politica, tr. it., Laterza, Roma-Bari, 2000, p. 133, contro cui J. B ODIN
cit., p. 561 e 660 (si veda anche p. 84 dell’introduzione di M. Isnardi Parente).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 161
SABINO CASSESE
e poteri non coordinati logicamente e in concorrenza fra loro” ( ),
68 ),
persino l’esercito ha un’organizzazione primitiva e rudimentale ( 69
). Nell’impero di Carlo Magno si possono
il potere è frammentato ( 70
distinguere tre zone con ordinamenti differenziati: il nucleo dell’Im-
pero, che comprende le regioni franche dei “tria regna”, la zona
intermedia dei “regna” delle popolazioni non franche e la zona
periferica delle “marche”. L’impero non fu mai “uno Stato unitario
centralizzato, bensı̀ una specie di compromesso fra impero e agglo-
).
merati di forze regionali” (
71
Ancor più differenziata l’organizzazione imperiale ottomana al
suo apogeo. Qui in alcune province sono insediati governatori,
agenti finanziari, giudici, guarnigioni, con un ricco seguito di fun-
zionari di categorie inferiori. In altre province, invece, il dispositivo
imperiale è molto più leggero, bastando assicurare entrate fiscali e
l’arruolamento di personale militare (cosı̀ in Egitto ed Abissinia).
Ordinamenti intermedi sono, invece, introdotti ad Algeri, Tripoli,
Tunisi, in Armenia e nel Kurdistan, nelle regioni di Sivas e di Adana.
Alcuni possedimenti, infine, rimangono entità politiche autonome,
collegate all’Impero tramite un vincolo di vassallaggio più o meno
flessibile (cosı̀ lo sheriffato della Mecca e il khanato di Crimea).
Insomma, l’assetto prescelto “esclude […] un’ottomanizzazione
).
vera e propria delle istituzioni locali” (
72
Conseguente all’ordinamento organizzativo instabile (o fluido, o
differenziato) è l’organizzazione polisinodale o policonsiliare che si
riscontra nell’Unione Europea, dove sono stati contati 1400 comi-
tati, di varia natura e variamente composti, che servono esigenze o di
specializzazione o di integrazione (nel primo caso raccogliendo
( ) G. T , Sperimentazioni, cit., p. 260.
68 ABACCO
) G. F , La Santa Romana Repubblica, cit., p. 129.
( 69 ALCO
) J.R. S , Le origini dello Stato moderno, tr. it., Celuc, Milano, 1975, pp.
(
70 TRAYER
66-67. ) K.F. W , Nascita, cit., p. 145.
(
71 ERNER
) G. V , L’impero, cit., pp. 231-232; può essere interessante notare che
( 72 EINSTEIN
il fenomeno si riscontra anche in un altro ordinamento composito, l’Impero portoghese,
dove il sistema delle “capitanias” era ordinato in modo diverso, a seconda che si trattasse
dell’India, del Brasile, dell’Angola, dell’arcipelago atlantico, dei possedimenti maroc-
G , The Portuguese Empire 1565-1665, in “Journal of
chini, ecc.: V. M
AGAIHAEA ODINHO
european economic history”, vol. 30, 2001, n. 1, pp. 66-104.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
162 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
prevalentemente esperti, non in base alla loro nazionalità, nel se-
condo prevalentemente amministratori delle diverse nazionali-
). Questo fenomeno trova un precedente nell’organizzazione
tà) (
73
polisinodale dell’Impero spagnolo, il cui vertice si articolava in
consigli denominati di Stato (per le relazioni internazionali e gli
affari interni più importanti), della guerra, delle finanze, dell’inqui-
sizione, delle crociate, degli ordini religiosi e militari, delle Fiandre,
dell’Italia, del Portogallo, delle Indie, di Aragona, di Castiglia,
). La polisinodalità risponde all’”esigenza di contemperare le
ecc. ( 74
spinte all’accentramento monarchico con il rispetto degli ordina-
menti propri delle singole entità territoriali di un impero vastissi-
mo” ( ).
75
Da ultimo, le necessità del governo di vasta area impongono agli
ordinamenti compositi di dotarsi di strumenti per governare da
lontano, ciò che induce a un governo sparso sul territorio.
Per l’Unione europea l’esempio più significativo è quello delle
agenzie, distribuite in città diverse dei differenti Stati membri.
Nell’Impero carolingio, anche il “palatium”, e cioè l’imperatore
e la sua corte, non aveva sede fissa e viaggiava da un’estremità
dell’Impero all’altra, spostandosi come lo richiedevano le necessità
politiche ( ), tanto che si è scritto: “l’ordinamento franco tendeva
76
alla peregrinazione invece che alla sedentarietà” ( ). Più importanti
77
i “missi dominici”, che percorrevano annualmente le diverse circo-
scrizioni, con istruzioni dell’imperatore, tenevano assemblee, verifi-
cavano e ispezionavano, ecc.; insomma, tenevano sotto controllo
l’amministrazione di tutto l’impero, ne collegavano le diverse parti al
( ) Sulla diffusione del fenomeno, M. R , The Democratic Legitimacy of the
73 HINARD
European Union Committee System, in “Governance”, 2002, april, n. 2, pp. 185 ss. Il
fenomeno va collegato all’“infranationalism”, su cui le importanti osservazioni di J.H.H.
, The Costitution of Europe, Cambridge Univ. Press, Cambridge (Mass.), 1999,
W EILER
pp. 96 ss.
) C. H , Multinationale, cit., p. 33-34; W. R , Storia, cit., pp. 200
( 74 ERMANN EINHARD
V , La struttura amministrativa statale nei secoli
e 207; ma, principalmente, J. V ICENS IVES
e P. S , Lo Stato moderno I. Dal Medioevo all’età
XVI e XVII, in E. R OTELLI CHIERA
moderna, Il Mulino, Bologna, s.d. (ma 1971), pp. 233 ss.
) G.G. O , Lo Stato moderno, cit., p. 93.
( 75 RTU
) G. S , Storia del diritto italiano, Utet, Torino, IX ed., 1930, p. 195.
( 76 ALVIOLI
) G. G , Potere e istituzioni in Italia. Dalla caduta dell’Impero romano ad
( 77 ALASSO
oggi, Einaudi, Torino, 1974, pp. 16 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 163
SABINO CASSESE
potere centrale, ne assicuravano l’unità, erano gli occhi e le braccia
).
del sovrano (
78
È interessante notare che fluidità, collegialità e differenziazione
costituiscono tratti organizzativi in diversa misura presenti lungo
tutto l’arco della vita dei poteri pubblici considerati, nel senso che
sopravvissero anche ai tentativi di modernizzazione orientati nell’ot-
tica statale, come quelli di Maria Teresa nell’Impero asburgico
(XVIII secolo) e quelli dei riformatori della metà del XIX secolo
nell’Impero ottomano.
8. Gli elementi comuni degli ordinamenti compositi: d) l’arena
pubblica: “ius inventum” contro “ius positum”.
Più sfuggente l’ultimo dei tratti comuni caratteristici degli or-
dinamenti compositi. Questo è strettamente legato alla composi-
zione degli ordinamenti, nel senso che essa consente di sfruttare
differenziali di regolazione e, quindi, di scegliere assetti che consen-
tano ai soggetti interessati, siano essi pubblici o privati, di massi-
mizzare le proprie convenienze. In questo modo il sistema si adatta
).
a situazioni diverse, in modo flessibile (
79
Nell’Unione europea, il fenomeno si presenta in due modi, il
primo relativo ai poteri pubblici, il secondo ai rapporti privati-poteri
pubblici. Il primo modo consiste nella scelta, aperta sia ai governi,
sia agli organismi dell’Unione, tra il metodo intergovernativo, quello
comunitario e quello misto, parte intergovernativo, parte comunita-
rio, definiti anche della “negoziazione intergovernativa”, della “di-
).
rezione gerarchica” e della “decisione congiunta” (
80
( ) G. S , Storia, cit., p. 196; G. T , Sperimentazioni, cit., p. 63; G.
78 ALVIOLI ABACCO
, Il Medioevo, cit., p. 116; E.W. B , La storiografia costituzionale
V OLPE OECKENFOERDE
tedesca nel secolo XIX. Problematica e modelli dell’epoca, tr. it., Giuffrè, Milano, 1970,
pp. 75 ss.
) Ho definito questo fenomeno “arena pubblica” in S. C , L’arena pub-
( 79 ASSESE
, La crisi dello Stato, Laterza,
blica: nuovi paradigmi per lo Stato, ora in S. C
ASSESE
Roma-Bari, 2002, p. 74.
) Cosı̀ F. S , Verso una teoria, cit., pp. 21 ss. Sulle diverse strategie
(
80 CHARPF , Policy-Making and Diversity in
negoziali seguite nell’Unione europea, A. H u
E RITIER
Europe. Escape from Deadlock, Cambridge Univ. Press, Cambridge (Mass.), 1999, spec.
pp. 15 ss. e 88 ss. La più acuta e completa analisi della flessibilità del sistema politico
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
164 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Il secondo modo consiste nella scelta, aperta a imprese ed altri
privati, di operare attraverso i poteri pubblici nazionali o attraverso
quelli comunitari, sfruttando i rapporti trilaterali che vengono a
costituirsi e facendo giocare ai primi o ai secondi, ma per lo più a
questi ultimi, il ruolo di arbitri, o di organi di appello.
La possibilità di passare dall’uno all’altro tipo di decisione e
quella di sfruttare il dualismo dei livelli pubblici consente di massi-
mizzare i sistemi di convenienze, di introdurre un elemento di
mercato nei rapporti tra poteri pubblici e in quelli tra poteri pubblici
e privati.
La situazione è diversa se si torna indietro al Medio Evo, perché
molto diversi sono i rapporti tra cittadino ed autorità. Tuttavia, da
),
un lato la personalità, rispetto alla territorialità del diritto (
81
dall’altro i diritti particolari verso quello comune consentivano
“arbitraggi” permessi dai diversi rapporti di complementarità tra i
due diversi opposti. Nell’area europea, in epoca medievale, il sistema
giuridico non era chiuso e unitario, bensı̀ aperto e frammentato.
Fonti del diritto erano — come già notato — consuetudini, norme
imperiali, “statuti” locali, norme corporative, canoni e decretali
ecclesiastici. Queste norme provenivano da autorità diverse, non
collocate in una gerarchia. Inoltre, alcune si applicavano in base al
territorio, altre erano norme personali (cosı̀ quelle delle corporazio-
ni). Tutto ciò produceva frequenti conflitti tra fonti diverse del
europeo è quella di J.-L. Q , Le système politique européenne. Des Commu-
UERMONNE
nautés économiques à l’Union politique, Montchrestien, Paris, V, 2002, spec. p. 46 ss.,
72-73, 112-113 e 128. Il primo aspetto della flessibilità dipende dall’architettura in tre
“pilastri” introdotta nel 1992, dalle successive suddivisioni e dai passaggi di materie
dall’uno all’altro. Nel primo pilastro si sono evidenziati l’Eurogruppo e il sistema
europeo delle banche centrali, nonché il metodo del “coordinamento aperto” (per le
politiche dell’impiego), intermedio tra metodo comunitario e metodo intergovernativo.
Gran parte delle materie del terzo “pilastro” è passata al primo, mentre vi resta la
cooperazione nel campo del diritto e della procedura penale. Il secondo “pilastro”, a sua
volta, tende a scindersi in due parti, relative a politica estera, sicurezza e difesa. Dunque,
vi sono passaggi e contaminazioni tra i diversi “metodi”.
Il secondo aspetto della flessibilità riguarda i processi di decisione, consultazione,
cooperazione (che diventa obsoleta), codecisione, parere conforme, e i passaggi, anche
in questo caso, di materie dall’uno all’altro. Ne deriva un governo elastico, che muta e
si adatta, ma anche molto complicato.
) Su cui G. V , Il Medioevo, cit., p. 117.
( 81 OLPE
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 165
SABINO CASSESE
diritto, essendo naturale che ciascuno volesse sfruttare le norme più
favorevoli. Di qui la necessità di interventi diretti a stabilire demar-
cazioni dei diversi campi e di ricorrere a organi giurisdizionali di
).
varia natura (
82
Moltitudine di fonti diverse del diritto, frammentazione e sepa-
razione dei poteri da cui queste provenivano, diversità dei modi di
applicazione, moltiplicazione dei giudici producevano inevitabil-
mente differenziali di disciplina, che imponevano aggiustamenti, ma
si prestavano anche ad essere sfruttati in vario modo.
In tal modo l’equilibrio si sposta a favore dell’“ius inventum” e
a danno dell’“ius positum”, e il diritto si depositivizza.
9. I fattori di crisi degli ordinamenti compositi del passato.
Si sono riscontrati quattro elementi caratteristici e comuni di
ordinamenti compositi del passato e dell’Unione europea: elasticità
geografica; diverse sfere di sovranità; organizzazione fluida, differen-
ziata, polisinodale, diffusa; scelta tra tecniche di decisioni differenti.
Ognuna di queste contrappone gli ordinamenti compositi agli Stati-
nazione, contraddistinti da determinazione dei confini, concentra-
zione della sovranità, rigidità e gerarchia organizzativa, prevalenza
del diritto posto dallo Stato ( ).
83
Ciò non vuole dire, però, che gli ordinamenti compositi non
abbiano in comune con quelli statali altri elementi, come il legali-
smo ( ) per cui i quattro tratti individuati prima, se sono caratteri-
84
stici, non sono, però, esclusivi. Né che alcuni tratti degli ordinamenti
compositi non siano episodicamente presenti anche negli Stati-
nazione.
Si è osservato all’inizio che lo studio degli ordinamenti compo-
( ) R.C. C , European Law in the Past and the Future. Unity and
82 VAN AENEGEM
Diversity over Two Millenia, Cambridge Univ. Press., Cambridge (Mass.), 2002, pp.
22-24. ) Per questo motivo, come più volte osservato, lo schema interpretativo dello
( 83
sviluppo statale non può essere applicato agli ordinamenti compositi; ribadiscono questo
, Sperimentazioni, cit., pp.
punto di vista relativamente al mondo germanico G. T ABACCO
, La storiografia costituzionale, cit., p. 75.
45 e E.W. B OECKENFOERDE
) Sui tratti storici caratteristici degli Stati, S.E. F , Lo Stato in prospettiva
(
84 INER
storica, in “Rivista italiana di scienze politiche”, 1990, n. 1, pp. 3 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
166 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
siti del passato poteva servire a due scopi: fare una comparazione
(storica) con quello dell’Unione europea, liberandosi dell’ideal-tipo
dello Stato unitario e accentrato, e svolgere ragionevoli previsioni
sulle sorti dell’Unione, esaminando i fattori di sviluppo e di crisi
degli ordinamenti compositi storici.
Finora è stata avviata la comparazione storica, individuando
tratti caratteristici che, nello stesso tempo, sono comuni agli ordi-
namenti compositi e li differenziano dalle esperienze statali classiche
(quelle dello Stato unitario, con un forte centro, a struttura compat-
ta). La comparazione ha altresı̀ consentito di osservare che gli
elementi caratteristici si presentano in modi diversi. Quindi, ha
permesso sia di avviare un’analisi critica delle differenze tra poteri
pubblici compositi e Stati, sia di iniziare a tracciare una tassonomia
delle varianti dei tratti caratteristici degli ordinamenti compositi.
Tutto ciò in termini preliminari e provvisori, perché, come avvertito
all’inizio, occorrono ulteriori ricerche di base per alimentare più
complete ricerche storico comparative.
Con le stesse avvertenze circa la provvisorietà delle osservazioni,
si passa ad indicare i fattori di successo e di crisi degli ordinamenti
compositi del passato.
La chiave dello sviluppo degli ordinamenti compositi sta nelle
). Queste
“competing aspirations towards unity and diversity” (
85
due contrapposte tendenze hanno trovato, in quegli ordinamenti, un
equilibrio che è spesso durato più secoli. Quando l’equilibrio si è
rotto, si sono verificati i due esiti possibili: la rottura oppure
).
l’unificazione in un organismo politico unitario e centralizzato (
86
Per le unioni del XVI secolo è stato osservato che i fattori che
hanno favorito l’integrazione sono stati i processi non forzosi (unioni
“aeque principaliter”), la creazione di nuovi organi istituzionali per
i nuovi territori e l’uso del patronato per guadagnarsi la lealtà delle
).
“élites” locali (
87
Più studiati i fattori di crisi che condussero, alla fine dell’alto
Medioevo, alla perdita di unità del Sacro Romano Impero. Essi
( ) J.H. E , A Europe, cit., p. 71.
85 LLIOTT
) J.H. E , A Europe, cit., pp. 62-63.
( 86 LLIOTT
) J.H. E , A Europe, cit., p. 55.
( 87 LLIOTT
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 167
SABINO CASSESE
furono sostanzialmente due. Il primo fu la lotta delle investiture, che
spezzò l’unità tra Impero e Chiesa ( ).
88
Il secondo fattore di crisi fu la “feudalité diviseuse”, “système de
pouvoir eclaté” ( ). Il sistema dei feudi cambiò la posizione costi-
89
tuzionale del sovrano, che conquistò la posizione, accanto a quella di
legislatore, organo di governo e giudice, di soggetto legato da una
relazione contrattuale con i vassalli. Questo rafforzò, sul breve
periodo, la coesione del sistema, ma agı̀, sul lungo periodo, come
fattore centrifugo ( ), perché la nobiltà feudale aveva i suoi possessi
90
e li trasferiva a titolo ereditario. Ciò condusse alla “pressoché
completa polverizzazione della struttura e del potere politico”. Cosı̀
la feudalizzazione porta a un sistema di giurisdizioni e di immunità
separate sovrapponentisi, e, in ultima istanza, alla frammentazio-
ne ( ).
91
L’autore di queste pagine lascia al lettore pensoso l’ingrato
compito di individuare il luogo dove si nascondono la moderna lotta
delle investiture e il neofeudalesimo che potrebbero minare le basi
della costruzione europea, portandola, di qui a centocinquant’anni,
alla disintegrazione (o alla concentrazione e all’uniformità).
( ) “Uno stato investito di missione religiosa […] un papato investito di missione
88
politica […] si cercano, si uniscono e danno origine all’impero di Carlo Magno […] ”
, Albori d’Europa, Edizioni del Lavoro, Roma, 1947, p. 23; si
aveva osservato G. F
ALCO
veda p. 39 per la lotta delle investiture.
) F. B , L’identité de la France. Les hommes et les choses, Arthaud-
(
89 RAUDEL
Flammarion, Paris, 1986, t. I, p. 122.
) R.L. C , An historical introduction, cit., p. 48.
(
90 VAN AENEGEM
) G. G , Potere e istituzioni, cit., p. 18-29; si veda anche A. P
(
91 ALASSO ADOA
S , Il diritto nella storia d’Italia, cit., p. 125, dove si osserva che il vassallaggio
CHIOPPA , Sperimentazioni, cit.,
porta a “una rete a maglie sempre più fitte”, nonché G. T ABACCO
p. 250, dove osserva che le deboli strutture dell’“imperium christianum” erano insuffi-
cienti a contenere le aristocrazie ribelli. Vi sono stati, naturalmente, altri fattori di crisi,
quali quelli geografici (contiguità territoriale) e internazionali (rapporti di forza). Ma
questi hanno agito dall’esterno.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
CORRADO MALANDRINO
v
SOVRANITA NAZIONALE E PENSIERO CRITICO
FEDERALISTA. DALL’EUROPA DEGLI STATI
ALL’UNIONE FEDERALE POSSIBILE
1. Premessa. — 2. Un paradigma federalista “unitario” di critica della sovranità statale?
— 3. Un termine a quo per una ipotesi di sistematizzazione. — 4. Le premesse
ottocentesche. — 4.1. Un excursus: critica della sovranità e unità europea nel pensiero
socialista tra Otto e Novecento. — 5. Sovranità degli stati nazionali contro unità
europea? Alcune tesi del primo Novecento. — 5.1. Einaudi: contro il “mito” della
sovranità statale. — 5.2. I federalisti della Federal Union. — 5.3. Le concezioni
federaliste ed europeiste tra antifascismo e Resistenza. — 5.3.1. Trentin: una nuova
visione pluralista di fronte alla “crisi” del diritto e dello stato. — 5.3.2. Il Manifesto di
Ventotene: Spinelli e la strategia costituzionale del “federalismo europeo”. — 6. La
critica federalista nel secondo Novecento: sparizione, obsolescenza o trasformazione
della sovranità? — 6.1. Il “federalizing process” di Friedrich: la sovranità impossibile. —
6.2. Il federalismo come “grand design”: Elazar e le sovranità diffuse e condivise. — 6.3.
Hallstein: federalismo sovranazionale comunitario. — 6.4. L’indirizzo “federalista euro-
peo”. Albertini e il MFE: inadeguatezza del confederalismo e del gradualismo nel
problema della “costituzionalizzazione” dell’Unione europea. Una rivalutazione della
sovranità e del “popolo europeo”. — 7. L’approdo federale derivante dal “paradigma
comunicativo” di Habermas. — 8. Un nuovo paradigma “federalista-comunicativo”
funzionale all’unità statale europea?
1. Premessa.
Il tema della crisi dello stato nazionale, da intendere principal-
mente come crisi della forma dominante di sovranità statale nel-
l’epoca moderna — intendendo con questa la dottrina della sovra-
nità unica, assoluta e indivisibile attribuita alla forma di stato sancita
), con-
nel sistema usualmente indicato come “modello Vestfalia” ( 1
solidato tra Settecento e Ottocento —, è oggetto di studio e di
( ) Per tale definizione cfr. a titolo indicativo F. C (a cura di), Gli occhi sul
1 ERUTTI
mondo. Le relazioni internazionali in prospettiva interdisciplinare, Carocci, Roma, 2000,
pp. 110-122. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
170 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
discussione da oltre un secolo ( ). In questo articolo si sostiene che
2
la critica federalista vi si è distinta, anticipando discussioni oggi
consuete, e continua a distinguervisi in modo particolare, anche se
non ha ricevuto e non riceve l’attenzione desiderata in sede scienti-
fica e politica. Negli ultimi decenni, infine, due fenomeni epocali,
opposti e concomitanti, definiti con i termini ormai abusati di
“globalizzazione” (o “mondializzazione) ed “etnolocalismi” (o “et-
), hanno aggravato questa crisi a tal punto da
noregionalismi”) (
3
chiedersi — come fa il pensatore federalista Daniel J. Elazar — se
non si sia già in una fase “postmoderna” nella quale, di fatto, la
sovranità statalnazionale abbia perduto le sue caratteristiche sostan-
ziali, e lo stato moderno si trovi pertanto in una situazione di
). Tali fenomeni hanno aumentato in
trasformazione senza ritorno ( 4
modo esponenziale l’interdipendenza dei contesti regionali, nazio-
nali e transnazionali, rendendo spesso evanescenti e facendo perce-
pire come obsolete le frontiere nazionali esistenti. Hanno messo in
evidenza l’inadeguatezza delle istituzioni politiche e socioeconomi-
che formatesi a seguito del trionfo dello stato nazionale moderno-
( ) La bibliografia è vastissima. Per un’opportuna introduzione tematica e biblio-
2 , Crisi dello stato e storiografia contemporanea, Il Mulino,
grafica cfr. almeno R. R UFFILLI
, La sovranità nel mondo moderno: nascita e crisi dello stato
Bologna 1979; L. F ERRAJOLI , Stato, Il Mulino,
nazionale, Laterza, Bari, 1997, pp. 7-10 e 39-59; P. P. P ORTINARO
, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale,
Bologna 1999, pp. 11-18 e 154-168; C. G
ALLI , Il crepuscolo della sovranità, Donzelli,
Il Mulino, Bologna 2001, pp. 131 ss.; A. B
OLAFFI
Roma 2002.
) Anche in questo caso la letteratura è ormai molto vasta. Si rinvia a titolo di
(
3 , La globalizzazione, le istituzioni e il federalismo, in
introduzione a C. M ALANDRINO
Comunità, individuo, globalizzazione. Idee politiche e mutamenti dello stato contempora-
, Carocci, Roma 2001, pp. 279-296. Sui termini generali del
neo, a cura di G. C AVALLARI , La fine
rapporto tra crisi dello stato nazionale e globalizzazione cfr. almeno K. O HMAE
dello stato-nazione. L’emergere delle economie nazionali (1995), Baldini & Castoldi,
, Democrazia e ordine globale. Dallo stato moderno al governo
Milano 1996; D. H ELD , La costellazione postnazionale
cosmopolitico (1995), Asterios, Trieste 1999; J. H ABERMAS
(1998), Feltrinelli, Milano 1999. Sulla tematizzazione del rapporto tra crisi dello stato
nazionale, globalizzazione e sviluppi teorici del federalismo cfr. in particolare T. A.
, Föderative Staaten in einer entgrenzten Welt: Regionaler Standortwettbewerb
B }
O RZEL
oder gemeinsames Regieren jenseits des Nationalstaates?, in Föderalismus, a cura di A.
e G. L , Westdeutscher Verlag, Wiesbaden 2002, p. 363-388 (ma ved.
B ENZ EHMBRUCH
anche le pp. 27-29 dell’intr. di Benz).
) Su ciò ved. infra il par. 6.2.
(
4 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 171
CORRADO MALANDRINO
contemporaneo. Anche negli ambienti politologici, filosofici e giu-
spolitici italiani, si è sviluppata, pertanto, una riflessione sulla “crisi”
o sulla “metamorfosi” del dogma della sovranità statale. Temi ripresi
soprattutto con un’ottica polarizzata sulle trasformazioni transnazio-
nali, indotte dalla globalizzazione, e attenta ai caratteri di una
possibile cittadinanza europea e all’istituzione della democrazia
).
cosmopolitica ( 5
Tuttavia, occorre constatare che, in generale, gli autori non
federalisti coinvolti in questo ampio dibattito, allorché parlano di
crisi della sovranità e dello stato nazionale, non tengono adeguata-
mente presente (anzi tendono a sorvolarlo decisamente) l’unico
orientamento teorico che da oltre un secolo e mezzo ha fatto di tale
coerente e radicale critica la propria bandiera, ovvero il federalismo.
Nel migliore dei casi, alcuni si fermano a una ripresa piuttosto
restrittiva del cosmopolitismo kantiano, interpretato in termini blan-
damente confederalistici, sottacendo che in questo, pur nei suoi
). Cosı̀ facendo, non
limiti, vive una potente carica federalista (
6
arrivano a un confronto realistico con il problema della sovranità in
quanto momento forte della costruzione, della natura, della legitti-
mazione e delle attribuzioni dello stato moderno, con riferimento
alla politica estera e interna. E, di solito, rifiutano o non si pongono
il problema — presente sulla scorta della tradizione federalista che
va dall’edizione del Federalist ai nostri giorni — della costruzione
( ) È disponibile una larga bibliografia; per orientarvisi cfr. in particolare Crisi e
5
metamorfosi della sovranità, Atti del XIX Congresso nazionale della Società italiana di
, Milano,
filosofia giuridica e politica (Trento, 29-30 settembre 1994), a cura di M. B
ASCIU
, Un dogma in crisi: il dibattito sulla sovranità nel pensiero giuspolitico
1996; D. Q
UAGLIONI D
del Novecento, in AA.VV., Temi politici del Novecento, a cura di A.M. L AZZARINO EL
G , Napoli, CUEN, 1997, pp. 13-36; Metamorfosi della sovranità tra stato nazionale
ROSSO , Edizioni ETS, Pisa 1999;
e ordinamenti giuridici mondiali, a cura di G.M. C
AZZANIGA
, Il Mulino Bologna 2001; Sfera
Una costituzione senza stato, a cura di G. B ONACCHI
, Annale della Fondazione L. e L.
pubblica e costituzione europea, a cura di E. P
ACIOTTI
Basso, Carocci, Roma 2002. Sul problema della cittadinanza l’opera di riferimento è
, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, Laterza, Roma-Bari
quella di P. C
OSTA
1999-2001, 4 voll., in part. il vol. IV, L’età dei totalitarismi e della democrazia, 2001.
) Per l’argomentazione della definizione di “federalismo” usata in questo saggio
(
6 , Federalismo. Storia idee modelli, Carocci, Roma 1998. Su Kant cfr.
ved. C. M
ALANDRINO , Tre studi sul cosmopolitismo kantiano,
le pertinenti e decisive ricerche di G. M ARINI
Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 1998.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
172 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
ineludibile del livello statuale federale sovranazionale, a livello ma-
). Un simile modo di affrontare il tema della
croregionale e globale ( 7
crisi o metamorfosi della sovranità statale nel Novecento causa un
senso d’insoddisfazione, derivante dalla constatazione che le conclu-
sioni democratico-cosmopolitiche, pur rappresentando un onesto
tentativo di indicare soluzioni coerenti con le teorie democratiche e
dei diritti, restano insufficientemente probanti sul piano della defi-
nizione istituzionale del domani europeo e globale.
2. Un paradigma federalista “unitario” di critica della sovranità
statale?
Occorre a questo punto chiedersi: è possibile parlare al singo-
lare di “critica federalista” alla sovranità dello stato nel Novecento?
O non si dovrebbe parlare al plurale di “critiche” di pensatori
federalisti, non omogenee fra loro, oppure ancora di critiche che si
evolvono in modo talmente divergente da non esservi pressoché più
nulla in comune tra quelle dell’inizio e quelle della fine del ‘900? Il
problema è collegabile anche alla risposta al seguente interrogativo:
c’è un fondamento teorico costante in tutte queste critiche, tale da
autorizzare comunque — pur riconoscendo una molteplicità di
approcci — la loro riconduzione a un paradigma comune?
La risposta affermativa, per la quale in ultima istanza propendo,
è favorita dalle stesse attribuzioni che la storia e la teoria politica
hanno conferito alla sovranità dello stato nazionale nell’epoca mo-
derna: unicità, unitarietà, indivisibilità, irrevocabilità, assolutezza,
monoliticità, ecc. La contrapposizione comune a tali caratteristiche,
che cementa le tesi federaliste, al di là di differenze di argomenta-
zione e di tematiche nei vari autori e nelle varie fasi del Novecento,
comporta la loro dislocazione su di un fronte unico rispetto alla
sovranità dello stato moderno monocentrico. Lo ricorda Norberto
Bobbio — riprendendo e sviluppando il proprio approccio catta-
neano al problema — in un saggio dedicato al trentesimo anniver-
( ) Cfr. le considerazioni svolte da L. L nel saggio La federazione: costituzio-
7 EVI , J.
nalismo e democrazia oltre i confini nazionali, posto introduttivamente a A. H AMILTON
, J. J , Il Federalista (1788), Il Mulino, Bologna 1997, pp. 9-116.
M ADISON AY
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 173
CORRADO MALANDRINO
sario della nascita del Movimento Federalista Europeo ( ). La critica
8
federalista, sostiene Bobbio, ha uno sviluppo inedito nel ‘900 a causa
della crisi oggettiva che, per più cause (di cui non si può indicare la
principale, né si può dire che siano cause meccaniche, ma che
occorre riconoscerle come cause che si verificano come “condizioni”
di apertura e avanzamento di crisi), getta la sovranità dello stato
moderno in una posizione di graduale o repentino arretramento e
dissolvimento in una col venir meno dello jus publicum europaeum:
interdipendenza economico-socio-giuridica (che oggi assume le di-
mensioni della globalizzazione), accrescersi della distruttività delle
guerre, incapacità della forma stato-nazione ad assolvere i compiti
per i quali fu creato sia dal punto di vista dei rapporti con gli altri
stati (politica estera e internazionale) sia dal punto di vista della
rappresentanza delle realtà socio-politiche interne, ecc.
Lo jus publicum europaeum — sottolinea Bobbio riprendendo
l’insegnamento schmittiano — fu costituito per porre fine alle guerre
di religione, vere e proprie guerre civili europee, e per rendere
effettivo uno jus belli alla cui base stesse la distinzione tra l’hostis, il
nemico in guerra, e il rebellis, il nemico nella guerra civile. Al sistema
del diritto pubblico europeo corrispose cosı̀ sul piano politico il
sistema “vestfalico” dell’equilibrio tra i grandi stati sovrani, che si
dimostrò in grado di dominare per quasi tre secoli i rapporti
internazionali. Ma tra Otto e Novecento, l’enorme distruttività degli
apparati bellici, l’avvento della nazionalizzazione delle masse e dei
totalitarismi fa sı̀ che, insieme alla rovine del sistema degli stati, cada
la distinzione tra l’hostis e il rebellis. Il mondo ridiviene vittima di
inaudite ondate di violenza che, nel contesto atomico, ne mettono a
repentaglio la stessa esistenza. Ecco dunque che, secondo Bobbio,
“l’idea federalistica nasce, si rafforza, diventa principio motore di
azione via via che il sistema giuridico e politico nato come antidoto
alle guerre di religione, come rimedio alla più grande esplosione di
violenza che l’Europa aveva conosciuto prima delle due guerre
mondiali, non regge più alla prova, quando si riscopre che anche la
( ) Cfr. N. B , Il federalismo nel dibattito politico e culturale della Resistenza,
8 OBBIO
(a cura di), L’idea dell’unificazione europea dalla prima alla seconda guerra
in S. P ISTONE
mondiale, Torino, Fondazione L. Einaudi, 1975, pp. 221-236.
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174 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
guerra fra stati può trasformarsi in guerra civile” ( ). Il pensiero
9
federalista è l’espressione di un “processo inverso” a quello carat-
terizzante lo stato moderno: “Mentre questo era nato da un processo
di accentramento verso l’unità e l’unicità del potere statale e di
decentramento rispetto al potere universale rappresentato dalla
chiesa e dall’impero (la comunità internazionale è definibile giuridi-
camente come un ordinamento massimamente decentrato), il fede-
ralismo muove al contrario verso la disarticolazione dell’unità dello
stato, e verso la ricerca di una nuova superiore unità […] al di là e
al di sopra dello stato. […] Combatte insomma la battaglia contem-
poraneamente su due fronti, quello della sovranità interna, attra-
verso il principio della divisione orizzontale dei poteri, e quello della
sovranità esterna, attraverso il principio della limitazione della po-
).
testà di guerra e di pace che è la prerogativa dello stato sovrano” (
10
Mi pare che l’argomento di Bobbio — in quanto enucleazione di
un “principio di azione” che è nel contempo espressione di un
“processo” secolare di scomposizione e limitazione della sovranità
statale — serva bene alla causa della fondazione di una visione
unitaria, benché articolata, delle varie espressioni del federalismo
sovranazionale (o esterno) e infranazionale (o interno), il primo
). La critica federalista, secondo
centripeto, il secondo centrifugo (
11
questo taglio interpretativo — che può far configurare una sorta di
“paradigma teorico di critica all’unicità e all’assolutezza della sovra-
nità dello stato moderno” (preciso che questa formulazione non è
del filosofo torinese, ma dello scrivente) nel quale convergono con
maggiore o minore facilità tutte le varie espressioni federaliste di cui
si tratterà nel seguito —, porta nel corso del Novecento un attacco
duplice alla sovranità dello stato: a) dall’alto o dall’esterno, alla sua
facoltà di determinare autocraticamente i rapporti nei confronti dei
suoi simili sul piano internazionale, ponendo viceversa il problema
di un patto federale sovranazionale; b) dal basso o dall’interno, alla
sua facoltà assoluta di determinare dal centro l’ordinamento interno,
ponendo viceversa il problema di un patto di convivenza con le
( ) Ivi, p. 224.
9 ) Ivi, p. 225.
( 10 ) Per queste definizioni del federalismo cfr. l’introduzione a M ,
( 11 ALANDRINO
Federalismo, cit., pp. 17-20.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 175
CORRADO MALANDRINO
comunità territoriali sul piano di un radicale decentramento auto-
nomistico, che giunge alla definizione federale interna dei rapporti
). Il fine verso il quale si muove tale critica
fra centro e periferia ( 12
è l’instaurazione della pace tra le nazioni e l’autonomia delle com-
ponenti infranazionali. La conseguenza di tali attacchi sul piano
teorico è la denuncia federalista della sovranità assoluta ed esclusiva
degli stati nazionali come causa di guerra perpetua e di illibertà e
autoritarismo da un lato, dall’altro come “mito” semplicemente
obsoleto per alcuni autori nelle condizioni contemporanee, mistifi-
catorio fin dalle origini per altri, in ogni caso da rigettare e sostituire
con forme di sovranità diffusa e condivisa per alcuni, da eliminare
tout court per altri. Tale elaborazione critica, definita con argomenti
diversi da alcuni federalisti come Daniel Elazar e Mario Albertini
“una rivoluzione” non cruenta, è in corso da più di un secolo e
mezzo, non solo in Europa. Essa è stata rinvigorita dagli eventi
storici che hanno segnato gli ultimi decenni del Novecento con la
fine della divisione del mondo in blocchi. La caduta del Muro di
Berlino è sotto tale profilo il punto di arrivo (e di partenza) di un
processo storico epocale: la crisi finale della modernità e l’inizio della
postmodernità. Esso ha trasformato a oriente le frontiere degli stati
e sepolto quello che veniva presentato come modello alternativo alle
democrazie occidentali, lasciando il campo all’affermarsi di una
nuova anarchia internazionale in un quadro di conflittualità più o
meno guerreggiate tra le nazionalità che, per la loro virulenza,
ricordano i periodi precedente e seguente la prima guerra mondiale.
In vari stati dell’Occidente europeo tale rivoluzione ha messo in crisi
( ) Sfugge alla portata teorica del paradigma cosı̀ delineato la formulazione, in
12
termini oggettivi e soggettivi, del problema di un nuovo potere costituente la sovranità,
nel senso che sembra restarvi implicito il riferimento allo schema tradizionale della
sovranità popolare nazionale che crea la sovranità statale nei termini usuali elaborati dal
costituzionalismo liberaldemocratico. Tale schema, però, essendo stato inglobato total-
mente nell’Ottocento nella teoria dello stato-nazione godente assoluta ed esclusiva
sovranità, non sopporta più l’immediata e diretta applicazione sul piano infra- e
sovranazionale, ai fini cioè di individuare più livelli di sovranità diffusa e condivisa, senza
una riformulazione appropriata. Di tale difficoltà, in parte segnalata profeticamente da
pensatori del Novecento come Rosselli e Trentin di cui ved. ai paragrafi 5.3 e 5.3.1, ci si
occupa nei paragrafi finali di questo saggio con attenzione particolare al problema
europeo. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
176 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
l’assetto tradizionale e posto all’attenzione l’ineludibile necessità di
riforme costituzionali.
In questo contesto drammatico — contrassegnato altresı̀ dal-
l’urgenza di procedere a tappe forzate verso una riforma in senso
federale dell’Unione Europea e dell’ONU — assume significato la
riflessione critica, distruttiva, una vera pars destruens, fatta nel corso
dell’età moderna e giunta al suo apice nel Novecento dai pensatori
federalisti sullo stato nazionale fortemente centralizzato, e quella
costruttiva, la pars construens, che sempre più si orienta verso la
definizione di forme di stato federale ai vari livelli, locale nazionale,
macroregionale e mondiale.
3. Un termine a quo per una ipotesi di sistematizzazione.
Posto che si convenga su questo genere di approccio paradig-
matico unitario (che non intende sacrificare, ma collegare nella
distinzione la molteplicità delle espressioni federaliste), se si vuol
affrontare il compito di seguirne storicamente la formazione, allora
occorre innanzitutto aver consapevolezza del termine (non solo)
temporale dal quale partire per individuare analiticamente le espres-
sioni predette. Storicamente, tale termine è posto dalla pubblica-
zione del Federalist e dall’approvazione della prima costituzione
federale scritta negli Stati Uniti d’America. È quella l’occasione in
cui si definisce un modello di federazione condividente con gli stati
membri la sovranità, a partire appunto da una critica radicale del
concetto moderno di sovranità indivisibile e centralizzata derivante
dalle dottrine dei maggiori teorici assolutisti, come Bodin e Hobbes,
ma anche di antiassolutisti, come Locke e Montesquieu, di cui si
accettano peraltro gli insegnamenti liberali in materia di rappresen-
tanza, separazione e bilanciamento dei poteri sul piano orizzontale.
Da quel momento si avvia una reale critica, teorica e pratica, alla
concezione moderna della sovranità predominante in Europa e di
qui diffusa nel mondo. Il Federalist segna, in tal senso, il passaggio
dal federalismo antico-medievale a quello moderno-contemporaneo.
Ne consegue che prima del Federalist, per quanto si possa
constatare l’esistenza di pensiero parzialmente critico verso l’ordi-
namento vestfalico — in particolar modo ci si riferisce qui all’ela-
borazione dell’ideale della pace perpetua in Europa posto come
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 177
CORRADO MALANDRINO
meta razionale di processi confederativi —, manca tuttavia in esso
una sufficiente coscienza del collegamento tra lo sviluppo del-
l’istanza europeista e il necessario attacco alla concezione monolitica
della sovranità, presupposto per la costruzione di un nuovo ordine
europeo di tipo federale ( ).
13
Dopo la diffusione del Federalist, avvertibile già nel periodo
rivoluzionario e napoleonico, si possono distinguere due fasce di
autori che si richiamano in vario modo al federalismo e che —
attraverso questo — si applicano al problema dell’unificazione
europea. La prima, di coloro che usano ancora genericamente tali
categorie all’interno di concezioni peculiarmente caratterizzate da
un diverso e preminente nucleo ideologico o teorico, che non si
richiama espressamente all’innovazione del Federalist in tema di
dislocazione duale della sovranità. Si pensi, per esempio, per l’Ot-
tocento a Claude-Henri de Saint-Simon o, per l’Italia, a Giuseppe
Mazzini; per il Novecento si pensi all’austriaco Richard Coudenho-
ve-Kalergi, grande europeista non federalista. Autori di questo
genere non possono esser considerati all’interno della presente
trattazione.
La seconda fascia, invece, raccoglie coloro che sono o diventano
man mano consapevoli della novità americana (e svizzera, a partire
dal 1848) e, di conseguenza, del rapporto necessario che si instaura
( ) Sull’affermarsi, tra Seicento e Settecento, di idee confederali europee sulla
13
base della “pace perpetua” fra gli Stati — elemento di valore morale che entra a far parte
, L’idea dell’unità
permanente dell’idea dell’unità europea — rimando a C. M ALANDRINO
(a cura), L’Unione europea e le sfide del XXI secolo, Torino, Celid,
europea, in U. M ORELLI
2000, pp. 13-16. Nel Settecento illuminista l’ideale della pace “perpetua” si delinea,
grazie soprattutto agli scritti dell’abate di Saint-Pierre e di Kant, come il più significativo
dei valori qualificanti dell’idea dell’unità europea. Saint-Pierre abbozza fin dal 1710, e
pubblica nel 1729, un Progetto per realizzare la pace perpetua fra i sovrani cristiani, avente
il carattere filosofico-giuridico e politico di una riforma in senso federativo del coevo
diritto internazionale, da perseguire attraverso l’istituzione di una “società permanente”
dei sovrani d’Europa. A essa spetterebbe il compito di dirimere i conflitti interstatali e
di far rispettare le decisioni prese. Pur se l’idea di Saint-Pierre appare poco realistica per
le condizioni storiche del tempo, esercita influssi notevoli sul pensiero degli illuministi e
del più importante teorizzatore settecentesco della pace perpetua, Immanuel Kant.
Questi riprende il discorso della “pace perpetua” in chiave cosmopolitico-federale in vari
scritti e particolarmente nel saggio omonimo del 1795, e lo porta al massimo sviluppo
filosofico-politico in una forma che influenzerà il pensiero federalista successivo. Su ciò
, Federalismo, cit., pp. 29-38.
rimando all’esposizione fatta in M
ALANDRINO
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178 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
nel federalismo moderno tra critica della sovranità statalnazionale e
proposte di unificazione europea. È più difficile, ma non impossi-
bile, incontrare autori di tal fatta nell’Ottocento. Pensatori come
Carlo Cattaneo e, in modo più evidente, John Robert Seeley, appar-
tengono a questa categoria. A essi occorre pertanto concedere
qualche cenno. È però nel Novecento che tale pensiero assume il
maggior sviluppo. Su questo si dovrà concentrare l’attenzione.
In tal caso si possono distinguere quattro posizioni critiche della
sovranità, in diversi modi e misure riconducibili ad approcci fede-
ralisti come sopra qualificati o assimilabili: 1) la posizione di coloro
che, pur sostenendo l’avvenuto indebolimento della sovranità degli
stati nazionali per cause oggettive, e pertanto affermando che oc-
corre andar oltre in direzione di aggregazioni sovranazionali, tuttavia
confermano l’auspicio che gli stati nazionali continuino ad assolvere
per il futuro a un ruolo essenziale e preminente da punto di vista dei
processi decisionali; 2) quella di chi constata un relativo indeboli-
mento della sovranità statalnazionale, ma lo considera insufficiente e
attesta la necessità di un ulteriore e decisivo venir meno di essa, in
quanto la considera la ragione più importante dell’origine del na-
zionalismo, dell’autoritarismo, delle dittature totalitarie e delle
guerre del Novecento; 3) quella di coloro che osservano un indebo-
limento sostanziale, ai limiti della sparizione, della sovranità dello
stato nazionale classico per cause che vanno dai rapporti strategici
mondiali allo sviluppo delle economie internazionalizzate e globa-
lizzate nel mondo postmoderno transnazionale, e vedono un futuro
ordine mondiale basato su forme più o meno federali nelle quali la
sovranità non sarà più una categoria descrittiva e prescrittiva auto-
noma; 4) quella, infine, di coloro che, partendo da una base filoso-
fico-politica originariamente non federalista, sviluppano una critica
della sovranità statalnazionale a quella affine e si fanno portavoce di
proposte analoghe.
Nella prima posizione sono riconoscibili pensatori liberaldemo-
cratici come Hans Kelsen o come gli aderenti alla corrente trasfor-
mazionalista della globalizzazione, certamente ispirati da concezioni
cosmopolitiche, confederaliste o federali in senso lato, ma che nella
fattispecie dell’analisi della crisi dello stato nazionale applicata al
contesto europeo tendono a fermarsi su posizioni intermedie o a
rifluire su posizioni non federaliste in senso pieno. Le loro dottrine
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 179
CORRADO MALANDRINO
o teorie non possono pertanto entrare nel paradigma federalista di
cui sopra.
La seconda e la terza posizione sono rappresentate invece da
pensatori federalisti in senso specifico e forte: l’una da giuristi ed
economisti come Silvio Trentin, Luigi Einaudi, i federalisti anglo-
sassoni della Federal Union, i “federalisti europei” seguaci del
Manifesto di Ventotene di Spinelli e del MFE di Albertini; l’altra, da
federalisti integrali e da teorici di un federalismo processuale come
Carl J. Friedrich ed Elazar. Sono tali posizioni nel loro complesso a
sostanziare, a mio avviso, il paradigma federalista classico di critica
alla sovranità statalnazionale al quale ci si intende riferire in questo
studio.
Tuttavia sarà da valutare sinteticamente anche il contributo
proveniente da autori collocabili nella quarta posizione per la loro
capacità di penetrare nella critica della sovranità statalnazionale
evitando alcune ideologizzazioni talora ricorrenti nella seconda e
nella terza posizione. Mi riferisco in particolare ai teorici dell’ap-
proccio “comunicativo”, come Jürgen Habermas, che arrivano a
conclusioni molto simili a quelle federaliste, in particolare rispetto al
problema dell’unificazione e della costituzionalizzazione europee.
Di seguito, pertanto, si procederà all’esposizione dei principali
motivi di critica federalista emergenti dagli autori più significativi
dell’orientamento sopraddetto tra Ottocento e Novecento, prima di
proporre nell’ultimo paragrafo una nuova sintesi del paradigma
federalista resa ormai urgente dai problemi dell’integrazione euro-
pea e della sua inevitabile costituzionalizzazione.
4. Le premesse ottocentesche.
L’ideale di un’unità europea, capace di por fine ai problemi
della conflittualità permanente e distruttiva attraverso una consen-
suale limitazione delle prerogative assolute di sovranità degli stati
nazionali, ispira nell’Ottocento politici, filosofi, scrittori e scienziati
che intendono far progredire la società tramite un’organizzazione
razionale e l’applicazione di metodi scientifici ( ). Tale fede si
14
( ) Tra questi, anche se non strettamente pertinente con il taglio dato in questo
14
saggio, occorre ricordare Saint-Simon, teorico dell’industrialismo, che inizia a porsi con
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
diffonde in vari paesi, tra cui l’Italia, per diventare patrimonio
comune dei dirigenti democratici del moto risorgimentale. Secondo
il federalista Carlo Cattaneo, uno dei capi dell’insurrezione di
Milano, l’unità europea può scaturire da due aspirazioni comple-
mentari: la pace in Europa, d’ispirazione kantiana, e la costruzione
di un sistema di libertà capace di far sprigionare dalla società
europea tutte le sue possibilità economiche, sociali e culturali. Egli
è uno dei primi a ricorrere alla formula “Stati Uniti d’Europa”,
riecheggiante l’esperienza dei federalisti americani. Sviluppa altresı̀
una critica puntuale, analoga a quelle di Hamilton e di Kant,
all’anarchia delle relazioni internazionali conseguente al principio
dell’assolutezza della sovranità statale. Intuisce che l’assioma unita-
rio, centralista e militarista, su cui si fonda la sovranità assoluta e la
volontà di potenza degli stati nazionali (è a lui presente il caso tipico
della Francia) è la causa fondamentale dello stato di perpetua
belligeranza e, in pari tempo, dell’autoritarismo interno a questi
paesi. Nelle Considerazioni al primo volume dell’Archivio triennale
(1850) sostiene l’applicazione del principio federale all’Europa delle
nazioni, la creazione di un nuovo ius publicum europaeum, che
sostituisca quello di natura hobbesiana tramandato dall’epilogo delle
guerre di religione, l’istituzione di un governo europeo che non
presuppone l’omogeneità delle dimensioni territoriali, ma il ricono-
scimento della limitazione della sovranità militarista e aggressiva e
singolare forza il motivo dell’unità europea, a seguito dell’epopea napoleonica (Napo-
leone stesso concepisce il grandioso disegno centralizzatore di un’Europa imperiale). Nel
delicato momento di passaggio dallo sconfitto impero a un nuovo equilibrio sembra
fondata la speranza di una moderata evoluzione liberale nei paesi europei più progrediti.
Frutto di tale temperie è lo scritto di Saint-Simon e del suo segretario, Augustin Thierry,
pubblicato a Parigi nel 1814, sulla Riorganizzazione della società europea, in cui accanto
alla modernizzazione scientifico-positiva e industriale si sostiene — sulla scorta del
cosmopolitismo kantiano e dell’esperienza americana — l’organizzazione degli Stati
Uniti d’Europa. Conseguenza inevitabile della diffusione dello spirito liberale e di una
forma inedita di “patriottismo europeo”, la nuova Europa si costituirà — secondo
Saint-Simon e Thierry — intorno al nucleo di un parlamento franco-inglese, da
estendersi via via agli altri paesi, a partire dalla Germania. Intorno all’ideale cosı̀
delineato si costituisce la Società per gli Stati Uniti d’Europa, di cui è presidente intorno
alla metà del secolo il grande romanziere Victor Hugo. Al Congresso della pace, riunito
a Parigi nell’agosto del 1849, ribadisce con enfasi la convinzione che solo l’unità politica
del vecchio continente impedirà la guerra fra le nazioni.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 181
CORRADO MALANDRINO
l’abbandono dell’equilibrio della forza. Solo cosı̀, questa la conclu-
sione di Cattaneo, le nazioni europee potranno congiungersi in
federazione di popoli liberi e realizzare gli “Stati Uniti d’Europa”.
Tutto ciò detto, occorre comunque ammettere che in Cattaneo
il collegamento tra la critica della sovranità statale e la teoria
federalista di derivazione hamiltoniana è più implicito che esplici-
tamente sviluppato. È invece nella conferenza del marzo 1871 del
britannico John Robert Seeley, pubblicata nel “MacMillan Maga-
), in stretto collegamento
zine” e dedicata agli Stati Uniti d’Europa (
15
con la riflessione sul Federalist, che è dato trovare la traduzione della
teoria federale hamiltoniana nelle condizioni europee ottocentesche.
Tale idea si riverbera nella teorizzazione degli “Stati Uniti d’Euro-
pa”, intesi come genuina risposta federale alla crisi epocale del
concerto delle potenze europee e del sistema dell’equilibrio. Anche
Seeley pensa che la causa principale dell’epoca di guerre instaurata
in Europa a partire dalla seconda metà dell’Ottocento risieda nel-
l’anarchia internazionale dovuta, da una parte, al primato della
politica estera su quella interna, dall’altra al principio dell’assolu-
tezza delle sovranità degli Stati sostenuto dai nazionalisti. In tale
contesto, l’unico mezzo atto ad assicurare “la pace perpetua” di
kantiana memoria — intesa non più come mero principio morale e
di ragione, ma come esigenza imprescindibile di fronte alla minaccia
per l’umanità dell’aprirsi di conflitti sempre più spaventosi per il
crescere degli armamenti e per l’estensione globale — non può
essere delegato ai normali mezzi diplomatici, ai trattati preludenti a
generiche alleanze confederali, ma all’attuazione di una vera e
propria federazione, prima europea, poi mondiale. Solo il federali-
smo, secondo Seeley, sarà in grado di apprestare una struttura
istituzionale adatta a risolvere in modo pacifico e legale i conflitti
interstatali. Questo importante elemento è pertanto posto da Seeley,
tra i primi ad averne consapevolezza teorica, come l’obiettivo prin-
( ) Cfr. ora nella trad. ital. di L. V. M : J. R. S , Stati Uniti d’Europa,
15 AJOCCHI EELEY , UTET Libreria,
in Da un secolo all’altro. Il passato letto al presente, a cura di L. L
EVI ,
Torino 2000, pp. 233-253. Sull’influenza del pensiero di Seeley in Italia cfr. S. P ISTONE
Il pensiero federalistico in Piemonte e il federalismo internazionale, in Alle origini del
, Studi della Fondazione L. Einaudi,
federalismo in Piemonte, a cura di C. M
ALANDRINO
Torino 1993, pp. 125-142.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
182 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
cipale per le forze liberaldemocratiche e pacifiste sulla strada che
condurrà all’unità europea.
Nonostante queste dotte e autorevoli voci, l’elaborazione euro-
peista unitaria di matrice liberaldemocratica cade negli ultimi de-
cenni dell’Ottocento nell’oblı̀o generale. S’impone l’ordine europeo
fondato sull’equilibrio di grandi potenze nazionali, ferreamente
centralizzate e non di rado assolutiste e dispotiche. Si assiste al
subentrare dell’età dei nazionalismi e dell’imperialismo. All’idea
dell’unità europea manca ancora una completa elaborazione teorica,
e, soprattutto, un radicamento concreto (politico, economico, so-
ciale) nelle condizioni del tempo. Sotto il profilo economico, inoltre,
la maggioranza dei paesi europei (con l’eccezione della Gran Breta-
gna e, in parte, della Francia) è allora all’inizio della fase del
“decollo” industriale capitalistico. In tali circostanze, la politica
estera è infeudata ai voleri dinastici di monarchi o diretta dai governi
in forme diplomatiche non controllate democraticamente. I movi-
menti democratico-socialisti, dal canto loro, concentrano la propria
azione su obiettivi di politica interna e sociale. Soltanto tra la fine del
XIX e l’inizio del XX secolo, sulla spinta delle preoccupazioni
accese dalle crisi causate dall’imperialismo, dall’erompere dei nazio-
nalismi e dai sempre più seri pericoli di guerre, comincia a riemer-
gere la consapevolezza dell’urgenza di una nuova elaborazione
ideale europeista.
4.1. Un excursus: critica della sovranità e unità europea nel pensiero
socialista tra Otto e Novecento.
Il pensiero socialista partecipa, in tema di ideali europeisti, alle
stesse premesse cosmopolitico-umanitarie e pacifiste, di derivazione
settecentesca e illuminista, che compaiono in riformatori e pensatori
liberali e democratici, poco distinguendosi sul piano dell’approfon-
dimento critico. Lo scarso realismo politico di tale prospettiva può
forse concorrere a spiegare la mancanza d’interesse di Marx e di
Engels per essa, benché invece sia da loro sviluppata una forte critica
nei confronti dello stato borghese. Tuttavia, vi sono nel pensiero
loro e degli eredi due lineamenti teorici, congiunti con l’articola-
zione della questione nazionale, che si dimostrano a scavalco tra
l’Otto e il Novecento in grado di costituire solidi punti di approccio
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 183
CORRADO MALANDRINO
alle problematiche federaliste dell’unità europea, offrendone una
configurazione accettabile nel movimento socialista: a) l’analisi so-
cioeconomica dell’espansione, considerata necessaria, del capitali-
smo a livello mondiale e, accanto a questa, degli effetti di tale
movimento sulla vita degli stati nazionali; b) il bisogno, intrinseco
all’internazionalismo proletario, di superare il livello istituzionale
dell’ordinamento nazionale, ossia di sciogliere in modo progressivo
la “questione nazionale”. È questo il terreno sul quale si sviluppa
positivamente un tentativo europeista e federalista, nel quale si
distinguono Otto Bauer e Karl Renner in Austria, Karl Kautsky ed
Eduard Bernstein in Germania, Lev Trockij in Russia e, non da
ultimo, alcuni socialisti italiani, come Giuseppe Modigliani e Ugo
Guido Mondolfo, riuniti nella “Critica sociale” di Filippo Turati e
). Ci si soffermerà qui brevemente sul contributo
Claudio Treves (
16
austromarxista, che ci sembra esser quello più affine all’orienta-
mento federalista.
Gli austromarxisti Bauer e Renner elaborano la loro idea del-
l’unità europea nel contesto di critica del problema nazionale e
all’interno di una concezione della federazione plurinazionale pog-
giante sull’esistenza di un governo federale politicamente centraliz-
zato e, insieme, dell’esigenza di autonomia culturale e di decentra-
mento amministrativo al livello delle nazionalità. Tale visione
federale proviene loro dall’urgenza di dare alle spinte nazionaliste,
insorgenti nell’impero plurinazionale asburgico, una soluzione con-
forme al programma e all’ideologia socialista. In tale contesto pon-
gono anche il problema della futura unità europea. Alle nazioni, in
quanto comunità di carattere e di destino, che attraverso la media-
zione della lingua, dell’arte e della letteratura divengono comunità di
cultura, dev’esser assicurata un’autonoma personalità giuridica da
parte e nel contesto del diritto internazionale. Ma, differenziandosi
dai nazionalisti, Renner e Bauer non pensano che agli stati nazionali
sia da riconoscere una sovranità di tipo assoluto, considerata al
contrario il fondamento di una distruttiva anarchia internazionale.
La sovranità deve, a loro avviso, appartenere alla federazione pluri-
( ) Su questi temi cfr. più diffusamente C. M , L’idea dell’unità federale
16 ALANDRINO
europea e il socialismo marxista (1900-1920), in “Trimestre”, XXVIII, 1995, nn. 1-2,
pp. 23-49. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
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nazionale regionale e, in prospettiva, all’unione degli stati d’Europa.
La legittimazione giuridica della nazione all’interno della comunità
internazionale appare, tra l’altro, come l’unico modo di garantire la
pace. Una federazione europea e mondiale a carattere pienamente
democratico perderebbe, secondo i due austromarxisti, la sua natura
violenta e coercitiva.
Un itinerario concettuale parallelo a questo ragionamento giu-
ridico, fondato sui fattori sociali ed economici dell’espansione del
capitalismo europeo, conduce i due pensatori austriaci a un analogo
risultato. È Bauer a ricordare che la stessa premessa che costituisce
la ragione fondamentale della lotta per il socialismo — ossia il
gigantesco sviluppo del capitalismo, che al termine del XIX secolo
già plasma e comprende le forme essenziali della vita sociale dei
paesi europei, americani e delle loro colonie — dà anche motivo per
prevedere un avanzamento europeo in senso federale rispetto alla
forma dello stato nazionale. Infatti, già nel contesto sociale capita-
listico, i diversi stati intrecciano relazioni e traffici sempre più stretti;
diventa sempre più impellente una loro regolamentazione valida per
tutti, un sistema di diritto riconosciuto e valido al di là delle frontiere
dei singoli stati. Ma, a fronte del consolidamento e della moltiplica-
zione di sempre più stretti collegamenti interstatali, resta insoddi-
sfacente la loro regolazione tramite semplici trattati di diritto inter-
nazionale, mettenti capo alla costruzione di uffici, organismi,
amministrazioni sovranazionali (come, per esempio, commissioni
sanitarie, associazioni telegrafiche, unioni postali, ecc.). Quand’an-
che, nelle concrete condizioni contemporanee, simili trattati e orga-
nizzazioni internazionali possano ancora sanare i bisogni più impel-
lenti di pacifiche e costanti relazioni, resta comunque in quel modo
di procedere un’intima contraddizione logico-giuridica, poiché,
pensa Bauer, la comunità di diritto internazionale pur possedendo
ordinamenti e organi, non risulta costituita essa stessa in quanto
persona giuridica. Su tale presupposto, viene tracciata una linea di
sviluppo a una forma di socialismo funzionale al processo condu-
cente ai futuri “Stati Uniti d’Europa”. Scrive Bauer: “Come lo
sviluppo della produzione capitalistica delle merci mise in contatto
e legò tra loro isolate dominazioni terriere e città trasformandole in
stati moderni, cosı̀ la divisione internazionale del lavoro nella società
socialista creerà, oltre che la comunità nazionale, una forma sociale
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 185
CORRADO MALANDRINO
di tipo nuovo, uno stato degli stati, nel quale si incorporeranno le
singole comunità nazionali. In questo modo gli Stati Uniti d’Europa
non rimarranno più un sogno, ma saranno l’inevitabile scopo finale
di un movimento che le nazioni da tempo hanno intrapreso e che a
opera di forze, già oggi chiaramente visibili, viene potentemente
).
accelerato” (
17
Nella posizione di Bauer e di Renner si evidenzia, in primo
luogo, l’affermazione secondo cui la realizzazione del principio di
nazionalità attraverso il socialismo deve contemperarsi con l’inseri-
mento delle singole nazioni, in quanto persone giuridiche, in una
comunità sovranazionale, verso la quale appare ineluttabile la ces-
sione di una parte di sovranità. Rispetto alla sovranità della futura
comunità federale sovranazionale, di conseguenza, le nazioni trat-
tengono solo parte della loro originaria sovranità e una completa
autonomia culturale e amministrativa. In tale proposizione è conte-
nuta, a mio avviso, una critica del dogma della sovranità assoluta
dello stato nazionale moderno. In secondo luogo, è forte la corre-
lazione tra la realizzazione del socialismo e l’ipotesi dello sviluppo
federalista fino alla fondazione degli Stati Uniti d’Europa e, più
tardi, nella stessa prospettiva, di uno stato federale mondiale. In
margine a questo punto, il processo di federazione europea nasce
per gli austromarxisti in modo indipendente — sebbene saldamente
interrelazionato — da quello socialista, avendo radici sia nell’esi-
genza di superare l’anarchia internazionale per evitare conflitti
insolubili, sia nei bisogni dinamici delle economie moderne. Da ciò
discende l’assunto che le rivoluzioni federale e socialista devono
incontrarsi e compenetrarsi per una mutua realizzazione. Infatti,
entrambe sono considerate “necessarie” in senso marxista, ovvero
subordinate a fattori strutturali socioeconomici. Per questo motivo,
Renner e Bauer accentuano il ruolo istituzionale dei futuri “Stati
Uniti d’Europa” come istanza principale per la pianificazione eco-
nomica del continente. Funzionale, infine, all’incontro di tali ten-
denze storiche e rivoluzionarie è l’abbandono di una concezione
troppo angusta della lotta di classe a favore dell’adesione a una
tattica basata sulla collaborazione della classe operaia con le forze
( ) Cfr. O. B , Die Nationalitätenfrage und die Sozialdemokratie, Wiener
17 AUER
Volksbuchhandlung, Wien 1907, pp. 519-520.
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
borghesi democratiche, pacifiste e progressiste, anche allo scopo di
contrastare meglio l’influenza delle componenti nazionaliste e impe-
rialiste e, quindi, il rischio incombente di una guerra di gigantesche
proporzioni.
5. Sovranità degli stati nazionali contro unità europea? Alcune tesi
del primo Novecento.
La prima guerra mondiale mette a nudo la realtà, nel mondo
contemporaneo, della interdipendenza economica delle nazioni.
Essa dimostra la perdita di senso delle guerre destinate a rinsaldare
supremazie politico-militari, privilegi economici, conquiste territo-
riali. L’occupazione militare di territori, l’instaurazione su di essi del
dominio politico-amministrativo, l’appagamento di anacronistici ap-
petiti dinastici, viene sempre più pagato con altissimi costi per la
distruttività delle armi moderne: in una parola, la rovina dei con-
tendenti ( ). Sotto il profilo economico l’Europa costituisce ormai
18
un’unità organica e le guerre non sortiscono altro effetto che la
distruzione reciproca dei paesi belligeranti. Proprio a partire da
questi presupposti, oltreché dalla mancanza di alternative alla guerra
di trincea che immobilizza i fronti europei, trova accoglienza favo-
revole presso le élites democratico-progressiste la proposta fatta dal
presidente statunitense Woodrow Wilson l’8 gennaio 1918 nei
celebri “14 punti” e sintetizzata nella formula della “pace senza
vittoria”. Essa si fonda sul riconoscimento dell’eguaglianza di diritto
delle nazioni (anche quelle perdenti), rappacificate in un nuovo
organismo internazionale, la “Lega della pace”, nell’autodetermina-
zione dei popoli, nella democratizzazione della vita internazionale,
nel disarmo, nella libertà dei mari e dei traffici. L’impatto del
wilsonismo in Europa, soprattutto in Italia, è enorme e positivo.
Dall’attuazione della proposta della Lega o Società delle Nazioni
(SdN) le forze politiche e intellettuali liberali, democratiche e socia-
liste si attendono anche la soluzione dei problemi europei. Sembra
finalmente giunto il momento della realizzazione del sogno di tanti
precursori, da Saint Simon a Hugo, da Mazzini a Cattaneo: la nascita
( ) Cfr. N. A , La grande illusione (1910), a cura di A. C , E.
18 NGELL ERVESATO
ed., Roma 1913.
V OGHERA © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 187
CORRADO MALANDRINO
degli Stati Uniti d’Europa al termine di un processo di consociazione
tra le nazioni uscite dalla guerra. Wilson tuttavia — pur avendo
progettato la SdN — non riesce a persuadere nel 1919 gli Stati Uniti
a farne parte, e questo appare come il primo e più importante (ma
non unico) elemento di debolezza di un’istituzione che contrappone,
fin dall’inizio, all’ambizione degli obiettivi l’esilità dei mezzi teorici
e pratici per farvi fronte.
5.1. Einaudi: contro il “mito” della sovranità statale.
La debolezza politica della SdN, in quanto premessa di un
passaggio verso l’unificazione europea, è oggetto di una lucida
critica da parte di Luigi Einaudi, negli articoli del 1918 apparsi sul
“Corriere della Sera” e raccolti nel 1920 nelle Lettere politiche con lo
pseudonimo di Junius ( ). Scienziato e storico insigne dell’economia
19
liberale, Einaudi è altresı̀ tra i critici più lucidi del “dogma” della
sovranità statale, teorico del federalismo europeo e di un assetto
federale interno dell’Italia ( ). Dopo Cattaneo, e prima dell’aper-
20
tura del ciclo novecentesco delle guerre mondiali, in Italia e in
Europa, sono rari i propugnatori dell’idea unitaria europea. E
nessuno di loro mostra consapevolezza, come invece possiede Ei-
naudi, della centralità e attualità del problema della sovranità asso-
luta ed esclusiva degli stati europei, visto come l’ostacolo maggiore
ai fini del conseguimento del fine unitario e federale a livello
continentale. Un nodo durissimo, da sciogliere secondo Einaudi nel
senso dell’attenuazione della sovranità degli stati e del riconosci-
( ) Cfr. le Lettere politiche di Junius, Bari, Laterza, 1920, ripubblicate in varie
19
edizioni recenti, cfr. per esempio quella, contenente altresı̀ gli scritti economico-
: L. E , La
federalisti einaudiani del periodo 1944-1945, curata da M. A
LBERTINI INAUDI
guerra e l’unità europea, Firenze, Le Monnier, 1984.
) Sul pensiero politico autonomista e federalista di Einaudi cfr. in part. U.
( 20 , Contro il mito dello stato sovrano. Luigi Einaudi e l’unità europea, Milano,
M ORELLI , L’Europa necessaria. Il federalismo di Luigi Einaudi, con un
Angeli, 1990; C. C RESSATI , Torino, Giappichelli, 1993; N. B , Luigi Einaudi
saggio introduttivo di R. F
AUCCI OBBIO
federalista, in: Alle origini del federalismo in Piemonte, cit., pp. 17-32. Si rinvia inoltre alla
: L. E , A proposito di
presentazione di inediti einaudiani a cura di C. M ALANDRINO INAUDI
autonomie, federalismo e separatismo. Due inediti e un articolo, Annali della Fondazione
., Due scritti sulla federazione europea, ivi,
L. Einaudi, XXVIII, 1994, pp. 545-567; I D
XXIX, 1995, pp. 561-581.
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mento della parallela sovranità federale europea, considerata come
premessa per poter fattivamente accedere alla fase costitutiva degli
Stati Uniti d’Europa. Aver compreso a fondo e più volte teorizzato
una critica della sovranità dello stato nazionale accentrato — per
esempio, nel celebre articolo intitolato Contro il mito dello stato
) — è forse il maggior titolo d’originalità per il pensatore
sovrano (
21
federalista Einaudi, accanto alle molte osservazioni sulle condizioni
economiche necessarie alla realizzazione della futura federazione
europea, elaborate proprio a partire dalla critica rivolta al progetto
wilsoniano. Einaudi non ne contesta la forza morale, ma l’inadegua-
tezza nella ricerca e individuazione delle cause vere dei conflitti
interstatali e l’inidoneità istituzionale ai fini della fondazione di una
reale epoca di pace. Due sono le fonti di riferimento teorico cui si
rifà. La prima è il pensiero del Federalist, assimilato insieme alla
lettura fatta da pensatori federalisti britannici tra Ottocento e No-
vecento, storici e scienziati politici come Seeley, il Lionel Curtis del
Commonwealth of Nations, Henry Sidgwick, autore degli Elements
).
of Politics (
22
La seconda sorgente d’ispirazione è costituita dallo storicismo
). Attraverso l’uso
tedesco e dalla teoria della ragion di stato ( 23
combinato di questi due strumenti analitici, il federalismo hamilto-
niano e il realismo politico della ragion di stato unito al primato della
politica estera, si determina in Einaudi la convinzione che la causa
principale della guerra mondiale debba esser ricercata non tanto nei
motivi di competizione anarchica sul terreno economico, nell’impe-
rialismo, come affermano le dottrine socialiste marxiste ortodosse, e
neppure solo nell’aggressiva politica mondiale del militarismo tede-
sco. Queste sono concause. La guerra diviene però inevitabile, a suo
avviso, per la stessa situazione di divisione europea tra stati nazionali
( ) Cfr. L. E , Contro il mito dello stato sovrano, in “Risorgimento Libera-
21 INAUDI
le”, a. 3, n. 2, 3 gennaio 1945, p. 1, è stato riproposto più volte in varie riviste e ripreso
nella raccolta einaudiana Il Buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), a cura
, Laterza, Bari 1954, pp. 625 ss.
di E. R OSSI
) Cfr. L. C , The Commonwealth of Nations, London, Macmillan 1916; H.
( 22 URTIS
, The Elements of Politics, London Macmillan, 1891.
S
IDGWICK
) Per una introduzione a questi temi cfr. Politica di potenza e imperialismo.
(
23
L’analisi dell’imperialismo alla luce della dottrina della ragion di stato, a cura di S.
, Milano, Angeli, 1973.
P ISTONE © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 189
CORRADO MALANDRINO
la cui volontà di potenza, fondata sul dogma anacronistico e “dia-
bolico” della sovranità assoluta, è la responsabile principale del
fallimento dell’equilibrio nel concerto europeo, dell’inevitabile lo-
gica guerresca, ed erge una barriera insormontabile all’idea di una
“società di nazioni” effettivamente funzionante che, viceversa, esige
necessariamente — per poter esistere — il superamento di tale
dogma e di una concezione meramente confederale.
Sulla scorta di tale premessa Einaudi distingue acutamente, sul
piano teorico, i concetti di “federazione”, per la quale rimanda
all’esempio della costituzione federale statunitense, e di “confede-
razione”, di cui fa fede la millenaria tradizione europea. La SdN
proposta da Wilson secondo Einaudi è apparentata con la seconda.
Pertanto sarebbe solo ripetizione di esperienze già fatte e non
garantirebbe una pace reale e duratura. Si scioglierebbe invece il
tragico nodo delle secolari conflittualità europee soltanto per mezzo
dell’unificazione economica, sociale e giuridica del continente, resa
improrogabile dal grado di crescita e di integrazione oggettiva
conseguite dai paesi che lo compongono. Con un excursus storico,
Einaudi dimostra che la guerra mondiale è interpretabile come il
tentativo ambizioso dell’impero tedesco di edificare con la forza
l’unificazione europea. La conclusione, di tipo hamiltoniano, è
pertanto la seguente: poiché la ragione strutturale che origina la
guerra risiede nella logica politica basata sulla sovranità assoluta ed
esclusiva degli stati europei, solo attraverso l’affievolimento di essa
nell’unione federale, grazie alla creazione di una sovranità e di un
potere statali più elevati (che lascerebbe sempre agli stati membri
competenza politico-amministrativa piena sulle materie interne), si
). È interessante notare che
raggiungerebbe un’epoca di pace (
24
Einaudi afferma con forza tale posizione di principio anche nel
secondo dopoguerra, sostenendo che gli stati europei non possono
né devono sfuggire nel momento della ricostruzione alla decisione
politica di unirsi subito, nel momento in cui le condizioni storiche e
l’omogeneità ideologica delle élites dominanti lo permettono,
( ) Occorre ricordare che su una posizione simile si schierano Attilio Cabiati e
24
Giovanni Agnelli con l’opuscolo del 1918 intitolato Federazione europea o Lega delle
Nazioni?, Fratelli Bocca Ed., Milano-Torino-Roma 1918. Cfr. su questi temi diffusa-
mente anche il vol. cit. Alle origini dell’europeismo in Piemonte.
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quanto meno nella parte occidentale occupata dagli alleati angloa-
mericani. A suo avviso, le procedure funzionaliste, messe in movi-
mento dal lancio del piano Marshall e destinate nel prosieguo, già
nel 1951 con la CECA, alla creazione di comunità economiche
intermedie, pur essendo in sé positive forme di cooperazione pro-
gressiva, corrono il rischio di essere in realtà scappatoie per eludere
in quel momento la scelta federale. Il sistema delle “comunità
economiche” avrebbe il suo sviluppo, ma — secondo lo statista di
Dogliani, eletto nel frattempo primo presidente della Repubblica —
non potrebbe evitare di riportare, in tempi successivi, alle forche
caudine della decisione sulle sovranità statali.
La critica federalista di Einaudi alla sovranità statale è vivace
anche sul versante infranazionale. Si pensi alla polemica antiaccen-
tratrice, in puro stile cattaneano, sviluppata in articoli come Via il
prefetto!, il già citato Contro il mito dello stato sovrano, La sovranità
è indivisibile? ( ). Il federalista Einaudi, elaborando in simmetria
25
con il livello sovranazionale europeo la critica liberale al dogma
dell’intoccabilità della sovranità statalnazionale anche al livello in-
franazionale, scrive frasi forti come: “Si potrà discutere sui compiti
da attribuire a questo o a quell’altro ente sovrano; e adopero a bella
posta la parola sovranità e non autonomia, ad indicare che non solo
nel campo internazionale, con la creazione di vincoli federativi, ma
anche nel campo nazionale, con la creazione di corpi locali vivi di
vita propria originaria non derivata dall’alto, urge distruggere l’idea
funesta della sovranità assoluta dello stato. Non temasi dalla distru-
zione alcun danno per l’unità nazionale” ( ). Un’unità nazionale che
26
— ribadisce Einaudi — questo sı̀ “è un dogma posto al di fuori di
ogni contesa” ( ).
27
In queste posizioni cosı̀ nette vi è da sottolineare la motivazione
e l’inquadramento teorico rigoroso delle autonomie politiche locali
all’interno della dottrina federale dello stato e, nel contempo, la loro
delimitazione rispetto allo stato nazionale. Einaudi asserisce che alle
( ) Cfr. L. E , Via il prefetto!, qui cit. dalla riedizione nella raccolta Il
25 INAUDI , Bari, Laterza,
buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), a cura di E. R OSSI .,
1954, pp. 58 ss.; Contro il mito dello stato sovrano, cit.; La sovranità è indivisibile?, in I
D
A proposito di autonomie, federalismo e separatismo, cit., pp. 565-567.
) Cfr. E , Via il prefetto!, cit., p. 58.
( 26 INAUDI
) Cfr. L. E , La sovranità è indivisibile?, cit., p. 567.
(
27 INAUDI
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CORRADO MALANDRINO
regioni storiche italiane — a tutte, non solo a quelle sedi di movi-
menti particolaristici, centrifughi e perciò future destinatarie di
autonomie speciali — dovrebbero esser riconosciute libertà e sovra-
nità comparabili a quelle dei cantoni svizzeri, in un quadro di
divisione dei compiti tra stato centrale ed enti locali corrispondenti
a criteri federalisti. “Ognuno dei due — afferma Einaudi — deve
). Nell’articolo La sovranità è
esser sovrano nella propria materia” ( 28
indivisibile?, scrive magistralmente: “Come nessuno stato è piena-
mente sovrano nei rapporti internazionali, ma tutti gli stati debbono
assoggettarsi all’intervento altrui negli affari propri interni; cosı̀
all’interno di ogni cosiddetto stato sovrano non vi è un solo stato; ma
gli stati sono parecchi, forse molti, e nessuno di essi è pienamente
sovrano, perché la sovranità di ognuno si arresta dinnanzi all’uguale
). Einaudi parla
sovranità degli altri e deve con questa convivere” (
29
in proposito di autonomie politiche locali basate sul fondamento di
poteri originari comunali e regionali, che sono da considerare ori-
ginari e non frutto di decentramento politico-amministrativo più o
meno ampio. A differenza del modello federale svizzero o statuni-
tense, dove dagli stati o dai cantoni si procede alla costituzione della
federazione, occorre in Italia seguire la via inversa. Scrive nel 1946
nella relazione sullo statuto della regione siciliana: “Noi dobbiamo
partire da uno stato centralizzato per arrivare a uno stato più sciolto,
). Anticipando di
con funzioni attribuite alle singole regioni” ( 30
cinquant’anni le discussioni attuali sul principio di sussidiarietà,
visto come il criterio dirimente per la distribuzione delle competenze
tra le future regioni e il governo centrale in Italia, Einaudi afferma
che “il principio informatore della legislazione regionale è dunque
che allo stato centrale rimangono attribuite tutte quelle funzioni che
esplicitamente non siano state assegnate alle regioni nell’atto in cui
queste sono costituite. Compiuta questa distribuzione, stato e re-
gione devono risultare sovrani nell’ambito delle proprie competen-
( ) Cfr. la lettera al cattolico democratico valdostano Paul Alphonse Farinet del
28 , A proposito di autonomie, federalismo e separatismo, cit.,
29 maggio 1945 in E INAUDI
p. 562. ) Ivi, p. 565.
( 29 ) Cfr. L. E , Interventi e relazioni parlamentari, a cura di S. M
( 30 INAUDI ARTINOTTI
D , Torino, Fondazione L. Einaudi, 1982, vol. II, p. 226.
ORIGO © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
192 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
ze” ( ). Una regola “impolitica” per i tempi, che non trova spazio
31 ).
nella costituzione repubblicana (
32
5.2. I federalisti della Federal Union.
La principale visione dell’unificazione europea, coerente coi
presupposti del federalismo di critica alla sovranità nazionale, si
mostra nella corrente di pensiero sviluppatasi in Inghilterra nella
prima metà del Novecento e particolarmente attiva nella presenta-
zione di proprie proposte politiche di federalismo europeo e mon-
diale negli anni Trenta e Quaranta. Gli autori principali — all’in-
terno di un gruppo più vasto di intellettuali fondatori del movimento
denominato Federal Union (1938), il cui lavoro influenza statisti
come Winston Churchill e Clement Attlee nella fase tra le due
guerre mondiali — sono Philip Kerr, poi divenuto Lord Lothian, e
). Da tale indirizzo viene affermato
l’economista Lionel Robbins (
33
complessivamente e con chiarezza che nel federalismo europeo si
devono inverare un aspetto di valore, la ricerca della pace, e il
modello istituzionale dello stato federale. L’originalità del federali-
smo anglosassone è quindi di saper collegare, seguendo le indica-
zioni di Seeley, le tradizioni di pensiero kantiana e del Federalist. In
sostanza, i federalisti inglesi danno concretezza istituzionale al valore
della pace nel modello di stato federale, visto come principio
generale di organizzazione statale all’insegna della pace nelle rela-
zioni internazionali, dapprima a livello europeo, quindi su scala
mondiale. Philip Kerr e Lionel Curtis sono i prosecutori più noti di
tale impostazione con gli scritti, da considerare classici del pensiero
( ) Ibidem.
31 ) Su questi temi rinvio alle considerazioni e ai riferimenti bibliografici conte-
( 32 , Umberto Terracini alla Costituente: la questione delle autonomie
nuti in C. M ALANDRINO
regionali, “Critica Marxista”, 1985, 4, pp. 43-55.
) Sulla scuola federalista inglese ved. F. R , La scuola federalista
( 33 OSSOLILLO ,
inglese, in L’idea dell’unificazione europea tra le due guerre mondiali, a cura di S. P ISTONE
, vol.
Fondazione L. Einaudi, Torino, 1975, pp. 59-76; The Federal Idea, ed. by A. B OSCO
I, The History of Federalism from the Enlightenment to 1945, London-New York,
Lothian Foundation Press, 1991. Sulla partecipazione socialista al movimento federalista
, Una pace da costruire. I socialisti britannici e il federalismo,
britannico cfr. A. C ASTELLI
Angeli, Milano 2002.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 193
CORRADO MALANDRINO
federalista, The Prevention of War, opera di entrambi, e Pacifism is
not enough (nor Patriotism either) che invece viene elaborato dal solo
Lord Lothian, divenuto personaggio centrale dell’indirizzo federa-
). La sua formazione federalista
lista inglese negli anni Trenta ( 34
inizia nel corso dell’elaborazione della nuova costituzione sudafri-
cana (1906), alla scuola del Curtis, e prosegue all’interno del gruppo
riunito intorno alla rivista “The Round Table”, di cui è direttore dal
1910 al 1916. Assertore in un primo momento della creazione della
Società delle Nazioni, se ne dissocia una volta visti i suoi limiti e
preso atto dell’assenza degli Stati Uniti d’America e della Russia, gli
stati più condizionanti sullo scacchiere mondiale. La riflessione sulla
guerra e sulla pace, come già per Seeley, rappresenta anche per Lord
Lothian il banco di prova per la definizione della posizione federa-
lista. Nei saggi che compongono l’opera La prevenzione della guerra,
si passa in rassegna quelle che vengono chiamate le cause “mecca-
niche” e “psicologiche” delle guerre. Le prime concernono l’ogget-
tivo atteggiarsi degli stati moderni nelle loro relazioni internazionali.
In tale ambito, dominato da interessi sovrani, la guerra viene a
qualificarsi come il mezzo supremo di autoaffermazione di ciascuno
stato attraverso la forza. La conseguenza è l’instaurarsi di un regime
di anarchia internazionale. Sul piano della psicologia collettiva,
inoltre, “è il culto dell’egoismo nazionale che spinge gli abitanti di
ogni stato a limitare il proprio lealismo solamente ai propri concit-
tadini, e che impedisce la crescita di un autentico sentimento
cosmopolita, nel dare la precedenza al ’bene comune’ dell’umanità
rispetto agli interessi particolari di una sua parte” ( ). In tale
35
quadro, la pace non può esser che un intervallo tra una guerra e
l’altra, l’attesa che riprenda a scorrere il time-table prebellico. Ma
Lord Lothian non accetta una simile conclusione e ricerca, al
contrario, le condizioni attraverso le quali la pace non sia semplice-
mente “una condizione negativa caratterizzata dalla mancanza di
( ) Ph. K -L. C , The Prevention of War, New haven, Yale University
34 ERR URTIS
, Pacifism is not enough (nor Patriotism either), London, Oxford
Press, 1923; Ph. K
ERR
University Press, 1935. Segretario di Lloyd George e diplomatico, Lord Lothian è
ambasciatore britannico a Washington nella delicata fase seguita al trattato di Monaco
(1938) fino alla morte improvvisa nel ’40. Cfr. la riedizione e trad. it. di vari scritti di
L , Il pacifismo non basta, Il Mulino, Bologna 1986.
L ORD OTHIAN
) Cfr. K -C , The Prevention of War, cit., p. 35.
(
35 ERR URTIS
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194 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
guerra”, bensı̀ possa diventare “lo stato della società in cui i conflitti
politici, economici e sociali sono risolti con mezzi costituzionali
sotto il regno della legge, e la violenza o la guerra fra individui,
).
gruppi, partiti o nazioni in contrasto sono proibite e prevenute” (
36
A fondare la pace si rivelano inadeguati sia i movimenti pacifisti sia
quelli internazionalisti di matrice liberaldemocratica o socialista,
poiché non si rendono conto delle radici intime dalle quali nascono
i conflitti tra gli stati moderni. L’unica maniera di realizzare lo scopo
consiste nella creazione di uno stato che sia superiore agli stati
nazionali, ossia una federazione sovranazionale che garantisca l’isti-
tuzionalizzazione dei conflitti interstatali e perciò la loro risoluzione
per via giuridica. Da quanto detto emerge il dato dell’originalità del
federalismo anglosassone di quel periodo, che in sostanza invera
concretamente il valore della pace nel modello di stato federale, che
costituisce il principio generale di organizzazione statale all’insegna
della pace nelle relazioni internazionali, dapprima a livello europeo,
quindi su scala mondiale.
Tali aspetti si evidenziano nella concomitante riflessione econo-
mica di Robbins, direttore della London School of Economics, la cui
opera The Economic Causes of War) è tradotta in italiano da Altiero
),
Spinelli e, come lo stesso Spinelli ricorda nella sua autobiografia (
37
insieme all’altra pubblicistica federalista inglese influenza grande-
mente il sorgere del “federalismo europeo”. In uno scritto prece-
dente, Economic Planning and International Order (1937), Robbins
analizza in chiave federalista i fenomeni congiunti alla “grande crisi”
e alle risposte che a questa vengono date dal riformismo keynesiano
o dalla pianificazione socialista. Pur riconoscendo la necessità di una
qualche forma di programmazione economica (anche per il funzio-
namento del sistema capitalista), di entrambe le soluzioni Robbins
critica i limiti derivanti dalla mancanza di consapevolezza teorica del
loro operare all’interno della cornice degli stati nazionali, della loro
incapacità di cogliere le vere ragioni internazionali della crisi. La
( ) Cfr. L L , Il pacifismo non basta, cit., p. 167.
36 ORD OTHIAN
) Cfr. A. S , Come ho tentato di diventare saggio. I. Io, Ulisse, Il Mulino,
( 37 PINELLI , The Economic Causes of War, J. Cape,
Bologna 1984, pp. 293 e 307. Il volume di R
OBBINS
London 1939, tradotto da Spinelli col titolo Le cause economiche della guerra, esce per
i tipi di Einaudi a Torino nel 1944.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 195
CORRADO MALANDRINO
causa radicale dei conflitti interstatali e delle guerre, scrive Robbins,
è “l’esistenza delle sovranità nazionali indipendenti” che sta alla base
). Il mercato
della “organizzazione politica anarchica del mondo” (
38
non può funzionare nell’anarchia delle relazioni internazionali, ma
neppure la pianificazione (quella democratica più blanda e quella
socialista più rigida) può andar al di là di misure valide in politica
interna. Mentre, al contrario, nei rapporti internazionali, in confor-
mità al principio del primato della politica estera, sono le esigenze
politiche di potenza ad aver l’ultima parola e a imporre decisioni
protezionistiche sovente non corrispondenti alle ragioni dell’econo-
mia, ma perfettamente conformi agli interessi “sezionali” nazionali e
alla ragion di stato che mira alla supremazia militare e, di conse-
guenza, alla preparazione delle guerre. Il pensiero economico liberale
ha, secondo Robbins, sempre eluso questi problemi rimandandone
la discussione a momenti di semplice collaborazione internazionale.
Ma ciò è insufficiente. In conclusione, si rende necessario pensare
all’instaurazione di un genuino sistema federale sovranazionale,
europeo e in lunga prospettiva mondiale, che permetta alle econo-
mie di risolvere le crisi grazie alla creazione di sedi di effettiva
regolazione dei conflitti e di programmazione delle priorità econo-
miche e politiche.
5.3. Le concezioni federaliste ed europeiste tra antifascismo e Resi-
stenza.
Durante la tempesta della seconda guerra mondiale, il dibattito
europeista e federalista riprende nell’ambito dei movimenti di Resi-
stenza contro il nazismo e il fascismo sorti in vari paesi, in particolare
). In
in Gran Bretagna, Francia, Olanda, Belgio, Germania e Italia ( 39
tutte queste realtà, la discussione sfocia in modo generalmente
( ) Cfr. il volume che raggruppa e ripubblica i cit. scritti di L. R , Il
38 OBBINS
, Il Mulino,
federalismo e l’ordine economico internazionale, a cura di G. M
ONTANI
Bologna 1985, p. 180.
) Cfr. per una introduzione tematica e bibliografica W. L (a cura di),
( 39 IPGENS
Documents on the History of European Integration, vol. I, Continental Plans for European
Union 1939-1945, de Gruyter, Berlin-New York, 1985.
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196 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
concorde nella critica radicale del carattere monolitico che la sovra-
nità statale ha raggiunto nei modelli totalitari nazifascisti e nella
rivendicazione dell’obiettivo dell’unificazione federale europea
come via d’uscita dalla distruzione del continente.
Con riferimento all’Italia, occorre sottolineare che tale rifles-
sione deve molto all’elaborazione specifica di varie personalità e di
movimenti antifascisti in esilio e, in modo particolare negli anni
Trenta, alla critica dello stato moderno portata avanti in connessione
ai temi dell’autonomia, del federalismo, e dell’obiettivo dell’unità
europea da Giustizia e Libertà e, con grande preveggenza politica,
). In estrema sintesi, nella sua polemica Contro
da Carlo Rosselli (
40
), che cerca di dare un senso unitario al dibattito a più voci
lo stato (
41
svoltosi in Giustizia e Libertà dal 1932 al 1934, Rosselli espone la tesi
che lo stato dittatoriale moderno mostra d’essere l’inevitabile con-
clusione, in determinate condizioni, dello statalismo e che in esso
non vi è posto per un umanesimo libero. Ciò pone una seria ipoteca
), che sembra confluire
sul paradigma costituzionale moderno (
42
nella “statolatria” e, ciò facendo, mostra la corda sia per ciò che
concerne la capacità di accordare il consenso dei cittadini alle forme
liberaldemocratiche statali, sia per quanto attiene alla reale efficacia
nel garantire la pace a livello internazionale. Secondo Rosselli è
questo il senso della critica alla “teoria metafisica dello stato”, anche
dalle indicazion emergenti dalle posizioni di autori quali Leonard T.
). Di conseguenza, abbozza una
Hobhouse e Georges Gurvitch (
43
visione nuova e positiva di una diversa forma e di un diverso
processo creatore di statualità nel corso di una appassionata discus-
( ) Su ciò si rinvia a C. M , Socialismo e libertà. Autonomia, federalismo
40 ALANDRINO
Europa da Rosselli a Silone, Angeli, Milano 1990, pp. 125-150. Cfr. anche Carlo e Nello
, “Quaderni del
Rosselli. Socialismo liberale e cultura europea, a cura di A. L
ANDUYT
Circolo Rosselli”, 1998, n. 11.
) Cfr. l’articolo di pari titolo in “Giustizia e Libertà”, 21 settembre 1934.
( 41 ) Sulla crisi attraversata dal paradigma costituzionale moderno rinvio, oltre che
(
42 , Costituzione,
alla letteratura cit. in premessa, alle considerazioni finali di M. F IORAVANTI
, Costituzione, in La politica ritrovata.
Il Mulino, Bologna 1999; cfr. anche M. D OGLIANI
, Editori Riuniti, Roma 1999, pp. 35-49.
Voci per un dizionario, a cura di C. M
ALANDRINO
) Cfr. L. T. H , The Metaphysical Theory of the State: a Criticism, Allen
(
43 OBHOUSE , L’idée du droit social, Librairie di Récueil Sirey,
and Unwin, London 1918; G. G URVITCH
., Le temps présent et l’idée du droit social, Vrin, Paris 1932.
Paris 1932; I
D © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 197
CORRADO MALANDRINO
sione con l’anarchico Camillo Berneri, scrivendo un vero e proprio
manifesto politico per un federalismo plurimo, istituzionale e so-
ciale, infranazionale e sovranazionale, italiano ed europeo, che va
ben oltre i limiti meschini di un ristretto “federalismo territoriale” o
).
regionale dai contorni micronazionalisti (
44
Tale riflessione, personale e collettiva, influenza i movimenti
antifascisti che si segnalano negli anni Quaranta per le posizioni di
critica alla sovranità statale e di nuove proposte europeiste, verifi-
cabili in un arco di posizioni che va dal Partito d’Azione alla sinistra
socialista. In modo specifico ci si occuperà qui di Silvio Trentin e
degli autori del Manifesto di Ventotene, Altiero Spinelli ed Ernesto
Rossi.
( ) Cfr. C. B -C. R , Discussione sul federalismo e l’autonomia, “Giu-
44 ERNERI OSSELLI
stizia e Libertà”, 27 dicembre 1935. Si riportano di seguito i passi salienti del “manife-
sto” rosselliano: “1) […] Per Giustizia e Libertà il federalismo politico e territoriale è un
aspetto e un’applicazione del più generale concetto di autonomia a cui il nostro
movimento si richiama: cioè di libertà positivamente affermata per i singoli gruppi, in
una concezione pluralistica dell’organizzazione sociale; 2) […] La regione storica, utile
ai fini politici amministrativi, può diventare mortifera a fini economici e culturali, la
regione agricola non coincidendo con la regione storica, la regione industriale variando
da industria a industria, e quasi sempre superando i confini dello stesso stato federale.
Perciò, anche in tema di regioni, pluralismo, elasticità; 3) […] Specie dopo il fascismo,
anziché rivalutare la patria regionale bisognerà sforzarci di superare o allargare la patria
nazionale in cui si asfissia, facendola coincidere con la nozione di patria umana o
umanità, espressione dei valori essenziali a tutti gli uomini indipendentemente dal
sangue, dalla lingua, dal territorio, dalla storia; 4) […] Gli organi vivi dell’autonomia non
sono gli organi burocratici, indiretti, in cui l’elemento coattivo prevale, ma gli organi di
primo grado, diretti, liberi, o con un alto grado di spontaneità, alla vita dei quali
l’individuo partecipa direttamente o che è in grado di controllare […]; 5) […] È
partendo da queste istituzioni nuove o rinnovate, legate fra loro da una complessa serie
di rapporti, e la cui esistenza dovrà esser presidiata dalle più larghe libertà d’associa-
zione, di stampa, di riunione, di lingua, di cultura, che si arriverà a costruire uno stato
federativo orientato nel senso della libertà, cioè di una società socialista federalista
liberale; 6) […] Il concetto di autonomia deve valere non solo per il domani ma anche
per oggi; non solo per la costruzione, ma anche per la lotta che dovrebbe condursi
secondo questi criteri: autonomia alla base, cioè iniziativa dei gruppi locali in Italia e
all’estero e federazione al centro, cioè alleanza rivoluzionaria”. Al problema specifico di
una federazione europea Rosselli dedica numerosi articoli e riflessioni profetiche rimaste
inedite, incentrate sull’esigenza dello sviluppo di un nuovo “patriottismo europeo”, sulle
, Socialismo e libertà, cit.,
quali si rinvia, per economia di discorso, a M ALANDRINO
pp. 143-150. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
198 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
5.3.1. Trentin: una nuova visione pluralista di fronte alla “crisi” del
diritto e dello stato.
Nel contesto sopraddetto, una tra le più originali e compiute
critiche federaliste alla sovranità dello stato è rappresentata dal-
l’opera di Silvio Trentin, la cui elaborazione inizia nei primi anni
Trenta in collegamento con l’analoga riflessione di Giustizia e
Libertà e di Carlo Rosselli sui temi dell’autonomia, del federalismo
e dell’unità europea. Giunge a maturità con il trattato sulla Crise du
droit et de l’État (1935) e culmina nelle opere scritte nel corso della
). In particolare
seconda guerra mondiale e pubblicate postume (
45
mi riferisco al libro Stato-Nazione-Federalismo (redatto all’inizio del
1940, ma pubblicato nel 1945) e a Liberare e federare, edito postumo
). Analizzando e contestando la parabola statalnazionale
nel 1972 (
46
e monocentrica di uno stato moderno provvisto dell’attributo della
sovranità assoluta, configurante più forme di governo, ma sempre
consistente un unico centro di potere decisivo fatalmente autorita-
rio, Trentin contrappone un modello multipolare e pluralista, sia sul
piano istituzionale sia su quello sociale, capace di coniugare libertà
e giustizia senza peraltro escludere il requisito dell’efficacia della sua
azione. Trentin chiama la sua concezione “socialismo federalista” e,
come tale, integrale in senso proudhoniano. Esso costituisce l’ete-
rodosso ed eclettico punto d’arrivo, durante gli anni della seconda
guerra mondiale, di una indagine critica serrata, storica e teorica,
della concezione dello stato nazionale centralista. In tal senso, il libro
Stato-Nazione-Federalismo si può definire, citando Bobbio, “una
storia dello stato moderno, raccontata attraverso le vicende della
monarchia francese, della rivoluzione francese, della formazione
degli stati nazionali durante il secolo XIX, con particolare riguardo
al processo di unificazione della nazione italiana […] Una storia
delle dottrine che ne accompagnano la crescita e ne giustificano la
natura di ente sovrano, cioè dotato di un potere sommo che non
( ) Cfr. S. T , La crise du droit et de l’État, Paris-Bruxelles, L’Eglantine,
45 RENTIN -
1935. Per un’introduzione al pensiero autonomista e federalista di Trentin cfr. M ALAN
, Socialismo e libertà, pp. 151-176.
DRINO ) Cfr. S. T , Stato-Nazione-Federalismo, prefazione di M. D P , La
(
46 RENTIN AL RA ,
Fiaccola, Milano 1945; Liberare e federare, in Scritti inediti, a cura di P. G OBETTI
Guanda, Parma 1972, pp. 187-278.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 199
CORRADO MALANDRINO
riconosce al di sopra di sè nessun altro potere” ( ). È su questa
47
forma di stato che s’appunta la critica di Trentin. Il quale, da
giurista, sente il bisogno di confessare autocriticamente d’esser stato
anch’egli “vittima di una deformazione professionale assai diffusa fra
i giuristi e troppo penetrato ancora dei pregiudizi di un insegna-
mento eccessivamente rispettoso delle forme pure del diritto”, per
cui si è indotti a credere all’esistenza ed all’autorità di una sedicente
legge regolatrice dell’evoluzione degli istituti giuridico-politici dei
popoli moderni, il cui enunciato tenderebbe a dar rilievo al fatto che
“il tipo di stato semplice unitario attua il più perfetto equilibrio
(assicurandone la più razionale coordinazione) fra le forze sociali
coesistenti nel medesimo territorio e costituisce perciò la mèta fatale
verso cui è giocoforza debbano a poco a poco gravitare, nel loro
graduale assestamento, le varie particolari forme di organizzazione
).
adottate nella pratica delle diverse società politiche” (
48
Trentin dà cosı̀ espressione, abbandonandolo, a quel feticismo
delle stato nazionale unitario, sostanzialmente centralista, che defi-
nisce una forma di “statolatria” tipica di molti esponenti democratici
della sua generazione. Da tale presa di coscienza consegue la deci-
sione di colmare la lacuna dimostrata nella prima opposizione
antifascista e di procedere verso una nuova concezione filosofica
dello stato e del diritto. Impresa compiuta grazie agli studi condotti
in Francia a partire dal ricordato contributo di Georges Gurvitch,
nel quadro del pluralismo giuridico e alla luce dell’ispirazione del
pensiero proudhoniano (ma occorre ricordare che i riferimenti di
Trentin sono più vasti e vanno dallo spiritualismo realista e istitu-
zionalista del giurista francese Maurice Hauriou, ai cultori del droit
naturel Francois Geny e Julien Bonnecase senza dimenticare infine il
marxismo più o meno eterodosso di autori come Rosa Luxemburg e
Leone Trockij). Attraverso queste vie Trentin si familiarizza con
l’impostazione pluralista dei problemi dello stato e della politica, in
qualche modo riformulanti lo schema pattizio giusnaturalista e
capaci di dare più ampio respiro ai diritti degli individui unitamente
alla dimensione del gruppo e delle comunità intermedie poste tra
( ) Cfr. l’Introduzione di N. B a T , Federalismo e libertà (1935-1943),
47 OBBIO RENTIN
vol. IV delle Opere scelte, Marsilio, Venezia 1987, p. XXIX.
) Cfr. T , Stato-Nazione-Federalismo, cit., pp. 114-115.
( 48 RENTIN
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200 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
l’individuo e lo stato. Da tale acquisizione discende il ripudio della
visione neoassolutizzante del fascismo, che Trentin preveggente-
). A questo proposito occorre sottoli-
mente chiama “totalitaria” (
49
neare che il giurista veneto è da considerare tra i primi critici del
totalitarismo, del quale denuncia il sorgere, le incarnazioni e i tratti
fondamentali riflessi nello stato nazionale ferreamente centralizzato,
unitario, unico creatore della norma positiva e dei valori giuridico-
politici. Di qui anche la ricerca di una diversa e nuova concezione,
intimamente federalista, dello stato e della politica, che traduce in
teoria giuridica un nuovo paradigma costituzionale (il quale, pur
partendo da una critica al fascismo, è inteso come superamento
anche del modello liberaldemocratico tradizionale) al quale non è
stata riservata finora la debita attenzione.
In Stato-Nazione-Federalismo Trentin ripercorre, partendo dal
processo di disgregazione dell’universalismo medievale, le tappe
della formazione e dello sviluppo dello stato nazionale accentrato
moderno, facendo riferimento alla storia di Francia, Germania e
Italia. Egli mette in rilievo il fatto che all’affermazione dello stato
centralizzato fa da contraltare una persistente tensione pluralista e
autonomista. La vittoria va però alla tendenza unitaria e centralista,
dapprima con la forza dell’assolutismo dei prı̀ncipi, in un secondo
momento sotto il vessillo della “nazione” — una nazione intesa da
Trentin nell’accezione di mito aberrante di élites vogliose di auto-
realizzazione — e della “democrazia” giacobina; infine grazie alla
violenza delle dittature fasciste e comuniste. C’è un filo che lega tutte
queste forme di potere statale, pur nella grande differenza di moti-
vazioni. La rivoluzione borghese del 1789 e quella socialista del 1917
consolidano, secondo Trentin, la struttura accentrata dello stato
finendo per soffocare le aspirazioni di ceti, gruppi, classi all’autono-
mia, in contraddizione con le stesse ideologie liberali e socialiste che
ne proclamano il mantenimento. Lo stato monocentrico (contro cui
( ) I passi che si potrebbero citare sono numerosi, a partire dal primo scritto
49
trentiniano dedicato all’analisi critica del fascismo, L’aventure italienne. Légendes et
réalités, Paris, PUF, 1928 (oggi in trad. it. nel vol. V delle Opere scelte, a cura di A.
, 1988, pp. 21-23). Sulla specificità della caratterizzazione neoassolutistica e
V ENTURA
tirannica dello Stato fascista, quintessenza secondo Trentin dello Stato nazionale cen-
, Morale e politica nell’antifascismo e nella
tralista e autoritario, cfr. C. M
ALANDRINO
Resistenza. Silvio Trentin “monarcomaco”?, in “Il Ponte”, settembre 1994, pp. 50-66.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 201
CORRADO MALANDRINO
l’antifascista veneto recupera la tensione morale e politica della
scuola federalista risorgimentale italiana di Cattaneo) passa, quasi in
eredità, dall’assolutismo alle democrazie contemporanee, grazie so-
prattutto al processo di “universalizzazione” e di rafforzamento del
principio dello stato unitario monocentrico, inoculato nel principio
di nazionalità, operato dall’idealismo tedesco e poi fatto proprio dai
maggiori filoni ideologici ottocenteschi, fino alla consacrazione del-
l’unità come legge suprema di organizzazione della vita sociale e di
uno specifico mito unitario nel corso della “grande guerra”. Questo
è il motivo principale per cui, conclude Trentin, nell’intervallo tra le
due guerre mondiali si verifica facilmente il passaggio dalla demo-
crazia liberale alla dittatura in numerosi paesi e, comunque, grazie al
quale le tendenze reazionarie si dilatano in tutta l’Europa. Nello
stato nazionale monocentrico, unitario e autoritario, è infatti riposta
la radice più profonda della tirannide. Lo stato nazista è solo
). Altri-
“l’espressione più estrema del monocentrismo integrale” (
50
menti detto: “È nello stato totalitario che lo stato unitario rinviene la
sua ultima e più compiuta espressione”. Compito della rivoluzione
— tale è per Trentin la Resistenza, rivoluzione morale, politica,
istituzionale e sociale — sarebbe perciò non di eliminare alcuni
regimi dittatoriali e totalitari, ma di estirpare la stessa mala pianta
dello stato nazionale unitario all’insegna della parola d’ordine del-
l’“autonomia”: “Autonomia, cioè: emancipazione brutale da tutte le
superstizioni a lungo intrattenute dalla menzogna nazionalistica:
affrancamento definitivo dalla macchina-simbolo [...]” dello stato-
Leviatano ( ). Questa è la condizione per rompere il ciclo perverso
51
della storia dei singoli paesi europei e dell’Europa vista come
insieme. Del resto, nel trattato sulla Crisi del diritto e dello stato
Trentin chiarisce che ogni forma e livello di società esige un’orga-
nizzazione statale infra- e sovranazionale. Egli chiama “stato parti-
colare” quello corrispondente al piano della società nazionale. Lo
“stato particolare”, ordinatore della “coesistenza delle autonomie”,
è da lui concepito come un gradino verso lo “stato universale”, al
quale incombe l’organizzazione della società universale, cioè mon-
diale. L’integrazione tendenziale dello stato particolare nell’univer-
( ) Cfr. T , Stato-Nazione-Federalismo, cit., p. 153.
50 RENTIN
) Ivi, p. 207.
( 51 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
202 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
sale non pregiudica l’esistenza del primo in quanto “ordine d’inte-
grazione parziale”, non godente però degli attributi d’assolutezza
).
sovrana conferitigli dall’ideologia statal-nazionale (
52
Il fulcro dell’interesse trentiniano in Liberare e federare è riposto
nella delineazione dei caratteri dello stato e della società postrivo-
luzionari, rispetto ai quali Trentin non si limita all’enunciazione di
) costituzionali relativi a Fran-
principi ideali, ma elabora Abbozzi (
53
cia e Italia, che nelle sue intenzioni dovrebbero espletare la loro
efficacia nei dibattiti di una prevedibile futura assemblea costituente.
Il nuovo stato dovrebbe configurarsi come “ordine degli ordini” —
e da questa definizione emerge con evidenza il suo carattere multi-
polare in luogo del monocentrismo. Trentin aggiunge che se esso
volesse realizzare un progresso sul piano dell’affrancamento dell’in-
dividuo e della salvaguardia della dignità della persona, non po-
trebbe esser altro che “federalista, nel senso proudhoniano della
parola”. Ovvero federalismo politico e federalismo sociale “agricolo-
industriale” ( ).
54
Nell’Abbozzo di un piano tendente a delineare la figura costitu-
zionale dell’Italia al termine della rivoluzione federalista in corso di
sviluppo (redatto poco prima di morire nel 1944 e pubblicato
postumo nel 1972) Trentin, pur tra scontate macchinosità e farra-
( ) Importanti ispiratori di Trentin ai fini dell’elaborazione della critica dell’ana-
52
cronismo e dell’illusorietà della sovranità statal-nazionale nella prospettiva dell’unità
federale europea sono due autori, peraltro assai distanti tra loro (il che dimostra la
capacità eclettica di Trentin di servirsi, ai fini della costruzione del suo sistema, delle
fonti più disparate): il giurista italiano Pietro Bonfante, autore durante e dopo la “grande
della Storia della
guerra” di articoli europeisti sulla salveminiana “Unità”, e il T ROCKIJ
rivoluzione russa. Di Bonfante Trentin cita vari scritti, di cui quello più attinente la
problematica della crisi dello stato è Europa, in “Rivista internazionale di filosofia del
diritto”, XIII, 1933, n. 1, pp. 1-4. Sull’influenza di Trockij insiste il maggior biografo di
, S. Trentin dall’interventismo alla resistenza, Milano, Feltrinelli,
Trentin, F. R
OSENGARTEN
1980, passim. Trentin utilizza la traduzione francese della Histoire de la révolution russe,
Paris, Rieder, 1933, di Trockij. Sulla rilevanza di Trockij per l’evoluzione di una linea di
, L’idea
pensiero federale ed europeista nel comunismo internazionalista cfr. M ALANDRINO
dell’unità federale europea e il socialismo marxista (1900-1920), cit., pp. 23-49.
) Cfr. S. T , Ebauche de la figure constitutionnelle de la France à l’issue de
( 53 RENTIN ., Scritti inediti, cit., pp. 279-294 e il
la révolution en cours de développement, in I D
consecutivo Abbozzo di un piano tendente a delineare la figura costituzionale dell’Italia al
termine della rivoluzione federalista in corso di sviluppo, ivi, pp. 295-318.
) Cfr. T , Liberare e federare, cit., pp. 237-238.
( 54 RENTIN
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 203
CORRADO MALANDRINO
ginosità tipiche di un lavoro a tavolino non soggetto a ulteriori
affinamenti, cerca di dare traduzione normativa e istituzionale a tali
indicazioni. Non è qui possibile darne un’illustrazione, ma basti dire
che il primo dei “princı̀pi generali” stabilisce l’identità italiana di
“Repubblica federale” e di “membro fondatore della Repubblica
europea”. Ciò dimostra la convinzione trentiniana di dover porre
l’Italia sul cammino della costruzione dell’unione europea — vista
come coordinamento federale delle realtà nazionali — in luogo della
“balcanizzazione” prodottasi dopo la prima guerra mondiale e
risorgente dalle ceneri dei blocchi postbellici.
In conclusione, nella teoria trentiniana il presupposto sostan-
ziale del carattere multipolare del sistema pluralista intacca il dogma
della sovranità dello stato, che perde gli attributi di astrattezza e di
assolutezza, nonché di monocentrismo, tipici della concezione dello
stato nazionale moderno, per depotenziarsi e diffondersi (ma non
eliminarsi) in varie istanze interne ed esterne. Questo fatto mette il
pensiero di Trentin in sintonia con le correnti più avanzate del
pensiero giuspubblicistico contemporaneo che da tempo raccoman-
).
dano la trasformazione del modello costituzionalistico (
55
( ) Mi pare che su una strada vicina al modello multipolare, autonomista e
55
federalista europeo di Silvio Trentin si pongano alcune considerazioni di filosofia politica
Z al suo denso saggio di diritto costituzionale intitolato
premesse da G USTAVO AGREBELSKY
Il diritto mite, Einaudi, Torino 1992. Delineando il passaggio dallo stato di diritto
ottocentesco allo stato costituzionale contemporaneo, Zagrebelsky sottolinea l’esistenza
di una tendenza che definisce della “mitezza costituzionale” in un sistema caratterizzato
dal pluralismo dei valori e quindi dall’esigenza della loro coesistenza e del loro
compromesso a livello costituzionale. Contrapponendosi alla visione socialdarwinista e/o
schmittiana di una liberisticamente “illimitata competizione” delle merci, delle idee,
della politica, degli uomini, di una “rivalità distruttiva delle piccole identità collettive”,
egli assegna viceversa a una “convivenza mite, costruita sul pluralismo e sulle interdi-
pendenze e nemica di ogni ideale di sopraffazione” il compito di accompagnare
l’umanità nel terzo millennio. A tal fine, il prezzo da pagare è appunto visto, sul piano
dei modelli costituzionali, nella “revisione del concetto classico di sovranità interna ed
esterna [...] nell’integrazione del pluralismo nell’unica unità possibile [che] deriva anche
dall’esigenza di abbandonare quella che si potrebbe dire la sovranità di un principio
politico unico dominante, dal quale si possano deduttivamente trarre tutte le articola-
zioni esecutive concrete alla stregua del principio di esclusione del diverso, secondo una
logica dell’aut-aut, dell’“o dentro o fuori”. La coerenza ’semplice’ del tipo di stato
nazionale monocentrico e sovrano che si otterrebbe in questo modo non potrebbe essere
la legge fondamentale intrinseca del diritto costituzionale dell’epoca presente che è
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
204 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
5.3.2. Il Manifesto di Ventotene: Spinelli e la strategia costituzionale
del “federalismo europeo”.
Il momento cruciale per l’affermazione dell’indirizzo teorico
“federalista europeo” è dato dalla fondazione, su proposta di Altiero
Spinelli ed Ernesto Rossi, del Movimento Federalista Europeo
(MFE) a Milano, nell’agosto 1943, e del suo organo periodico vicino
al Partito d’Azione, “L’Unità Europea”. Spinelli e Rossi, politica-
mente collocatisi nell’alveo liberalsocialista influenzato da GL e da
), debitori del pensiero federalista di Einaudi e
Carlo Rosselli (
56
attraverso lui collegati al federalismo classico di matrice anglosas-
sone della Federal Union, ribadiscono una critica severa e definitiva
al dogma della sovranità assoluta degli stati, tanto più nella forma
esasperata e degenerata dei totalitarismi, punto d’arrivo della “crisi
della civiltà moderna”. Essi distinguono nell’analisi il fatto che la
summa potestas superiorem non recognoscens sorge prima della for-
mazione degli stati nazionali, ma storicamente diviene causa neces-
saria di contrapposizioni irrisolvibili e distruttive solo dopo la sua
fusione con la concezione nazionalista dello stato-potenza: “La
sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di
dominio di ciascuno di essi […] Questa volontà di dominio non
potrebbe acquetarsi che nella egemonia dello stato più forte su tutti
gli altri asserviti […] Gli stati totalitari sono quelli che hanno
realizzato nel modo più coerente l’unificazione di tutte le forze,
attuando il massimo di accentramento e di autarchia, e si sono perciò
dimostrati gli organismi più adatti all’odierno ambiente internazio-
nale” ( ). Eugenio Colorni, curatore della prima edizione del Ma-
57
“piuttosto quella dell’et-et e che contiene perciò delle promesse multiple per il futuro”.
cfr. anche le illuminanti riflessioni nella Presentazione del volume (da lui
Di Z
AGREBELSKY
curato) Il federalismo e la democrazia europea, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994,
pp. 9-23.
) Cfr. in proposito C. M , Il federalismo europeo in Ernesto Rossi, in
( 56 ALANDRINO , Fondazione C. Nivola - Centro
Il federalismo tra filosofia e politica, a cura di U. C
OLLU
per la filosofia italiana, Nuoro-Roma, 1998, pp. 341-366.
) Cfr. A[ ] S[ ] e E[ ] R[ ], Problemi della Federazione
( 57 LTIERO PINELLI RNESTO OSSI
Europea, Roma, Movimento italiano per la federazione europea, 1944, consultabile in
varie edizioni e ora in quella anastatica promossa dal Consiglio Regionale del Piemonte,
-R , Il Manifesto di Ventotene, a cura di S. Pistone, Celid, Torino 2001,
cfr. S
PINELLI OSSI
p. 10. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 205
CORRADO MALANDRINO
nifesto di Ventotene ( ), scrive conseguentemente nell’introduzione
58
che l’idea centrale dell’opera consiste nella consapevolezza che la
“contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre,
delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società” è
“l’esistenza di stati sovrani, geograficamente, economicamente, mi-
litarmente individuati, consideranti gli altri stati come concorrenti e
potenzialmente nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una
situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes”. Di qui l’espo-
sizione del nucleo essenziale del discorso del Manifesto, il cosiddetto
préalable “federalista europeo”, incentrato sulla “definitiva aboli-
). Solo
zione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani” (
59
questo passaggio prioritario consentirebbe l’intrapresa in Europa di
veritiere politiche di progresso sociale, economico, culturale. Se-
condo Spinelli e Rossi, “la linea di divisione fra partiti progressisti e
partiti reazionari cade ormai non lungo la linea formale della mag-
gior o minore democrazia, del maggior o minore socialismo da
istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli
che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè
la conquista del potere politico nazionale — e che faranno, sia pure
involontariamente, il gioco delle forze reazionarie lasciando solidi-
ficare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio
stampo e risorgere le vecchie assurdità — e quelli che vedranno
come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale,
che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche
conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea
). Il nuovo
come strumento per realizzare l’unità internazionale” ( 60
ordinamento federale dovrebbe esser tale da lasciare a ogni singolo
stato “la possibilità di sviluppare la sua vita nazionale” nel modo più
adatto al grado e alla peculiarità della sua civiltà, ma limitandone la
sovranità al fine di sottrarre i mezzi di realizzazione dei particolari-
smi egoistici.
Sulla base di tali princı̀pi Spinelli e il MFE, da lui presieduto e
guidato fino agli inizi degli anni ’60 (tranne una breve parentesi nel
( ) Su ciò cfr. più ampiamente M , Socialismo e libertà, cit., pp.
58 ALANDRINO
177-184.
) Cfr. S -R , Il Manifesto di Ventotene, cit., p. 21.
(
59 PINELLI OSSI
) Ivi, p. 15 e p. 37.
(
60 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
206 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
biennio 1946-47), si impegnano in una lotta dalle alterne fasi e
vicende, il cui dato comune è possibile ritrovare proprio nell’obiet-
tivo di una costituzione federale europea elaborata da un organo
parlamentare costituente e non da una conferenza diplomatica di
stati sovrani, ritenuta capace solo di produrre risultati di tipo
confederale ( ). Da tale decisione la contrapposizione del metodo
61
“costituzionale” del “federalismo europeo” (al cui sostegno si in-
tende mobilitare l’europeismo diffuso a livello popolare con l’inizia-
tiva denominata “Congresso del Popolo Europeo”) ai metodi del
confederalismo e del funzionalismo comunitario ( ), che porta alla
62
sconfitta, dovuta anche a una sottovalutazione delle potenzialità
dell’integrazione sovranazionale avviata con la CEE. Una sottovalu-
tazione ammessa e spiegata negli anni Sessanta dallo stesso Spinelli
e, in modo forse più chiaro, da Mario Albertini ( ).
63
6. La critica federalista nel secondo Novecento: sparizione, obsole-
scenza o trasformazione della sovranità?
Nella seconda metà del Novecento si enucleano posizioni che,
pur rientrando agevolmente nel paradigma definito ai paragrafi 2 e
3 per ciò che riguarda il riferimento alla crisi della sovranità statale,
mettono in luce approcci sempre più diversificati rispetto alla con-
statazione o meno della persistenza di un potere sovrano nello stato
nazionale e/o in quello federale. Ciò accade, in modo particolare,
quando si applichi questo discorso alla realtà europea. Alcuni autori
giungono alla conclusione che la sovranità sia obsoleta, decada o
( ) Su S cfr. E. P , A. Spinelli. Appunti per una biografia, Il Mulino,
61 PINELLI AOLINI , Il
Bologna 1988. Cfr. inoltre gli interventi spinelliani raccolti a cura di M. A
LBERTINI ,
progetto europeo, Il Mulino, Bologna 1985. Cfr. inoltre l’interessante sintesi di A LBERTINI
.,
L’unificazione europea e il potere costituente, “Il Politico”, 1986, ora consultabile in I D
Nazionalismo e federalismo, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 289-306. Sull’attività del
-S. P , Trent’anni di vita del MFE,
movimento dei “federalisti europei” cfr. L. L EVI ISTONE
(a cura di), I movimenti per l’unità europea, vol. I
Angeli, Milano 1973; S. P ISTONE
1945-1954, Jaca Book, Milano 1992; vol. II, 1954-1969, Università di Pavia, Pavia 1996;
- D. P , I movimenti per l’unità europea 1970-1986, 2 voll., Il Mulino,
A. L
ANDUYT REDA
Bologna 2000.
) Su questo punto ved. M , L’idea dell’unità europea, cit., pp. 28-32.
( 62 ALANDRINO
) Cfr. l’introduzione di S. P al testo di S , Una strategia per gli Stati
(
63 ISTONE PINELLI
Uniti d’Europa, Il Mulino, Bologna 1989, pp. 22-23.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 207
CORRADO MALANDRINO
addirittura sparisca nel passaggio allo stato federale. Altri pensano
invece a un affievolimento, a una diminuzione, che tuttavia non
mette in questione l’effettivo permanere di una sovranità condivisa
fra i livelli infranazionale, nazionale e federale sovranazionale.
6.1. Il “federalizing process” di Friedrich: la sovranità impossibile.
Carl Joachim Friedrich rientra nel novero dei maggiori storici e
politologi che hanno indagato tra primo e secondo Novecento il
problema del federalismo, visto non solo come specifica forma
organizzativa e istituzionale dello stato, ma anche in relazione ai
). Non
modi di espressione politica della vita comunitaria e sociale (
64
a caso, tra i suoi primi oggetti di ricerca compare l’analisi della
concezione simbiotico-federativa di Johannes Althusius di cui, nel-
l’introduzione alla riedizione della Politica da lui curata nel 1932, si
).
mette in rilievo il ruolo fondativo per il federalismo moderno (
65
Per Friedrich il federalismo è prima di tutto un fatto di organizza-
zione e di equilibrio degli interessi, di conformazione del potere
politico in una determinata comunità e, di conseguenza, una speci-
fica forma di governo.
Friedrich appartiene alla cerchia di quegli autori che ripensano
criticamente alla parabola dello stato moderno centralizzato e so-
vrano iniziata nel Cinquecento. Egli sottolinea il fatto che la conce-
zione della sovranità assoluta, indivisibile, semplificatrice delle com-
plessità sociali, teorizzata soprattutto da Hobbes, caratterizza il farsi
iniziale di questo tipo di stato che, dopo aver toccato l’apogeo tra il
Seicento e l’Ottocento, ha cominciato a declinare di fronte al
ravvivarsi delle articolazioni del tessuto comunitario interno e al-
l’esplodere distruttivo delle contraddizioni internazionali nel sistema
europeo (poi mondiale) degli stati. Giunto al termine del suo
orizzonte storico, lo stato moderno deve lasciar spazio a un ordina-
( ) Cfr. l’edizione italiana dei più pregnanti passaggi della complessiva opera di
64 , L’uomo, la comunità, l’ordine politico, a cura e con introduzione di S.
C. J. F
RIEDRICH
Ventura, Il Mulino, Bologna 2002.
) J. A , Politica methodice digesta et exemplis sacris et profanis illustrata,
(
65 LTHUSIUS
Herbornae Nassoviorum, Corvinus, 1614, riedita. a cura e con introduzione di C. J.
Friedrich, Cambridge, Harvard University Press, 1932.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
208 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
mento istituzionale più dinamico e libertario delle relazioni tra le
comunità politiche. Queste si collocano a più livelli: locale, regio-
nale, nazionale e sovranazionale, interagendo continuamente tra
loro. È dunque necessario che a una configurazione statica, centra-
lizzata e autoritaria, dei loro rapporti se ne sostituisca una flessibile,
evolutiva, policentrica, cooperativa. Scrive Friedrich: “Il mondo
contemporaneo prende significativamente forma secondo i com-
plessi modelli di interazione tra questi diversi tipi di comunità.
Federalismo, regionalismo e decentralizzazione hanno visto accre-
scere la loro importanza come modi possibili di trattare le questioni
). Friedrich
politiche risultanti da questo processo di interazione” ( 66
ricorda che il federalismo si distingue dal regionalismo o dalla
decentralizzazione — elementi insopprimibili di una formazione
federale che, però, possono anche rappresentare soltanto misure
amministrative destinate a rendere più funzionale il governo di uno
stato non federale —, per la sua capacità di portare in primo piano
i dati politici originari e costitutivi delle relazioni fra le comunità, nel
senso che presuppone sempre “un accordo tra eguali per agire
). Il cri-
unitamente su specifiche questioni di politica generale” (
67
terio che definisce il tratto “federale” di uno stato è pertanto
“l’esistenza di rappresentanti, effettivamente separati, delle diverse
componenti, allo scopo di partecipare al processo di legiferazione e
di dar forma alla politica pubblica”. Il federalismo è perciò definibile
come la formulazione di un processo che si sviluppa nei due sensi,
dissociativo e associativo, rispetto all’operare tradizionale dello stato
moderno: da un lato decentralizzando e federalizzando le sue com-
ponenti all’interno, da un altro lato creando un centro di potere
politico federale tra le comunità sovranazionali: “Il federalismo è
anche, e forse soprattutto, il processo di federalizzazione di una
comunità politica; cioè il processo attraverso il quale un certo
numero di comunità politiche separate entrano in una organizza-
zione comune per raggiungere soluzioni, adottare politiche comuni;
e all’opposto, il federalismo è anche il processo attraverso il quale
( ) Cfr. C. J. F , Trends of Federalism in Theory and Practice, A. Praeger
66 RIEDRICH -L. C , Federalismo.
Publishers, New York 1968 (cit. nella trad. it. di B. C ARUSO EDRONI
Antologia critica, Scuola superiore della Pubblica Amministrazione, Roma 1995, p. 455).
) Ivi, p. 458.
( 67 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 209
CORRADO MALANDRINO
una comunità politica unita si differenzia in un tutto federalmente
organizzato. Le relazioni federali sono per natura relazioni in con-
). È nella logica intrinseca di un siffatto orga-
tinuo mutamento” ( 68
nismo federale, sottoposto a un costante divenire che ridefinisce gli
assetti raggiunti, composto di membri tra loro autonomi, che nes-
suno di essi sia sovrano. E infatti, sostiene Friedrich, “alcun sovrano
può esistere in un sistema federale”. È un errore anche pensare che
possa sussistere una sorta di sovranità residua e limitata delle
componenti, poiché l’idea stessa della sovranità “significa indivisi-
bilità”. Ciò che prende il posto della sovranità — e dunque rappre-
senta l’immagine del potere cui spetta “l’ultima parola” — è da
Friedrich definito “il potere costituente” che realizza l’accordo dei
).
singoli e delle comunità per fondare lo stato federale ( 69
Fanno parte del processo e del modello federalizzanti varie fasi
di sviluppo, da quello confederale della “lega” a quello finale di una
vera e propria federazione statuale. L’esperienza decisiva ai fini
dell’elaborazione del concetto moderno di federalismo è, anche per
Friedrich, quella della formazione della costituzione federale ame-
), che rendono chiaro il
ricana e della stesura del Federalist (
70
passaggio dallo stadio confederale a quello federale, sebbene tale
problema non venisse da parte dei convenzionali di Filadelfia posto
dottrinalmente (come fecero poi autori europei, in particolare tede-
schi e italiani), ma pragmaticamente. Ciò che fa fare il salto di qualità
nel “nuovo” federalismo è l’esistenza di una doppia e contestuale
cittadinanza, ossia “l’idea che in un sistema federale di governo ogni
cittadino appartenga a due comunità, quella del suo stato e quella
della nazione; che questi due livelli di comunità debbano essere
nettamente distinti e che ognuno di essi debba essere provvisto del
proprio governo; e che nella strutturazione del governo della comu-
nità più estesa gli stati componenti debbano giocare un preciso ruolo
). Da ciò conseguono l’organizzazione
nella loro qualità di stati” (
71
delle competenze fiscali, la divisione dei poteri “sovrani” (che invero
( ) Ivi, p. 459.
68 ) Ibidem.
( 69 ) Cfr. F , L’uomo, la comunità, l’ordine politico, cit., p. 278 ss. e
( 70 RIEDRICH
291-300.
) Ivi, p. 297.
(
71 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
210 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
non sono più tali) su un livello duale, ecc. È interessante notare che
Friedrich afferma, discutendo la posizione degli antifederalisti ame-
ricani e quella successiva di J. C. Calhoun, sostenenti il diritto
sovrano degli stati membri nei confronti dell’Unione con l’argo-
mento della “indivisibilità della sovranità”, che l’esperienza della
costituzione americana trascendeva proprio tale “usurata dottrina
). Allo stesso modo, pensa Friedrich, sono peri-
della sovranità” (
72
colose per il federalismo le tendenze centralizzatrici emergenti nelle
esperienze concrete dei paesi federali, dagli USA alla stessa Confe-
derazione Elvetica, perché delineanti un nuovo zoccolo duro di
sovranità centralista.
Da quanto detto, in conclusione, emerge una certa indefinitezza
della sovranità nel nuovo contesto delineato da Friedrich, e più in
generale dei caratteri istituzionali specifici del sistema federale, e ciò
ha attirato critiche sul suo modello. Alcuni, in particolare aderenti al
“federalismo europeo”, pensano infatti che porre l’accento sui pro-
cessi storico-sociali alla base della crisi dello stato moderno è
necessario per riconoscere la ragione profonda della necessità del-
l’avvento di sistemi federali sempre più allargati, ma aggiungono che
ciò nondimeno tale approccio, perseguito fino al punto di sostenere
la tesi della sparizione della stessa idea di sovranità statale, può far
perdere il senso del ruolo delle istituzioni nella storia. In particolare,
come conseguenza della negazione della trasformazione della sovra-
nità, resta sullo sfondo in Friedrich la distinzione qualitativa tra
).
federazione e confederazione acquisita dalla teoria federalista (
73
Ciò può causare omissioni, fraintendimenti, se non errori, nella
prospettiva comparativa dei diversi processi federativi. Un esempio
si può riconoscere nel modo in cui Friedrich considera il caso
europeo. Egli scrive che l’esperimento delle “comunità” economiche
supera le iniziali e sterili diatribe tra federalisti e confederalisti tra gli
anni ’40 e ’50, che si sviluppano a suo parere polemicamente e
dogmaticamente intorno a un impossibile trasporto (Friedrich equi-
para il progetto “costituente” di Spinelli a un “sogno”) ( ) sul piano
74
europeo del modello federale americano. In realtà l’Europa comu-
( ) Ivi, pp. 300-301.
72 ) Cfr. L. L , Il pensiero federalista, Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 110.
( 73 EVI
) Cfr. F , L’uomo, la comunità l’ordine politico, cit., p. 331.
( 74 RIEDRICH
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 211
CORRADO MALANDRINO
nitaria passa, nell’epoca descritta da Friedrich tra gli anni ’50 e ’60,
dalla fase della comunità funzionale con tratti confederali a quella
dell’unione sempre più stretta con vincoli federali. La difficoltà e
lentezza del processo, dimostrata tra l’altro dall’assenza dell’istituto
di una cittadinanza comune, in quel periodo ancora non prevista nei
trattati, non impediscono a Friedrich di affermare: “Il processo in
atto mira alla costruzione di un sistema federale. Sebbene ancora
nelle prime fasi, questo processo sta guadagnando velocità, ed è
divenuto esplicito attraverso la costituzione di diverse comunità con
obiettivi specifici — la Comunità del carbone e dell’acciaio,
l’Euratom, la Comunità economica europea (il Mercato comu-
). In definitiva, Friedrich valuta poco le difficoltà inelimina-
ne)” ( 75
bili del trapasso dalla tappa comunitaria e confederale a quella
federale vera e propria; tende a trascurare il conflitto di interessi e di
opinioni che si genera allorché si pone in Europa il problema del
riconoscimento costituzionale di un assetto statuale, che non si può
produrre spontaneamente, ma solo per consapevole decisione poli-
tica degli stati membri sotto la pressione di forze e circostanze
eccezionali.
6.2. Il federalismo come “grand design”: Elazar e le sovranità diffuse
e condivise.
Daniel Judah Elazar patrocina in molti scritti, tra cui importanti
), una
Exploring federalism e Federalism as a grand design del 1987 ( 76
visione del federalismo fondata sulla sua qualificazione come “rivo-
luzione”, come “piano grandioso” destinato a offrire soluzioni locali,
sovranazionali e mondiali adeguate alle domande politico-istituzio-
nali scaturenti dalla crisi dell’epoca postmoderna. L’epoca moderna
— dispiegatasi dalla metà del Seicento alla metà del Novecento — è
caratterizzata soprattutto dall’operare dei suoi attori principali, “gli
( ) Ivi, p. 263.
75 ) Cfr. D. J. E , Exploring Federalism, The University of Alabama Press,
( 76 LAZAR , Idee e forme del
Tuscaloosa, 1987 (qui cit. nella trad. it. curata da L. M. B ASSANI
., Federalism as a Grand Design.
federalismo, Edizioni di Comunità, Milano 1995); I D , University Press of
Political Philosophers and the Federal Principle, ed. by D. J. E LAZAR
America, Lanham 1987.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
212 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
stati sovrani reificati e centralizzati”, o altrimenti detto, “gli stati
nazionali”, che si sono ridotti ad assomigliare sempre più al mitico
), il ladro ucciso da Teseo famoso per adattare
“letto di Procuste” ( 77
le vittime alle misure del suo letto, tagliando via le parti corporali in
eccesso. Allo stesso modo gli stati nazionali sovrani sacrificano in
questi tre secoli le componenti minoritarie — etniche, linguistiche,
autonomistico-territoriali o d’altro genere — non conformi alla loro
immagine ideale di nazionalità, d’altronde non corrispondente quasi
mai a un rapporto naturale, oggettivo e pacifico, col territorio
occupato. La postmodernità è l’epoca che contrassegna il declino di
questa forma statale di fronte all’incapacità di governare le difficoltà
insorgenti dal risveglio etnico e dalle esigenze autonomiste sul piano
interno, dalle conflittualità interstatali a livello sovranazionale, dai
nuovi problemi ambientali e tecnico-scientifici sul piano mondiale.
Nell’epoca postmoderna, secondo Elazar, si assiste di conseguenza
allo sviluppo di nuovi assetti istituzionali di governo che “si sono
mossi simultaneamente in due direzioni: creare unità politiche sia
più grandi che più piccole per fini differenti, ottenendo cosı̀ vantaggi
economici o strategici, e conservare allo stesso tempo la comunità
originaria, per meglio soddisfare le esigenze di diversità etnica. Tutti
questi assetti presuppongono l’idea di più governi che esercitano il
potere sullo stesso territorio. Questa idea, che costituisce il nucleo
dell’invenzione americana del federalismo, [è] un’eresia per i padri
). In effetti, in questi
europei dello stato nazionale moderno” (
78
termini Elazar ribadisce l’ineluttabilità della critica radicale alla
concezione della sovranità statalnazionale elaborata all’inizio dell’età
moderna da Bodin o da Hobbes. Scrive: “Quindi il principio
federale rappresenta un’alternativa (e un radicale attacco) alla mo-
derna idea di sovranità. Quest’ultima [è] diventata cosı̀ connaturata
al modo di ragionare che perfino le discussioni del federalismo
furono espresse in termini di sovranità, particolarmente nel XIX
secolo, tanto che ne è risultata una inevitabile distorsione del
concetto di federalismo. Nell’epoca postmoderna, tuttavia, la no-
zione di sovranità statuale è diventata obsoleta” ( ). Tale conce-
79
( ) E , Idee e forme del federalismo, cit., p. 184.
77 LAZAR
) Ivi, p. 185.
(
78 ) Ivi, p. 90.
( 79 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 213
CORRADO MALANDRINO
zione della postmodernità, che non implica il ritorno a posizioni
premoderne, privilegia l’interesse verso pensatori e istituzioni sociali
che sono stati emarginati dal trionfo dello stato moderno. Compito
della rivoluzione federalista sarà di portare a termine il grand design,
i cui fondamenti teorici sono concepiti nell’ambito dell’antica teo-
logia federale biblica e, attraverso la sua modernizzazione e secola-
rizzazione, applicati all’epoca postmoderna, nel rispetto però di
quelle esigenze giustificate di centralizzazione e di efficienza del
potere avanzate dalla modernità. In estrema sintesi, la rivoluzione
federalista dovrà realizzare “la concentrazione del potere e dell’au-
torità in grandi e attivi governi generali, diffondendo allo stesso
tempo l’esercizio del potere in modo da dare a molti, se non a tutti
gli strati della società, una quota di governo costituzionalmente
): quindi governo federale, sui piani nazionale e tran-
garantito” (
80
snazionale, e autogoverno locale in un quadro di eguaglianza poli-
tica. Il federalismo, che Elazar definisce con accenti suggestivi come
“il sistema di relazioni politiche capace di comprendere molte cose
(comprehensive), che si misura con la combinazione di autogoverno
e di governo partecipato avente alla base una matrice di poteri
), ha sempre una portata politica che
costituzionalmente diffusi” (
81
supera — pur accettandoli al suo interno — sia la nozione mera-
mente amministrativa del decentramento burocratico, sia i limiti di
una concezione costituzionale e democratica dello stato. In buona
sostanza, s’identifica con una visione generale che plasma l’insieme
delle relazioni umane nella prospettiva della realizzazione di questo
“disegno grandioso”, che altro non è se non l’ordine mondiale
incardinato sulla pietra angolare federale. La “comprensività” ap-
pare tra le caratteristiche fondamentali del federalismo elazariano.
Nel senso che tutti gli aspetti della vita sociale e politica risultano
intimamente contrassegnati dal “patto” federale di natura teologico-
biblica. Non a caso due autori di tale indirizzo, uno all’inizio dell’età
moderna, uno alla fine, il calvinista Althusius il primo, lo scrittore e
filosofo Martin Buber il secondo, sembrano esserne gli emblematici
punti di riferimento. Dell’anarco-federalismo di Buber, Elazar sot-
( ) Ivi, p. 216.
80 ) Cfr. E , Federalism as a Grand Design, cit., p. 1.
( 81 LAZAR © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
214 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
tolinea l’intima connessione con il protofederalismo althusiano,
trasparente in particolare nell’opera Sentieri in Utopia (1950), dove
è rilevabile la relazione di identità stabilita tra il sistema di “comu-
nità autonome” da lui teorizzato come nuovo fondamento della
) cosı̀ simili alle conso-
società e le “consociazioni cooperative” (
82
ciazioni althusiane. Come Althusius è il precursore dell’idea federale
premoderna — sostiene Elazar —, Buber può esser riconosciuto
come l’ultimo pensatore moderno che annuncia il federalismo po-
stmoderno. Su tale appoggio ideale, il progetto federalista intende
creare serie di blocchi o di cellule autogovernantisi ai differenti livelli
statalsociali, dai più bassi e piccoli ai più elevati e grandi, dalle
comunità locali alle federazioni interregionali e sovranazionali, fino
alla repubblica federale mondiale.
Pragmaticamente Elazar concede che in tale processo (cosı̀
come nella più generale matrice federale) possano coesistere forme
). Le forme confederali e
confederali e federali vere e proprie (
83
cooperative ai vari livelli con le quali costruire le istituzioni transna-
zionali e globali possono esser concepite comunque come un passo
in avanti verso il federalismo mondiale, purché si dimostrino in
grado di dare risposte alle tre grandi domande emergenti dalla
globalizzazione in termini di sicurezza, integrazione economica e
protezione dei diritti umani. Ancora una volta, quel che a lui sembra
dirimente, è prender atto dell’apertura dell’epoca postmoderna a
causa della crisi irreversibile della forma dello stato moderno con-
notato come “modello Vestfalia” e godente dell’attributo di sovra-
nità esclusiva. Crisi che non significa sparizione a più o meno breve
termine, bensı̀ il declino di questa forma statale di fronte all’inca-
pacità di governare le difficoltà insorgenti dal risveglio etnico e dalle
esigenze autonomiste sul piano interno, dalle conflittualità intersta-
tali a livello sovranazionale, dai nuovi problemi ambientali e tecnico-
scientifici sul piano mondiale.
Nel mondo postmoderno — conformemente alla parola d’or-
dine “from statism to federalism” e sulla scorta di una tendenza
( ) Cfr. Buber (1967), p. 171-172.
82 ) Cfr. D. J. E , Constitutionalizing Globalization. The Post-modern Revival
( 83 LAZAR
of Confederal Arrangement, Rowman & Littlefield Publishers, Lanham-Boulders-New
York-Oxford 1998, p. 60.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 215
CORRADO MALANDRINO
generalizzata, concreta ed evidente, al confederalismo, di cui Elazar
rintraccia e descrive numerosi esempi — i modelli istituzionali
dovranno andare incontro al modello federale, inteso in un senso
ampio ed elastico, che ammette anche forme confederali, pur re-
stando il suo nucleo teorico fondativo quello derivante dal Federa-
list, che per Elazar si rivela però più adatto a contesti continentali di
maggiore omogeneità culturale e storica. Quel che importa, sostiene
Elazar, è rispettare “la combinazione di scelte costituzionali, di
progetto e di costruzione istituzionale al fine di metter insieme gli
Stati esistenti e le associazioni transnazionali in maniera federalista,
ossia per combinare l’autogoverno con il governo condiviso, in
modo da garantire che il governo condiviso sia confinato solo a
quelle funzioni assolutamente necessarie o chiaramente più utili per
i governi e i popoli coinvolti” ( ). Ciò significa costruire ai livelli
84
sovranazionali, transnazionali e globali, sedi e momenti politici e
istituzionali permanenti di centralizzazione e/o di decentramento
dei poteri che non siano in alternativa, ma coordinati e congruenti a
scopi comuni. Solo cosı̀ sarà possibile, per Elazar, far voltar pagina
alla storia dell’umanità passando dalle dominazioni mondiali orien-
tate al profitto di brutali interessi economici, dalle aggressioni
nazionali e dalle guerre sanguinose, a un ordine globale democratico
basato sulla più larga estensione del principio federale della condi-
visione del governo.
Il caso europeo dimostra per Elazar la fondatezza di queste idee.
Solo dopo l’apertura dell’epoca postmoderna e l’obsolescenza della
concezione della sovranità statale “il mito dello stato nazionale cede
il passo”, e anche in Europa si può avviare il processo di integrazione
che deve esser concepito a suo avviso lungo un asse di sviluppo,
logico e storico, confederale-federale, visto anche come lotta tra le
posizioni politiche a tali termini collegate negli anni ’80 e ’90
culminanti nell’approvazione del Trattato di Maastricht ( ). La
85
formula funzionalistica dell’integrazione comunitaria, che prevale
( ) Ivi, p. 3.
84 ) Ivi, pp. 111-124. Elazar afferma, però, in modo non esatto che l’Unione
( 85
Europea è formalmente una confederazione dal 1994, ossia dopo Maastricht. In realtà,
elementi confederali sussistono già prima nella fase prevalentemente comunitaria, che a
sua volta persiste nell’acquis communautaire anche dopo Maastricht e connota peculiar-
mente il primo pilastro del modello dell’Unione.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
216 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
all’inizio degli anni ’50 dopo la sconfitta del progetto federalista, ha
dunque secondo Elazar lo scopo storico di evitare in origine che
l’unificazione europea sia avvertita come una minaccia per gli stati
membri, di creare una base valida di sempre più intima integrazione
economica e istituzionale, ma ha in definitiva innescato un movi-
mento oggettivo di più lungo respiro e di più alte ambizioni.
Preso atto della concretezza ed elasticità della concezione ela-
zariana sullo specifico problema europeo, occorre però notare che
anche in essa, come in quella di Friedrich, viene trascurato il
problema del passaggio “costituzionale” al vero e proprio momento
federale.
6.3. Hallstein: federalismo sovranazionale comunitario.
Una critica teorica alla concezione della sovranità emerge altresı̀
— contrariamente a quel che in genere si pensa — nell’ambito del
pensiero comunitario, sovranazionale e funzionalista, nel corso della
concreta costruzione dell’Europa unita nella seconda metà del No-
vecento. Tale elaborazione, collegata al pensiero federalista, non è
stata finora sottoposta ad approfonditi studi, per cui è rimasta in
ombra, ma val la pena riprenderne brevemente alcuni lineamenti
attraverso l’opera di Walter Hallstein, primo presidente della Com-
).
missione CEE (
86
Hallstein è tra i principali sostenitori della creazione di un
mercato comune visto come luogo di un’integrazione orizzontale,
cioè globale e non settoriale, delle economie europee. Con questa
idea egli supera la presunta angustia istituzionale dell’iniziale impo-
stazione funzionalista. Tuttavia, è da chiedersi su quali basi teoriche,
prospettive e finalità ultime Hallstein poggi la sua visione generale e,
di conseguenza, la sua strategia di presidente della Commissione
CEE. Per rispondere a questi interrogativi è necessario rifarsi alla
( ) Per un esame della figura e dell’attività di Hallstein si rinvia a C. M ,
86 ALANDRINO
Oltre il compromesso del Lussemburgo. W. Hallstein e la crisi della “sedia vuota”
(1965-66), Working Paper n. 27 del Dipartimento POLIS dell’Università del Piemonte
Orientale, Alessandria, marzo 2002. Per un quadro di riferimento generale sulla storia
, L’Europa difficile. Storia politica dell’integrazione
dell’integrazione europea cfr. B. O
LIVI
europea 1948-2000, Il Mulino, Bologna 2001.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 217
CORRADO MALANDRINO
sua considerazione complessiva del processo d’integrazione europea
), per rilevare preliminar-
e dei compiti storici che le si pongono (
87
mente che le convinzioni del presidente della Commissione non si
fondano su una speciale fede politico-dottrinaria. Da buon giurista
dell’economia internazionale, il cui abito mentale lo porta a consi-
derare le cose dal punto di vista del diritto e della prassi, Hallstein
è incline a un rapporto pragmatico con le teorie politiche. Non è
dunque da ritrovare come punto iniziale del suo pensiero un riferi-
mento esplicito al filone dottrinale federalista europeo di matrice
francese, svizzera, italiana, e neppure alla tradizione tedesca che,
partendo dallo storicismo di Friedrich Meinecke, considerato nella
fase matura di autocritica del nazionalismo germanico, attraverso la
rielaborazione di Ludwig Dehio, prende espressione finale negli
).
innovativi progetti europeisti fatti conoscere da Walter Lipgens ( 88
Se si vuol capire il peculiare convincimento europeista e federalista
di Hallstein, bisogna piuttosto partire dall’intuizione ch’egli ha del
destino della Germania e dell’Europa uscite distrutte dalla seconda
guerra mondiale. Nell’inevitabile orizzonte atlantico, l’amicizia con
gli Stati Uniti e l’integrazione definitiva della nuova Germania
nell’Europa occidentale sono i due paletti attraverso i quali soltanto
può passare, a suo avviso, la prospettiva unificatrice del continente
europeo. Ciò è a maggior ragione vero dopo il piano Marshall e la
fondazione dell’Organizzazione Europea di Cooperazione Econo-
mica (1948, OECE), che costituisce la prima concreta esperienza di
( ) Cfr. W. H , United Europe: Challenge and Opportunity, Harvard
87 ALLSTEIN ., Der unvollendete Bundesstaat.
University Press, Cambridge (Massachusetts), 1962; I D
Europäische Erfahrungen und Erkenntnisse, Econ, Düsseldorf 1969 (trad. ital. Europa
., Europäische Reden, a cura di T.
federazione incompiuta, Rizzoli, Milano 1970); I
D
e J. K , Stuttgart 1979. Di particolare interesse appaiono tre discorsi
O
PPERMAN OHLER
tenuti il 4 dicembre 1964 presso il Royal Institute of International Affairs “Chatam
House”, il 19 febbraio all’Institut für Weltwirtschaft dell’Università di Kiel (cfr. la trad.
ital. intitolata I problemi reali dell’integrazione europea, Istituto di Scienze politiche,
Torino) e il 25 marzo 1965 presso il British Institute of International and Comparative
Law. È stato rilevato con ragione che l’insieme dei tre discorsi forma una sorta di
“credo” dello Hallstein europeista.
) Cfr. L (a cura di), Documents on the History of European Integration,
(
88 IPGENS
, Federico Meinecke e la crisi dello stato nazionale tedesco, Giappichelli,
cit.; S. P
ISTONE ., Ludwig Dehio, Guida, Napoli 1977; I . (a cura di), La Germania e
Torino 1969; I
D D
l’unità europea, Guida, Napoli 1978.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
218 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
decisioni istituzionalmente concordate tra i governi impegnati nella
ricostruzione.
Il problema centrale dell’Europa è, secondo Hallstein, di risol-
vere definitivamente il conflitto franco-tedesco. A tale scopo, l’at-
tuazione del piano Schuman (che peraltro, si noti en passant, è
collimato nel lungo periodo all’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa)
è considerata il primo passo nella giusta direzione dell’unificazione
europea. Tuttavia, negli anni Sessanta, Hallstein tende a differen-
ziarsi sul piano teorico dal funzionalismo monnetiano, accentuando
da un lato l’influenza possibile sul processo europeo dell’autoctona
tradizione federalista tedesca, dall’altro facendo notare la graduale
trasformazione della sfera del “politico”, che il processo di unifica-
zione europea a suo parere necessariamente comporta. In realtà,
Hallstein giunge a considerare l’unità europea come “la sfida e
l’opportunità” politiche a tutto tondo che lo spirito del tempo pone
ai popoli liberi, al fine di trasformare gradualmente in meglio —
ossia in senso modernizzatore e democratico — il vecchio mondo
delle relazioni internazionali tra potenze dotate di sovranità assoluta.
Egli esprime la convinzione che la necessità per gli stati nazionali di
lavorare insieme in modo comunitario produrrà non solo la forma
pacifica di coesistenza e di integrazione economica, ma anche il
nuovo tipo di zoon politikon capace di intendere la dimensione
politica a livello nazionale e sovranazionale. Per argomentare l’avan-
zata delle nazioni europee verso l’unità egli riprende la teorizzazione
fatta da Alexis de Tocqueville ne La democrazia in America, quasi a
unire — in controtendenza rispetto all’arrembante gollismo degli
anni ’60 — la cultura francese con la realtà statunitense. Quattro
temi annunciati da Tocqueville, divenuti altrettanti dati di fatto alla
metà del Novecento, gli sembrano di bruciante attualità: a) la
crescita dell’interdipendenza delle nazioni e l’impossibilità per esse
di restare estranee l’un l’altra a causa del b) progresso tecnico-
industriale e c) dello sviluppo delle comunicazioni; infine, quarto
tratto vieppiù imposto dalla piena realizzazione dei primi tre, d) la
dominazione del mondo da parte di stati-giganti, come l’America e
la Russia. Di fronte a tale evoluzione globale, che mette all’ordine del
giorno l’esigenza di nuove forme di cooperazione interstatale paci-
fica, continua, stabile ed efficiente, l’organizzazione politica del
mondo, e segnatamente dell’Europa, resta purtroppo negativamente
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CORRADO MALANDRINO
ancorata a un sistema di stati sovrani retti sull’anacronistico reticolo
delle tradizionali relazioni internazionali di potenza.
Di qui il valore dell’iniziativa Monnet-Schuman, che supera
nella costruzione comunitaria le finalità confederative mettenti capo
al Consiglio d’Europa del 1949. Il dato realmente innovatore della
Comunità istituita nel 1951, e in generale delle comunità funziona-
liste, è visto da Hallstein nel loro carattere “sopranazionale”. È
questo aspetto delle nuove istituzioni comunitarie che le mette
potenzialmente in grado di superare i loro limiti settoriali, e fa
credere a Hallstein che, necessariamente, dall’integrazione econo-
mica settoriale si passerà gradualmente a una integrazione allargata
orizzontalmente a tutta l’economia dei paesi membri, dall’unità
). Il termine “sopranazionale” — in
economica a quella politica (
89
quanto esponente dell’esigenza di creare un centro di direzione
continentale, democratica, politica ed economica, stabile ed effi-
ciente focalizza correttamente l’attenzione su una delle più impor-
tanti caratteristiche dell’esecutivo della CECA, l’Alta Autorità, e poi
delle Commissioni della CEE e dell’Euratom: “I loro nove membri
— scrive Hallstein — una volta nominati, sono completamente
indipendenti dagli stati, ed è vietato a essi sollecitare o accettare
istruzioni da loro. La loro responsabilità è solo nei confronti della
Comunità vista come un tutto” ( ). Ciò implica, per Hallstein, che
90
una parte del potere decisionale degli stati è sottratto loro e usato da
un’autorità sopranazionale, in embrione di tipo federale ( ), con
91
finalità che superano le singole ottiche e i ristretti interessi nazionali.
In particolare, tale carattere sarebbe rivestito dopo il trattato di
( ) Cfr. H , Europa federazione incompiuta, cit., p. 97: “Discorrendo ci è
89 ALLSTEIN
piaciuto paragonare il complesso della costruzione europea con un razzo a tre stadi:
unione doganale — unione economica — unione politica. Il paragone non era privo di
efficacia retorica, ma era inesatto teoricamente e praticamente. In realtà l’elemento
politico è presente fin dall’inizio (già nell’unione doganale, almeno nella forma della
politica doganale, cioè di una parte importante della politica commerciale), e a maggior
ragione l’unione economica si presenta essenzialmente come una fusione di politiche”. È
evidente che il gradualismo hallsteiniano è inquinato da una venatura meccanicistica di
fondo che, tra l’altro, è all’origine della sconfitta patita nel conflitto con de Gaulle nel
1965. Tale difetto tattico non toglie però valore alla visione complessiva delle esigenze e
delle conseguenze della costruzione di un’Europa federale.
) Cfr. H , United Europe, cit., p. 21.
(
90 ALLSTEIN
) Ivi, p. 64: “Within their limits, they follow a federal pattern”.
( 91 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
220 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
fusione degli esecutivi dell’aprile 1965 (applicato nel 1967) dalla
Commissione CEE, germe di un futuro governo europeo, di cui il
presidente esalta le tre funzioni di “motore”, “custode” e “media-
tore” riconosciutele dal trattato di Roma del 1957. Funzioni che
nulla hanno a che fare con la creazione di una “eurocrazia” non
legittimata dal voto popolare e lontana dai paesi membri. In realtà,
anche per Hallstein, a torto identificato come il capo della nuova
genı̀a di euroburocrati, la logica comunitaria non è finalizzata a
“stabilire una lontana tecnocrazia governante a colpi di ukase da un
), bensı̀ a dare corpo e realtà
qualche Cremlino sopranazionale” (
92
agli obiettivi dei trattati (che secondo Hallstein mettono in essere
) di nuovo tipo) e
una vera e propria normativa “costituzionale” ( 93
alle decisioni politico-legislative prese dal Consiglio dei ministri su
proposta della Commissione stessa. Proprio il monopolio di propo-
sta della Commissione è visto quale tratto qualificante del suo
). In
potere, simbolo del potenziale profilo di ‘governo europeo’ (
94
tale prospettiva è da collocare la battaglia del presidente per dare
maggiore efficienza e fluidità ai processi decisionali europei, allar-
gando gradualmente anche l’area di incidenza del voto a maggio-
ranza nel Consiglio, già previsto dal Trattato CEE per la terza fase
del periodo transitorio, e restringendo fino al minimo l’uso del voto
all’unanimità, ossia della possibilità del veto da parte degli stati
membri, per i soli casi eccezionali in cui venga effettivamente messa
in questione la loro sovranità in materia di vitale importanza. E
questo è uno dei nodi che vengono al pettine nella crisi della “sedia
vuota” del 1965.
In realtà, i paesi che scelgono l’integrazione delle economie
attraverso l’unione doganale, la libertà di movimento delle merci, dei
lavoratori, dei servizi e dei capitali, non decidono soltanto —
secondo Hallstein — di realizzare un mero fatto giuridico-econo-
( ) Ivi, p. 22.
92 ) Cfr. H , I problemi reali dell’integrazione europea, cit., p. 6: “Il
( 93 ALLSTEIN
Trattato di Roma […] è la nostra ‘legge fondamentale’”.
) In questo senso è da interpretare il gesto di far stendere un tappeto rosso
(
94
nella sede di Bruxelles, un segno di distinzione usato per le massime autorità di uno
stato, e quindi da usare anche per onorare il carattere sovranazionale e potenzialmente
S , Europa, forza gentile, Il
statuale del nuovo potere europeo, cfr. T. P ADOA CHIOPPA
Mulino, Bologna 2001, p. 141.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 221
CORRADO MALANDRINO
mico, ma si danno il compito, in modo forse non del tutto consa-
pevole per alcuni dei firmatari (ben chiaro però per Schuman e
Monnet), di dar vita anche a una forma politica nuova capace di
influenzare fortemente la vita degli stati coinvolti e il più vasto
mondo. Sotto il profilo teorico, l’integrazione comunitaria è consi-
derata da Hallstein come una “rivoluzione incessante”, a un tempo,
della scienza economica e della scienza politica. Riprendendo la
teoria dell’economista James Meade a proposito delle unioni econo-
miche interstatali, afferma che quando alcuni stati mettono in
comune delle funzioni economiche, avviene un trapasso di poteri
economico-politici molto più forte da questi all’istanza sopranazio-
). Analogamente, quando nel caso della CEE lo stesso trat-
nale (
95
tato istitutivo prevede elasticamente un certo numero di eventualità
per politiche congiunte nei campi della politica agricola, sociale,
monetaria, finanziaria e fiscale, nella concorrenza, nei trasporti e nel
commercio estero, “la logica dell’integrazione economica non solo
guida all’unità politica attraverso la fusione degli interessi, ma anche
). Non c’è nulla infatti,
implica l’azione politica in se stessa” ( 96
ribadisce Hallstein, di più politico e connesso con la sovranità degli
stati della fissazione dei tassi di cambio e della politica moneta-
ria ( ). Non a caso, fin dall’inizio il processo d’integrazione econo-
97
mica europea fa emergere l’esigenza dell’allargamento alla politica,
fallito per responsabilità francese nel caso della CED e della CEP,
ma dalla stessa Francia gollista riproposto con il “piano Fouchet” in
modo attenuato e coerente con criteri confederali. In proposito,
Hallstein mette in guardia sul fatto che la discussione sulla necessità
di una cooperazione politica “organizzata” (anche nei termini con-
federali di marca gollista) non può sovrapporsi o andar a scapito
dell’integrazione esistente, ovvero delle istituzioni comunitarie, ma
semplicemente risultare un approfondimento federale di quel tipo di
( ) Cfr. J. M , Problems of Economic Union, London 1953, cit. in H ,
95 EADE ALLSTEIN
United Europe, cit., pp. 64-65.
) Ivi, p. 65.
( 96 ) È da notare che lo stesso Mario Albertini riconosce l’acutezza dell’osserva-
( 97
zione di Hallstein che “la Comunità economica [era] un fatto politico, perché ciò che
[era] messo in comune [era] il controllo politico di alcuni aspetti dell’attività economi-
, L’unificazione europea e il potere costituente, in I ., Nazionalismo
ca”, cfr. M. A
LBERTINI D
e federalismo, cit., p. 292.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
222 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
unificazione. La costruzione dell’Europa, in quanto “federazione
incompiuta”, non può pertanto esser prodotto di automatismi eco-
nomico-burocratici, di cui delegare il controllo ad agenti privi di
coscienza politica, ma deve risultare l’opera congiunta di diversi
organi politico-istituzionali legittimati dai trattati a discutere e a
decidere con coraggio sui problemi della graduale unificazione,
tenendo conto delle sfide provenienti dal mondo più vasto della
competizione tra l’oriente comunista e totalitario e l’occidente della
libertà, tra nord sviluppato e sud arretrato.
6.4. L’indirizzo “federalista europeo”. Albertini e il MFE: inadegua-
tezza del confederalismo e del gradualismo nel problema della
“costituzionalizzazione” dell’Unione europea. Una rivalutazione
della sovranità e del “popolo europeo”.
La linea di pensiero sviluppata negli anni ’50 e ’60 in opuscoli e
) ha, sul piano teorico e pratico, uno svol-
interventi da Spinelli (
98
gimento successivo in Mario Albertini. Filosofo della politica nel-
l’Università di Pavia e presidente del MFE fino alla morte avvenuta
nel 1997, Albertini è — dopo Spinelli — la figura di maggior rilievo
del federalismo in Italia. Il suo principale contributo consiste nella
critica della concezione dello stato nazionale, che funge altresı̀ da
premessa per la sistematizzazione data nel libro Il federalismo ( ).
99
Qui il federalismo è connesso strettamente all’aspetto di valore
kantiano, la pace, e a uno di struttura istituzionale, lo stato federale,
visto come superamento dello stato nazionale, sia dal punto di vista
infranazionale sia da quello sovranazionale. Esso è legato infine a un
aspetto storico-sociale, riposante sull’offuscamento degli antagoni-
smi di classe e nazionali nonché allo sviluppo del pluralismo sociale
e istituzionale. In tale visione, l’unione europea è una tappa inter-
( ) Cfr. A. S , La mia battaglia per un’Europa diversa, Lacaita, Manduria
98 PINELLI : A. S , Una strategia per gli
1979; ved. inoltre gli scritti raccolti a cura di S. P ISTONE PINELLI
B , L’idea d’Europa nel pensiero di A. S ,
Stati Uniti d’Europa, cit.; A. C HITI ATELLI PINELLI
(a cura di), A. Spinelli and Federalism in
Lacaita, Manduria-Bari-Roma, 1989; L. L EVI
Europe and in the World, Angeli, Milano 1990.
) Cfr. M. A , Lo Stato nazionale, Il Mulino, Bologna 1960; I ., Il
( 99 LBERTINI D
cfr. F.
federalismo. Antologia e definizione, Il Mulino, Bologna 1979. Su A LBERTINI
, Il pensiero politico di M. Albertini, Giuffrè, Milano 2003.
T ERRANOVA © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 223
CORRADO MALANDRINO
media e necessaria del processo che porterà alla federazione mon-
).
diale (
100
Il punto centrale del programma indicato da Albertini, fin
dall’inizio degli anni Sessanta, si fonda nella implementazione della
trasformazione del processo d’integrazione europea, avviata sulla
scorta dei criteri funzionalisti di Jean Monnet, in quello della
costituzione di una unione politica, che scaturirebbe dalla crisi
necessaria in cui la prima si verrebbe a trovare per la prevedibile
mancanza di volontà dei governi nazionali di rinunciare alle proprie
prerogative sovrane. Il punto di partenza è nel pensiero albertiniano
la critica dell’idea di nazione e del modello dello stato nazionale.
L’idea di nazione, plausibile come fatto culturale (autoidentificazio-
ne linguistica, storico-tradizionale, ecc.), è illusoria e mistificante dal
punto di vista del suo collegamento (a torto ritenuto intrinseco) col
modello dello stato nazionale. Quel che Albertini rifiuta è, oltre a
ciò, che la nazione incapsulata nello stato diventi una sorta di
classificatore e di massimo divisore politico di quell’unità più vasta
che è “l’intero genere umano”. Perché in quanto tale, essa si
trasforma in causa di scontri vieppiù distruttivi. La cultura della
nazione, in questo senso creatrice dei nazionalismi, si oppone alla
cosmopolita “cultura dell’unità del genere umano” che sottende
come orizzonte la visione federalista. L’ideologia nazionale eleva
artificiosamente a dato originario l’appartenenza nazionale e la
categoria dello stato-nazione, rafforzando le tendenze nazionaliste
che corrompono le ideologie tradizionali, liberaldemocratiche, so-
cialiste o comuniste: “La nazione è il criterio con il quale è organiz-
zato politicamente il genere umano, dunque dovrebbe essere la
). Appare necessario ad
prima idea con la quale fare i conti” ( 101
Albertini tale passaggio per arrivare a una chiara visione dei compiti
del presente. È in Europa, “sede storica del modello nazionale”, che
occorre vincere la battaglia cruciale sulla via della federalizzazione
dell’intero pianeta. A tal fine s’impone la preventiva trasformazione
( ) Tutti questi motivi del pensiero albertiniano sono riproposti in due volumi
100
di scritti (pubblicati dagli anni Sessanta in poi) editi nel 1999 dal Mulino (Bologna) a
, intitolati l’uno Nazionalismo e federalismo, l’altro Una rivoluzione
cura di N. M
OSCONI
pacifica. ) Cfr. A , Il federalismo, cit., p. 299.
(
101 LBERTINI
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
224 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
culturale, ovvero il passaggio da una concezione nazionale a una
cosmopolita e federale. In ciò risiede la sostanza dell’aspetto storico-
sociale cui si lega il federalismo. La negazione della ideologia
nazionalista, e l’affermazione in suo luogo di un modo di vedere e di
agire federalista, non rappresenta altro che l’inveramento del valore
kantiano della pace che, in quanto verità di ragione, appartiene già
al patrimonio genetico del federalismo. Il “federalismo europeo”,
come ideologia rivoluzionaria, deve quindi porsi l’obiettivo di mo-
dificare la struttura sulla quale si regge il sistema politico attuale: lo
stato nazionale. Non per negarlo totalmente, ma per superarlo
condizionandone e depotenziandone la sovranità all’interno delle
strutture supernazionali, di cui la federazione europea rappresenta la
tappa decisiva, e la federazione mondiale il risultato finale.
In coerenza con gli insegnamenti di Spinelli e di Albertini, il
movimento dei “federalisti europei”, che operano in modo coordi-
nato in Italia e negli altri paesi del vecchio continente, conduce da
vari decenni battaglie ideologiche e politiche per l’istituzione della
federazione europea attraverso un passaggio costituente e costitu-
zionale ( ). In questa sede, però, non interessa l’aspetto pratico,
102
quanto soprattutto accennare ai tratti teorici più recenti dell’elabo-
razione “federalista europea” in merito alla critica della sovranità
nazionale e alla determinazione dei caratteri costituzionali della
auspicata federazione europea. Su questi temi si impegnano da
decenni studiosi e militanti che danno voce a vari organi di stampa
e a riviste, tra cui “L’Unità Europea”, “Il Federalista”, “Piemonteu-
ropa”, “The Federalist Debate” ( ).
103
Le argomentazioni dei “federalisti europei” si appuntano oggi
( ) Come afferma S. Pistone nell’introduzione alla cit. edizione anastatica di
102
-R , Il Manifesto di Ventotene, p. XI, “il MFE ha in effetti costantemente
S PINELLI OSSI
conseguito con una incrollabile coerenza la creazione di un vero e proprio stato federale
europeo (che avrebbe dovuto comprendere progressivamente l’intera Europa) e la
convocazione di una assemblea costituente europea democraticamente rappresentativa
come metodo insostituibile per giungere effettivamente all’unificazione irreversibile
dell’Europa”.
) Cfr. in particolare: Fine della politica?, “Il Federalista”, XXXVIII, 1996, n.
(
103 , Dall’unione alla federazione: l’Europa e la questione dello
2, pp. 86-90; F. R OSSOLILLO
Stato e della sovranità, “L’Unità Europea”, XXVI, 2000, nn. 321-322, pp. 26-27; S.
, Sovranità europea, “Piemonteuropa”, XXV, 2000, n. 3, pp. 1-3; I ., Dopo
P
ISTONE D
l’introduzione dell’euro, una Costituzione federale europea, ivi, XXVI, 2001, n. 3, pp.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 225
CORRADO MALANDRINO
sul riconoscimento che il metodo “gradualistico” — espressione che
sottintende il richiamo sia alle posizioni funzionalistico-comunitarie
da Jean Monnet in poi, sia a quelle di tipo confederalista —, ha
definitivamente esaurito il proprio compito nei riguardi dello svi-
luppo ulteriore dell’Unione Europea con la realizzazione della mo-
neta unica, ed è divenuto un freno paralizzante nel processo di
unificazione. La tematica della crisi dello stato nazionale, riproposta
sostanzialmente nelle forme teorizzate da Spinelli e Albertini e
attualizzata alla luce dell’aggravamento causato dai processi di glo-
balizzazione, mette in luce la necessità di un salto di qualità che sia
tale da portare, tramite un passaggio costituente, a un vero e proprio
stato federale europeo prima che l’allargamento previsto ai paesi
dell’Est e del Mediterraneo, e le sempre più urgenti esigenze di
governo democratico continentale, non conducano anche alla di-
sgregazione del tessuto comunitario dell’Unione e alla sua degene-
razione in una sorta di mera unione di libero scambio e di imbelle
“società delle nazioni”.
L’erosione della “sovranità nazionale”, pur se accresciuta se-
condo i “federalisti europei” dall’interdipendenza economica e mi-
litare a livello globale, non è accompagnata da un accrescimento di
“sovranità europea”. Sicché la sovranità nazionale non è affatto
“evaporata” in una sorta di “multilevel governance”, ma resta pre-
rogativa degli stati nazionali, i quali cercano di guidare e sfruttare i
processi di progressiva eliminazione delle barriere nazionali ai fini di
un recupero imprevedibile di influenza a livello sovranazionale ( ).
104
I “federalisti europei”, sfumando i toni della condanna a tutto tondo
del dogma della sovranità esclusiva e illimitata dello stato nazionale
precedentemente affermata in un diverso contesto da Spinelli e
Albertini, denunciano piuttosto con preoccupazione il fatto che tale
critica doverosa abbia in taluni autori portato paradossalmente alla
denuncia della scomparsa della sovranità tout court. Con la conse-
10-12; For a Federal European Constitution, “The Federalist Debate”, XIV, 2001, n. 2,
pp. 23-32.
) Conferma questa tesi, almeno dal punto di vista della riappropriazione di
(
104 , Föderative Staaten in einer entgrenzten Welt, in
poteri da parte degli stati, T. B }
O RZEL
e G. L , cit., p. 369; di diverso e opposto avviso
Föderalismus, a cura di A. B ENZ EHMBRUCH
, L’Europa dopo il Leviatano. Tecnica, politica, costituzione, in G.
è G. M
ARRAMAO
(a cura di), Una Costituzione senza stato, cit., pp. 119-144.
B ONACCHI © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
226 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
guenza di far mettere in secondo piano che invece la sovranità — se
correttamente intesa e condivisa — svolge compiti irrinunciabili di
ordinamento, mantenimento e sviluppo sociale e civile. Essa ha pur
sempre la funzione di legittimare i processi decisionali a livello
legislativo e di governo, di escludere cadute nell’anarchia, di fondare
in democrazia la certezza del diritto e della solidarietà tra i cittadi-
). Non alla distruzione della sovranità statale occorre mirare,
ni (
105
ma alla sua diversa dislocazione tra istanze europee e nazionali,
nell’epoca in cui la forma “stato-nazione” manifesta crescenti inca-
pacità di intervento a livello continentale e globale. In tal senso è da
intendere il superamento dello stato-nazione. Viceversa, chi sostenga
l’avvenuta distruzione della sovranità in assoluto, in realtà rischia di
farsi paladino subordinato dell’unico “sovrano” nazionale capace di
interventi globali, ossia degli Stati Uniti d’America. ), il
Lungi pertanto dall’accettare “il declino della statualità” (
106
nodo da sciogliere è ancora sempre quello dell’alternativa tra fede-
): “trasferire la sovranità” dagli stati
razione e confederazione (
107
nazionali alla federazione europea significa accrescere e trasformare
qualitativamente l’embrione federale già presente nel tessuto comu-
nitario dell’Unione Europea, che deve esser dotata di vera sovranità
federale, cosa che prevede la condivisione di questa con gli stati
nazionali. Lo stato federale europeo non dovrà essere un “super-
stato”, perché anzi “esso avrà caratteristiche diverse ed originali
rispetto ai sistemi federali finora realizzati, perché si tratta, per la
prima volta nella storia, di federare stati nazionali storicamente
consolidati e un continente caratterizzato da un pluralismo (che è
una grandissima ricchezza da tutelare e valorizzare) culturale, lin-
guistico, religioso, economico-sociale che non ha eguali nel mon-
( ) Cfr. P , Dopo l’introduzione dell’euro, una Costituzione federale euro-
105 ISTONE
pea, cit., p. 11, “La sovranità, intesa come potere di decidere in ultima istanza (e
implicante il monopolio della forza legittima), è in realtà la condizione della validità e
dell’efficacia del diritto e quindi il presupposto della possibilità stessa di impegnarsi per
il conseguimento del bene comune”.
) Cfr. P , introd. alla cit. edizione anastatica di S -R , Il Mani-
(
106 ISTONE PINELLI OSSI
festo di Ventotene, p. XIX.
) Cfr. P , Dopo l’introduzione dell’euro, una Costituzione federale euro-
( 107 ISTONE
pea, cit., p. 11: “La dicotomia federazione-confederazione mantiene intatta la sua
validità”. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 227
CORRADO MALANDRINO
do” ( ). Pertanto federalismo decentrato e sussidiarietà sono le
108
risposte ai timori di accentramento statalista a livello europeo. Si
tratterebbe in sostanza di fondere taluni aspetti dei modelli duale e
cooperativo del federalismo. Requisiti fondamentali della federa-
zione europea dovranno essere: 1) competenza esclusiva in materia
di moneta, difesa e politica estera; 2) competenza concorrente su
tutte le altre materie in base al principio di sussidiarietà; 3) trasfor-
mazione del Consiglio dei ministri nella camera territoriale degli stati
e sua privazione della competenza legislativa esclusiva; 4) compe-
tenza legislativa piena al Parlamento europeo, che la eserciti su un
piano di parità con la Camera degli stati; 5) trasformazione del
Consiglio europeo nella Presidenza collegiale dell’Unione; 6) tra-
sformazione della Commissione nel governo dell’Unione, nominato
dalla Presidenza collegiale e responsabile di fronte al Parlamento; 7)
estensione del processo decisionale a maggioranza, tranne che in
particolari materie di rilevanza costituzionale; 8) esclusione del
diritto di secessione. Di particolare importanza è, secondo i “fede-
ralisti europei”, la procedura costituente — in luogo di quella
intergovernativa finora seguita — per arrivare a cogliere tale obiet-
tivo. Non è da escludere infine che, di fronte a insuperabili resi-
stenze euroscettiche, si renda necessaria la combinazione di due
momenti successivi: la creazione di un “nucleo federale” ristretto,
convivente con l’Unione Europea più larga, nell’attesa che grazie a
un’adeguata strategia che contemperi iniziative politiche con clau-
sole e formule già sperimentate (opting out, geometrie variabili,
cooperazioni rafforzate ( ) si creino le condizioni per l’ingresso
109
degli altri paesi nella federazione.
I “federalisti europei” si rendono conto che un simile obiettivo
non è realizzabile senza che si crei un presupposto forte di legitti-
mazione finora mancante, ovvero un “potere costituente” che non
può provenire da operazioni di ingegneria costituzionale o da inter-
( ) Cfr. P , introd. alla cit. edizione anastatica di S -R , Il Mani-
108 ISTONE PINELLI OSSI
festo di Ventotene, p. XVIII. Sugli aspetti socio-economici del progetto “federalista
e
europeo” cfr. Federalismo fiscale: una nuova sfida per l’Europa, a cura di A. M AJOCCHI
, Padova 1999; Il governo dell’economia in Europa e in Italia, a cura di G.
D. V
ELO e D. V , Milano 2000.
M ONTANI ELO
) Cfr. L’Europa a geometria variabile: transizione verso l’integrazione, a cura di
( 109 e D. V , L’Harmattan Italia, Torino 1996.
P. M AILLET ELO © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
228 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
venti governativi dall’alto. Occorre invece uno sviluppo inedito di
un’identità collettiva europea che superi il minimo denominatore
comune, culturale o economico, costruito nei secoli e nell’esperienza
comunitaria, e si qualifichi in senso politico e sociale al fine di
determinare un consistente e sufficiente senso di appartenenza.
Insomma, si pone — non da oggi, ma dai tempi di Spinelli e
Albertini — il problema della definizione di un “popolo euro-
). Questo fu ed è compreso dai massimi dirigenti del MFE
peo” ( 110
prevalentemente nel senso sociologico e storico-politico di “una
comunità di cittadini che [sono] gravemente danneggiati nei loro
interessi materiali e nelle loro esigenze ideali dalla crisi storica degli
stati nazionali sovrani (i quali devono essere considerati illegittimi
perché ormai strutturalmente incapaci di perseguire efficacemente i
compiti — benessere economico, sicurezza, libertà — in funzione
dei quali sono stati costruiti) e che [aspirano], sia pure confusa-
mente, al superamento di questa situazione attraverso l’unità euro-
). Non potendosi esprimere tale aspirazione nei limiti strut-
pea” (
111
turali e procedurali nazionali, il compito dei “federalisti europei” è
pertanto “di creare degli strumenti di azione politica sopranazionale
in grado di permettere al popolo europeo di prendere coscienza
della necessità di costruire la federazione europea attraverso il
metodo costituente e di far valere questa volontà al di fuori dei
( ) Albertini, in particolare, ha dedicato, sulla scorta della base teorica di critica
110
allo stato nazionale costruita nei suoi libri più importanti, scritti e iniziative costanti nel
tempo alla chiarificazione del concetto (e al “censimento”) del popolo europeo, cfr. tra
, La nascita del popolo europeo, in “Europa federata”, 25. 1. 1956,
gli altri M. A LBERTINI
., Una rivoluzione pacifica. Dalle nazioni all’Europa, cit., pp. 85-90; L’Europe des
ora in I D
états, l’Europe du marché commun et l’Europe du peuple fédéral européen, “Il Federali-
sta”, IV, 1962, 2, pp. 187-193; Il censimento volontario del popolo federale europeo, “Il
., Una rivoluzione pacifica, cit., pp. 145-152;
Giornale del censimento”, 1966, 3, ora in I
D
L’identità europea, “Il Federalista”, XIX, 1977, 3, pp. 180-183; L’Europa sulla soglia
dell’Unione, ivi, XXVIII, 1986, 1, pp. 25-37; Un progetto di manifesto del federalismo
europeo, ivi, XXXIV, 1992, 1, pp. 71-89; La strategia della lotta per l’Europa, ivi,
XXXVIII, 1996, 1, pp. 55-67. Per la ricostruzione della questione del “popolo europeo”
alla ristampa anastatica del
nell’esperienza del MFE cfr. l’Introduzione di S. P
ISTONE
periodico spinelliano “Popolo Europeo”, 1958-1964, a cura della Consulta Europea del
Consiglio Regionale del Piemonte, Industria grafica ed Editoriale, Torino 2001, pp. 9-25.
) Ivi, p. 15. Cfr. anche P , Una Costituzione federale per l’Europa, “Il
( 111 UBLIUS
Federalista”, XLII, 2000, 3, p. 302.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 229
CORRADO MALANDRINO
condizionamenti prodotti dalle istituzioni politiche nazionali” ( ).
112
Il “popolo europeo”, in tale accezione, è identificabile dunque
potenzialmente con tutti i cittadini europei (europeismo organizza-
bile), a partire però dall’avanguardia dei più consapevoli eurofede-
ralisti che mobilità il corpo grosso di coloro che non hanno “co-
scienza” di esserlo (europeismo organizzato, ovvero, con le parole di
Albertini, “il popolo europeo ha la realtà dell’azione politica dei
). È evidente, da tale impianto, la
federalisti che hanno capito” (
113
connotazione movimentista e ideologica che tradisce sfumature di
una sorta di “leninismo europeista”, nel senso dell’avanguardia
cosciente che dirige e organizza la spontaneità, aspetto che d’altra
parte è connesso con la formazione originaria del primo fondatore
del MFE.
In coerenza con quanto detto si realizza l’impegno a mobilitare,
tramite campagne propagandistiche (a partire dall’iniziativa, poi
fallita, del Congresso del popolo europeo ( ) mirante a ottenere
114
legittimità democratica e peso politico indispensabili per forzare i
governi alla convocazione della costituente europea) e referendarie
negli anni ’60 e ’70. Un movimento che trova nuova motivazione,
anche sul piano ideale, dall’obiettivo dell’elezione diretta del Parla-
mento europeo raggiunto nel 1979, una tappa che conferisce visibi-
lità inedita a una sorta di soggetto politico parzialmente rappresen-
tativo, l’insieme degli elettori europei, che sembra dare maggiore
concretezza al discorso del “popolo europeo” ( ). In conclusione,
115
la concezione “federalista europea” del “popolo europeo” si pone
nei limiti della costruzione di un movimento sempre più vasto e
capace di maturare nel frattempo, grazie alla mobilitazione e al-
l’azione di chiarimento e di propaganda ideologica e politica, “un
vincolo di identità politica, sociale, culturale e il senso di apparte-
nenza e di identificazione con un organismo comune avvertito come
tale e al cui sviluppo si sentano partecipi” ( ). Di qui lo sviluppo
116
( ) Ibidem.
112 ) Cfr. A , La nascita del popolo europeo, cit., p. 90.
( 113 LBERTINI
) Cfr. C. R V , Il Congresso del popolo europeo, in I movimenti
(
114 OGNONI ERCELLI
per l’unità europea 1954-1969, cit., pp. 373-398.
) Cfr. le interessanti considerazioni di G. C , Potere sussidiario. Sussi-
(
115 OTTURRI
diarietà e federalismo in Europa e in Italia, Carocci, Roma 2001, pp. 77-99.
) Cfr. U. M , La Costituzione europea: il modello federalista, in Diritti e
(
116 ORELLI
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
230 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
necessario di un ethos condiviso, la creazione di un demos a partire
dal dato consistente del corpo elettorale europeo da uniformare
tramite l’istituzione di un unico sistema elettorale e dall’estensione
dei diritti di cittadinanza, e di un ethnos che si consolidi grazie al
dialogo interculturale, scambi scolastici, programmi televisivi co-
muni, ecc. Tutto ciò, però, è ritenuto possibile solo a seguito
dell’istituzione di un livello di statualità europea che è conseguenza
dell’approvazione di una costituzione continentale: non esiste un
prima e un dopo, vi è un processo circolare, “stato e popolo nascono
insieme”. Come d’altra parte, si afferma, è avvenuto nel processo di
formazione degli stati nazionali nell’Ottocento.
Da questa ricostruzione, per quanto succinta, si comprende come
sia ben presente (e condivisibile) nella posizione “federalista europea”
la visione progressiva del “popolo europeo” sotto il profilo sociolo-
gico, storico-politico, ideologico e movimentistico. A essa manca,
però, un’impostazione e una soluzione convincente sul piano della
giustificazione filosofico-giuridica e istituzionale, ai fini della legitti-
mazione del soggetto del potere costituente europeo. Tale carenza non
è casuale, ma corrisponde a una più generale aporia caratterizzante il
pensiero federalista (tranne alcune eccezioni, come Trentin) rispetto
alla problematica europea. Ciò si riflette sulle difficoltà, che gli ven-
gono poste in quanto paradigma positivo di superamento effettivo
della sovranità statalnazionale, dall’esistenza di forti identità nazionali
e strutture statali che si oppongono tenacemente a passaggi decisivi
in direzione di un livello solido di federalità europea.
7. L’approdo federale derivante dal “paradigma comunicativo” di
Habermas.
Proprio l’aporia sopraddetta nella posizione eurofederalista a
proposito della fondazione e della definizione teoriche del “popolo
costituzione nell’Unione Europea. La Carta dei diritti nell’ottica del costituzionalismo
, Laterza, Roma/Bari 2002, p. 49. Ringrazio S.
europeo, a cura di G. Z
AGREBELSKY
Dellavalle per avermi dato la possibilità di consultare questa pubblicazione ancora in
, Quali istituzioni per l’Europa? Modelli costituzio-
bozza provvisoria. Cfr. anche L. L
EVI ,
nali a confronto, in L’Unione Europea e le sfide del XXI secolo, a cura di U. M
ORELLI
Celid, Torino 2000, pp. 191-214. Sullo sviluppo storico dell’identità europea cfr. H.
, Europa. Storia di un’idea e di un’identità, Il Mulino, Bologna 2002.
M IKKELI © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 231
CORRADO MALANDRINO
europeo”, e della conseguente lacunosità nel processo teorico di
legittimazione di un “potere costituente” europeo, fa apprezzare il
tentativo di critica alla sovranità dello stato-nazione e di elabora-
zione federaleuropeista proveniente dalla filosofia habermasiana
della comunicazione e dell’approccio discorsivo. Non voglio affer-
mare che Habermas sia inquadrabile nella tradizione di pensiero
federalista. Tuttavia, soprattutto nelle opere dell’ultimo decen-
), il filosofo francofortese chiarendo bene quali limiti incontri
nio (
117
lo stato nazionale — nell’epoca della sua crisi — dalla doppia
contestazione mossagli dal multiculturalismo all’interno e dalla glo-
balizzazione all’esterno, arriva a chiedersi se all’interno di tale forma
politica esista ancora oggi “la possibilità di coniugare “nazione dei
cittadini” e “nazione etnica”, ordine giuridico e cultura popola-
re” ( ). Di qui procede ad affermare la necessità di un non
118
impossibile allargamento della democrazia, oltre i confini dello stato
nazionale, nella federazione europea ( ). Questo approdo certa-
119
mente lo colloca, pur con la sua peculiare argomentazione, in una
posizione convergente con l’europeismo federalista. A mio avviso, il
suo impegno si rivela particolarmente prezioso nel contrastare l’eu-
roscetticismo ricorrente in merito al problema del superamento del
deficit democratico europeo e dell’individuazione di un legittimo e
( ) Cfr. in particolare tra gli scritti più recenti: J. H , Faktizität und
117 ABERMAS
Geltung, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1992 (trad. it. Fatti e norme. Contributi a una teoria
, Guerini, Milano 1996); Die
discorsiva del diritto e della democrazia, a cura di L. C EPPA
Einbeziehung des Anderen, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1996 (trad. it. L’inclusione dell’al-
, Feltrinelli, Milano 1998); Die Postnationale Konstellation,
tro, a cura di L. C EPPA
Suhrkamp, Frankfurt/M. 1998 (trad. it. La costellazione postnazionale, cit.); Si, voglio una
Costituzione per l’Europa federale, 2000, in http://www.caffeeuropa.it/attualita/112
attualitahabermas.hatml; Warum braucht Europa eine Verfassung?, 2001, in
http://www.zeit.de/2001/27/Politik/200127-verfassung-lang-html (trad. it. Perché l’Eu-
ropa ha bisogno di una Costituzione?, in Diritti e costituzione nell’Unione Europea. La
Carta dei diritti nell’ottica del costituzionalismo europeo, cit., pp. 63-79). Sul rapporto tra
,
tale concezione e le dimensioni dell’etica, della morale e del diritto cfr. anche L. C EPPA
Pluralismo etico e universalismo morale in Habermas, “Teoria politica”, 1997, n. 2,
pp. 97-112.
) Cfr. H , L’inclusione dell’altro, cit., p. 130.
( 118 ABERMAS
) Cfr. H , Perché l’Europa ha bisogno di una Costituzione?, cit., p. 63:
(
119 ABERMAS
“In effetti, la sfida non consiste tanto nell’invenzione di qualcosa di nuovo, ma piuttosto
nella conservazione delle grandi conquiste dello stato nazionale europeo anche oltre le
frontiere della nazione e in un altro formato”.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
232 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
coerentemente fondato soggetto costituente europeo, appunto il
“popolo europeo”. Per illustrare tale opinione, vorrei qui utilizzare,
in proposito, l’interessante e originale chiave di lettura del contri-
buto filosofico-politico habermasiano proposta da Sergio Dellavalle
in relazione al problema del superamento del concetto esclusivo di
cittadinanza statalnazionale, in collegamento con la problematica
). Nel libro di Dellavalle si
della “costituzionalizzazione” europea (
120
può seguire l’elaborazione comparata degli elementi concettuali del
“paradigma comunicativo” — che vi si fa sfruttando un ingegnoso
schematismo che contrappone i tre paradigmi fondamentali delle
), “l’individua-
idee di nazione, cittadinanza e popolo: “l’olistico” ( 121
( ) S. D , Una costituzione senza popolo? La costituzione europea alla
120 ELLAVALLE
luce delle concezioni del popolo come “potere costituente”, Giuffrè, Milano 2002.
) Scrive Dellavalle, ivi, che, secondo l’approccio olistico (discusso alle pp.
(
121
94-175), “il popolo nella sua totalità rappresenta un’entità ontologicamente diversa e
assiologicamente superiore rispetto alla somma degli individui che lo compongono” (p.
10). Di conseguenza alla base del modello olistico dev’esserci “una base comunicativa
condivisa” di valori sostantivi tra cui centralità assume la nazionalità, che i suoi
sostenitori “identificano erroneamente in forma esclusiva con la comunità linguistica che
sta alla base della nazione — quale presupposto non neutrale per lo svolgersi corretto dei
processi deliberativi che contraddistinguono la democrazia” (p. 11). Ne consegue
l’opposizione euroscettica, “nostalgica” o “capziosa” (p. 201) a sviluppi europei che
oltrepassino la soglia di una confederazione di nazioni (“Europa delle patrie”) in
direzione di una unità federale. Di qui la contrarietà a che si parli di “potere costituente
(Una costituzione per
europeo”. In merito cfr. anche la discussione tra D. G RIMM
(Una costituzione per l’Europa? Osservazioni su Dieter Grimm)
l’Europa?) e J. H ABERMAS , P. P. P , J. L ,
ne Il futuro della costituzione, a cura di G. Z
AGREBELSKY ORTINARO UTHER
Einaudi, Torino 1996, pp. 339-376.
In realtà, va fatto un appunto alla trattazione riservata da Dellavalle al “paradigma
olistico” nel passo che riguarda la pretesa dell’esistenza di un’effettiva e completa unità
sostanziale identitaria a livello nazionale e della conseguente “comunicazione nazionale”.
Nel senso che Dellavalle concede troppo a tale asserzione. È vero che il fondamento di
questa è più rilevabile, benché con limiti storici visibili, in stati come la Germania o la
Francia. Esso è, però, posto in seria discussione a partire dalla seconda metà del
Novecento in stati come il Belgio e, in misura minore, in Italia o in Spagna, da parte degli
orientamenti ideali e dei movimenti che si rifanno alle minoranze o alle forti identità
regionali, alle cosiddette “nazioni senza stato”. Sul problema dell’identità nazionale
italiana formano, per esempio, un interessante contrappunto le due opere che, con
diversa ottica, metodologia e argomentazione, si pongono fino a oggi come il punto
, L’italiano, Einaudi, Torino 1983; E.
iniziale e finale di tale riflessione: cfr. G. B OLLATI
D L , L’identità italiana, Il Mulino, Bologna 1998. Da più parti si afferma
G
ALLI ELLA OGGIA
la rimessa in questione delle “identità nazionali”, per “decostruirle” nelle componenti
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CORRADO MALANDRINO
listico” ( ) e, appunto, il “comunicativo” —, e delle conseguenze
122
della sua applicazione all’idea della costituzione europea. La tesi di
Dellavalle è che il paradigma habermasiano è in grado di far
superare i limiti sostanziali o formali degli altri due, ed è capace di
rispondere positivamente all’esigenza fondamentale “di individuare
un’arena specificamente europea, la quale soddisfi i criteri di una
comunicazione autenticamente politica, senza per questo dover
ricadere sui contenuti dell’identità culturale degli stati-nazione o
pretendere di creare — o riscoprire — un’improbabile omogeneità
). In sostanza, secondo Dellavalle, il “paradigma comu-
europea” (
123
nicativo” fornisce le basi concettuali per separare in modo coerente
il momento dell’interazione politica da quello dell’identità nazionale,
culturale e religiosa, ovvero la nazionalità dalla cittadinanza, ren-
dendo possibile il processo di creazione di un soggetto, di un’iden-
regionali etnico-storiche e ulteriormente restringerne la portata a fini politici. Su ciò si
sono ampiamente espressi anche pensatori federalisti come Elazar e Albertini. Per
un’informazione introduttiva a questo complesso problema — che non è possibile
, M. D , Nazioni senza stato. I
approfondire in questa sede — si rinvia a: A. M
ELUCCI IANI B , La
movimenti etnico-nazionali in Occidente, Loescher, Torino 1983; A. C HITI ATELLI
dimensione europea delle autonomie e l’Italia, Angeli, Milano 1984; Letture su stato
, Celid, Torino 1995; Nazionalismi e conflitti
nazionale e nazionalismo, a cura di L. L
EVI e G. R , Feltrinelli, Milano 1997 (di
etnici nell’Europa orientale, a cura di M. B
UTTINO UTTO
, Intellettuali e questione nazionale in Germania
cui si segnala il contributo di C. L
IERMANN
oggi, pp. 51-64).
) Scrive D , ivi, che, secondo l’approccio individualistico (discusso
( 122 ELLAVALLE
alle pp. 176-205), “l’insieme socio-politico altro non è che la somma ordinata dei singoli
che lo costituiscono” (p. 10). Secondo tale concezione, che vede nella convivenza
socio-politica una questione di mera opportunità, priva di dimensione assiopoietica, uno
sviluppo istituzionale verso l’unificazione europea, ovvero verso la creazione di un grado
di sovranazionalità europea, reso necessario dallo sfaldamento della statualità tradizio-
nale, “va considerato come positivo nella misura in cui ottimizza le possibilità di
benessere dei singoli” (p. 11). È connaturato a tale approccio, estrinsecantesi nella
formazione di una “teoria della sovranazionalità”, l’insufficiente “riflessione sulle con-
dizioni di legittimità delle istituzioni europee, la quale non può limitarsi alla garanzia del
maggior numero possibile di opzioni per i singoli, bensı̀ deve basarsi sulla consapevole
investitura da parte di una cittadinanza europea chiamata a esercitare il suo potere
sovrano”. Se pur dunque i sostenitori dell’approccio individualistico danno supporto
concettuale alla formazione di un “potere costituente europeo”, ciò avviene “al prezzo
di un grave impoverimento della dimensione normativa della legittimità del potere
politico” (ibidem).
) Ivi, p. 203.
(
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
tità e di una sfera di attività politica finalizzati alla produzione di una
costituzione unitaria europea non confliggente con le esigenze na-
zionali.
In estrema sintesi, il “paradigma comunicativo” afferma che
l’individuo, “visto come inserito in una rete di interazioni le quali si
estendono su tutta la sua sfera esperienziale e nelle quali si realizza
la sintesi tra il momento dell’individualità autoreferenziale e quello
), grazie alla sua razionalità teleologica
dell’appartenenza sociale” ( 124
e alla strategia comunicativa — che gli impone di confrontarsi con
gli altri sui fini e sui contenuti dell’agire attraverso un discorso che,
per realizzarsi positivamente, dev’esser rispettoso, tollerante, pronto
a riconoscere pari dignità e validità agli argomenti altrui — può
raggiungere una verità consensualmente definita attraverso l’uso del
“principio del miglior argomento”. Questa concezione delle rela-
zioni interpersonali, non escludente terzi in nome di chiusure na-
scenti da appartenenze religiose, cultural-linguistiche o d’altro tipo,
né tendente alla massimizzazione del vantaggio individuale (perciò
sfuggente ai limiti intrinseci dei primi due paradigmi), può esser
applicata pragmaticamente nell’ambito della politica, della morale e
dell’etica ottenendo risultati più o meno soddisfacenti. Il punto
cruciale, però, secondo Dellavalle, sta nel fatto che il “paradigma
comunicativo” consente di distinguere chiaramente il “codice” in-
terattivo che presiede ai vari tipi di “comunicazione” pratica, ovvero
politica, morale ed etica. Per cui, sottolinea Dellavalle, “proprio
questa attenzione nel tenere rigorosamente distinti i discorsi che,
seppur storicamente sovrapposti, procedono concettualmente sulla
base di codici diversi, ci permette di applicare con profitto il
paradigma comunicativo alla questione del costituzionalismo euro-
peo e, in particolare, alla tematica dell’articolazione teorica dei
fondamenti di quello che potrebbe esser definito un “potere costi-
tuente europeo”” ( ).
125
Poste tali premesse, nella prospettiva della creazione di una
fonte di legittimità per il soggetto europeo, si rende possibile
svincolare nella sfera dell’etica (che risponde alla domanda generale
“come vogliamo vivere?”) il piano dell’integrazione di determinati
( ) Ivi, p. 206.
124 ) Ivi, p. 210.
( 125 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 235
CORRADO MALANDRINO
gruppi e subculture nazionali e infranazionali da quello dell’astratta
integrazione politica, che riguarda in modo uniforme tutti i cittadini
di un aggregato più vasto. Mentre sul primo piano avviene l’intera-
zione tra i membri di una comunità unita da valori sostantivi (fede
religiosa, tradizioni culturali, appartenenze linguistiche, ecc.), sul
secondo si sviluppa il confronto tra semplici cittadini per determi-
nare consensualmente — pur sempre nel rispetto dei valori predetti
— le forme della convivenza politica, che si traducono nei valori che
presiedono alle formule del diritto a partire dalle norme costituzio-
nali, e nelle istituzioni con queste coerenti. Tale distinzione rende
possibile scindere la specificità dell’aspetto nazionale da quella dello
stato di diritto, l’appartenenza culturale dalla cittadinanza. Rispetto
allo stato nazionale, che storicamente invece ha mescolato inestrica-
bilmente questi due piani, ciò implica un’inversione radicale di
marcia (ma non un suo superamento, se con tale termine si intende
la sua sparizione). In realtà, come afferma Habermas, quel che è
sempre più impellente fare — nella situazione di avanzante multi-
culturalità e in un’Europa che vuole mandar avanti il processo di
unione sempre più intima previsto nei preamboli dei trattati comu-
nitari — è proprio la separazione della miscela perversa di intera-
zione politica e culturale, di identità, di appartenenze nazionali e
cittadinanza politica, al fine di arrivare a definire un “popolo” di
cittadini svincolato da legami prepolitici. Gli individui del “paradig-
ma comunicativo”, impegnati nell’interazione pragmatica sul piano
etico, giungono cosı̀ in ultima istanza a costituire un “insieme di
cittadini di una collettività politica, […] cittadini dello stato demo-
cratico di diritto […], autori delle leggi, nei confronti delle quali, in
).
quanto destinatari delle medesime, sono tenuti all’obbedienza” (
126
Il cemento che unisce un siffatto “insieme popolare” non può
naturalmente essere l’olistico patriottismo nazionale, ma il “patriot-
tismo costituzionale” e, nella fattispecie, un patriottismo costituzio-
). A questo genere di “popolo” appartiene anche
nale europeo (
127
( ) Ivi, p. 216.
126 ) Una lettura critica dell’analisi habermasiana, specie in relazione all’argomen-
( 127 , Se
tazione del concetto di “patriottismo della costituzione” si ha in G.E. R USCONI
cessiamo di essere una nazione, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 126-135. Di Rusconi, il
quale, pur con ricorrenti riflessioni tendenzialmente scettiche, afferma di credere alla
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
l’identità del “popolo europeo”, da cui può scaturire un nuovo
potere costituente. Scrive Dellavalle: “Grazie alla distinzione con-
cettuale tra la dimensione dell’integrazione politica dei cittadini e
quella dell’appartenenza culturale, etnica e nazionale, diventa cioè
possibile ipotizzare una sfera politica europea, sostenuta dalle isti-
tuzioni di una crescente società civile integrata, il cui codice comu-
nicativo consista nella formulazione e legittimazione delle norme che
). E
già oggi coinvolgono tutti i cittadini europei in quanto tali” (
128
verrebbe, per questa via, sanato il deficit democratico che affligge le
istituzioni create nel corso del processo di costruzione comunitaria
e confederale dell’Unione Europea. In conclusione, l’elaborazione
habermasiana sarebbe l’unica capace di fornire “una base normati-
vamente accettabile all’individuazione di un potere costituente spe-
). In conformità con essa, l’Unione Euro-
cificamente europeo” (
129
pea sarebbe considerata alla stregua di uno stato federale
sovranazionale, dotata di una propria specie di sovranità con proprie
istituzioni democratiche scaturenti dalla legittimazione del “popolo
dei cittadini europei”. In effetti Habermas ha sostenuto e sostiene
con forza l’opzione federale europea all’interno di quella che chiama
la “costellazione postnazionale” nell’epoca della globalizzazione.
8. Un nuovo paradigma “federalista-comunicativo” funzionale al-
l’unità statale europea?
L’interessante punto di vista habermasiano riproposto da Del-
lavalle, nell’indicare l’idoneità del “paradigma comunicativo” in
funzione della “costituzione” europea attraverso il “popolo euro-
), mi pare del tutto condi-
peo” inteso come potere costituente (
130
possibilità del costituirsi di un demos europeo a seguito dell’intensificazione della
comunicazione sovranazionale, cfr.: Patria e repubblica, Il Mulino, Bologna 1997, pp.
, La
84-93; Cittadinanza e costituzione, in Identità culturale europea, a cura di L. P ASSERINI
Nuova Italia, Firenze 1998, pp. 133-153; Appartenenza e cittadinanza tra dimensione
nazionale e dimensione europea. Intervista, in Interviste sull’Europa, a cura di A.
, Carocci, Roma 2001, pp. 121-136.
L
ORETONI
) Ibidem.
(
128 ) Ivi, p. 217.
( 129 ) Già nelle pagine introduttive (p. 11), Dellavalle afferma che “soltanto
( 130
l’apparato concettuale che [il paradigma comunicativo] mette a disposizione permette
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CORRADO MALANDRINO
visibile per i federalisti, soprattutto per le risposte che dà alle
argomentazioni sottostanti ai paradigmi “olistico” e “individualisti-
co”. Spiace però che esso sembri escludere un ruolo concorrente
della critica federalista su problemi sui quali — con differenti
approccio e metodologia — essa si confronta da molto tempo prima
di Habermas. Proprio il fatto che lo scritto di Dellavalle (ma anche
l’opera di Habermas) manchi di un serio confronto con la proble-
matica federalista più tipica e tradizionale, dovrebbe indurre a
riflettere se ciò non avvenga anche per responsabilità del federali-
smo, inteso come movimento intellettuale prima ancora che politico.
In effetti, spesso vengono avanzate al federalismo (specie a quello
“europeo”) obiezioni di varia natura e non sempre giustificate. Per
esempio, si dice che esso si misurerebbe con un paradigma tradi-
zionale e superato della sovranità, con ciò volendosi intendere che la
trasformazione (o la presunta sparizione) in corso delle sovranità
statali avrebbe messo fuori gioco altresı̀ le critiche mosse all’interno
di un apparato categoriale imperniato sulla coppia federazione-
confederazione, che si appunta in modo forte sulla critica della
sovranità unitaria, assoluta ed esclusiva dello stato moderno. Si
avrebbe pertanto un conseguente “spaesamento” per tutta la posi-
zione “federalista europea”. Si dice, poi, che sul “popolo europeo”
questa oscillerebbe in misura eccessiva tra i due poli del “dover
essere” e del movimentismo ideologico. Per usare una terminologia
weberiana, si potrebbe tradurre tale critica affermando che il “fe-
deralismo europeo” si fonderebbe più su un’“etica della convin-
zione” che non su un’“etica della responsabilità”. Tali critiche si
manifestano in modo ancor più marcato allorché si toccano i temi
della costituzione europea intesa in senso forte e pieno. Anche in
questo caso, l’entrata in crisi del paradigma costituente tradizionale
trascinerebbe con sé anche le posizioni che vedono in un modello
federale europeo incentrato sul parlamento e sul governo responsa-
infatti di differenziare sufficientemente i modi d’essere del singolo, spiegandone l’ap-
partenenza non contraddittoria a diverse realtà: alla comunità culturale e/o nazionale,
alla collettività politica e all’insieme di tutti gli esseri umani. Distinguendo tra l’appar-
tenenza culturale e/o nazionale e quella politica, il paradigma comunicativo dischiude la
possibilità di definire con precisione una sfera specificamente europea dell’interazione
politica, la quale va al di là della comunicazione nazionale, senza per questo coincidere
riduttivamente con la mera tutela prepolitica degli interessi del bourgeois”.
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
bile il superamento del deficit democratico dell’Unione. Si tratta di
obiezioni complesse, di cui occorre tener conto, anche se talora
ingenerose e ingiustificate. Si potrebbe rispondere con vari argo-
menti. Per esempio, che in verità oggi si assiste piuttosto a un
inopinato recupero di poteri da parte degli stati nazionali dopo la
lunga fase della divisione del mondo in blocchi contrapposti; che la
perdita di senso del paradigma costituente tradizionale, con tutto
quel che ne consegue, è un fenomeno ben chiaro sia a pensatori
federalisti integrali come Rosselli e Trentin, sia a “federalisti euro-
pei” come Spinelli. E rimandare alla lettura e alla riflessione su
questi autori. Ma sarebbero polemiche sterili che non aiuterebbero
nell’opera di costruzione di un’Europa unita.
Tutto ciò premesso, perciò, ci si dovrebbe domandare se non sia
plausibile e auspicabile una ridefinizione della critica federalista alla
sovranità statalnazionale, ferme restandone le finalità generali, ai fini
dell’implementazione della sua funzionalità rispetto alla tematica
europeista. Penso che ciò si possa produrre a partire dall’elabora-
zione di un nuovo paradigma federalista, più specifico e più coe-
rente, quindi più condivisibile sul piano teorico anche da cerchie più
larghe, che riformuli e sfrutti adeguatamente i motivi ricavabili dalla
letteratura presentata in questo saggio e li rielabori coniugandoli con
il “paradigma comunicativo”, che non appare, tutto sommato, cosı̀
distante. Il paragrafo che segue è perciò dedicato a questo tentativo
teorico, nel presupposto evidente che non vi sia inconciliabilità tra
l’impianto “comunicativo” e quello federalista, come d’altra parte
dimostra l’approdo teorico-politico del pensiero di Habermas.
Parto dalla premessa, enunciata al paragrafo 2., che l’archetipo
federalista sia dato dalla convergenza nell’analisi delle esperienze
qualificanti della modernità — tanto in quella sovrastatale centripeta
del Federalist che in quella del federalismo infranazionale centrifugo
rinvenibile nella vicenda del girondinismo e, per esempio, nelle
teorie anticentraliste di Proudhon e Cattaneo — di diverse correnti
di pensiero che però possono esser ricondotte a una teoria unitaria,
peraltro tentata nell’Ottocento dallo stesso Proudhon nello scritto
Du principe fédératif ( ). Il contesto teorico generale che tutte le
131
ricomprende è quello del contrattualismo giusnaturalista moderno,
( ) Su ciò si rinvia a M , Federalismo, cit., pp. 11-57.
131 ALANDRINO
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CORRADO MALANDRINO
come si può constatare dalle teorie dei padri della costituzione
federale americana, di cui è stata dimostrata in modo convincente la
filiazione dalle concezioni teologico-federali dei primi coloni ameri-
). A mio avviso l’impianto federalista che se ne può desu-
cani (
132
mere è singolarmente vicino a quello “comunicativo”, e ciò può
spiegare la confluenza delle specifiche proposte sul piano europeo.
Vediamo allora come si può configurare tale fondazione federal-
comunicativa.
La radice semantica delle parole “federale” e “federalismo” si
trova nel vocabolo latino “foedus”, che significa alleanza, trattato,
patto, convenzione. Fin dalle origini, constatabili nella cultura latina
e tramandate in quella europea occidentale, il fenomeno federale
s’incardina sul concetto di un rapporto politico convenzionale e
pattizio basato sulla reciproca fiducia (fides) dei contraenti e non
sulla forza. In linea di principio, è la fede liberamente e mutualmente
data che crea un’organizzazione comune e obbliga i membri di tale
alleanza, più o meno durevole, a comunicarsi prestazioni, aiuto,
diritti. Come è visto l’individuo capace di foedus e di fides? È un
individuo-soggetto (persona individuale o gruppo formato da indi-
vidui distinti con interessi comuni) che è identificabile esclusiva-
mente dalla sua propensione e capacità positiva di contrarre e
sottoscrivere un patto di fiducia con altri individui-soggetti. Ciò
esclude che possa esser concepito soltanto come una monade chiusa
in sé o prevalentemente egoista, poiché deve poter entrare in
contatto con altri interlocutori e intrattenere rapporti in cui concede
e riceve fiducia allo scopo di sottoscrivere il patto. A tal fine è
necessario un confronto dialogico nel corso del quale sono portati in
discussione gli argomenti migliori da entrambe le parti e, al termine,
con la sottoscrizione del patto, vi sarà un riconoscimento del risul-
tato su una base di rispetto reciproco: il foedus crea una comunità
politica di eguali godenti pari dignità e riceventi pari soddisfazione
( ) Cfr. C. S. M C , Die Bundestradition in Theologie und politischer Ethik.
132 C OY
Anmerkungen zum Verständnis von Verfassung und Gesellschaft der USA, in Konsens und
, W.
Konsoziation in der politischen Theorie des frühen Föderalismus, a cura di G. D USO
e D. W , Duncker & Humblot, Berlin 1997, pp. 29-46; I . e J. W.
K
RAWIETZ YDUCKEL D
, Fountainhead of Federalism. Heinrich Bullinger and the Covenantal Tradition,
B
AKER , Teologia
Louisville (Kentucky), Westminster/J. Knox Press, 1991; C. M ALANDRINO
federale, “Il Pensiero politico”, XXXII, 1999, n. 3, pp. 427-446.
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240 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
degli interessi. In tal senso è anche una comunità che vive nel segno
della libertà e della giustizia.
Mi pare che la figura teorica cosı̀ delineata possa suffragare una
immedesimazione tra l’individuo-soggetto federativo e quello “co-
municativo”, nel senso almeno che sia possibile affermare che il
primo è necessariamente anche coincidente con il carattere “comu-
nicativo” del secondo, mentre non si può dire altrettanto del se-
condo, che non necessariamente deve predisporsi alla sottoscrizione
di un patto federale per conseguire il suo scopo. Va da sé che
l’individuo-soggetto federativo non è contenibile nell’approccio in-
dividualistico (ed è evidentemente lontanissimo da quello olistico).
Infatti l’individuo “individualistico”, nel suo impianto egoista, può
avere generica propensione a stipulare patti politici, ma non ha
predisposizione determinata al “patto di fiducia” federale e all’in-
gresso in intense e fruttuose relazioni comunitarie, mentre tale
caratteristica è centrale per l’individuo federativo. L’individuo-sog-
getto federativo è teleologico nel suo agire in quanto vuol raggiun-
gere lo scopo di una vita comunitaria e sociale grazie al patto, che
rappresenta il suo strumento di iniziativa strategica. La razionalità
teleologica e strategica dell’individuo-soggetto federativo si attua
dunque attraverso un confronto necessariamente verbale (la comu-
nicazione argomentata di volontà al fine della giustificazione delle
intenzioni e della legittimazione delle forme del patto) ed extraver-
bale (le relazioni personali in senso lato, le procedure del patto
stesso, ecc.). In conclusione: l’individuo-soggetto federativo è neces-
sariamente un soggetto che comunica al modo habermasiano, nel
senso che, come scrive Dellavalle, “mira al raggiungimento di un
accordo condiviso tra tutti i cointeressati, sulla base di un confronto
). Rispetto ai limiti messi
aperto sui fini e sui contenuti dell’agire” ( 133
in mostra dal “paradigma comunicativo” sul piano politico interno
e internazionale ( ), però, quello federalista può forse intervenire
134
con maggiore efficacia sulla prassi politica, grazie alla ricchezza
pragmatica della teoria federalista dello stato (che si traduce anche,
e soprattutto, nella teoria dello stato federale), a partire appunto
dall’esperienza americana fino a quelle ottocentesche e novecente-
( ) Cfr. D , Una costituzione senza popolo?, cit., p. 208.
133 ELLAVALLE
) Ivi, pp. 208-209 e 221-225.
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CORRADO MALANDRINO
sche, europee e globali. Ciò dimostra la maggiore pertinenza del
punto di vista federalista rispetto ai temi in discussione e la sua
migliore applicabilità. Non a caso è cresciuto enormemente, come
dimostra Elazar, il numero degli stati inquadrabili in maggior o
minor misura nel contesto istituzionale federale. Il patto federale,
infatti, non neutralizza gli interessi diversi, ma al contrario è conce-
pito per unire le diversità rispettandole, trovando un compromesso
elastico, modificabile nello spazio e nel tempo, accettabile da coloro
che intendono partecipare all’unione tra eguali. Il cemento che
unisce i membri del patto federale non può esser altro che un forte
patriottismo repubblicano e costituzionale. Il foedus è la premessa
della “carta” in cui vengono fissati valori e princı̀pi fondamentali,
diritti e doveri, che stanno alla base del patriottismo federativo-
costituzionale.
Gli individui-soggetti federativi esplicano la loro attività nei vari
livelli di esistenza che coincidono con diversi piani di aggregazione
sociale e politica, legandosi ai valori culturali e sostantivi specifici di
ognuno di questi, pur rimanendo capaci di esperienze plurali e di
appartenenze plurali. Dal loro vario e necessario entrare in rapporti
pattizi su ognuno di tali livelli si genera una pluralità di patti federali,
e di popoli federali, dai quali promana nel contempo una pluralità di
poteri costitutivi (o “costituenti”) federali infranazionali, nazionali e
). Di qui scorre la sorgente di legittimazione po-
sovranazionali (
135
( ) D’altra parte una simile considerazione della cittadinanza in relazione al
135
formarsi delle sovranità condivise sta alla base dell’approccio del federalismo moderno
, L’uomo, la comunità, l’ordine poli-
derivante dall’esperienza americana, cfr. F RIEDRICH
tico, cit., p. 297: “[Il concetto nuovo di federalismo] poggia sull’idea che in un sistema
federale di governo ogni cittadino appartenga a due comunità, quella del suo stato e
quella della nazione; che questi due livelli di comunità debbano esser nettamente distinti
e che ognuno di essi debba essere provvisto del proprio governo; e che nella struttura-
zione del governo della comunità più estesa gli stati componenti debbano giocare un
, Idee e forme del federalismo,
preciso ruolo nella loro qualità di stati”. Cfr. anche E LAZAR
cit., pp. 34-35: “In effetti il significato profondo della soluzione federale americana fu
quello di escogitare un modo di eludere il problema della sovranità esclusiva degli stati
[…] Invece di accettare le concezioni europee del XVI secolo dello stato sovrano, gli
americani considerarono che la sovranità appartenesse al popolo. Le varie unità di
governo — federali, statali e locali — potevano esercitare solo poteri delegati. Cosı̀ era
possibile che il popolo sovrano delegasse i suoi poteri al governo generale e a quelli
costitutivi senza incappare, di norma, nel problema di quali di essi possedesse la
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
litica per ognuna delle forme statuali costituibili, corrispondenti ai
rispettivi livelli di interazione politica. Gli individui-soggetti federa-
tivi sono considerabili pertanto nella sfera individuale-personale e in
relazione ai gruppi di appartenenza già costituiti e legittimati: sono
i “cittadini” presi singolarmente che, unitisi in popolo per una
decisione esclusivamente politica, grazie a un patto “costituzionale”
divengono in determinati periodi e contesti milanesi e parigini;
piemontesi e bavaresi; italiani, francesi e tedeschi, ecc.; infine euro-
pei. Tutto ciò avviene senza che siano privati della genetica capacità
di appartenere identitariamente ai gruppi-soggetti locali, regionali,
nazionali o sovranazionali. Dal loro variegato complesso promana il
“popolo” europeo, ovvero l’insieme di tutti questi individui-soggetti
federativi, che si può concepire come “potere costituente” della
).
futura federazione europea ( 136
Posto che sia accettabile tale impianto teorico, l’obiezione può
riguardare il posto e il ruolo che deve esser comunque detenuto
sovranità, eccetto che nel campo delle relazioni internazionali”. Per popolo Elazar
intende il “popolo federale” formato dall’unione dei cittadini-soggetti federativi. Tale
circostanza è ricordata da Levi nel saggio introduttivo (La federazione: costituzionalismo
e democrazia) alla cit. riedizione del Federalista del 1997, p. 36, laddove ricorda
l’affermazione del deputato James Wilson nella Convenzione della Pennsylvania di
ratifica della Costituzione federale: “Il supremo potere risiede nel popolo come fonte del
governo… Esso può distribuirne una parte… ai governi degli stati e un’altra al governo
degli Stati Uniti”.
) Credo che non sia corretto, per le ragioni dette alla nota 121, contrapporre
(
136
in assoluto la concretezza dei popoli fondati sull’identificazione nazionale all’astrattezza
del “popolo europeo” nella definizione qui enunciata. In realtà, alcuni popoli nazionali
europei (si pensi al Belgio) hanno un carattere di concretezza sostantiva non molto
superiore a quello di un ipotetico popolo europeo. Ma anche altri (pochi) popoli di più
sicure tradizioni e identità nazionali, come quelli francese e tedesco, subiscono negli
ultimi decenni una contestazione crescente da parte delle originarie componenti minori
etnico-culturali e dalle nuove immigrazioni di diversa cultura che chiedono di integrarsi
e di contare politicamente. Per tutti gli stati nazionali vale sempre più in ultima istanza
il ricorso al “plebiscito” soggettivistico di Renan. Ma mi chiedo: che cosa impedisce a un
analogo “plebiscito” pensato in forma prevalentemente politica di applicarsi al caso
europeo (magari in forma di referendum cui sottoporre un’eventuale carta costituzionale
europea)? Quale ostacolo si pone al “popolo europeo” — nel più grande contesto
globale — a concepirsi come costituito su una solidarietà fondata “sul sentimento dei
sacrifici già fatti e di quelli che si è disposti a fare”, sul passato di guerre dalle quali si
vuol fuggire per sempre e sul presente dell’integrazione economica, sul consenso e sul
“desiderio espresso chiaramente di continuare la vita in comune”?
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CORRADO MALANDRINO
dagli stati nazionali, che sono ancor oggi i soggetti aventi il maggior
peso (se non esclusivo) in termini di identità nazionale e poteri
sovrani in Europa. È evidente che non è ammissibile, per la natura
stessa del paradigma appena enunciato, alcuna ipotesi di emargina-
zione o superamento degli stati nazionali, cosı̀ come delle realtà
regionali o locali. È anzi da supporre l’arricchimento dei loro aspetti
etnico-culturali e sociali, nel mantenimento di precisi poteri nazio-
nali di decisione di ultima istanza (penso, per esempio, al potere di
grazia), e di competenze politico-amministrative per tutto ciò che
attiene al territorio e alla popolazione di ognuno secondo un’ampia
realizzazione del principio di sussidiarietà. Credo che il paradigma
federalista-comunicativo testé tracciato possa ammettere agevol-
mente tutto ciò. Ma nel presupposto necessario del venir meno
dell’esclusività e dell’assolutezza della sovranità nazionale, in quanto
il paradigma federalista-comunicativo: a) proclama l’intangibilità dei
valori e degli interessi sostantivi propri di ciascun livello di aggre-
gazione socioculturale, purché naturalmente questi siano posti in
modo da evitare che qualcuno di loro si trovi in conflitto irrimedia-
bile sul piano politico con quelli di qualche altro livello di apparte-
nenza; b) afferma la cittadinanza contestuale e plurale, quindi non
crea subordinazione gerarchica tra le differenti forme in cui essa si
esprime; c) sottolinea l’esigenza di un patriottismo costituzionale sia
al livello nazionale che al livello europeo, lasciando campo libero allo
sviluppo di patriottismi culturali, nel presupposto ammissibile che i
secondi non si pongano in conflittualità con i primi; d) attesta,
attraverso la teoria dello stato federale, che agli stati nazionali sia
dato un ruolo di primo piano sia nella fase di costituzione della
federazione europea con una presenza diretta, sia nella fase di
istituzionalizzazione a regime, attraverso il modello parlamentare
bicamerale e la costituzione di una Camera degli stati dotata di ampi
poteri legislativi e di controllo politico. Del pari, il paradigma
federalista comunicativo non si pone in contrasto irresolubile con le
esigenze rappresentate nelle ipotesi di multilevel systems of govern-
ment, in quanto può contemperare il contributo di partecipazione e
direzione della cosa pubblica proveniente da vari soggetti pubblici e
privati, statali e non, ai vari livelli di governo della statualità federale
infra- e sovranazionale, pur mantenendo i caratteri di maggior
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
244 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
definitezza istituzionale e di bilanciamento e separazione dei poteri
sui piani verticale e orizzontale che gli sono propri ( ).
137
Se il paradigma federalista-comunicativo qui abbozzato può
risultare plausibile, ci si deve domandare in quale relazione si ponga
con la tradizionale critica federalista alla sovranità dello stato nazio-
nale e con la prospettiva di una costituzione federale europea. La
prima risposta è che in entrambi i casi è possibile l’utile integrazione
tra il nuovo e il vecchio paradigma. In effetti, è intrinseca al nuovo
una concezione relativizzante e pluralistica delle sovranità statuali ai
vari livelli, considerato il presupposto dell’esistenza di realtà statuali
infra- e sovranazionali. Rispetto al vecchio, inoltre, il nuovo para-
digma sopra delineato dà maggior concretezza e individualità al
soggetto e al processo costituenti europei con l’indicare precisa-
mente, in accordo col “paradigma comunicativo”, l’identità di un
possibile “popolo europeo” connotato politicamente e non affer-
mato sulla scorta di asserzioni meramente prepolitiche di natura
etnico-culturale, morale, ideologica o movimentistica.
( ) In questo senso mi pare che vadano a vuoto le critiche riprese da G.
137 , L’Europa dopo il Leviatano. Unità e pluralità nel processo di costituzionaliz-
M ARRAMAO
zazione, “Teoria politica”, XVII, n. 2, 15-16 dicembre 2000, pp. 51-52 (sulla scorta, tra
, L’originalità istituzionale dell’Unione Europea, in AA.VV., Un
gli altri, di G. A MATO
passato che passa? Germania e Italia tra memoria e prospettiva, Atti del Seminario
internazionale organizzato dal Comune di Roma in collaborazione con il Goethe Institut
e la Fondazione Basso, Roma novembre 1996, raccolti a cura di G. Preterossi, intr. di G.
Marramao, Roma, pp. 81-91 e 106-109) nei confronti di una pretesa “megasovranità
europea” nell’ipotesi di una trasformazione in senso federale dell’UE. Al contrario, il
modello federale nasce per assicurare, attraverso la condivisione delle sovranità una
certezza istituzionale a livello di governo centrale insieme alla difesa delle diversità e dei
rispettivi poteri dei componenti. Quanto al richiamo che Marramao fa alle analogie tra
fase precedente il “modello Westfalia” e il prossimo futuro possibile della multilevel
governance, vorrei precisare che è proprio questo il punto (risolto però in senso
federalista) già segnalato da molti anni a questa parte da un pensatore come Elazar nel
suo discorso su premodernità e postmodernità (cfr. supra par. 6. 2), ripreso da Th.
Huglin nei suoi scritti althusiani e da ultimo nel libro Early Modern Concepts for a Late
Modern World. Althusius on Community and Federalism, Waterloo (Ontario), W.
Laurier University Press, 1999.
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ENZO CANNIZZARO
IL PLURALISMO DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO
v
EUROPEO E LA QUESTIONE DELLA SOVRANITA
1. Regole di conflitti nell’ordinamento dell’Unione europea. — 2. Pluralismo di ordina-
menti e pluralismo all’interno di un ordinamento. — 3. Il monismo giuridico e la
questione della sovranità. — 4. La trasformazione del concetto di sovranità: la sovranità
istituzionale. — 5. Segue. La separazione dei poteri e la questione della sovranità
normativa. — 6. Sovranità normativa e competenza normativa. — 7. La sovranità
normativa come capacità di produzione giuridica. — 8. La sovranità come norma di
soluzione dei conflitti. — 9. La sovranità normativa come autodeterminazione dell’or-
dinamento giuridico. — 10. La nozione normativa di sovranità in una prospettiva
sistematica. — 11. Considerazioni conclusive.
1. Regole di conflitti nell’ordinamento dell’Unione europea.
Fra le caratteristiche dell’ordinamento europeo nei suoi rapporti
con i preesistenti ordinamenti degli Stati membri, vi è l’assenza di
una regola generalmente accettata di soluzione dei conflitti. Per
meglio dire, questa assenza si nota solo per certi tipi di conflitti,
mentre per altri la dinamica istituzionale ha consentito l’emergere di
norme e pratiche comuni sia all’ordinamento dell’Unione che a
quelli dei suoi Stati membri.
I conflitti fra norme comunitarie dotate di effetto diretto e
norme legislative degli Stati membri sono ad esempio risolti attra-
verso una regola che ammette una soluzione univoca sia nell’ordi-
namento comunitario che in quelli degli Stati membri, ed impone al
giudice l’applicazione delle prime e la disapplicazione delle seconde.
Per la verità, questa conclusione è solo parzialmente corretta, in
quanto si ha piuttosto un effetto identico, che fa però seguito
all’applicazione di diverse regole di conflitto nei vari ordinamenti ( ).
1
( ) Si veda la ricostruzione della regola rispettivamente nella giurisprudenza della
1
Corte di giustizia delle Comunità europee (v. la sentenza Simmenthal, 9 marzo 1978,
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
246 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Agli effetti pratici, tuttavia, quel che emerge è che l’effetto dell’ap-
plicazione di tali diverse regole conduce al medesimo risultato, il che
può dar l’impressione che la regola sia la medesima.
Ma per altri tipi di conflitti, è chiaro non solo che le regole di
soluzione sono diverse, ma che esse possono anche portare ad un
risultato diverso. In questo caso occorre allora rassegnarsi a conclu-
dere che il conflitto non ammette una soluzione valida per qualsiasi
prospettiva giuridica. Quando, ad esempio, le Corti costituzionali
degli Stati membri si riservano il potere di sindacare la legittimità di
atti normativi comunitari alla luce dei valori fondamentali del pro-
prio ordinamento, esse non fanno che applicare una regola di
soluzione dei conflitti che discende dalla propria Costituzione e la
cui applicazione può produrre effetti irrimediabilmente incompati-
bili con quelli prodotti dalla regola di soluzione propria dell’ordi-
). Cosı̀ anche quando il giudice interno
namento comunitario ( 2
rivendichi il proprio potere di negare applicazione ad una norma
dell’Unione, ritenendo che essa sia stata adottata chiaramente al di
fuori della sfera delle competenze attribuite a tale ente, esso non fa
che applicare una regola di soluzione dei conflitti che ha validità solo
). In ambedue i casi
nell’ambito del proprio ordinamento nazionale (
3
la regola di soluzione dei conflitti propria dell’ordinamento del-
l’Unione è ben diversa, sia dal punto di vista procedurale che da
causa 106/77, in Racc., 1978, p. 629 ss.), e nella giurisprudenza delle Corti costituzionali
nazionali (v. la sentenza della Corte costituzionale italiana nella sentenza Granital, 8
giugno 1984, n. 170, e l’ordinanza della Corte costituzionale tedesca del 9 giugno 1971).
) Si vedano le sentenze della Corte costituzionale italiana nei casi Frontini, 27
( 2
dicembre 1973 n. 183, e Fragd, 21 aprile 1989 n. 232, e il celebre Maastrichtsurteil della
Corte costituzionale tedesca del 12 ottobre 1993.
) Questa possibilità è stata prospettata nella sentenza della Corte costituzionale
( 3
tedesca relativa alla legittimità costituzionale del trattato di Maastricht, menzionata
sopra, nonché nella sentenza della Corte suprema danese del 6 aprile 1998, relativa
anch’essa alla costituzionalità del trattato di Maastricht. Essa è stata recentemente
ribadita dalla Corte costituzionale tedesca; v. in particolare la sentenza del 7 giugno 2000
che ha chiuso la complessa controversia relativa alla legittimità costituzionale del
regolamento che aveva stabilito un mercato comune delle banane; controversia che è
sembrata a lungo poter originare un conflitto radicale fra ordinamento costituzionale
tedesco e ordinamento comunitario. La Corte ha peraltro evitato di trarre le conclusioni
di questa regola e pervenire quindi ad una dichiarazione di incostituzionalità del diritto
comunitario. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 247
ENZO CANNIZZARO
quello sostanziale, in quanto questo ordinamento appresta un pro-
prio apparato giurisdizionale al quale è affidato il potere esclusivo di
valutare la validità di atti comunitari nonché un proprio parametro
di norme fondamentali rispetto ai quali tale giudizio va effettuato.
Né mancano altri esempi di conflitti che non ammettono una
soluzione univoca.
In una valutazione di tipo empirico, si potrebbe tracciare una
distinzione fra conflitti del primo e conflitto del secondo tipo. I
primi sono conflitti a basso contenuto valutativo, rispetto ai quali,
generalmente, gli Stati membri ammettono una competenza esclu-
siva dell’ordinamento dell’Unione a dettare le regole di soluzione. I
secondi sono invece conflitti nei quali si riflettono interessi e valori
fondamentali, ovvero nei quali si riflette la capacità espansiva di un
ordinamento a danno dell’altro, per i quali sembra indicata la
formula dei conflitti di sovranità. Rispetto ai secondi, quindi, non
solo gli ordinamenti degli Stati membri rifiutano di riconoscere la
competenza esclusiva dell’Unione a disciplinarne l’esito; essi anzi,
espressamente, si riservano il potere di disciplinarli, eventualmente
in contrasto con le regole dell’Unione. Analizzando le regole di
soluzione dei conflitti, nei loro reciproci rapporti, si può quindi
osservare un fenomeno che emerge invero anche adottando un
diverso punto di osservazione: gli ordinamenti degli Stati membri
assumono, rispetto all’ordinamento dell’Unione, un atteggiamento
che non è ispirato né ad una completa autonomia, né ad una
completa integrazione. Essi cioè ammettono che l’Unione disciplini
i conflitti fra norme dei diversi ordinamenti, ma solo fino ad un certo
livello di intensità; si riservano invece di disciplinare autonoma-
).
mente conflitti ad alto livello valutativo ( 4
( ) Né il rilievo di questa osservazione diminuisce per il fatto che, al di là delle
4
dichiarazioni di principio, un conflitto vero e proprio non si sia mai prodotto in quanto
sia la Corte di giustizia che le Corti nazionali hanno utilizzato strumenti atti ad evitarne
l’insorgere. Questo vuol dire, infatti, che il conflitto si è realmente prodotto, ma non è
stato risolto attraverso regole di carattere giuridico, bensı̀ attraverso regole di carattere
politico. D’altra parte, proprio l’esistenza di diverse regole di soluzione di conflitti, atte
a produrre soluzioni diverse ed incompatibili fra loro, finisce con il connotare il sistema,
per modo che, al fine di evitare di produrre un conflitto dall’esito imprevedibile, i diversi
attori del gioco istituzionale possono essere indotti ad operare comportamenti diversi da
quelli che verrebbero presumibilmente adottati in un sistema di diverso tipo.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
248 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Anche senza entrare nei dettagli tecnici di tale situazione, è
chiaro che essa caratterizza un certo modo d’essere dell’ordina-
mento giuridico dell’integrazione europea. Per esso sembra appro-
priata la definizione di ordinamento pluralista, dato che esso è
connotato dall’esistenza di una pluralità di punti di vista nell’ambito
dei quali un determinato conflitto normativo può trovare soluzione,
e, quindi, dall’assenza di una prospettiva unica, che assicuri una
).
soluzione valida per tutto l’ordinamento (
5
L’ordinamento europeo appare come un ordinamento tenden-
zialmente pluralista in quanto al suo interno vi sono conflitti che
vengono risolti in maniera diversa a seconda che ci si ponga nella
prospettiva dell’ordinamento centrale o degli ordinamenti decen-
trati. Ciò non vuol dire, beninteso, che per ciascun conflitto di
questo tipo vi sarà una paralisi dei meccanismi normativi e istitu-
zionali, ma solo che non vi è una regola giuridica generalmente
ammessa per la soluzione di essi. La soluzione può invece essere
ricercata, e di fatto ciò è quello che avviene, attraverso l’applicazione
di altri tipi di regole: in particolare, quando insorgono conflitti di
questo tipo, essi vengono risolti attraverso dinamiche di tipo politico
e istituzionale.
2. Pluralismo di ordinamenti e pluralismo all’interno di un ordina-
mento.
Il carattere pluralista dell’ordinamento dell’Unione riflette un
particolare modo d’essere di tale ordinamento, insuscettibile di
essere spiegato nell’ambito delle normali dinamiche ordinamentali
dei sistemi di natura statuale. Il fatto è che i rapporti fra gli
ordinamenti degli Stati membri non appaiono essenzialmente di tipo
convenzionale, come accade nelle forme classiche di confederazione,
né, d’altro lato, essi sono completamente spiegabili in uno schema
concettuale di tipo federale, nel quale l’ordinamento centrale abbia
completamente assorbito la sovranità dei suoi Stati membri.
Da un punto di vista storico non vi è dubbio che l’Unione sia un
( ) Ho utilizzato questo termine nello scritto A Pluralist Constitution for a
5
Pluralist Legal Order, in FIDE - XX Congress, vol. I, a cura di Slynn e Andenas, London,
2002, p. 267 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 249
ENZO CANNIZZARO
ordinamento derivato da quello degli Stati membri, i quali infatti
l’hanno istituito mediante un accordo internazionale. Da un lato,
quindi, tale ordinamento svolgerebbe le sue vicende nell’ambito
dell’ordinamento internazionale, e sarebbe soggetto alle regole di
soluzione dei conflitti tipiche di esso; d’altro lato, il trattato istitutivo
è stato reso esecutivo negli ordinamenti degli Stati membri attra-
verso un meccanismo di tipo normativo che costituisce il fonda-
mento giuridico della sua osservanza. In questo ambito, l’ordina-
mento dell’Unione troverebbe quindi limite nelle potenzialità
giuridiche dell’atto che ne assiste l’attuazione.
A queste prospettive, tuttavia se ne aggiunge una ulteriore.
Secondo una visione accolta dalla giurisprudenza della Corte di
giustizia ( ), infatti, l’accordo originario costituirebbe solo il fonda-
6
mento storico di un ordinamento che si sarebbe successivamente
affermato per forza propria, assorbendo cosı̀, in una prospettiva
federalista, gli ordinamenti degli Stati membri. Nei confronti di essi,
quindi, l’ordinamento dell’Unione costituirebbe un ordinamento di
carattere originario, e detterebbe proprie regole di conflitto atte a
sostituire quelle di diritto internazionale o quelle del diritto interno
degli Stati ( ).
7
Ora, il fatto è che ciascuna di tali prospettive è dotata di una sua
validità, e la questione del carattere originario o derivato dell’ordi-
namento dell’Unione sembra quindi una tipica questione priva di
significato giuridico, che cioè non ammette una soluzione univoca.
Peraltro, mentre ciascun ordinamento, quello dell’ordinamento del-
l’Unione e quello degli Stati membri, rivendicano un proprio potere
di determinare autonomamente la soluzione dei conflitti di sovra-
( ) Si veda, fra le prime, la celebre sentenza Van Gend en Loos, 5 febbraio 1963,
6
causa 26/62, in Racc., 1963, p. 1 ss.
) Questa ricostruzione non è peraltro una novità nel panorama del pensiero
( 7
scientifico intorno al carattere originario degli ordinamenti federali. Questi indubbia-
mente, qualora formati a seguito di un processo di aggregazione di Stati in precedenza
sovrani, traggono la propria origine da un accordo fra Stati sovrani, e non costituireb-
bero mai, in senso storico, ordinamenti originari. Di qui l’idea, che si è sviluppata già in
relazione al processo di aggregazione federale degli Stati tedeschi nella metà del XIX
secolo, che l’atto istitutivo costituisce solo in senso storico il fondamento giuridico del
nuovo ordinamento, che si sarebbe da esso sviluppato per forza propria, affrancandosi
, Das Staatsrecht des
quindi dalla volontà dei suoi fondatori. Cfr., ad esempio, Z ORN
deutschen Reiches, Berlin, Guttentag Verlagsbuchhandlung, 1895, p. 72 s.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
250 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
nità, e con ciò affermano quindi la propria originarietà, d’altra parte,
essi si presuppongono reciprocamente ed ammettono anzi un intrec-
cio delle proprie dinamiche normative ed una ricostruzione giuridi-
camente unitaria delle rispettive vicende. Essi non appaiono quindi
né ordinamenti pienamente autonomi né ordinamenti pienamente
integrati. Inoltre, il loro rapporto appare singolarmente rovesciato
rispetto a quello tipico di un ordinamento composto, nel quale i
singoli ordinamenti godono di autonomia nell’ambito di sfere di
competenza predeterminate dall’ente sovrano. Questo afferma la
propria sovranità proprio attraverso il potere di determinare auto-
ritativamente, e di tutelare attraverso propri meccanismi di garanzia,
l’ampiezza delle sfere di competenza di ciascun ente.
La definizione dell’ordinamento dell’Unione europea come or-
dinamento pluralista appare quindi assai singolare nella esperienza
giuridica contemporanea, nell’ambito della quale il concetto di
pluralismo viene solitamente impiegato al fine di definire rapporti
giuridici fra ordinamenti e non già rapporti giuridici all’interno di un
ordinamento.
3. Il monismo giuridico e la questione della sovranità.
Nell’evoluzione del pensiero giuridico, l’idea di un ordinamento
pluralista nel senso delineato sopra sembra assolutamente nuova.
Inutilmente se ne cercherebbe menzione in quella sintesi del pen-
siero pluralista tracciata da Santi Romano nel saggio su “L’ordina-
mento giuridico” ( ), ambiziosamente dedicato a classificare in ma-
8
niera analitica i vari possibili nessi che si possono stabilire fra un
ordinamento generale e i vari ordinamenti parziali che lo compon-
gono.
Il fatto è che, nel pensiero giuridico contemporaneo, il carattere
monista di un ordinamento giuridico assume valore dogmatico. Un
ordinamento è necessariamente monista nel senso che esso definisce
l’unica prospettiva giuridica nella quale trovano soluzione i conflitti
fra le singole norme di esso. E ciò, si badi, vale sia per gli ordina-
menti “semplici”, che, a maggior ragione, per gli ordinamenti “com-
posti”. Anzi, la definizione di ordinamento composto è possibile
a
( ) L’ordinamento giuridico, 2 ed., Firenze, Sansoni, 1946.
8 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 251
ENZO CANNIZZARO
logicamente solo a patto che tutti gli ordinamenti che concorrono
alla sua formazione ammettano una soluzione univoca dei conflitti
interordinamentali, generalmente quella che assicura priorità alle
norme e alle procedure dettate dagli ordinamenti centrali.
Questo concetto sembra espresso nella nozione di sovranità
intesa in senso normativo, come unitarietà concettuale di un ordi-
).
namento (
9
Intesa in questo senso, la nozione di sovranità rischia tuttavia di
smarrire la sua utilità in un ordinamento, quale quello europeo, che
si connota appunto per l’assenza di unitarietà concettuale, e per la
mancanza di un organo dotato del potere di determinare autorita-
tivamente la sfera di competenza di ciascuna istituzione dell’ordina-
mento e, per questa via, di assicurare una soluzione univoca dei
conflitti giuridici.
Questa conclusione induce quindi a chiedersi se effettivamente
il concetto di sovranità sia necessariamente legato all’idea dell’uni-
tarietà concettuale degli ordinamenti statali; se cioè vi sia una
connessione necessaria fra Stato e ordinamento giuridico, tale che
non siano pensabili forme di organizzazione del potere politico al di
fuori del modello statalistico. La questione sarà esaminata, nel
presente scritto, in una dimensione prevalentemente logica. Ci si
chiederà, in altri termini, quali siano i motivi per i quali il concetto
di sovranità, sorto per indicare essenzialmente rapporti di tipo
politico, abbia vista trasformata la propria essenza concettuale fino
ad assumere un contenuto di tipo giuridico. Ci si chiederà quindi se
la nozione di sovranità normativa, intesa come unitarietà giuridica di
un ordinamento, sia una nozione di tipo formale, inerisca cioè
necessariamente all’esistenza di un determinato ordinamento, ov-
vero se si tratti di una nozione di tipo storico, se cioè la sovranità
( ) Il concetto è espresso, con consueta forza sintetica da Z , Das Staatsrecht
9 ORN
…, cit., p. 68: “Allerdings wird diese staatsrechtliche Konstruktion im letzen Ende
immer zu der Alternative: Staat oder nicht Staat gedrängt”. E immediatamente dopo:
„Die beiden Begriffe Bundesstaat und Staatenbund aber unterscheiden sich dadurch,
daß ersterer ein Staat ist, letzterer nicht, dass ersterer ein einheitliche Persönlichkeit,
letzterer ein Verein mehrerer Persönlichkeiten ist“. Sul processo che ha portato all’iden-
tificazione fra sovranità e personalità dello Stato e per una discussione delle conseguenze
, Lo Stato immaginario, Milano, Giuffrè, 1986,
teoriche di tale identificazione, cfr. C OSTA
p. 241 ss. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
252 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
abbia assunto carattere normativo nell’ambito di una determinata
esperienza giuridica ed allo scopo di soddisfare esigenze storica-
mente contingenti.
Non sarà invece trattato l’ulteriore questione di vedere in quale
senso invece la nozione di sovranità possa acquistare rilievo nell’am-
bito dell’ordinamento dell’Unione europea.
4. La trasformazione del concetto di sovranità: la sovranità istituzio-
nale.
Al di là di episodici riferimenti ad un concetto normativo di
sovranità, tale concetto viene consapevolmente affermato nel conte-
sto della più generale opera di teorizzazione dell’identità fra Stato e
ordinamento giuridico. Uno dei momenti emblematici di tale ope-
razione è certamente l’evoluzione del pensiero giuspubblicista che si
è sviluppata in Germania nella seconda parte del XIX secolo. Pur se
analoghi percorsi concettuali sono propri anche di altre tradizioni
giuridiche, non vi è dubbio che l’analisi relativa all’evoluzione
concettuale che ha accompagnato il sorgere del nuovo Stato federale
tedesco è quella che consente con maggior nitore di seguire la
trasformazione del contenuto del concetto di sovranità. Conviene
quindi seguire questa evoluzione, sia pure per grandi linee e senza
dare all’analisi un improprio significato storiografico, avendo cura di
segnalare le varie tappe nelle quali essa si è dipanata.
Nella sua dimensione classica, la sovranità, concepita in fun-
zione di assicurare carattere di originarietà e di autonomia agli Stati
nazionali nei confronti delle pretese universalistiche imperiali, ha
mantenuto una spiccata connotazione istituzionale. Si trattava
quindi di un concetto essenzialmente politico, che assicurava al
nuovo sovrano un affrancamento da forme di sudditanza nei con-
fronti dell’imperatore, e, a sua volta, assicurava un solido titolo di
supremazia nei confronti del mondo feudale. Utilizzando categorie
contemporanee, il concetto di sovranità è stato elaborato al fine di
monizzare il potere politico del sovrano rispetto al precedente
pluralismo istituzionale, sottraendolo a qualsiasi forma di interfe-
renza, sia dall’alto, dalle pretese universalistiche, che dal basso, dalle
pretese centrifughe di autonomia dei poteri feudali. Di conseguenza,
il concetto di sovranità, sorto per descrivere l’assolutezza e la
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 253
ENZO CANNIZZARO
supremazia del potere regio, vedeva le sue vicende legate per secoli
a quelle della monarchia assoluta.
Questa origine storica del concetto di sovranità spiega perché da
esso rimaneva estraneo il diverso concetto di monismo normativo.
Vi sono per lo meno due spiegazioni per ciò: innanzitutto, nell’am-
bito delle prime monarchie assolute ciò che conta è assicurare al
sovrano il predominio politico, e non anche il monopolio della
produzione normativa. Per un certo tempo, infatti, la sovranità
istituzionale del sovrano convisse pacificamente con il pluralismo
normativo che caratterizzava i rapporti giuridici nella società da esso
). Ma anche quando l’assolutismo regio finı̀ con l’assor-
governata ( 10
bire la funzione di produzione giuridica, mai peraltro compiuta-
mente, l’esigenza di una nozione che indicasse distintamente l’uni-
tarietà dell’ordinamento giuridico non venne avvertita. Ciò per la
semplice ragione che la nozione di sovranità istituzionale, con la
caratteristica di onnicomprensività ed illimitatezza che vi era insita,
finiva con l’assorbire completamente ogni altro aspetto. Nell’ambito
di un’organizzazione statale priva di una interna articolazione di
poteri, quindi, la nozione di sovranità continuò ad essere una
nozione propria del pensiero politico, identificata con la pienezza,
l’illimitatezza, l’unitarietà concettuale del potere.
5. Segue. La separazione dei poteri e la questione della sovranità
normativa.
La prima grande sfida alla nozione di sovranità, e l’esigenza di
una distinzione concettuale fra la dimensione istituzionale e quella
normativa, è venuta quindi con il processo di dissoluzione del potere
assoluto del sovrano e con la distribuzione delle funzioni statali fra
più organi o enti di governo, ciascuno dotato di una propria
autonomia costituzionale. È questo il momento in cui si avverte
( ) Alla ricostruzione del pluralismo normativo medievale appare dedicata nella
10 , L’ordine giuridico medievale, Bari-Roma, Laterza, 1995;
sua interezza l’opera di G ROSSI , Civitas, Storia della
si veda specialmente a p. 223 ss. Su questi temi, cfr. inoltre C OSTA
e M , Storia del diritto
cittadinanza in Europa, Bari-Roma, Laterza, vol. I; S ORDI ANNORI
, Il privilegio dell’immunità, Milano,
amministrativo, Bari-Roma, Laterza, 2001; L ATINI
Giuffrè, 2001. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
254 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
l’esigenza di assicurare, al di là della distribuzione dei poteri, un
momento di sintesi nella gestione del potere politico che eviti una
frantumazione dell’unitarietà concettuale dello Stato.
Questo processo di trasformazione, peraltro ha assunto una
connotazione diversa nell’ambito delle varie tradizioni giuridiche. In
Francia e negli Stati Uniti la dottrina prospettò inizialmente una
concezione pluralista della sovranità, in relazione al processo di
distribuzione dei poteri, a favore di una pluralità di organi o livelli
di governo, nel senso di considerare titolare di poteri sovrani ciascun
organo statale, per poi tuttavia immediatamente passare ad identi-
ficare l’essenza della sovranità non nell’esercizio di singoli poteri, ma
nella sintesi del potere politico. Di qui l’idea, sopravvissuta fino ai
giorni nostri, che i singoli poteri vengono esercitati dagli organi che
ne sono titolari non in nome proprio, ma nel nome del popolo o
).
dell’unità personificata che fa capo allo Stato (
11
Una diversa e più marcata connotazione normativa ha invece
caratterizzato l’evoluzione del pensiero che ha accompagnato il
processo di aggregazione federale in Germania. Possiamo, per co-
modità espositiva, riconoscere tre diverse fasi. Una prima è rappre-
sentata dal riconoscimento dell’esistenza di sfere di competenza
costituzionalmente garantite come l’affermazione di un modello di
sovranità ripartita. Una seconda che tende ad affermare che non la
competenza, ma la competenza a determinare l’ampiezza delle ri-
spettive sfere di competenza distribuite ai vari organi o livelli di
governo, rappresenta l’essenza della sovranità. Una terza che, attra-
verso un processo ulteriore di astrazione, tende a considerare l’ar-
ticolazione delle competenze come una modalità del potere di
autodeterminazione dell’ordinamento giuridico, potere nel quale,
finalmente, verrebbe identificata la sovranità concepita come capa-
cità giuridica illimitata.
Di tale evoluzione concettuale, e dei suoi riflessi nella giuspub-
blicistica tedesca fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo,
conviene allora dar conto, sia pure per cenni sintetici, e con l’avver-
( ) Si veda, per tutti, la celebre affermazione di Madison contenuta nel Federa-
11
lista no. 46, (1787/88), “The federal and state Governments are in fact but different
agents and trustees of the people, instituted with different powers, and designated for
different purposes”.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 255
ENZO CANNIZZARO
tenza che essa, come sovente accade, non ha proceduto per via
lineare, ma attraverso un tortuoso percorso nel quale si possono
scorgere ravvedimenti e fughe in avanti, sul quale hanno pesato i dati
istituzionali e politici, e, non ultima, la profondità di pensiero dei
principali protagonisti.
6. Sovranità normativa e competenza normativa.
La dottrina tedesca perveniva ben presto ad una concezione
della sovranità ripartita nell’humus culturale dell’incipiente norma-
tivismo e pressata dalle esigenza storica di inquadrare nella dottrina
della sovranità il fenomeno di aggregazione su base federale.
In questo senso, il processo di aggregazione federale venne
inteso da Waitz, il quale appunto identificando sovranità e potere
assoluto, pervenne ad una concezione di sovranità divisa come
effetto dell’esistenza di una pluralità di sfere di competenza assoluta,
costituzionalmente garantita, nell’ambito dello Stato.
Nella sua opera Grundzüge der Politik, apparsa nel 1862, egli
espose questa teoria partendo dall’osservazione che “(f)ür den Bun-
desstaat wird also zunächst erfordert, daß ein bestimmter Theil des
staatlichen Lebens gemeinsam, ein anderer ebenso bestimmter den
einzelnen Gliedern überlassen ist”. Ricavandone da ciò la conclu-
sione che “jeder Theil auch für sich wirklich Staat ist. Im Staaten-
bund ist es die Gesamtheit nicht, im Staatenreich find es die Glieder
).
nicht; im Bundesstaat müssen es beide sein” ( 12
Il passo logicamente successivo è poi quello di dimostrare che le
due sfere di competenza godono di autonomia. “Es ist aber für jeder
Staat ein erstes Erfordernis, daß er selbständig sei, unabhängig von
). Waitz esclude quindi che
jeder ihm selbst fremden Gewalt” ( 13
l’organo centrale goda di questo requisito nella confederazione di
Stati, in quanto il suo potere deriva essenzialmente dall’accordo fra
i suoi membri: “Der Staatenbund ist ..niemals selber als ein Staat zu
( ) Grundzüge der Politik, Kiel, Ernst Homan Verlag, 1862, p. 164. Per un
12
inquadramento storico della teoria della sovranità ripartita, nonché per una critica di
, Allgemeine Staatslehre,
essa alla luce della insorgente dottrina normativista, v. R EHM
Freiburg, Mohr, 1899, p. 62 ss.
) Ibid., p. 165.
( 13 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
256 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
betrachten; den wie weit auch seine Competenz gezogen werde oder
wie Groß das Recht seiner leitenden Gewalt sei, das Maß und der
Grund derselben liegt in der Vereinbarung der Staaten, und in der
Uebertragung bestimmter Befugnisse, welche diese vorneh-
). Riguardo agli Stati federali tuttavia varrebbe un diverso
men” ( 14
principio. “Eine solche Uebertragung oder richtiger ein Aufgeben
bestimmter Rechte kann auch bei dem Bundesstaat seiner ersten
Begründung vorangehen. … Das ist aber nur ein einzelner histori-
scher Act, ganz verschieden von jener Begründung der staatenbun-
dlichen Gewalt, welche immer nur auf dem Grunde der Delegation
oder Bevollmächtigung beruht und sein eignes selbständiges Recht
).
in sich trägt” ( 15
Con indubbia modernità, quindi, Waitz concepisce lo stato
federale come autonomo ed originario, che si distacca dall’atto
istitutivo attraverso un processo di autoaffermazione. D’altra parte,
egli concepisce anche i singoli Stati come autonomi e originari:
“dieser darf ebensowenig seine Berechtigung von jenem empfangen,
wie umgekehrt der Gesammtstaat nicht erst in der Bereinigung der
Einzelstaaten die Wurzel und der Grund seiner Existenz findet”.
La reciproca autonomia giuridica delle due categorie di enti
comporta quindi una frammentazione della sovranità: “die Thäti-
gkeit, welche die Einheitsstaat ganz und ungetheilt umfaßt, ist hier
gewissermaßen gespalten; für jeden Theil giebt es eine besondere
Organisation, jeder von beiden hat eine besondere Sphäre, aber
innerhalb dieser Sphäre ist der eine so selbständig wie der andere.
Im Bundesstaat hat der Gesammtstaat und der Einzelstaat jeder ein
geringeres Gebiet als der Einheitsstaat, aber, innerhalb seines Be-
reichs ist das Recht weder des einen noch des andern schlechter als
das des letztern. Man kann diese Selbständigkeit mit einem in der
).
Politik übliche Namen nicht unpassend Souveränität nennen” (
16
Secondo Waitz dunque lo Stato federale, e la distribuzione di
competenze che in esso si realizza, rappresenta l’esempio migliore di
sovranità divisa, la cui somma ricostituisce la unitarietà dei poteri
sovrani: “nur da ist ein Bundesstaat vorhanden, wo die Souveränität
( ) Ibid.
14 ) Ibid.
( 15 ) Ibid., p. 166.
( 16 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 257
ENZO CANNIZZARO
nicht dem einen und nicht dem andern, sondern beiden, dem
Gesammtstaat (der Centralgewalt) und dem Einzelstaat (der Ein-
). Di
zelstaatsgewalt), jedem innerhalb seiner Sphäre, zusteht” ( 17
conseguenza, Waitz espressamente indica come la sintesi della so-
vranità coincida con la somma dei poteri assegnati a ciascuna delle
sue parti. Non vi è invece in Waitz alcun riferimento alla necessità di
concepire regole di soluzione dei conflitti di competenza. Ciò in
quanto per egli la sovranità risiede proprio nella esistenza di sfere di
competenza costituzionalmente garantite.
Riferimenti al criterio della competenza come elemento per
affermare la coesistenza di più sfere di sovranità ripartite non
mancano nelle più tarde ricostruzioni, le quali tuttavia non hanno
certo la nettezza della concezione waitziana, e paiono semmai costi-
tuire un ponte fra questa e le dottrine che tendono a ricostruire
l’unitarietà concettuale della sovranità.
Fra queste, conviene ricordare la teoria della sovranità relativa,
). Meyer parte da una rigorosa con-
sviluppata da Georg Meyer (
18
cezione normativa della sovranità: “Die Einführung Konstitutionel-
ler Verfassungen hat den Gedanken von der Schrankenlosigkeit des
Herrschers beseitigt… Durch die weitere Ausbildung der juristi-
schen Lehre von Staat sind die Personen des Staates und des
Herrschers schärfer voneinanderer geschieden worden”, per conclu-
dere tuttavia nel senso dell’esistenza di più sfere di competenza
normativa che si limitano reciprocamente, e non abbisognano quindi
di una norma di soluzione dei conflitti: “Souveränität ist auch
innerhalb eines beschränkten Bereiches und ohne Kompetenz-Kom-
petenz denkbar. Zur Souveränität eines Gemeinwesens wird nur
erfordert, daß die demselben zustehenden Kompetenz ihm ohne
seinen Willen nicht entzogen werden dürfen”. Meyer si avvicina cosı̀
all’idea che ogni titolare di potere costituzionalmente autonomo
sarebbe portatore di una sovranità parziale.
In un ordine di idee parzialmente analogo, Bluntschili, signifi-
cativamente, rigetta l’idea che la separazione dei poteri dia origine a
( ) Ibid.
17 ) Lehrbuch des Deutschen Staatsrechtes, Vierte Auflage, Leipzig, Duncker und
( 18
Humblot, 1895, p. 15 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
258 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
sfere di sovranità divisa, ma ammette che, invece, in una federazione
di Stati coesista una pluralità di entità parzialmente sovrane ( ).
19
Impropriamente tuttavia si vedrebbe in Bluntschli un epigono
delle teorie della sovranità divisa. In effetti, Bluntschli afferma
espressamente che la sovranità non appartiene né al sovrano né al
popolo, ma all’organizzazione giuridica del popolo, e cioè al potere
costituente. È solo l’esistenza di forme accentuate di autonomia in
Stati composti che induce Bluntschli ad ammettere la coesistenza di
enti sovrani nell’ambito di una forma composta di organizzazione
(melius) di divisione del potere politico.
7. La sovranità normativa come capacità di produzione giuridica.
L’identificazione della sovranità con la competenza doveva
avere come conseguenza che l’identificazione della sintesi della
sovranità, ed il rigetto quindi delle dottrine della sovranità divisa,
comportava la necessità di procedere per astrazione, ma sempre in
termini normativi. Non bastava più, in altre parole, per superare il
dilemma della sovranità divisa, l’affermazione che la sovranità ap-
partiene allo Stato o al popolo. Tale affermazione è destinata a
rimanere priva di significato qualora non vi si accompagni l’indivi-
duazione di un organo o di un processo atto a risolvere i conflitti di
competenza sul piano normativo. Tale individuazione esigeva,
quindi, una mutazione concettuale della nozione di sovranità, che
imputasse all’ordinamento giuridico il compito di dettare le regole di
soluzione dei conflitti, in maniera quindi da assicurare attraverso un
meccanismo normativo quell’unitarietà concettuale che non era
assicurata altrimenti dall’esistenza di una pluralità di enti dotati di
competenze. Occorreva allora por mano di nuovo al concetto di
sovranità e dimostrare che l’esistenza di sfere di competenza riser-
vate non si traduceva, come nel vecchio ordine medievale, nella
pretesa di assolutezza e nella libertà da vincoli. Occorreva allora
dimostrare il monismo dell’ordinamento non solo dal punto di vista
strutturale dell’unità istituzionale, ma anche, e soprattutto, ora che
quell’unità istituzionale non c’era più, dal punto di vista normativo.
( ) Lehre vom modernen Staat, Stuttgard 1886, Neudruck, Scientia Verlag,
19
Aalen, 1965, I, p. 563 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 259
ENZO CANNIZZARO
Quest’opera, che ha contribuito ad una radicale trasformazione
delle categorie giuridiche del diritto pubblico dell’epoca, è stata
essenzialmente compiuta dalla giuspubblicistica tedesca successiva
all’istituzione dell’impero su base federale. Da essi venne affermata
senza reticenze l’idea che il vero sovrano non è il re né il popolo né
alcun altro ente, ma l’ordinamento obiettivo, il quale si esprime in
regole di attribuzione del potere e di soluzione dei conflitti che ne
derivano, con pretesa di esclusività e di validità per tutto la sfera dei
rapporti da esso regolata.
In questa fase storica si assiste quindi alla inversione del rap-
porto fra potere politico e diritto, e all’affermazione che, se il potere
politico crea diritto allo stato iniziale, è poi l’ordinamento giuridico
a dettare le regole per l’ordinato svolgimento di esso. Di questo
processo concettuale, la sovranità ne accompagna l’evoluzione e si
adegua assumendo una dimensione ormai consapevolmente norma-
tiva. La sovranità diviene quindi lo strumento di affermazione del
monismo giuridico statale.
Fra i più radicali difensori della necessità di unificare l’ordina-
mento giuridico e di imputare ad esso la titolarità della sovranità vi
è Zorn. Coerentemente con la sua rigorosa visione monista dell’espe-
rienza giuridica, Zorn approda ben presto ad una concezione uni-
taria della sovranità come insieme delle norme che disciplinano
l’esercizio del potere politico dello Stato.
La critica di Zorn alla teoria della sovranità divisa poggia su due
argomenti. Il primo prevalentemente istituzionale:
“Souveränität ist höchste Gewalt. (Es ist nicht) begrifflich mö-
glich, daß die Souveränität geteilt werde, denn in diesem Falle wäre
eben keine höchste Gewalt vorhanden” ( ).
20
La seconda linea argomentativa è più propriamente normativa.
Essa procede dalla distinzione di Jellinek fra Bundesstaat e Staa-
tenbund, per affermare che, nella seconda categoria, la sovranità
appartiene interamente all’ente centrale: “(geht) die Einzelsouve-
ränität als solche unter und existiert Staatsrechtlich nur mehr als
Bestandteil der in der Centralgewalt ruhenden Gesamt Souveräni-
tät. Sobald der Verzicht auf die Einzelsouveränität durch Aufri-
chtung der Centralgewalt praktisch geworden ist, ist die etwa
( ) Das Staatsrecht des deutschen Reiches, cit., p. 65.
20 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
260 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
vorher eingegangene vertragsmäßige, auf jenen Verzicht gerichtete
Verpflichtung erfüllt, der Vertrag existiert nur mehr historisch, hat
). D’altra
aber keinen aktuellen juristischen Inhalt mehr…” (
21
parte, “Es kann folglich im Bundesstaat von Erfüllung oder Ver-
letzung der Verträge, Austritt aus dem Bund wegen Nichterfüllung
von Vertragspflichten, Auslösung des Bundesvertrages juristisch
keine Rede sein: der Vertrag kann nicht ausgelöst werden, denn er
existiert überhaupt nicht mehr”. Per concludere: “alle Streitigkei-
ten werden in inappellabler Weise von den geordneten höchsten
Instanzen der centralen Staatsgewalt entschieden, die zur Dur-
chführung ihrer Entscheidungen mit allen Mitteln staatsrechtlichen
).
Zwanges ausgestattet ist” ( 22
Del tutto coerentemente con tale premessa, Zorn può quindi
finalmente concludere: “Die Souveranetät findet ihren prägnante-
sten Ausbruch in der Setzung des Rechtes … Der das Recht setzt, ist
)”. Con ciò, Zorn suggella definitiva-
Inhaber des Souveranetät (
23
mente la sua concezione della assoluta identità fra diritto e sovranità.
Se questo appare comune anche ad altri autori, quel che pare
peculiare in Zorn è la franca affermazione del carattere solo storico
della trasmissione di sovranità da parte dei singoli Stati all’Unione.
Un punto che rimane peraltro problematico nella dottrina di Zorn è
che in questa non sembra esservi posto per sfere autonome di
competenza. Se cioè la sovranità coincide con il potere di produ-
zione di norme, e, quindi, con il potere di modificare l’ordinamento
giuridico, non sembra residuare uno spazio significativo per la
differenza concettuale fra Stato unitario e Stato federale. Anche
nell’ambito delle esperienze di tipo federale, infatti, la coincidenza
fra sovranità e diritto travolge potenzialmente ogni forma di com-
petenza costituzionalmente riservata. Questa conseguenza del mo-
nismo estremo nella concezione zorniana dell’ordinamento giuridico
fa di essa la opposizione ideale al concetto di pluralismo che ha
).
ispirato la dottrina precedente (
24
( ) Ibid., p. 72.
21 ) Ibid., p. 75.
( 22 ) Ibid., p. 76.
( 23 ) Con indubbia modernità, Zorn definisce le due conseguenze della propria
( 24
teoria applicata ai rapporti fra ente federale e Stati membri:
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 261
ENZO CANNIZZARO
Si può pensare che l’affermazione di un concetto normativo di
sovranità sia stato agevolato in Zorn dalla sua generale concezione
monista dell’esperienza giuridica, nella quale quindi una divisione di
sovranità è inconcepibile cosı̀ come è inconcepibile una contraddi-
zione fra proposizioni giuridiche ( ). Peraltro, le due premesse dalle
25
quali egli muove, quella riguardante il carattere monista dell’espe-
rienza giuridica interna rispetto a quella internazionale, e la conce-
zione normativa della sovranità non appaiono facilmente conciliabili
a meno di non pervenire ad una sorta di monismo a prevalenza del
diritto interno, alla quale peraltro Zorn, pur evidenziando una certa
contiguità, non arrivò mai espressamente.
8. La sovranità come norma di soluzione dei conflitti.
Questa ambiguità appare invece completamente scomparsa nel
sistema concettuale sviluppato da Hänel, Laband e Jellinek. È in
questa fase che si concepisce espressamente la sovranità non più
come diritto o come il potere di produrlo, ma come il potere di
stabilire regole per la soluzione delle sue antinomie.
Hänel, pur riconoscendo la coerenza sul piano logico della
dottrina federalista della sovranità divisa, finiva tuttavia con l’affer-
marne l’impossibilità pratica di attuarla attraverso una rinuncia ad
una regola o ad un procedimento di soluzione dei conflitti di
competenza: “Die Annahme ist ein Irrtum, als ob aus dem abstrak-
ten Begriffe Herrschaft und dem abstrakten Prädikate des ‘höch-
sten’, ‘suveränen’, die Unmöglichkeit logisch gefolgert werden
I. “Bundesrecht bricht Landesrecht: bei Widerspruch zwischen dem von der
Centralgewalt gesetzten Recht jeden Grades und dem von den Einzelstaaten gesetzten
geht das erstere unbedingt vor.
II. Die Centralgewalt steht sowohl den Einzelstaaten als den sämtlichen Staatsan-
gehörigen herrschend gegenüber: sie bedarf für ihre Rechtssätze keiner Vermittlung der
Einzelstaaten, kann jedoch mit Durchführung derselben die letzteren jederzeit und in
jedem Umfang betrauen” (Ibid., p. 86).
Difficile non scorgere analogie con la dottrina del primato e della diretta applica-
bilità oggi applicata nell’ordinamento dell’Unione europea. Solo che, nella particolare
sistemazione teorica dell’esperienza giuridica federale data da Zorn tali elementi sono
corollari inscindibili dal principio di sovranità.
) Concezione espressa in particolare nell’opera Die Deutschen Staatsverträge, in
(
25
Z. Staatsw., 1880, p. 1 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
262 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
könnte, daß zwei souveräne Herrschaften auf demselben Territor
und für dieselbe Volksgemeinschaft nebeneinander bestehen könn-
ten. In abstrakter Betrachtung läßt sich ohne jeden Widerspruch
eine vollkommene sachliche Trennung der Aufgabe und damit des
Wirkungskreises zweier Gemeinwesen denken und für jedes dieser
Gemeinwesen die Selbstgenugsamkeit, die Ausstattung mit allen für
seine Aufgabe notwendigen und darum innerhalb seines Wirkungs-
kreises höchsten Rechts- und Machtmitteln. Die formale Logik kann
der Bundesstaatstheorie der federalisten, Tocquevilles, Waitz’ und
deren Schule nicht entgegengestellt werden. Das, was dieser Theorie
allein entgegengestellt werden kann, ist der doppelte Nachweis, daß
ihre Auffassung mit der realen Natur, mit den konkreten Aufgaben
des Staates, wie sie der Einheitsstaat aufweist, unvereinbar sei, daß
mithin, wenn der Bundesstaat einen solchen Parallelismus aufwiese,
der Bund und die Einzelstaaten Staaten dem vollem Begriffe nach
nicht sein könnten, sowie daß das positive Recht des Bundesstaates
). Egli per-
die Auffassung der Waitzschen Schule zurückweist” ( 26
veniva quindi alla sua nota concezione secondo la quale non solo
l’ente federale o gli enti federati costituirebbero Stato, bensı̀ l’unione
organica fra di loro, nella quale, tuttavia, solo al primo spetterebbe
la sovranità in quanto dotato del potere di conformare la sfera di
competenza dei secondi: “Die auf dieser Grundlage herrschende
Auffassung erkennt es allerdings als in der Natur des Bundesstaates
und im positiven Rechte begründet an, daß die Einzelstaaten als
solche in einem mannigfachen Abhängigkeitsverhältnis und in viel-
seitiger Wechselwirkung mit der Centralgewalt stehen, daß sie aus
dem Gesichtspunkte einer Betrachtung des Staates als einer objek-
tiven Institution wie die beiden sich ergänzenden Hälften eines
). E, più avanti, “Mit der Kompe-
Staatswesens sich verhalten” (
27
tenz-Kompetenz ist dem Reiche die höchste und umfassendste
Gewalt gegeben, die von ihm auf Grund der Verfassung ausgesagt
werden kann Sie schließt den Kreis der Befugnisse ab, die den Inhalt
der Reichsgewalt ausmachen. Sie gibt von Standpunkt der Kompe-
tenz aus die letzte Entscheidung, ob und in welchem Sinne das
( ) Deutsches Staatsrecht, I, Leipzig, Duncker und Humblot, 1892, p. 803 ss.
26 ) Ibid., cit., p. 63.
( 27 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 263
ENZO CANNIZZARO
wissenschaftliche Recht besteht, das deutsche Reich als Gesamtheit
).
und in seinen Gliedern als Staat zu behaupten” (
28
Hänel conclude quindi: “Aufgabe des Reiches kraft seiner
Kompetenz-Kompetenz ist es, der oberste Wächter und Bürge dafür
zu sein, daß den Anforderungen der Nation an den Staat, von deren
Erfüllung seine geistige und wirtschaftliche Kultur abhängt, volles
Genüge geschehe und demgemäß auch der Wirkungskreis der
).
Einzelstaaten sich gestalte” ( 29
È nota la critica portata da Laband nei confronti di questa
dottrina, della quale pure egli sembra condividere la soluzione.
Secondo Laband, la concezione organicistica dello Stato finisce con
il ridurre l’autonomia degli enti federali alla stregua di altri organi
dello Stato centrale ( ).
30
Laband sviluppa quindi una diversa concezione del rapporto fra
Stato e sovranità, partendo dalla riformulazione della dottrina della
sovranità come competenza normativa, per quindi affermare che non
nell’esistenza di una forma di competenza normativa autonoma, né nel
sistema organizzato delle competenze e funzioni dello Stato, bensı̀
nella competenza della competenza risiede l’essenza della sovranità.
In riferimento alla concezione waitziana, Laband osserva quindi
che “(e)benso ist es eine Chimäre, die Kompetenz der Gesamtstaa-
tsgewalt in der Art von der Kompetenz der Einzelstaatsgewalt
abgrenzen zu wollen, daß kein Gebiet übrig bleibt, für welches es
zweifelhaft ist, welcher Staatsgewalt die Kompetenz zusteht und daß
die Abgrenzung für alle Zeit unabänderlich dieselbe bleibt. Es
entsteht also auch hier die Frage, wer hat den Zweifel über die
( ) Ibid., p. 793.
28 ) Ibid., p. 797.
( 29 ) “… auch der Gliedstaat wichtige und umfassende staatliche Aufgabe zu
( 30
erfüllen und zu diesem Zweck kraft eigenen Recht obrigkeitliche Herrschaftsbefugnisse
seinen Untertanen gegenüber hat, so sind allerdings beide, sowohl der Bundesstaat als
der Gliedstaat ‘in ihrer Sonderstellung betrachtet’ Staaten; nur daß die Gliedstaaten
nicht souverän, sondern dem Bundesstaat unterworfen sind. Wenn man dagegen beide
zusammen nur als den Staat gelten lassen will, wenn man im Bundesstaat einen
Gesamtorganismus erblickt, in welchem bestimmte Funktionen den Einzelstaaten zu-
gewiesen sind, so geht der begriffliche Unterschied zwischen dem Bundesstaat und dem
dezentralisierten Einheitsstaat verloren und es erscheinen die Einzelstaaten als Einri-
chtungen des Bundesstaat, als Teile seiner Organisation” (Das Staatsrecht des deutschen
a ed., Tübingen, 1911, Neudruck, Scientia Verlag, Aalen, 1964, p. 82).
Reiches, 5 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
264 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Kompetenzgrenze zu entscheiden und wer hat über eine Verände-
rung der Kompetenz zu befinden. Weisen die Einzelstaaten durch
ihren Willen dem Bunde die Grenzen seiner staatlichen Befugnisse
zu oder empfangen sie umgekehrt von der Zentralgewalt die rechtli-
che Begrenzung ihrer Willenssphäre? Nur eines von beiden ist
möglich und die Beantwortung der Frage enthält zugleich die
Entscheidung, wer souverän ist, die Zentralgewalt oder der Ein-
). Sarebbe difficile immaginare una più chiara percezione
zelstaat” (
31 ).
della sovranità come regola di soluzione dei conflitti ( 32
9. La sovranità normativa come autodeterminazione dell’ordina-
mento giuridico.
Compimento teorico di questa evoluzione, e sintesi dell’unifica-
zione concettuale della sovranità interna e di quella internazionale
appare la dottrina delineata da Jellinek. Questi, che pure aveva
accolto inizialmente la concezione della sovranità come Kompetenz-
Kompetenz, ed aveva anzi contribuito in maniera assai accentuata a
svilupparne le conseguenze applicative, perveniva poi ad una nuova
nozione di sovranità, destinata, nei suoi intenti, a fornire la saldatura
fra attività normativa interna ed attività normativa esterna dello
Stato.
( ) Das Staatsrecht des deutschen Reiches, cit., p. 55 ss. Conviene notare come nel
31
sistema concettuale di Laband scompare ogni riferimento alla concezione istituzionale
della sovranità, considerata come un relitto dell’epoca precedente. Si veda, ad esempio,
la serrata critica alla dottrina di Preuß: “Neuerdings hat Preuß … die Verwendung der
Souveränitätsbegriffs, den er für die radix malorum der ganzen Wissenschaft des
öffentlichen Rechts hält, als fehlerhaft, wertlos und irreführend bezeichnet. Unter
Souveränität versteht er aber die schrankenlose Gewalt des absoluten Staates. Insoweit
ist seine Kampf ein Streit gegen Windmühlen; denn darüber sind alle einig, daß eine
derartige Gewalt nicht nur für den heutigen Staatsbegriff nicht wesentlich ist, sondern
überhaupt nicht verwirklicht werden kann” (ibid., p. 74, nota 1).
) L’identificazione della sovranità in un potere specifico, quello di dettare le
(
32
regole di soluzione dei conflitti, consente quindi a Laband di costruire i criteri di
attribuzione della sovranità secondo un meccanismo “a soglia (tutto o niente)”. Si veda
la critica, ammirabile per concisione, alla dottrina della sovranità relativa di Meyer ed
altri: “Der Versuch … den Gliedstaaten eine verminderte Souveränität beizulegen, ist
nicht zur lösung des Problems geeignet, da eine Verminderung der Souveränität eine
Negation derselben ist” (ibid., p. 58).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 265
ENZO CANNIZZARO
Nella sua più matura analisi della dinamica giuridica pubblici-
sta, Jellinek sottopone a critica la concezione della sovranità come
competenza della competenza partendo dall’assunto che, in questo
sistema concettuale, il potere politico è illimitato, mentre, dall’os-
servazione empirica egli deduce l’osservazione di come esso sia
limitato dall’ordinamento giuridico, che vincola bilateralmente sud-
diti e Stato. Nella esclusiva capacità dell’ordinamento giuridico di
porre i vincoli giuridici all’esercizio del potere politico Jellinek vede
quindi il carattere essenziale della sovranità: “Ausschließliche Ver-
pflichtbarkeit durch eigenen Willen ist das juristische Merkmal des
souveränen Staates. Souveränitet ist demnach die Eigenschaft eines
Staates, kraft welcher er nur durch eigenen Willen rechtlich gebun-
). Di conseguenza, la sovranità non equivale a
den werden kann” (
33
potere assoluto. Si tratta bensı̀ di un potere giuridicamente vincolato
nelle forme volute dall’ordinamento: “Aus dieser Definition folgen
logisch alle die Eigenschaften, in welchen entweder das Wesen der
Souveranetät gesucht wurde, oder sie ihren prägnantesten Ausdruck
finden soll. Es ergibt sich aus den festgestellten Begriffe, wie unsere
Entwicklung soeben gezeigt hat, dass die Souveränetät die höchste
und unabhängige Mach in sich schliesst. Es ergibt sich, dass der
Souveräne Staat innerhalb der im durch seine Natur gezogenen
Grenzen seine Competenzen feststellen kann. Es ergeben sich säm-
mtliche Hoheitsrechte, d.h. die oberste normierende Thätigkeit des
Staates nach allen Richtungen des staatlichen Lebens, als Conse-
quenz des Souveränetäsbegriffes. Es ergibt sich ferner aus demsel-
ben die Untheilbarkeit der Souveränetät; ein ausschließliches Recht
kann nicht getheilt werden, sonst wäre es eben nicht ausschließli-
ch.… Endlich ergibt sich die Ewigkeit der Souveränetät, denn es ist
).
keine Macht vorhanden, die ihr eine Befristung setzen könnte” ( 34
), questo concetto era poi precisato:
Nella sua Teoria generale ( 35
“Potere sovrano, adunque, non è onnipotenza statale: esso è una
forza giuridica e perciò vincolata dal diritto. Beninteso esso non
( ) Die Lehre von den Staatenverbindungen, Wien, 1882, Neudruck, Scientia
33
Verlag, Aalen, 1969, p. 34.
) Die Lehre…, cit., 34 s.p.
( 34 ) Allgemeine Staatslehre, trad. it., La dottrina generale del diritto dello Stato,
( 35
Milano, Giuffrè, 1949. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
266 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
tollera alcun limite giuridico assoluto. Lo Stato può liberarsi da
qualsiasi vincolo impostosi da se stesso, però soltanto nelle forme del
diritto e imponendosi nuovi limiti. Non i singoli limiti, la limitazione
è ciò che vi è di costante; e come non esiste lo Stato sovrano
assolutamente limitato, cosı̀ del pari non esiste giuridicamente lo
Stato sovrano assolutamente illimitato”.
La concezione di Jellinek appare straordinariamente moderna ai
). Nel configurare cosı̀ l’essenza della sovranità nella
nostri occhi (
36
capacità dello Stato secondo il suo proprio ordinamento giuridico,
Jellinek sembra relativizzare l’originaria assolutezza del concetto,
dissolvere il suo riferimento ad uno Stato ideale, e inquadrarla
nell’ambito di dinamiche ordinamentali concretamente presenti, in
un dato momento storico. La sovranità cessa quindi di avere un
contenuto immutabile nel tempo e in riferimento ai vari modelli di
Stato, per assumere contenuto variabile in relazione ai singoli ordi-
namenti statali. La concezione di Jellinek si colloca quindi in una
sfera di contiguità concettuale rispetto all’idea, più moderna, che la
sovranità coincida con il potere dello Stato di costituire e modificare
le regole di fondo del proprio ordinamento giuridico.
I rapporti fra la concezione di Jellinek e la classica concezione
labandiana sono del resto assai stretti; si può dire che la prima
comprende in sé la seconda, senza contraddirla: “sovranità è la
capacità di esclusiva autodeterminazione giuridica; e perciò soltanto
lo Stato sovrano, entro i limiti da esso stesso fissati o riconosciuti,
può regolare con assoluta libertà il contenuto della sua competenza.
Lo Stato non sovrano, invece, si determina del pari liberamento,
però solo in quanto si estende la sua sfera statale. Possibilità di
( ) Jellinek estende tuttavia questa nozione anche alla sovranità di diritto inter-
36
nazionale. Anzi, l’intera concezione di essa è stata occasionata proprio dall’osservazione
della unitarietà concettuale della sovranità in diritto interno e in diritto internazionale.
Peraltro egli non concepisce, in un quadro teorico moderno, la sovranità statale come la
capacità di avvalersi di tutte le posizioni soggettive di diritto internazionale. Egli non
riproduce cioè il concetto di sovranità elaborato rispetto all’ordinamento interno, alla
luce dell’esistenza di un diverso ordinamento nel quale lo Stato si realizza. Ma continua,
con la dottrina prevalente dell’epoca, a considerare il diritto internazionale come fondato
sull’autodeterminazione e sull’autobbligazione dello Stato, con la conseguenza che la
nozione di sovranità finirebbe, portata a conseguenza, con il negare l’esistenza stessa
dell’ordinamento internazionale.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 267
ENZO CANNIZZARO
determinarsi o di obbligarsi per sua volontà è la caratteristica di
qualsiasi autonomo potere di signoria: quindi anche allo Stato non
sovrano appartiene la potestà giuridica della sua competenza. Que-
sta potestà però, trova i suoi limiti nel diritto della comunità che gli
è sovrapposta. Di due Stati legati durevolmente fra di loro, quello
adunque che non può estendere, mediante la propria legge, la sua
competenza di diritto statale, ma incontra nell’ordinamento giuri-
dico statale dell’altro un limite all’accrescimento della propria com-
petenza, è lo stato non sovrano; mentre sovrano è quello che, per
mezzo della legge sua, può sottrarre all’altro delle competenze di
diritto statale” ( ).
37
10. La nozione normativa di sovranità in una prospettiva sistema-
tica.
L’identificazione della sovranità nelle regole di soluzione dei
conflitti, indicata qui indicata con la formula della sovranità norma-
tiva, non è quindi frutto di necessità logica. Essa si deve piuttosto
alla particolare evoluzione del pensiero giuridico, che abbiamo
seguito soprattutto in riferimento alla dottrina tedesca, nella seconda
metà del XIX secolo, in relazione al processo di aggregazione su
base federale dei vari Stati tedeschi. Tale processo induceva quindi
un profondo mutamento nelle categorie concettuali del diritto pub-
blico. Esso stabiliva infatti una ripartizione di competenze fra fede-
razione e Stati, e, quindi, determinava l’insorgere di un pluralismo
istituzionale in luogo della tradizionale concentrazione del potere
politico nelle mani del sovrano.
La trasformazione del concetto di sovranità è quindi avvenuta in
un processo simbiotico rispetto alla più generale tendenza dottri-
nale, orientata ormai decisamente in senso positivista verso l’identi-
ficazione dello Stato con il suo ordinamento giuridico e quindi con
la Costituzione che di esso costituisce il fondamento. L’essenza della
sovranità non poteva più essere identificata nel monopolio e nell’as-
solutezza del potere politico, dato che esso, per definizione, non
esisteva più. Di qui un progressivo processo tendente ad identificare
semmai la sovranità nelle regole dell’ordinamento atte a risolvere i
( ) Allgemeine Staatslehre, cit., p. 86.
37 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
268 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
conflitti fra poteri e, quindi, nel nuovo concetto di sovranità nor-
mativa.
Può apparire paradossale che la dottrina della sovranità norma-
tiva, imperniata su una rigida concezione monista dell’ordinamento
statale, abbia visto la luce contestualmente alla dottrina della plura-
lità degli ordinamenti giuridici, e, quindi, in parallelo rispetto all’af-
fermazione della separazione fra ordinamento interno e ordina-
mento internazionale. Si può rilevare, per accentuare l’apparente
paradosso, come alla affermazione della sovranità in senso norma-
tivo abbiano contribuito autori che hanno militato in campi diversi
quanto alla ricostruzione dei rapporti fra ordinamento interno e
ordinamento internazionale. Il paradosso si scioglie, tuttavia, se si
pensa che fra le due dottrine, quella della separazione fra ordina-
menti e quella della sovranità normativa, non vi è alcun contrasto.
Anzi, l’affermazione della sovranità normativa, e la contestuale
asserzione del carattere necessariamente monista dell’ordinamento
statuale, ha agevolato l’affermazione della separazione dell’ordina-
mento interno rispetto a quello internazionale. La precedente con-
cezione del monismo istituzionale, infatti, sancendo la concentra-
zione nelle mani del sovrano sia del potere normativo “verso
l’interno” che di quello “verso l’esterno”, finiva con il produrre una
saldatura fra ordinamento interno e ordinamento internazionale,
dato che il medesimo organo che aveva il potere di assumere
obblighi internazionali, era dotato egualmente del potere di modi-
ficare, in corrispondenza, l’ordinamento interno al fine di assicu-
). In questo senso, non vi è alcun contrasto fra
rarne l’attuazione ( 38
il monismo normativo affermato in riferimento all’ordinamento
interno, e il carattere di separazione, affermato rispetto all’ordina-
mento internazionale. Anzi, questi due aspetti si saldano in un unico
sistema concettuale che tende a “sigillare” l’ordinamento costituzio-
nale e a salvaguardarlo rispetto alle interferenze di altri ordinamenti.
In altri termini, il monismo normativo dell’ordinamento interno
serve proprio a tutelare l’insorgente pluralismo istituzionale, e ad
evitare che l’organo dotato del potere di assumere obblighi interna-
zionali potesse poi vincolare i comportamenti degli organi dotati del
( ) Sia consentito rinviare all’analisi contenuta nello studio Trattato internazio-
38
nale (adattamento al), in Enciclopedia del diritto, vol. XLIV, p. 1394 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 269
ENZO CANNIZZARO
potere normativo interno. Monismo dell’ordinamento statale e plu-
ralismo nei rapporti con l’ordinamento internazionale sembrano
quindi non solo compatibili, ma anzi, si configurano come due
articolazione di una unica prospettiva teorica.
È essenzialmente intorno a questo nuovo nucleo concettuale, rap-
presentato dal monismo dell’ordinamento statale, che i fondamenti
della natura giuridica dello Stato, e quindi il nuovo concetto della
sovranità in senso normativo, hanno trovato sistemazione teorica.
Contestuale alla definizione di una autonoma nozione di sovranità
normativa, infatti, è l’affermazione della natura statuale della federa-
zione, contrapposta alla confederazione, di natura convenzionale.
Nella federazione, e non nella confederazione, si realizzerebbe quel-
l’unicità della prospettiva giuridica che caratterizza l’organizzazione
dello Stato. Nella confederazione, invece, si avrebbe una pluralità di
ordinamenti, tutti egualmente dotati del potere di autodeterminare le
proprie regole di soluzione dei conflitti. La sfera di competenza della
confederazione, di conseguenza, non sarebbe autodeterminata, bensı̀
determinata dall’esterno, dalla comune volontà degli Stati membri. In
questa alternativa si riassumerebbe quindi l’alternativa posta rispetto
al problema della sovranità dalle forme composte di Stato: o si tratta
di uno Stato in senso proprio, dotato di sovranità e, quindi, capace di
determinare esso medesimo le regole di soluzione di conflitti che vi
insorgono all’interno, ovvero si tratta di un ente privo di statualità, in
quanto vi è presente una pluralità di prospettive giuridiche per la
soluzione dei conflitti, nessuna delle quali capace giuridicamente di
imporsi alle altre.
La visione dello Stato sovrano come ente provvisto necessaria-
mente di una prospettiva giuridica unitaria, come ente normativa-
mente monista, pur se istituzionalmente pluralista, ha proiettato la
propria influenza ben al di là della occasionale contingenza storica
che ne ha permesso la piena affermazione. Se si guarda infatti alle
moderne costituzioni statali, esse assumono a proprio presupposto,
talora affermato espressamente, talaltra taciuto, l’esistenza di un
). L’essenza
ordinamento giuridico concettualmente unitario ( 39
( ) Ed in questo ambito ricostruiscono la sovranità come norma tesa alla
39
soluzione dei conflitti non solo fra sfere di competenza, ma anche fra valori. È in questo
periodo che inizia ad affermarsi l’idea che la sovranità non è illimitatezza del potere
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
270 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
stessa della Costituzione si riassume, anzi, nel pensiero giuridico
moderno, nella fissazione delle regole di soluzione dei conflitti.
Attraverso la determinazione di procedure di legittimazione del
potere politico, di trasformazione dei conflitti politici in conflitti
giuridici, di processi di bilanciamento di interessi e valori dell’ordi-
namento, le moderne costituzioni statali sembrano provvedere alla
determinazione dell’unicità della prospettiva giuridica attraverso la
quale pervenire alla soluzione di conflitti.
11. Considerazioni conclusive.
Cosa si può trarre, in chiave contemporanea, da antiche dottrine
elaborate al fine di teorizzare l’unicità del potere statale in un
processo di aggregazione federale, quale quello occorso in Germania
sul finire del XIX secolo? In che senso esse rilevano rispetto ai
moderni processi di aggregazione su base sovranazionale, che deli-
neano un contesto culturale profondamente diverso?
Per rispondere a tale questione, occorre considerare che nel
processo di integrazione europea, come sovente accade, i mutamenti
istituzionali hanno preceduto l’evoluzione concettuale. Nel tentativo
di inquadrare i fenomeni di integrazione sovranazionale nell’ambito
delle categorie giuridiche dell’organizzazione del potere politico, la
dottrina si imbatte costantemente nel concetto di sovranità, e lo
intende, secondo tradizione, in senso normativo, come concetto che
simboleggia l’unitarietà concettuale dell’ordinamento giuridico. Di
qui lo smarrimento concettuale derivante dalla difficoltà di inqua-
drare in un quadro tradizionale la nuova esperienza giuridica del-
l’integrazione sovranazionale. La nostra analisi peraltro ci ha portato
a verificare come il concetto normativo di sovranità, che si riflette nel
carattere monista dell’ordinamento statale, ed ha assunto valore
dogmatico nella teoria dello Stato, sia emerso relativamente tardi
nell’esperienza giuridica ed al fine di reagire al pericolo di dissolu-
giuridico, ma entità concettualmente limitata dai diritti individuali. Si comincia quindi
ad affermare un concetto che sarà alla base del costituzionalismo del XX secolo: l’idea
che la sovranità non possa essere concepita come potere indipendente, ma trova invece
dei limiti, negativi o di scopo, nel rispetto di sfere giuridiche separate da essa, separate
cioè dal concetto di unità dell’ordinamento.
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ENZO CANNIZZARO
zione dell’unitarietà istituzionale del potere politico. Si tratta quindi
di una nozione non assoluta, ma profondamente influenzata dalla
contingenza storica, e dall’esigenza di approntare una reazione
teorica alla frammentazione del potere politico derivante dai pro-
cessi di separazione dei poteri e di articolazione del sistema statale su
più livelli di governo. Al caos concettuale che ne derivava, e alla
diluizione del monolitismo dello Stato assoluto veniva quindi posto
riparo con la ricerca di un monolitismo immaginario e con l’identi-
ficazione di un nuovo sovrano, costituito dall’ordinamento giuridico.
Collocate nel loro contesto, tali dottrine sembrano quindi di-
mostrare proprio che un ordinamento normativamente pluralista
non è logicamente inconcepibile. Dimostrare che una costruzione di
tal fatta sia anche storicamente praticabile oggi, in riferimento al
processo di integrazione europea, ed articolarne più precisamente i
contenuti, è compito che fuoriesce dall’oggetto di questo studio.
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MAURIZIO FIORAVANTI
IL PROCESSO COSTITUENTE EUROPEO
1. Alla ricerca del processo costituente europeo. — 2. Un po’ di comparazione: Europa
e Stati Uniti. — 3. Alcuni possibili esiti del processo costituente europeo.
1. Alla ricerca del processo costituente europeo.
Com’è ben noto, il Consiglio Europeo di Laeken, del 14 e 15
dicembre 2001, si è concluso con un’importante Dichiarazione sul
futuro dell’Unione Europea, che si ricollega ad un’analoga Dichiara-
zione approvata in margine al Consiglio di Nizza, del dicembre
dell’anno precedente, lo stesso in cui era stata proclamata la Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, preparata da un’appo-
sita Convenzione, a sua volta convocata sulla base delle risoluzioni
del Consiglio Europeo di Colonia, del giugno del 1999 ( ). Come
1
ben si vede, la concatenazione degli eventi pare essere piuttosto
serrata, e precisa: la decisione di preparare un Bill of Rights europeo,
con il metodo della Convenzione, e non direttamente con il tradi-
zionale strumento della Conferenza intergovernativa, la sua procla-
mazione, per quanto non corredata dalla decisione d’inserirlo nei
Trattati, dotandolo dunque d’immediata forza prescrittiva, ed infine
la contestuale messa in moto, proprio sulla base della Dichiarazione
citata all’inizio, di una nuova Convenzione, cui sono affidati compiti
ampi, che lasciano intravedere, sullo sfondo, l’esito della Costitu-
zione europea. È questa serie di eventi che ha provocato una
crescente diffusione, non solo nella pubblicistica politica e d’infor-
mazione più diffusa, ma anche nella letteratura specialistica, del
( ) Sulla Carta si è formata rapidamente una vasta letteratura. Avremo occasione
1
di tornare sul punto. Si veda intanto, anche per la ricchezza del materiale raccolto, Carta
, Padova, 2002.
Europea e diritti dei privati, a cura di G. V
ETTORI
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274 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
termine-concetto di ‘processo costituente europeo’, con il quale ci
confrontiamo in questo contributo.
Ma procediamo con ordine, proprio partendo dai contenuti
). In effetti, alla Convenzione, com-
della Dichiarazione di Laeken ( 2
posta, oltre che dal Presidente e dai due Vicepresidenti direttamente
designati dal Consiglio Europeo, da 15 rappresentanti dei Capi di
Stato e di Governo degli Stati membri, uno per Stato membro, da 30
rappresentanti dei Parlamenti nazionali, due per Stato membro, da
16 membri del Parlamento europeo e da due rappresentanti della
Commissione, è affidata la progettazione di una riforma dell’Unione
certo di non poco rilievo. Ricordiamo rapidamente i capitoli di tale
riforma, cosı̀ come indicati nella Dichiarazione: ridisegnare i criteri di
ripartizione delle competenze tra Unione e Stati membri, al fine di
renderli più semplici e trasparenti, e nella stessa linea rivedere la
materia degli strumenti normativi, ripensare le istituzioni europee ed
il loro funzionamento, dalla Commissione ed il suo Presidente, al
Consiglio, al Parlamento, fino poi a giungere al ruolo degli stessi
Parlamenti nazionali.
Dal documento sembra trasparire una preoccupazione princi-
pale, che riguarda la possibile carenza di legittimazione, soprattutto
di fronte ai cittadini, di un complesso d’istituzioni politiche ed
amministrative cresciute nel tempo secondo logiche, e pratiche
politico-istituzionali, non sempre del tutto comprensibili dal-
l’esterno, e la cui ulteriore crescita non può dunque più prescindere
dalla guida di criteri apertamente ridiscussi, e per ciò stesso più certi,
più accessibili e trasparenti. Pare cioè evidente che si è di fronte ad
uno di quei casi in cui si pensa di rispondere ai problemi della
legittimazione con un grande piano di razionalizzazione delle istitu-
zioni e del loro funzionamento, nella linea della trasparenza e della
efficienza.
Diciamo la verità: fino a qui non si respira affatto alcuna aria
‘costituente’, se non per l’ampiezza stessa della materia da conside-
rare, che praticamente coincide con la globalità delle relazioni
politico-istituzionali in cui l’Unione è coinvolta. Manca però l’altra
dimensione dell’opera costituente, che è quella della profondità,
( ) Prendiamo il testo della Dichiarazione dalla “Rivista di studi politici interna-
2
zionali”, LXIX, n. 1, gennaio-marzo 2002, pp. 11 e ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 275
MAURIZIO FIORAVANTI
importante per lo meno quanto l’ampiezza, se non di più: un grande
progetto di razionalizzazione, d’ingegneria istituzionale, che rimane
tale, ed in cui il principio democratico si esaurisce nella richiesta di
una maggiore trasparenza, a sua volta del tutto conseguente agli
aspetti procedurali, nella linea dominante della efficienza, non è
ancora un progetto costituente. Si deve però aggiungere che la
Dichiarazione di Laeken non si ferma affatto a questo punto. È anzi
l’ultimo paragrafo di questa parte della Dichiarazione, dedicata
appunto ad indicare i compiti della Convenzione, quello più inte-
ressante, ed anche quello che ha indubbiamente maggiormente
sollecitato a discutere la nostra problematica del processo costi-
tuente europeo.
È qui infatti che si parla, in modo finalmente esplicito, di una
“via verso una costituzione per i cittadini europei”. Ma ciò che più
conta è che alla possibilità di “un testo costituzionale”, o addirittura
di una “legge fondamentale”, si arriva senza sostanzialmente abban-
donare la logica efficientistica ed incrementale della riforma del-
l’Unione e dei suoi Trattati. Le parole-chiave continuano infatti ad
essere “trasparenza” e “semplificazione”, o magari quella, in sé
ancora più modesta, di “riordino”, ma è come se a furia di procedere
su quella via si finisse quasi fatalmente per salire una sorta di
gradino. Cosı̀, il medesimo “riordino” potrebbe condurre a distin-
guere tra “trattato di base” ed “altre disposizioni”, con procedure di
modifica e di ratifica differenziate tra l’uno e le altre: certo, anche
questa operazione potrebbe essere letta nel senso consueto della
semplificazione, ma ora è ben possibile anche una seconda lettura,
ovvero che lo sforzo sia quello d’individuare i caratteri essenziali del
legame creatosi con l’Unione, le finalità ed i principi fondamentali,
precedenti il ben più variabile mondo delle politiche, e dunque da
proteggere, rispetto a queste ultime, con procedure di modifica più
pesanti.
A questo punto, per mettersi sulla via della costituzione, basterà
convenire su due punti: che una lettura del genere è più che
plausibile, e che essa è molto vicina ad un autentico processo
costituente, inteso come quel processo che conduce proprio ad
individuare il ‘nucleo fondamentale’ di un determinato patto, nel
nostro caso da estrarre dalla complessa materia dei Trattati. In
questa linea, il passaggio successivo della Dichiarazione chiama la
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
276 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Convenzione a “riflettere sulla opportunità di inserire la Carta dei
diritti fondamentali nel trattato di base”, e dunque proprio in quel
‘nucleo fondamentale’, che in tal modo prenderebbe evidentemente
ancora più forma nel senso di una Costituzione europea. Cosı̀,
l’ultimo capoverso del nostro testo pare essere del tutto conseguente
a quanto fin qui espresso, e pone correttamente “il quesito se questa
semplificazione e questo riordino non debbano portare, a termine,
all’adozione nell’Unione di un testo costituzionale”, che individua
“gli elementi di base di tale legge fondamentale”, ovvero “i valori
che l’Unione coltiva, i diritti e i doveri del cittadino, i rapporti fra gli
). Certo, il tono conclusivo è
Stati membri all’interno dell’Unione” ( 3
fortemente dubitativo, ma proprio per questo la via è aperta, e
comunque non è più assolutamente obbligatoria la lettura nel senso
della mera razionalizzazione, della pura opera d’ingegneria istituzio-
nale.
Proprio in un contesto di questo genere, diviene allora partico-
larmente rilevante la ricerca di criteri che ci consentano d’indivi-
duare il punto oltre il quale l’opera di riforma dei Trattati acquista
autentico significato costituente, e diviene quindi processo costi-
tuente. È questo anzi il problema principale che abbiamo oggi nel
valutare l’ultima fase della evoluzione costituzionale europea.
Come sappiamo, al quesito posto è possibile rispondere in
modo drastico, negando che da una riforma dei Trattati, per quanto
incisiva, possa mai nascere una qualche costituzione. Nascerà piut-
tosto un altro Trattato, come i precedenti fondato sulla volontà degli
Stati membri, ma non una costituzione. Alla costituzione si potrà
arrivare solo uscendo dalla logica del trattato, delle relazioni di
diritto internazionale tra Stati sovrani, ed attivando dunque un vero
e proprio potere costituente del popolo europeo, capace d’imporre
la soluzione dello Stato federale europeo, con una riconduzione
drastica e pesante degli Stati membri a parti del medesimo Stato
federale europeo. Una simile impostazione, che chiude immediata-
mente il discorso della costituzione europea, rinviandolo ad un
domani francamente improbabile, è figlia di una ben precisa tradi-
zione costituzionalistica, dominante negli ultimi due secoli, di cui si
( ) Ibid., p. 27. Si veda anche A. P , La Dichiarazione di Laeken e il processo
3 ACE
costituente europeo, in “Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico”, 2002, n. 3.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 277
MAURIZIO FIORAVANTI
vuole evidentemente salvare il pilastro ritenuto più essenziale: che
non può esservi processo costituente senza potere costituente, o
meglio senza quel particolare potere che assume di norma la forma
del soggetto capace di volere, della Assemblea capace di esprimere
la volontà del popolo, o della nazione, ed ancora, che non può
esservi processo costituente senza fondazione, come suo esito ob-
bligato, di uno Stato sovrano, non importa se ascrivibile al tipo
federale o meno. In altre parole, il processo costituente presuppone
un’unità politica capace di volere, e produce, a sua volta, un’unità
politica capace di agire, nella tradizione dello Stato nazionale uni-
).
tario (
4
È inutile ora spendere troppe parole per concludere su questo
punto. È infatti evidente che oggi sta accadendo proprio ciò che la
nostra tradizione costituzionale nega: si sta denominando come
‘costituente’ un processo in atto, pur non avendo esso un’origine in
un potere, nel senso di un soggetto capace di volere, e pur non
avendo esso affatto preso la direzione che conduce a fondare una
nuova unità politica espressiva del tradizionale principio di sovra-
nità. Proviamo allora ad abbandonare gli orizzonti noti, ed a porci il
problema della esistenza — da dimostrare, ovviamente — di un
processo costituente non più riconoscibile con gli strumenti della
tradizione: un processo costituente senza un’origine nella volontà di
un soggetto, e che tende a collocare il suo esito, ovvero la costitu-
zione stessa, al di là dei confini noti della forma politica statale.
Si entra qui in un territorio nuovo, irto di difficoltà, ed anche di
pericoli. Ma la sfida è inevitabile, e deve dunque essere accettata. La
prima osservazione è dedicata proprio al potere costituente. A mio
( ) Difende appassionatamente il modello costituzionale della tradizione G.
4 , Verso la Costituzione europea?, in “Diritto Pubblico”, 2002, 1, pp. 161 e ss. Per
F ERRARA
un’opposizione netta tra l’ambito costituzionale e quello internazionale, tra costituzione
V , Stato federale, in Enciclopedia del diritto, XLIII,
e trattato, si veda G. D E ERGOTTINI
1990, pp. 831 e ss.. Sulla tradizione europea della sovranità, rinviamo a Penser la
souveraineté à l’époque moderne et contemporaine, sous la direction de G.M. C AZZANIGA
e Y.C. Z , due tomi, Pisa e Parigi, 2001; ed in forma sintetica anche a M. F ,
ARKA IORAVANTI
Stato e Costituzione, in Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, a cura di M.
,
Fioravanti, Roma-Bari, 2002, pp. 3 e ss. Nella prospettiva attuale, si veda infine M. W IND
Sovereignty and European Integration. Towards a Post-Hobbesian Order, Basingstoke,
2001. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
278 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
avviso, se vogliamo continuare ancora a discutere, ed anche ad
operare, nella linea della Costituzione europea, non si può del tutto
). Si dovrà certa-
abbandonare il terreno del potere costituente (
5
mente marcare con cura la differenza tra il potere costituente della
tradizione, delle rivoluzioni di fine Settecento e delle stesse Costi-
tuzioni dell’ultimo dopoguerra, ed il potere costituente di cui oggi
andiamo alla ricerca in Europa, ma non si dovrà affatto chiudere
frettolosamente la partita, come se si trattasse di questione del
passato, non più attuale. Insomma, a nostro avviso, anche la Costi-
tuzione europea, per essere tale, ha bisogno di un’origine. Ciò che
però è sbagliato è collocare in quella origine il soggetto sovrano della
tradizione, il popolo o la nazione in senso unitario e monolitico. Pare
più adeguato raffigurare il potere costituente europeo come una
realtà in sé pluralistica, per sua natura collocata sul piano sovrana-
zionale, in cui troviamo sia gli Stati membri con i loro rispettivi
popoli, e con le obbligazioni che reciprocamente li limitano, sia il
popolo dei cittadini dell’Unione, come risultato, in senso normativo,
): è all’insieme di questi
di uno status crescentemente condiviso (
6
soggetti che è necessario riferire l’esercizio del potere costituente.
Più avanti, deriveremo da questa prima sommaria conclusione la
necessità, per una riforma dei Trattati che ambisca a produrre un
esito nel senso della Costituzione europea, di un’approvazione da
parte dei popoli degli Stati membri.
Un secondo punto non potrà inoltre essere trascurato nell’am-
bito della Costituzione europea. È vero che nel passaggio dal piano
nazionale a quello europeo lo stesso termine-concetto di ‘processo
costituente’ tende fatalmente a diluirsi, perdendo molto del suo
carattere di attuazione di un progetto globale, che punta a rideter-
( ) Si veda in proposito l’indagine di S. D , Una costituzione senza
5 ELLAVALLE
popolo? La Costituzione europea alla luce delle concezioni del popolo come ‘potere
, Elemente einer Theorie der
costituente’, Milano, 2002. Si veda inoltre A. P ETERS
Verfassung Europas, Berlino, 2001, spec. 360 e ss. sul potere costituente.
) Possiamo qui solo accennare a questo punto, evidentemente collegato con la
( 6
Carta dei diritti fondamentali, su cui comunque torneremo in seguito. Per la prospettiva
, La cittadinanza fra Stati nazionali e
della ‘comparazione diacronica’, si veda P. C OSTA
ordine giuridico europeo: una comparazione diacronica, in Una Costituzione senza Stato,
, Bologna,
Ricerca della Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco, a cura di G. B
ONACCHI
2001, pp. 289 e ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 279
MAURIZIO FIORAVANTI
minare da capo i poteri esistenti, tanto da poter essere connotato, sul
piano europeo, come qualcosa che opera “in modo incrementale e
concordato, senza salti di qualità o violente espropriazioni di poteri
). Sappiamo già, del resto, che quel processo non è affatto
sovrani” (
7
destinato a produrre una nuova forma politica sovrana di tipo
monistico, in sé portatrice della tendenza ad esautorare i poteri
). E tuttavia, anche per questo aspetto è necessario distin-
esistenti ( 8
guere: il fatto che si possieda la consapevolezza storica che il
processo costituente europeo non produrrà comunque quel certo
tipo di unità politica, da ricondurre alla tradizione europea conden-
sata nel principio di sovranità, non significa che si debba, o che si
possa, rinunciare alla ricerca di una qualche nuova forma di unità
politica, diversa da quella propria della tradizione, e nello stesso
tempo capace di oltrepassare, sul piano sovranazionale, la logica
meramente pattizia del diritto internazionale. Senza questa ricerca,
sarà difficile continuare a parlare di ‘costituzione’ e di ‘processo
costituente’. In altre parole, il processo costituente non è tale, anche
sul piano europeo, se non conduce, attraverso il ‘riordino’ dei
Trattati, e l’individuazione di un loro ‘nucleo fondamentale’, nella
linea della Dichiarazione di Laeken, alla proposizione di un legame
tra gli Stati membri nel senso della Unione, ovvero nel senso di
un’unità politica di tipo sovranazionale dotata di regole costituzionali,
cui gli Stati stessi sono chiamati ad aderire. Proprio per questo
motivo, si pone con forza il problema di una regola nuova, diversa
da quella della unanimità prevista dall’articolo 48 del Trattato
sull’Unione Europea. Su questo punto torneremo più avanti, ma
( ) Cosı̀ nel saggio di L. V , La Costituzione europea fra passato e presente, in
7 IOLINI
Costituzionalizzare l’Europa ieri ed oggi. Ricerca dell’Istituto Luigi Sturzo, a cura di U.
S , Bologna, 2001, pp. 71 e ss., p. 103. Non possiamo qui discutere la tesi,
D E IERVO
davvero impegnativa, formulata di recente, secondo cui la vicenda costituzionale euro-
pea s’inserisce in una trasformazione più ampia delle costituzioni, che le vedrà sempre
più debolmente indirizzate “verso mete condivise e fini riconosciuti come comuni”, e
-
sempre meno capaci di “operare chiusure definitive dei sistemi giuridici”: M.R. F
ERRA
, Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni, Bologna, 2002, spec.
RESE , La Costituzione senza
pp. 103 e ss. Nella discussione attuale, si vedano anche E. S CODITTI
, Il momento della scrittura.
popolo. Unione Europea e Nazioni, Bari, 2001; e C. P INELLI
Contributo al dibattito sulla Costituzione europea, Bologna, 2002.
) Insiste sul punto L. T , Una Costituzione senza Stato, in “Diritto
( 8 ORCHIA
Pubblico”, VII, 2001, n. 2, pp. 405 e ss., spec. pp. 421 e ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
280 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
diciamo fin d’ora che se quella regola dovesse permanere, e contem-
poraneamente non si affermasse la necessità della approvazione
popolare, sarebbe difficile, a mio avviso, resistere alle obiezioni di
chi considera quanto meno improprio l’uso del termine-concetto di
‘costituzione’ con riferimento all’esito del processo di riforma dei
Trattati. In una parola, ancora una volta si sarebbe fatto un nuovo
Trattato, magari rafforzando ancora di più il piano comunitario, ma
non una costituzione.
2. Un po’ di comparazione: Europa e Stati Uniti.
Due sono dunque gli elementi che devono essere presenti
perché si possa legittimamente parlare di ‘processo costituente
europeo’: il modo popolare di ratifica da parte degli Stati membri, e
la rottura della regola della unanimità. Un rapido sguardo alla genesi
della Costituzione federale americana aiuta a cogliere la rilevanza di
questi elementi, e soprattutto la loro forte reciproca connessione.
Ovviamente, non si vuole qui sostenere che le due situazioni storiche
). Si vuole piuttosto mettere
siano anche lontanamente assimilabili (
9
in rilievo come gli elementi da noi individuati, attinenti al modo di
ratifica, o di approvazione, da parte degli Stati si ripetano con
significativa puntualità nelle due situazioni, e siano probabilmente
destinati a ripetersi, nella vicenda storica complessiva delle costitu-
zioni moderne, ogni volta che si tratta di passare da un legame di
stampo essenzialmente internazionalistico, che si esprime nella
forma del trattato, ad un legame di qualità diversa ed ulteriore, che
continua magari a fondarsi nella dimensione pattizia e convenzionale
propria delle relazioni tra Stati, ma che assume poi, come esito
conclusivo, la forma della Unione, e della costituzione. Sotto questo
profilo, della vicenda americana interesserà proprio cogliere il mo-
mento in cui, come oggi in Europa, s’iniziò ad indicare la costitu-
( ) Riflessioni di carattere comparativo in G. B , L’evoluzione del federa-
9 OGNETTI
lismo moderno e i diversi modelli dello Stato federale, e Lo speciale federalismo del-
l’Unione Europea, in Modelli giuridici ed economici per la Costituzione europea, Ricerca
, Bologna, 2001, pp. 19 e ss.,
della Fondazione Nova Res Publica, a cura di A.M. P ETRONI
e pp. 245 e ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 281
MAURIZIO FIORAVANTI
zione come soluzione nuova, di essa mettendo in rilievo la differenza
con lo strumento esistente del trattato.
Come sappiamo, le relazioni tra le tredici ex-colonie inglesi,
divenute altrettanti Stati liberi ed indipendenti con la Dichiarazione
d’Indipendenza, erano regolate, prima della Costituzione Federale
del 1787, dagli Articoli di Confederazione, approvati nel 1778 dal
Congresso, ma entrati in vigore soltanto il primo marzo del 1781,
dopo la ratifica da parte di tutti gli Stati, secondo la regola della
unanimità. Tali Articoli, pur conferendo poteri anche rilevanti al
Congresso in materia diplomatico-militare, rimanevano però sul
piano del trattato, della “lega di amicizia reciproca” (articolo II) tra
gli Stati, e tra i rispettivi popoli, tanto che la regola della unanimità,
che era servita per mettere in vigore gli Articoli, era mantenuta
anche per la loro modifica. Leggiamo infatti nell’articolo XIII: “Gli
Articoli della presente Confederazione saranno inviolabilmente os-
servati da ciascuno Stato…; né potranno essere introdotte modifi-
cazioni al testo, a meno che tali emendamenti non vengano appro-
vati dal Congresso degli Stati Uniti e siano successivamente ratificati
dagli organi legislativi di ogni Stato”. Come vediamo, i due elementi
che precedentemente abbiamo individuato con riferimento all’Eu-
ropa sono anche qui tenuti insieme: poiché ciò che abbiamo di
fronte a noi è un semplice trattato, che mantiene quasi del tutto
inalterata la sovranità degli Stati, le sue modifiche non potranno non
rispondere alla doppia regola della unanimità e della semplice
ratifica parlamentare ( ).
10
Il processo costituente prendeva dunque le mosse da questa
( ) Non è ovviamente questa la sede per uno studio approfondito degli Articoli
10
di Confederazione. Ci limitiamo a ricordare la principale letteratura, ed in particolare
quella più rilevante per il profilo che più ci interessa, che è quello del passaggio dalla
(a cura di), The Confederation
Confederazione alla Costituzione Federale: G.S. W
OOD , The States’ Rights
and the Constitution. The Critical Issues, Lanham, 1973; A.T. M ASON
Debate: Antifederalism and the Constitution, Oxford University Press, 1972; e soprat-
, Collective Action under the Articles of
tutto la recente ricerca di K.L. D
OUGHERTY
Confederation, Cambridge University Press, 2001. Più in genere, si veda anche R.B.
, The Forging of the Union 1781-1789, New York, 1987, spec. pp. 298 e ss., per
M
ORRIS
gli aspetti che più ci interessano. Sul piano documentale, sono certamente utili R.
(a cura di), The Anti-Federalist Papers and the Constitutional Convention
K
ETCHAM (a cura di), The Origins of the American
Debates, New York, 1986; e M. K AMMEN
Constitution. A Documentary History, New York, 1986.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
282 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
situazione di partenza: una Confederazione di Stati sovrani fondata
sul principio della equal sovereignty, e conseguentemente sul prin-
cipio di unanimità per l’approvazione di ogni modifica nelle rela-
zioni tra quegli Stati. Ciò che interessa sul piano comparativo è
vedere come questa situazione sia stata superata attraverso il pro-
cesso costituente, evidentemente in direzione di un ridimensiona-
mento netto del peso della singola sovranità del singolo Stato.
I sostenitori della esigenza di un forte governo nazionale co-
mune, come Alexander Hamilton, o James Madison, cercarono in
un primo momento di affrontare di petto la questione della sovranità
degli Stati, proponendo un governo in qualche modo gerarchica-
mente sovraordinato rispetto ai governi statali. Nel piano presentato
da Hamilton il 18 giugno del 1787 era contenuta una misura in
questo senso esemplare: i Governatori degli Stati avrebbero dovuto
essere nominati dal governo nazionale, che avrebbero trasferito loro
il potere di dichiarare nulle le leggi statali contrarie alla Costituzione
ed alle leggi degli Stati Uniti. Nella proposta di Hamilton era
significativo anche il linguaggio: gli Stati erano chiamati particular,
).
ed il futuro governo federale era il general government nazionale (
11
Ed ancora, non dimentichiamo che fino al 17 luglio rimase in
discussione una proposta che aveva a lungo circolato, che attribuiva
direttamente al Congresso degli Stati Uniti un potere di veto nei
confronti delle leggi statali, anche in questo caso nella logica di una
ben precisa sovraordinazione della legge federale su quella stata-
).
le ( 12
Ebbene, proprio la vicenda costituente americana mostra come
in una situazione che in partenza è quella di un complesso di Stati
sovrani legati con lo strumento del trattato siano perdenti le strategie
frontali, che puntano ad affermare il principio di gerarchia nelle
relazioni tra i soggetti istituzionali e tra le fonti di diritto. La
Costituente americana respinse inesorabilmente tutte le proposte
orientate in questa direzione, mantenendo fermo un punto: che gli
States’ Rights avrebbero rappresentato comunque una componente
essenziale dell’ordine costituzionale, anche dopo il passaggio alla
( ) The Plan presented by Alexander Hamilton, il 18 giugno 1787, in The Origins
11
of the American Constitution, cit., pp. 36-38.
) Si veda il punto in A.T. M , The States’ Rights Debate, cit., pp. 37 e ss.
( 12 ASON
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 283
MAURIZIO FIORAVANTI
Costituzione federale. Quest’ultima non avrebbe dovuto infatti es-
sere intesa come la Costituzione che afferma la sovranità dello Stato
federale, ed avrebbe piuttosto dovuto rappresentare la norma fon-
damentale capace di ordinare le relazioni tra tutti i poteri, federali e
statali, che è cosa anche intuitivamente diversa.
Non è certo un caso che proprio quel 17 luglio, che sopra si
ricordava come data che segna la sconfitta definitiva di tutti coloro
che volevano imporre il veto del Congresso degli Stati Uniti sulle
legislazioni statali, crei i presupposti per l’affermazione della celebre
clausola di supremazia, che poi sarà contenuta nell’articolo VI,
secondo comma, della Costituzione: “Questa Costituzione e le leggi
degli Stati Uniti che verranno fatte in conseguenza di essa, e tutti i
trattati conclusi, o che si concluderanno, sotto l’autorità degli Stati
Uniti, costituiranno la legge suprema del Paese; ed i giudici di ogni
Stato vi saranno vincolati, quali che siano le disposizioni in contrario
contenute nella Costituzione o nella legislazione di ogni Stato”.
Insomma, una volta ricacciato indietro quel particolare tipo di
‘supremazia’ che s’identificava nella superiorità gerarchica del po-
tere federale, e della legge federale, sui poteri statali, e sulle leggi
statali, si creavano le condizioni per ammettere comunque, ed
inserire nella Costituzione, una nuova ‘supremazia’, che era però
quella della Costituzione medesima come legge suprema del Paese,
che in quanto tale non poteva non rappresentare, anche per i giudici
statali, la prima norma da applicare.
Vedremo più avanti qualche ulteriore implicazione di questa
scelta, evidentemente collegata al judicial review, al controllo diffuso
di costituzionalità. Per ora premeva sottolineare la rilevanza di
questo insegnamento contenuto nella esperienza costituzionale ame-
ricana: la costruzione di un’Unione, di un’unità politica comune, che
parta da una pluralità di sovranità statali distinte, passa difficilmente
per la via diretta dell’affermazione di una nuova sovranità a scapito
delle sovranità esistenti, e sceglie piuttosto la via giurisdizionale, del
comune dovere di applicazione della medesima legge da parte di
tutti i giudici. La lesione al principio di sovranità esiste comunque,
perché ora i giudici statali possono, ed anzi in certi casi debbono,
disapplicare la legge statale, che era fino a questo momento per loro
la fonte in cui si racchiudeva tutto il diritto da applicare, ma si tratta
di una lesione ben più ammissibile di quella che sarebbe derivata
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
284 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
dall’affermazione immediata di una superiorità formale e sostanziale
del potere federale, proprio perché attuata tramite lo strumento
della giurisprudenza, che per sua natura opera in modo puntuale e
progressivo, disteso nel tempo, adattabile in modo elastico alle
diverse fasi di evoluzione dei rapporti tra poteri federali e poteri
statali, ed in ultima analisi perché riconducibile ad una norma
comune ritenuta suprema, e non ad un potere in senso soggettivo,
diverso da quello statale ed a quest’ultimo ritenuto superiore in
senso gerarchico.
Torniamo ancora per un attimo alla Costituente di Filadelfia.
Certo non per caso, in quel medesimo mese di luglio, una volta
rassicurati gli Stati sulla loro permanenza come Stati liberi ed
indipendenti, è possibile finalmente porre loro la questione fonda-
mentale del passaggio dal trattato alla costituzione. Gli Stati vi
possono consentire perché ora sanno che dentro la costituzione la
loro sovranità sarà diminuita, ma non cancellata. È Madison, nella
seduta del 23 luglio, a porre il problema, con grande chiarezza: ciò
che ora deve emergere è “la differenza tra un sistema fondato solo
sui Parlamenti, ed uno fondato sul popolo, ovvero l’essenziale
differenza tra una lega, o un trattato, da una parte, ed una Costitu-
). La simmetria di Madison è perfetta: il
zione dall’altra parte” ( 13
trattato sta ai Parlamenti degli Stati come la Costituzione sta al
popolo.
Per ‘popolo’ non s’intendeva per altro certo il popolo americano
indistintamente inteso, che appena ora stava facendo il suo ingresso
nell’universo delle relazioni politico-costituzionali, e che la stessa
Costituzione metteva in fin dei conti a fondamento di un solo organo
costituzionale, della Camera dei Rappresentanti. Madison intendeva
piuttosto mettere in rilievo la necessità di dare un fondamento
popolare alla scelta per la costituzione, ciò che in concreto signifi-
cava lo ‘strappo’ della regola della semplice approvazione parlamen-
tare contenuta nell’articolo tredicesimo degli Articoli di Confedera-
zione. E questo fondamento lo si sarebbe ottenuto sostituendo alla
( ) The Records of the Federal Convention, ed. by M. F , New Haven,
13 ARRAND
1911, II, 93. I corsivi sono nel testo. Tutta questa fase, ed in particolare proprio la
, Collective
problematica anche da noi messa in evidenza, è esaminata da K.L. D
OUGHERTY
Action under the Articles of Confederation, cit., pp. 140 e ss..
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 285
MAURIZIO FIORAVANTI
procedura parlamentare, all’interno di ciascuno Stato, la ratifica
della nuova Costituzione per mezzo di Convenzioni appositamente
elette dai popoli degli Stati. È all’insieme di queste Convenzioni che
possiamo riferire il momento decisivo nello svolgimento del pro-
cesso costituente, l’esercizio in concreto del potere costituente.
La vicenda americana mostra il carattere essenziale ed impre-
scindibile della approvazione popolare, proprio per il configurarsi
stesso di un autentico processo costituente. Senza quella approva-
zione, avrebbe probabilmente ripreso forza la prospettiva minore
della semplice riforma del trattato, ovvero degli Articoli di Confe-
derazione, a quel punto con la connessa necessità di rispettare
integralmente le regole della revisione contenute nell’articolo tredi-
cesimo, anche per ciò che riguardava il requisito della unanimità. Ed
invece, grazie alla svolta del luglio del 1787, anche quest’ultimo
aspetto viene a cadere. Infatti, la Costituzione che si sta mettendo in
vigore non è più rappresentabile come un semplice trattato tra Stati
sovrani, che esiste solo nella misura in cui tutti quegli Stati l’abbiano
sottoscritto, nel suo contenuto originario, e poi con tutte le succes-
sive modifiche. Ora, la Costituzione, pur presupponendo gli Stati, e
pur conservando in sé buona parte della loro sovranità, riposa su un
fondamento di carattere popolare, ovvero sulla approvazione da
parte dei popoli degli Stati, in una misura ritenuta sufficiente per la
legittimazione della svolta avvenuta, che non può corrispondere ad
una maggioranza semplice, ma sulla quale si ragiona dopo aver
ormai superato e rimosso la regola della unanimità.
E tuttavia, a dimostrazione di quanto questo passaggio fosse
delicato ed impegnativo, i costituenti americani continuarono a
ragionarci sopra per alcune settimane. Nel First Draft of the Consti-
tution, del 6 agosto, l’articolo XXI mostra come un curioso spazio in
bianco. Vi leggiamo infatti: “La ratifica da parte delle Convenzioni
di […] Stati sarà sufficiente per l’organizzazione della Costituzione”,
ovvero per la messa in opera dei procedimenti necessari per l’ele-
zione della Camera dei Rappresentanti, del Senato, del Presidente
(art. XXIII), e dunque, in sostanza, per la messa in vigore della
). A quella data, si era dunque già deciso di dare alla
Costituzione ( 14
( ) First Draft of the Constitution, in The Anti-Federalist Papers and the Consti-
14
tutional Convention Debates, cit., p. 144.
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286 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Costituzione un fondamento popolare, ma non si era ancora in
grado di prendere posizione sulla regola dell’unanimità: in teoria, in
quello spazio si sarebbe ancora potuto scrivere tredici. Solo dopo un
mese di discussioni, per la precisione il 30 agosto, si scelse per nove
).
Stati (
15
Cosı̀, nel testo definitivo della Convenzione, del 17 settembre,
inviato al Congresso della Confederazione per la sua approvazione e
la successiva messa in moto delle Convenzioni di ratifica negli Stati,
leggiamo una norma ancora diversa: “La ratifica da parte delle
Convenzioni di nove Stati sarà sufficiente per l’entrata in vigore di
questa Costituzione tra gli Stati medesimi che l’avranno ratifica-
). Era ora ancora più chiaro, non solo che la
ta”(articolo VII) ( 16
regola della unanimità era caduta, ma anche che si era pronti a fare
entrare in vigore la Costituzione tra quei nove Stati che l’avessero
sottoscritta.
Il processo costituente aveva ormai evidentemente demolito del
tutto la vecchia logica del trattato: quegli Stati che non avessero
ratificato la Costituzione avrebbero potuto trovarsi soli. Cosı̀ fu in
effetti. Il nono Stato a ratificare fu il New Hampshire, il 27 giugno
1788. In verità, il Congresso attese ancora il decimo e l’undicesimo
Stato, che furono rispettivamente la Virginia e New York, data
anche la loro rilevanza. Ma poi, il 13 settembre 1788, mise in vigore
la Costituzione. Rhode Island aveva respinto la Costituzione con un
apposito referendum, ma la Convenzione del North Carolina aveva
semplicemente chiesto che fossero presi in considerazione determi-
nati emendamenti, da parte del Congresso e di un’eventuale seconda
Convenzione. Non c’era però più tempo per dialogare. La decisione
era stata presa, e la Costituzione doveva entrare in vigore. Del resto,
le soluzioni scelte mostravano che gli Stati non sarebbero stati affatto
cancellati all’interno del nuovo ordine costituzionale. Ma vi si
dovevano collocare dentro, o rifiutarlo: mantenere semplicemente la
vecchia posizione, pretendendo di far valere ancora la logica del
trattato e della unanimità non era più possibile. Anche North
Carolina e Rhode Island alla fine ratificarono, rispettivamente il 21
( ) Si veda K.L. D , Collective Action, cit., p. 160.
15 OUGHERTY
) Il testo della Costituzione inviato dalla Convenzione al Congresso si trova in
( 16
The Origins of the American Constitution, cit., p. 38.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 287
MAURIZIO FIORAVANTI
novembre del 1789, ed il 29 maggio del 1790. Cosı̀, i tredici Stati
fondatori si ritrovarono di nuovo tutti insieme, ma attraverso un
autentico processo costituente, che aveva prodotto, come esito
ultimo, un legame di qualità completamente nuova.
3. Alcuni possibili esiti del processo costituente europeo.
Il processo costituente americano non si arrestò con l’emana-
zione della Costituzione Federale. Subito dopo, fu messo in moto il
procedimento che avrebbe condotto, il 15 dicembre del 1791,
all’adozione del Bill of Rights. Anche questo può costituire un utile
elemento di comparazione con l’Europa, che in una certa misura
lega l’affermazione della esistenza di un processo costituente euro-
peo anche alla recente proclamazione della Carta dei diritti fonda-
).
mentali dell’Unione Europea (
17
La Carta europea è certamente destinata, anche indipendente-
mente dal suo inserimento nel Trattato, a svolgere un ruolo di primo
piano. Nella sua vicenda si esprime bene quella ‘via giurisdizionale’
alla costruzione della comune forma politica, cui già si accennava
sopra a proposito della Costituzione federale americana: come si
ricorderà, i costituenti americani scartarono le soluzioni imperniate
sul principio della gerarchia dei poteri, come il veto congressuale
sulle leggi statali, e preferirono fondare la clausola di supremazia sul
dovere di tutti i giudici, statali e federali, di applicare in primo luogo
la Costituzione, la legge fondamentale del Paese.
La situazione europea non è certo questa. Vi opera però, già ora,
il noto principio del primato del diritto comunitario su quello
nazionale, e dunque l’obbligo dei giudici statali, nelle materie di
competenza comunitaria, a fronte di una normativa statale incom-
patibile con il diritto comunitario direttamente applicabile, di pro-
cedere senz’altro alla applicazione di quest’ultimo ed alla conse-
guente non applicazione della norma statale interna. In seno alle
giurisdizioni degli Stati membri si è dunque già ora accettata l’idea
( ) Sul punto si veda S. N , Catalogo dei diritti e centralizzazione delle
17 INATTI
competenze nelle esperienze federali: uno sguardo oltreoceano, in La difficile Costituzio-
S , Bologna, 2001,
ne europea, ricerca dell’Istituto Luigi Sturzo, a cura di U. D
E IERVO
pp. 145 e ss. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
288 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
che i giudici debbano ubbidienza e fedeltà ad un diritto diverso da
quello statale, che a certe condizioni anzi prevale sul diritto statale.
È ciò che era accaduto, due secoli prima, ai giudici statali americani,
con la clausola di supremazia contenuta nella Costituzione federale,
con questa differenza: mentre negli Stati Uniti il diritto prevalente,
caso per caso, su quello statale era contenuto nella Costituzione
stessa, o da essa derivato direttamente, in Europa il primato del
diritto comunitario si è fino ad ora fondato in sostanza sugli obblighi
derivanti dai Trattati, e solo ora assume coloriture propriamente
costituzionali, con la proclamazione della Carta, e con la connessa
valorizzazione del concetto, a lungo circolante, anche nella giuri-
sprudenza della Corte di giustizia, di ‘tradizioni costituzionali co-
).
muni degli Stati membri’ ( 18
Il quesito che ora si pone è per l’appunto questo: se anche nel
caso europeo le ragioni della prevalenza sul diritto nazionale presso
i giudici statali da parte di un altro diritto possano assumere
contorni e significati di ordine costituzionale, tenendo presente il
limite fin qui fissato a tale prevalenza, ammissibile a condizione che
il diritto comunitario non violi i principi fondamentali e i diritti
inalienabili riconosciuti e garantiti dalle Costituzioni nazionali, come
quella italiana, e fissati dalle rispettive Corti costituzionali, assurte
cosı̀ a vere e propri custodi, non solo della Costituzione stessa e del
suo ‘nucleo fondamentale’, ma anche di una sorta di ‘riserva ultima’
di sovranità, assolutamente non disponibile ( ). Si chiede, in modo
19
ancora più netto e reciso, se la Carta, una volta inserita nel Trattato,
a sua volta considerato come vera e propria Costituzione europea,
( ) Su questo punto, sull’articolo sesto del Trattato sull’Unione europea, e sulle
18 -S. M , Il ‘modello costituzio-
problematiche connesse, rinviamo a M. F IORAVANTI ANNONI
nale’ europeo: tradizioni e prospettive, in Una Costituzione senza Stato, cit., pp. 23 e ss.;
, Il patrimonio costituzionale europeo, Bologna, 2002.
ed alla sintesi di A. P
IZZORUSSO
) Si veda in proposito G. M , La tutela giurisdizionale dei diritti
( 19 ORBIDELLI , ‘Armonia tra diversi’ e problemi
nell’ordinamento comunitario, Milano, 2001; V. O NIDA
aperti. La giurisprudenza costituzionale sui rapporti tra ordinamento interno ed ordina-
, La Corte
mento comunitario, in Quaderni costituzionali, 3/2002, pp. 549 e ss.; F. S ALMONI
Costituzionale e la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, in Diritto Pubblico, 2002/2,
, Costituzione europea e Carte dei diritti fondamentali, in
pp. 491 e ss.; e M.A. C ABIDDU
Profili della costituzione economica europea, Ricerca del Centro di Ricerche in Analisi
Economica, Economia Internazionale, Sviluppo Economico, a cura di A. Q
UADRIO
C , Bologna, 2001, pp. 177 e ss.
URZIO © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 289
MAURIZIO FIORAVANTI
attraverso il meccanismo ormai noto del primato del diritto comu-
nitario, non divenga di fatto uno strumento di destrutturazione delle
Costituzioni nazionali e del sistema dei diritti fondamentali in esse
incardinato.
A tale quesito rispondiamo negativamente. In realtà, quell’esito,
cosı̀ catastrofico per le Costituzioni nazionali, è pensato e previsto
sulla base del vecchio armamentario del diritto pubblico statale,
dominante in Europa tra Otto e Novecento: se c’è una Costituzione,
vuol dire che c’è uno Stato, e dunque che sono in pericolo le
sovranità degli Stati esistenti, con le loro rispettive Costituzioni. Non
sarà cosı̀ in Europa, poiché la stagione del diritto pubblico statale è
storicamente ormai trascorsa. Ciò che il processo costituente euro-
peo sta costruendo non è un nuovo Stato dotato dei caratteri
tradizionali della sovranità, ma un’originale forma politica sovrana-
zionale, la cui Costituzione conterrà una parte comune, in una certa
misura già espressa nella Carta, e che sempre più si preciserà nel
dialogo tra le giurisdizioni, comunitaria e nazionali, e tante parti
proprie quanti saranno gli Stati membri, entro le quali si conserve-
ranno gli specifici nazionali, anche se non in modo chiuso ed isolato,
ma entro un rapporto di continua dialettica con la parte comune.
Del resto, anche lo stesso Bill of Rights americano non fu affatto
concepito come un sistema di principi e di valori da imporre agli
Stati. Al contrario, in una celebre deliberazione del 1789 il Con-
gresso degli Stati Uniti, respingendo un emendamento di Madison,
stabilı̀ che il Bill of Rights non si dovesse applicare in ambito statale,
ovvero che non fosse ammissibile l’ipotesi di una legge statale da
dichiarare nulla, e da disapplicare, in quanto contraria al medesimo
). Né si può dimenticare che il medesimo testo costituzionale
Bill (
20
conteneva il celebre X emendamento: “I poteri non delegati dalla
Costituzione agli Stati Uniti, o da essa non vietati agli Stati, sono
riservati ai rispettivi Stati, ovvero al popolo”, che unito al precedente
IX: “L’enumerazione di alcuni diritti fatta nella Costituzione non
potrà essere interpretata in modo che ne rimangano negati o meno-
mati altri diritti che il popolo si è riservato”, ribadiva con forza il
( ) Si veda in proposito States’ Rights and American Federalism, ed. by F.D.
20
e L.R. N , Westport-London, 1999, pp. 67 e ss.
D
RAKE ELSON © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
290 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
ruolo degli States’ Rights, e dunque l’integrità del sistema dei diritti
fissato nelle Costituzioni statali.
Certo, com’è ben noto, le vicende successive volgeranno nel
senso di un incremento consistente dei poteri federali a scapito di
quelli statali, ma più sulla base di una nota interpretazione estensiva
della necessary-and-proper clause, contenuta nell’ultimo capoverso
della sezione ottava dell’articolo primo della Costituzione federale,
che non per la via del Bill of Rights, che ancora una sentenza del
1833 della Corte Suprema considerava non opponibile agli Stati ed
alla loro legislazione. In effetti, solo all’inizio degli anni Venti del
Novecento la stessa Corte Suprema, facendo leva soprattutto sul
XIV emendamento, arrivò alla conclusione che gli Stati fossero
sottoposti al principio del due process of law contenuto nel Bill of
).
Rights, ed in particolare nel V emendamento (
21
In realtà, proprio la vicenda americana mostra come in una
situazione di partenza data da una pluralità di Stati sovrani sia ben
difficile arrivare al risultato di poter legalmente opporre alle leggi, ed
alle Costituzioni statali, diritti fondamentali ad esse ritenuti superiori
perché fondati nella legge fondamentale comune, approvata dagli
Stati stessi. Se negli Stati Uniti si è impiegato ben più di un secolo
per arrivare a questo risultato, nonostante la clausola di supremazia
contenuta nella Costituzione, e nonostante l’immediata adozione del
Bill of Rights come parte integrante della Costituzione medesima,
non si vede perché in Europa gli Stati debbano cosı̀ facilmente
lasciare che le loro Costituzioni siano sovvertite sul piano europeo.
Del resto, non è proprio un caso che la stessa Carta europea si
preoccupi in modo cosı̀ marcato di rassicurare su questo punto, con
le disposizioni sull’ambito di applicazione e sul livello di protezione
( ) Cosı̀ recita la necessary-and-proper clause: che il Congresso avrà facoltà “di
21
fare tutte le leggi necessarie ed adatte per l’esercizio dei detti poteri”, ciò che indub-
biamente attenuava assai, nel passaggio dalla Confederazione alla Federazione, il prin-
cipio di tassatività delle materie su cui il Congresso poteva esercitare le sue competenze.
Per la sentenza della Corte Suprema del 1833 si veda States’ Rights and American
Federalism, cit., p. 91. Il XIV emendamento, del 23 luglio 1868, stabiliva che “…
Nessuno Stato priverà alcuna persona della vita, della libertà, o della proprietà, senza
una procedura legale nella dovuta forma…”. Anche su questa fase, si vedano i docu-
menti contenuti in States’ Rights, cit., pp. 139 e ss. Sotto un profilo diverso, si veda anche
, Milano, 1998.
John Marshall. ‘Judicial Review’ e Stato federale, a cura di G. B v
UTTA
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 291
MAURIZIO FIORAVANTI
(articoli 51 e 53), che stabiliscono l’applicabilità delle disposizioni
contenute nella Carta agli Stati membri, ma esclusivamente nell’at-
tuazione del diritto dell’Unione, e garantiscono inoltre circa la
permanenza delle competenze definite dai Trattati, e soprattutto
circa l’impossibilità di limitare la garanzia dei diritti fondamentali
fissata, in particolare, non solo nella Convenzione europea del 1950,
ma anche nelle Costituzioni degli Stati membri.
Quel che emerge, in ultima analisi, è che in una costituzione
federale, sia essa quella americana già sperimentata da due secoli, o
quella europea che si vorrebbe fare, gli States’ Rights sono destinati
). Noi crediamo dun-
a rappresentare una componente essenziale ( 22
que che anche in Europa, come già negli Stati Uniti, si possa seguire
la ‘via giurisdizionale’ , a partire dalla Carta, che in fondo nasce dalla
giurisprudenza, e ad essa è destinata a tornare, nella interazione, e
nel dialogo, certamente destinati a crescere, tra giurisdizioni, comu-
nitaria e nazionali, ma crediamo anche che questo diritto costituzio-
nale comune europeo, di origine giurisprudenziale, ben difficilmente
potrà trovare un punto di sintesi qualificabile come ‘costituzione’ se
non si affronterà il nodo degli States’ Rights su un piano necessa-
riamente diverso, che non può non essere quello, politico più che
giurisdizionale, di una incisiva riforma dei Trattati, tale da mutare la
qualità del rapporto esistente tra gli Stati membri.
Come ci insegna proprio l’esempio americano, quando si parte
da una situazione di equal sovereignty tra una pluralità di Stati, con
la lotta per la costituzione, che parte da quella situazione, non si
esprime solo l’affermazione di una legge fondamentale comune che
tutti i giudici devono applicare, ma anche, ed anzi in primo luogo, la
trasformazione del legame esistente tra gli Stati, non più riconduci-
bile nei confini noti del trattato. In altre parole, si vuole una
‘costituzione’ perché si pensa di avere un diritto comune da espri-
( ) Si veda ancora la sintesi complessiva di F. M D , States’ Rights and the
22 C ONALD
Union, cit., passim. Sarà anche bene ricordare come nella prima metà dell’Ottocento
fosse ancora in discussione la cosiddetta nullification, ovvero il veto dello Stato opposto
alla esecuzione della legge federale, che fosse ritenuta lesiva dei poteri dello Stato, che
derivava dalla convinzione che la sovranità risiedesse esclusivamente negli Stati e nei loro
popoli, unici autori della stessa Costituzione federale: si veda in proposito M.L.
, Potere e libertà nel mondo moderno. John C. Calhoun: un genio imbarazzante,
S
ALVADORI
Roma-Bari, 1996, pp. 229 e ss.
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292 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
mere, ma prima ancora perché si pensa che il trattato non basti più,
che l’insieme delle relazioni tra gli Stati non sia più contenibile nella
dimensione del trattato e formi invece un ordine che merita una
costituzione. Questo sembra essere il punto al quale si è arrivati oggi
in Europa, ed è da questa prospettiva che sembra imminente un vera
e propria svolta per il processo costituente europeo.
Già avevamo posto questo problema, all’inizio del nostro con-
tributo: quando la riforma dei Trattati cessa di essere una semplice
opera di riordino e di semplificazione per divenire vera e propria
opera costituente? È certamente importante che il Trattato del-
l’Unione riformato accolga la Carta, dando cosı̀ ulteriore impulso
alla formazione, per via giurisprudenziale, del diritto costituzionale
comune europeo. Noi crediamo però che tutto questo non sia
rappresentabile ancora come un autentico processo costituente. Il
processo costituente europeo non può operare solo con lo strumento
della giurisprudenza, ed alimentarsi di una logica puramente incre-
mentale ed evolutiva. Anche in questo caso, per avere una costitu-
zione è necessaria una decisione. È quella decisione che assunsero —
come abbiamo visto — i costituenti americani, quando abbandona-
rono la via della revisione degli Articoli di Confederazione, e con
essa la duplice regola della unanimità degli Stati e della semplice
approvazione parlamentare.
Quella regola era contenuta nell’articolo tredicesimo degli Ar-
ticoli di Confederazione. Anche noi in Europa abbiamo oggi il
nostro articolo tredicesimo da superare: è l’articolo 48 del Trattato
sull’Unione Europea, che prevede il metodo della Conferenza inter-
governativa per la modifica dei Trattati, e si conclude con un ultimo
comma: “Gli emendamenti entreranno in vigore dopo essere stati
ratificati da tutti gli Stati membri conformemente alle loro rispettive
). La differenza con gli Articoli di Confede-
regole costituzionali” (
23
razione sta solo nel fatto che l’articolo 48 del Trattato si limita a
rinviare alle regole costituzionali degli Stati membri, non prescri-
vendo un modo di ratifica che si esaurisca necessariamente nella
( ) Sulla regola del ‘comune accordo’ nella revisione dei Trattati, vedi B. D
23 E
W , Il processo semi-permanente di revisione dei trattati, in “Quaderni costituzionali”,
ITTE ,
3/2002, pp. 499 e ss. Nello stesso Quaderno vedi anche le considerazioni di G. A MATO
La Convenzione Europea. Primi approdi e dilemmi aperti, ibid., pp. 449 e ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 293
MAURIZIO FIORAVANTI
approvazione parlamentare, cosicché quegli Stati potrebbero ben
decidere per l’introduzione della voce popolare diretta nel procedi-
mento di ratifica. È noto per altro che alcuni Stati hanno già deciso
in questo senso.
È questo il vero banco di prova per il processo costituente
europeo: il modo popolare di ratifica del Trattato riformato, ed
insieme la rottura della regola della unanimità, la decisione per una
regola che stabilisca l’entrata in vigore della Costituzione europea tra
gli Stati che l’avranno ratificata, ovviamente a condizione che si tratti
di un numero elevato e rappresentativo degli Stati membri. Come si
ricorderà, i costituenti americani stabilirono 9 su 13. ).
Non spetta certo a noi formulare vere e proprie proposte ( 24
Possiamo però confrontarci, in conclusione, con lo ‘Studio di fatti-
bilità’ reso noto dalla Commissione Europea il 5 dicembre 2002, che
è corredato da un progetto organico di Costituzione dell’Unione
Europea, e che tocca in modo dettagliato proprio la nostra proble-
matica, forse troppo a lungo elusa, dei modi di ratifica.
Lo Studio della Commissione si fonda su un “concetto di base”,
che è quello di “dotare l’Unione di una Costituzione che sostituisce
i trattati esistenti” (p. I): non si poteva certo essere più chiari di cosı̀
nell’indicare l’obbiettivo. Tuttavia, non appena si approfondisce un
po’ di più l’argomento, ci rendiamo subito conto della sua comples-
sità. Intanto, in una Comunicazione del giorno precedente, del 4
dicembre, della stessa Commissione, in qualche modo diretta alla
Convenzione, si registra l’esistenza di un’alternativa, ancora del tutto
aperta: se concludere i lavori della medesima Convenzione con una
semplice riforma dei Trattati, a quel punto fatalmente seguendo
senza variazione alcuna le modalità indicate dall’articolo 48, o se
puntare decisamente, come risultato della medesima opera di ri-
forma, al Constitutional Treaty, da collocare al posto dei Trattati
esistenti, lavorando cosı̀ in modo ben più incisivo sullo scarto tra
Trattato e Costituzione, e dunque ponendo anche il problema, a
quel punto, di modalità nuove di approvazione e di ratifica (p. 23).
Anche secondo noi, è questa l’alternativa fondamentale. La
prima ipotesi è tutt’altro che esclusa. Non è insomma affatto detto
( ) Si veda Institutional Reforms in the European Union. Memorandum for the
24
Convention, Roma, 2002.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
294 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
che questa tanto conclamata Costituzione europea arrivi davvero,
magari nella forma appena enunciata del Trattato Costituzionale. E
può invece accadere che il processo costituente europeo si arresti, e
rifluisca lentamente e mestamente in un’ordinaria opera di riforma
dei Trattati. Noi qui però ragioniamo con la tecnica del ‘come se’, e
dunque procediamo avanti nel prendere in considerazione la se-
conda ipotesi, come se essa fosse prossimamente destinata a preva-
lere conducendoci questa volta davvero sulla via della Costituzione
europea. Quali problemi incontreremmo su questa via?
In primo luogo, si deve mettere in rilievo che scegliere la via
della Costituzione non significa affatto proporre, ed imporre, un
rottura dell’equilibrio istituzionale su cui si fonda l’Unione Europea:
tra gli stessi sostenitori della Costituzione è del tutto prevalente
l’idea che l’Unione abbia una propria natura specifica, sottratta
comunque al processo costituente, e che tale natura sia in sé
dualistica, dipendendo in ogni caso per un lato dagli Stati membri.
Ciò significa, in concreto, che non si fa la Costituzione perché si
vuole mutare tale natura dell’Unione, nella prospettiva dello Stato
federale europeo, e della conseguente riduzione degli Stati membri
a semplici parti dell’unico corpo politico federato. Non è questo il
punto, non è questo ciò che si vuole, non è questo il motivo per cui
si vuole la Costituzione europea. Su questo aspetto non si insisterà
mai abbastanza, data la sua importanza strategica, e data soprattutto
la necessità di svincolare in modo netto l’immagine della Costitu-
zione europea dall’immagine dello Stato federale europeo, in qual-
che modo destinato ad assorbire gli Stati membri.
La Costituzione europea non è dunque questo, non è la legge
fondamentale di un ipotetico Stato federale europeo. Dunque,
cos’altro è? Noi riteniamo che la si possa intendere come un insieme
di principi fondamentali, che i soggetti costituenti, ovvero gli Stati
membri con i loro rispettivi popoli, dichiarano essere, nel loro
complesso, i principi storicamente caratterizzanti l’Unione: la Costi-
tuzione è in questo caso il nucleo fondamentale del patto che sta alla
base della stessa Unione. In questo senso, il processo costituente
europeo può essere inteso come quel processo che tende ad estrarre
dalla complessa materia dei Trattati tale ‘nucleo fondamentale’,
collocandovi le grandi norme di principio, sulle finalità ed i compiti
dell’Unione, sui diritti fondamentali, sui poteri e sugli strumenti
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 295
MAURIZIO FIORAVANTI
normativi, sulle procedure di decisione. E che questa sia la ‘costitu-
zione’ dovrà essere chiaro anche per il tramite, come sempre deci-
sivo, delle future norme sulla revisione, che dovranno prevedere, per
tale ‘nucleo’, la protezione di un procedimento particolarmente
aggravato, con maggioranze particolarmente elevate, sia all’interno
delle istituzioni dell’Unione coinvolte nel procedimento, sia in sede
di ratifica da parte degli Stati membri. Se questo dovesse essere
davvero l’esito del processo che stiamo analizzando, nel decorso del
tempo ci abitueremmo a considerare ‘costituzione’ nient’altro che
questo, ovvero quella parte del patto tra gli Stati che si presenta
come più rigida perché contenente i caratteri essenziali del patto
medesimo: ciò che pare essere per altro una conclusione del tutto
adeguata e logica per una vicenda singolare come questa, che sembra
produrre per l’appunto una costituzione a partire da un trattato.
Rimane però un problema, che è in un certo senso quello dal
quale siamo partiti. Ricordiamo per un attimo il celebre intervento
alla Costituente di Filadelfia di James Madison, del 23 luglio
). Madison sapeva bene che la regola per la riforma degli
1787 (
25
Articoli di Confederazione, ancora ben vigenti tra gli Stati, era quella
della unanimità, e sapeva altrettanto bene che per lo meno due Stati
— Rhode Island e North Carolina — avrebbero votato contro. Con
grande decisione disse allora alla Convenzione: la regola della
unanimità vale per la riforma degli Articoli, ovvero del trattato
esistente, ma noi non stiamo riformando un trattato, ma facendo una
cosa diversa, che si chiama ‘costituzione’, che noi fonderemo sulla
volontà dei popoli, oltre quindi la semplice approvazione delle
legislature statali prevista dagli Articoli, e quando quella volontà sarà
chiaramente espressa — da parte delle Convenzioni appositamente
elette di 9 Stati su 13 —, noi metteremo legittimamente in vigore la
Costituzione, tra gli Stati che l’avranno approvata.
Oggi siamo in Europa al medesimo punto. Se ne sono accorti gli
autori dello ‘Studio di fattibilità’ della Commissione Europea del 5
dicembre, che sopra abbiamo già ricordato. Certo, non è più il
tempo delle Assemblee costituenti, e cosı̀ non troviamo, in questo
documento, i toni perentori di Madison, o una formulazione altret-
tanto netta della differenza tra trattato e costituzione. Anzi, il
( ) Vedi supra, nota 13.
25 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
296 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
tentativo è palesemente quello di conciliare, di stemperare, di ricon-
durre alla dimensione della procedura regolata il passaggio dal
trattato alla costituzione. Non v’è dubbio tuttavia che il problema sia
quello, in sostanza lo stesso formulato da Madison.
Si propone cosı̀ che la Costituzione europea — denominata
Treaty on the Constitution — entri in vigore mediante un Agreement
tra gli Stati membri, che prevede quanto segue: 1) che almeno tre
quarti degli Stati formulino una “dichiarazione solenne” di appar-
tenenza alla Unione Europea, ora dotata di Costituzione (articolo 5);
2) che con gli Stati che non intendano formulare tale dichiarazione
si aprano negoziati tesi a disciplinare la loro futura posizione nei
confronti dell’Unione (articolo 4); 3) che ad una certa data, a
condizione che almeno cinque sesti degli Stati abbiano sottoscritto
l’Agreement, o nella forma della dichiarazione solenne, o in quanto
abbiano concluso i negoziati previsti nel punto precedente, la Co-
stituzione entri in vigore, ovviamente tra gli Stati che l’abbiano
ratificata nella forma prevista al punto primo (articolo 6. 2 e 3).
L’intento è evidente: salvare il più possibile la regola della
unanimità prevista nell’articolo 48 attraverso lo strumento del-
l’Agreement, nella speranza che tutti gli Stati trovino il modo di
esprimere in esso la propria posizione, di piena appartenenza, o di
associazione più o meno stretta, secondo quanto si stabilirà nei
negoziati con ciascuno degli Stati che non intenderanno ratificare la
Costituzione. E tuttavia, la spessa coltre delle regole di procedura
non riesce a nascondere del tutto la sostanza: che quando si sarà
raggiunta — nel senso che sopra abbiamo precisato — la quota dei
cinque sesti degli Stati, l’Agreement sarà considerato concluso,
creando cosı̀ il presupposto per l’entrata in vigore della Costitu-
zione, ovviamente tra i soli Stati che l’avranno ratificata. A quel
punto, ogni ulteriore negoziato, eventualmente ancora in corso,
diverrà irrilevante, perché si sarà creata come una nuova legittimità,
che renderà possibile non attendere più nessuno. Si presumerà anzi
che gli Stati fuori dall’Agreement siano ormai, per loro stessa
volontà, fuori dall’Unione.
Alla fine, vi è dunque, anche in questo caso, una decisione alla
base della costituzione: si è cioè deciso che in ciò che chiamiamo
‘Costituzione europea’ sia contenuto un complesso di principi, e di
regole, di tale rilevanza per l’Europa da non poter essere lasciato
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 297
MAURIZIO FIORAVANTI
inespresso per la volontà contraria di solo un quinto degli Stati
membri. Non è un ragionamento molto dissimile da quello dei
costituenti americani, che non potevano rinunciare, dal loro punto
di vista, al progetto contenuto nella Costituzione federale per l’op-
posizione ad esso del Rhode Island e della North Carolina.
C’è però una differenza, con cui vorremmo concludere. Per i
costituenti americani fu decisivo l’argomento del voto popolare. È
vero infatti che si stabilı̀ che sarebbe stata sufficiente, al posto della
unanimità prevista dagli Articoli di Confederazione, la ratifica di
nove Stati su tredici, ma da ottenere attraverso speciali Convenzioni
direttamente elette dai popoli, e non più per via puramente parla-
mentare. Questo punto sembra invece intangibile in Europa. Lo
stesso Agreement sarà infatti ratificato dagli Stati membri “confor-
memente alle loro rispettive norme costituzionali” (art. 6.1), perfet-
tamente in linea con l’articolo 48 del Trattato sull’Unione, e dunque
con la ratifica parlamentare. Si è osservato sopra che per altro alcuni
Stati hanno già deciso a favore dell’introduzione della voce popolare
diretta nel procedimento di ratifica, e che altri potrebbero ben farlo,
pur rimanendo ferme le norme attuali. Noi riteniamo tuttavia che
questo non sia sufficiente, e che si dovrebbe compiere uno sforzo
ulteriore in questa direzione, in modo da garantire una deliberazione
popolare sulla Costituzione in ciascuno Stato, magari da effettuarsi
contestualmente, nella stessa data, e con modalità comuni. Pensiamo
che questo sia un punto non cosı̀ facilmente eludibile, per un motivo
molto serio, che attiene al piano della legittimazione: se davvero si è
deciso di mettere in discussione, almeno in parte, il fondamento
internazionalistico dell’Unione, consistente nel principio dell’una-
nime e comune accordo tra gli Stati, non si potrà allora troppo a
lungo rimanere a metà del guado, e si dovrà ricercare anzi rapida-
mente sull’altra sponda una legittimazione nuova per l’Unione, e per
la sua Costituzione, che non potrà non essere quella popolare.
Ovviamente, data la particolare natura dell’Unione, rimarrà il mar-
chio d’origine, e dunque tale legittimazione non andrà ricercata nel
popolo europeo, o in una speciale occasione costituente, ma nei
popoli dei singoli Stati, ed all’interno dei procedimenti di ratifica tra
gli Stati concordati. Entro questi limiti, un fondamento popolare per
la Costituzione europea sembra essere ormai necessario.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
ANGELA DE BENEDICTIS
RESISTERE: NELLO STATO DI DIRITTO,
SECONDO IL DIRITTO ‘ANTICO’,
NELL’EUROPA DEL ‘DIRITTO AL PRESENTE’
“… si rischia di provocare una loro [dei diritti] totale
incomprensione continuare a parlarne — come ancora
oggi si fa — mantenendo ben saldo in testa il modulo
inabdicabile dello Stato sovrano protettore; visione
positivistica e paleo-liberale insieme che riproduce an-
tistoricamente oggi una lontana infanzia dei diritti quali
situazioni bisognose di una tutela forte e pertanto
).
affidati allo Stato e pensati nello Stato” (
1
Queste considerazioni di Paolo Grossi nella Pagina introduttiva
del trentesimo numero dei “Quaderni Fiorentini” aiutano chi scrive
(ed è bene precisare subito che si tratta di una storica non giurista)
a presentare il problema “diritto di resistenza” e a delineare in
apertura l’approccio che verrà seguito.
I. Il “diritto di resistenza” è una questione che appartiene in
pieno alle scienze ottocentesche dello Staatsrecht, del diritto pub-
blico, del diritto costituzionale. Al loro interno viene tematizzato,
partendo dalla scienza tedesca di fine ’700 e giungendo alla scienza
italiana di fine ’800, come garanzia della libertà già compiutamente
realizzata nello Stato di diritto e quindi ormai privo di ragioni
giuridiche, dotato unicamente di interesse ‘storico’ residuale. Ora
che la teoria dello Stato di diritto viene vista criticamente in pro-
( ) P. G , Pagina introduttiva (Storia e cronistoria dei ‘Quaderni fiorentini’), in
1 ROSSI
“Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno” 30, 2001, I,
pp. 1-12:11. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
300 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
spettiva storica ( ); ora che alla prassi delle ‘tradizioni costituzionali
2
comuni’ è conferito un ruolo privilegiato dal fenomeno “globalizza-
), il problema “diritto di resistenza” può essere smontato
zione” ( 3
nelle componenti della sua costruzione teorica ottocentesca e ripor-
tato ad una questione fondamentale di prassi, intorno alla quale il
pensiero giuridico medievale e moderno ha costantemente e ripetu-
) dell’età della globaliz-
tamente riflettuto. Il “diritto al presente” (
4
zazione può comprendere, per l’“affollamento” che lo caratterizza, il
) degli
carattere “inclusivo, piuttosto che esclusivo e selettivo” ( 5
argomenti utilizzati da giuristi medievali e moderni nel discutere non
tanto sul “diritto di resistenza”, quanto piuttosto sulla liceità di
resistere secondo il diritto/i diritti.
Prima di entrare in medias res vale la pena ricordare quale
attenzione ricevesse il “diritto di resistenza” poco più di trent’anni
fa. Lo si farà sulla base di un breve ma denso intervento di un
filosofo del diritto (Norberto Bobbio), e di una lunga e dettagliata
voce — quasi una monografia — di uno storico del diritto (Giovanni
Cassandro): due esempi diversi di un forse comune Zeitgeist.
Nel 1971, nello stesso anno in cui si progettava il primo numero
dei “Quaderni Fiorentini”, Norberto Bobbio segnalava il “rinnovato
interesse per il problema della resistenza”, dopo aver sottolineato il
nesso tra stato liberale e democratico e “costituzionalizzazione” del
). “Dal punto di vista istituzionale lo Stato
diritto di resistenza (
6
liberale e poi democratico, che venne instaurato a poco a poco nei
paesi più progrediti lungo tutto l’arco del secolo scorso, fu caratte-
rizzato da un processo di accoglimento e di regolamentazione delle
varie richieste provenienti dalla borghesia in ascesa per un conteni-
mento e per una delimitazione del potere tradizionale. Poiché queste
( ) P. C - D. Z (eds.), Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Milano,
2 OSTA OLO
Feltrinelli, 2002.
) P. G , Pagina introduttiva, cit.
( 3 ROSSI
) M.R. F , Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni,
( 4 ERRARESE
Bologna, il Mulino, 2002.
) Ivi, p. 65.
( 5 ) N. B , La resistenza all’oppressione, oggi, relazione tenuta al convegno
( 6 OBBIO
sassarese su “Forme di autonomia e diritto di resistenza nella società contemporanea”
C (Autonomia e diritto di resistenza, “Studi Sassare-
organizzato da P IERANGELO ATALANO
si”, III, 1970-71), ora in L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990, pp. 159-179: 162.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 301
ANGELA DE BENEDICTIS
richieste erano state fatte in nome o sottospecie del diritto alla
resistenza o alla rivoluzione, il processo che diede luogo allo stato
liberale e democratico si può ben chiamare un processo di “costi-
tuzionalizzazione” del diritto di resistenza e di rivoluzione” ( ). Le
7
“ragioni storiche” della reviviscenza dell’interesse per il problema
della resistenza dipendevano dal fatto che “sia sul piano ideologico
sia sul piano istituzionale [era] avvenuta un’inversione di tendenza
rispetto alla concezione e alla prassi politica attraverso cui si venne
formando lo Stato liberale e democratico ottocentesco” ( ). Per
8
quanto allora non si svolgesse sul piano della storia del pensiero
giuridico, il ragionamento di Bobbio coglieva puntualmente la dif-
ferenza tra le discussioni condotte dagli autori del XVI e XVII
secolo ( ) e quelle del presente, una differenza che toccava l’essenza
9
stessa del diritto di resistenza ( ): “I teorici antichi discutevano sul
10
carattere lecito o illecito della resistenza sotto le sue diverse forme,
ovvero ponevano il problema in termini giuridici, mentre coloro i
quali discutono oggi di resistenza o di rivoluzione ne parlano in
termini essenzialmente politici, cioè si chiedono se questa resistenza
è opportuna e efficace; non si chiede se essa è giusta e costituisce un
diritto, ma se è conforme allo scopo” ( ).
11
Nel 1968, tre anni prima dell’intervento di Norberto Bobbio, il
volume XV del Novissimo Digesto Italiano pubblicava la “voce”
Resistenza (diritto di) redatta da Giovanni Cassandro: una lunga
trattazione sulla storia del diritto di resistenza, da Antigone alle
costituzioni contemporanee che prevedevano il diritto di resistenza,
che attraversava i numerosi momenti di emersione del problema nel
pensiero giuridico e filosofico medievale, moderno (con una parti-
( ) N. B , La resistenza all’oppressione, cit., p. 165.
7 OBBIO
) Ivi, p. 167.
( 8 ) Ricordo qui solo, al proposito, che Bobbio stilò la Avvertenza editoriale della
( 9 G , Giovanni
traduzione italiana a cura di Antonio Giolitti dello studio di O. VON IERKE
Althusius e lo sviluppo storico delle teorie politiche giusnaturalistiche. Contributo alla
storia della sistematica del diritto, Torino, Einaudi, 1943, pp. IX-X, come segnalato da L.
, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta,
M
ANGONI
Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 95.
) Lo ha sottolineato M. T , Tyrannie et tyrannicide de l’Antiquité à nos
( 10 URCHETTI
jours, Paris, PUF, 2001, nel capitolo dedicato al problema “Vitalità del diritto di
resistenza alle soglie del XXI secolo”, alla p. 935.
) N. B , La resistenza all’oppressione, cit., p. 172.
( 11 OBBIO © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
302 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
colare attenzione alle guerre di religione) e contemporaneo sulla
base di una amplissima e aggiornata letteratura. Il già giudice della
Corte costituzionale e politicamente liberale Cassandro non era
particolarmente disposto a riconoscere valore giuridico, e quindi
ammissibilità, al diritto di resistenza nel diritto contemporaneo.
Riconosceva però che per moltissimi secoli il diritto di resistenza fu
ritenuto avere valore giuridico. In quanto diritto che mirava “non già
a instaurare un ordine nuovo, ma a restaurare l’ordine vigente,
), il diritto
illegittimamente violato, e arbitrariamente esercitato” (
12
di resistenza era stato patrimonio comune della dottrina giuridica
dell’Europa occidentale, nonostante la quasi impossibilità a ricono-
scerlo come istituto giuridico. “In verità il problema del diritto-
dovere di resistenza... è riconducibile all’altro del rapporto libertà-
autorità, lungo il quale si svolge la storia delle società umane e degli
Stati, in seno alla complessa trama della quale la ‘resistenza’ appare
come un filo rosso continuo”. Meditare sopra la resistenza non era
possibile “senza meditare insieme sui problemi della vita dello Stato
e del diritto nella storia dell’Occidente... La resistenza non è affatto
scomparsa, nonostante la constatazione della sua incompatibilità con
). Era stata riproposta, nel XX secolo, dal
lo Stato moderno” (
13
formarsi di stati totalitari e da nuove forme di tirannide. E tiranno,
per Cassandro, poteva essere — oltre al dittatore — anche lo Stato
che si ponesse come unica fonte del diritto; anche lo Stato, quindi,
che facesse violenza agli enti politici minori: agli Stati di uno Stato
federale, a regioni, a città.
Vent’anni dopo la ‘voce’ di Cassandro, quando ormai il ragio-
nare in termini di “pensiero giuridico” aveva acquisito completa
cittadinanza nella ricerca italiana, un’altra ‘voce’, di nuovo redatta
da un filosofo del diritto, da Francesco Maria De Sanctis, proponeva
una definizione estremamente “inclusiva” del diritto di resistenza:
“Il tema è la resistenza al potere: il problema è se e quando questa
può assumere la connotazione di un diritto. Se l’obbedienza, intesa
come obbligo, è il segno che legittima il potere rendendolo effettivo,
la resistenza ad esso rappresenta una crisi più o meno radicale
( ) G. C , Resistenza (diritto di), in Novissimo Digesto Italiano, XV,
12 ASSANDRO
Torino, Utet, 1968, pp. 590-613, 604.
) Ibidem.
( 13 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 303
ANGELA DE BENEDICTIS
dell’effettività di questo (essendo resistenza il contrario di obbedien-
za), vale a dire il venir meno parziale o totale dell’obbligo di
obbedienza. La pensabilità di un diritto di resistenza, pertanto, si
determina in funzione della pensabilità di una differenza tra diritto
e potere tale che una definizione generalissima di esso potrebbe
essere: diritto di resistenza è il diritto di un soggetto (individuo,
gruppo, popolo) di non obbedire ad un potere illegittimo o agli atti
del potere non conformi al diritto. Tale definizione, pur nella sua
generalità, sottintende una distinzione tra potere legittimo e illegit-
timo; tra uso legittimo o illegittimo del potere. Distinzione che
diventa delicata e difficile laddove il potere si configura in partico-
lare come il potere politico dello Stato, e specificamente dall’epoca
in cui questo, superiorem non recognoscens, è fatto coincidere con il
).
concetto di sovranità” ( 14
Appare allora necessario riandare al pensiero giuridico che ha
formulato il dogma della sovranità dello Stato (Stato di diritto, Stato
moderno), per osservare come lı̀ sia stato costruito il “diritto di
resistenza”. L’esigenza odierna di verificare come siano stati forgiati
concetti già giudicati storicamente costanti e universalmente validi,
su cui si è negli ultimi tempi sviluppato uno specifico campo di
), costituisce anche da
indagine, tanto ricco quanto diversificato ( 15
qualche anno una urgente preoccupazione di alcuni storici impe-
gnati a comprendere e a far comprendere come le peculiarità e le
differenze della Alteuropa rispetto all’Europa degli Stati nazionali
sovrani possano in qualche modo servire alla comprensione dell’Eu-
ropa contemporanea. Se la scienza giuridica tedesca ottocentesca è
stata la prima ad assegnare il Widerstandsrecht allo Staatsrecht, la
attuale storiografia tedesca è stata di nuovo la prima a voler conte-
( ) F.M. D S , Resistenza (diritto di), in Enciclopedia del diritto, XXXIX,
14 E ANCTIS
Milano, Giuffrè, 1988, pp. 994-1003: 994-995. La rilevanza di questa ‘voce’ per una
,
attuale considerazione del problema è ora nuovamente sottolineata da D. Q UAGLIONI
B -K-H. L (eds.), Sapere, coscienza e scienza nel
Conclusioni, in A. D E ENEDICTIS INGENS
diritto di resistenza (XVI-XVIII sec.) - Wissen, Gewissen und Wissenschaft im Widerstan-
dsrecht (16.-18. Jahrhundert). Atti del Seminario Bologna 23-24 Febbraio 2001, Frankfurt
am Main, Klostermann, 2003 (in corso di stampa).
) V. la recente discussone nel convegno (organizzato dall’Istituto universitario
( 15
Suor Orsola Benincasa) “Per una storia dei concetti giuridici e politici europei” (Napoli,
20-22 febbraio 2003), i cui atti sono di prossima pubblicazione.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
304 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
stualizzare quel diritto in quella scienza. Da qui si partirà, anche
perché, come si è accennato sopra, pure la scienza giuridica italiana
avrebbe seguito un percorso analogo (che chi scrive sta cercando di
rintracciare).
Nella Sattelzeit della fine del XVIII secolo, cosı̀ rilevante per la
), il trattato di un protagonista del
scienza del diritto pubblico (
16
tardo illuminismo tedesco, August Ludwig Schlözer, dava inizio ad
una longeva tradizione interpretativa che aveva le sue radici nel
fondamentale mutamento concettuale verificatosi a partire dalla
seconda metà del XVIII secolo. Nel ricostruire l’origine del pro-
blema di ricerca “Widerstandsrecht”, Robert von Friedeburg ha
assegnato qualche anno fa un ruolo fondamentale allo Allgemeines
Statsrecht und Statsverfassungslehre di Schlözer, pubblicato nel
). Qui l’origine del nuovo diritto statale veniva localizzato
1793 ( 17
nella Riforma di Lutero e Zwingli, e nel conflitto confessionale il
diritto di resistenza trovava la sua nuova formulazione: “Von der
Zeit an war die große Frage von dem jure resistendi, aus der in der
). La novità stava per
Folge das Staatsrecht erwachsen musste” ( 18
Schlözer soprattutto nella generalizzazione del problema: “Lutero
predicava la vera religione; l’imperatore voleva proibirlo; natural-
mente si pose allora il problema se si dovesse obbedire all’impera-
tore in tutto e per tutto. No, non nelle questioni di credo religioso,
risposero nel 1531 entrambe le Facoltà di Wittenberg. Ben presto
( ) Per cui cfr. il fondamentale studio di M. S , Geschichte des öffentlichen
16 TOLLEIS
Recthts in Deutschland, 1, Reichspublizistik und Policeywissenschaft: 1800-1914, Mün-
chen, Beck, 1988; 2, Staatsrechtslehre und Verwaltungswissenschaft: 1800-1914, Mün-
chen, Beck, 1992.
) R. F , Widerstandsrecht und Konfessionskonflikt. Notwehr und
( 17 VON RIEDEBURG
Gemeiner Mann im deutsch-britischen Vergleich 1530 bis 1669, Berlin, Duncker &
Humblot, 1999, p. 26. von Friedeburg ha ripreso la questione nel saggio Widerstand-
srecht im Europa der Neuzeit: Forschungsgegenstand und Forschungsperspektiven, in R.
F (ed.), Widerstandsrecht in der frühen Neuzeit. Erträge und Perspektiven
VON RIEDEBURG
der Forschung im deutsch-britischen Vergleich, Berlin, Duncker & Humblot, 2001,
soprattutto pp. 16-25. Sulla epocale trasformazione del linguaggio dei diritti mi sem-
brano del tutto attuali, in riferimento al problema di cui si sta parlando, le riflessioni di
, Diritto naturale e rivoluzione, in Prassi politica e teoria critica della società,
J. H
ABERMAS
trad. it., Bologna, il Mulino, 1973, pp. 127-173.
) La citazione da Schlözer è riportata da R. F , Widerstandsrecht
(
18 VON RIEDEBURG
und Konfessionskonflik, cit., p. 26.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 305
ANGELA DE BENEDICTIS
risposta e domanda furono generalizzate, e si cominciò a parlare
). In questa
della ‘difesa dei sudditi nei confronti dell’autorità’” ( 19
difesa andava ricercato il vero e proprio momento originario del-
l’ordinamento giuridico dell’Impero, la cui sostanza il professore di
Göttingen individuava nella possibilità dei sudditi di appellarsi a
tribunali indipendenti contro le decisioni delle loro autorità. Il
diritto di resistenza rientrava, però, nel “dominio del diritto” solo ed
unicamente in quanto esso potesse essere rivendicato dai rappresen-
tanti del popolo, dai ceti elettivi che mettevano “in pratica un dovere
ed un diritto universale del cittadino, quello… di scoprire e denun-
):
ciare oppressioni, abusi e difetti, di indicarli, di porvi rimedio” ( 20
non quindi dal singolo suddito, non dall’”uomo comune”, non dal
popolo inteso come massa. “Guai perciò allo stato dove non ci sono
rappresentanti del popolo; felice Germania, l’unico paese al mondo
dove secondo il diritto si può citare il proprio sovrano, senza
pregiudizio per la sua dignità, presso un tribunale estraneo, non
).
presso il suo” (
21
Per l’illuminista Schlözer i due tribunali imperiali, il Reichskam-
mergericht e il Reichshofrat, consentivano la mediazione di qualsiasi
grave conflitto tra sudditi e principe territoriale attraverso il ricorso
al diritto ( ).
22
Il nucleo della dottrina costituzionale di Schlözer — ovvero la
concezione del Sacro Romano Impero inteso come costituzione
mista di monarchia ereditaria, aristocrazia ereditaria e democrazia di
ceti elettivi rappresentativi del popolo e della nazione, nonché il
( ) R. F , Widerstandsrecht und Konfessionskonflikt, cit., p. 26
19 VON RIEDEBURG
(traduzione di A.D.B.).
) La citazione italiana di Schlözer è ripresa da M. S , La nascita delle
( 20 CATTOLA
scienze dello Stato. August Ludwig Schlözer (1735-1809) e le discipline politiche del
Settecento tedesco, Milano, Franco Angeli, 1994, p. 212.
) Anche questa citazione italiana di Schlözer è ripresa da M. S , La
( 21 CATTOLA
nascita delle scienze dello Stato, cit., p. 159, che la riporta analizzando le “aporie del
diritto di resistenza” dello scrittore tedesco. Lo stesso passo in tedesco in R. VON
F , Widerstandsrecht und Konfessionskonflikt, cit., p. 27. Va ricordato, con von
RIEDEBURG
Friedeburg, che l’analisi della costituzione imperiale è in Schlözer ancora intessuta da
una attenta analisi storica. Schlözer segue lo sviluppo degli argomenti di jus resistendi nei
monarcomachi francesi, poi nell’Impero della Guerra del Trent’anni, e quindi nelle
rivoluzioni inglesi.
) M. S , La nascita delle scienze dello Stato, cit., pp. 213-215.
( 22 CATTOLA
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
306 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
posto in essa occupato dal diritto di resistenza — seguiva però in
certo modo la fine del vecchio Impero. La formazione di singoli stati
sovrani nel Deutscher Bund imponeva una nuova concezione della
rappresentanza con la questione della landständische Verfassung di
ogni stato. Per quanto controverse ne fossero le interpretazioni, si
trattava pur sempre di decidere, diversamente da prima, tra sovra-
nità del principe e sovranità popolare, con un generalizzato rifiuto
).
del modello costituzionale veterocetuale (
23
Nel corso del movimento per la istituzione di una landständische
), la questione del diritto di resistenza fu
Verfassung (1815-1860) (
24
posta come soluzione al problema della tutela giuridica della costi-
tuzione “borghese” contro lo stato monarchico, assumendo contorni
nuovi: “La contrapposizione di allora produceva una retroproie-
zione nel passato medievale. Nei nuovi stati sovrani sorti dallo
scioglimento del vecchio Impero nel Deutscher Bund, il diritto di
resistenza diventò perciò la prova, supportata da esempi, per il
conflitto condotto con argomenti storici sulla legittimità della rap-
presentanza principesca o popolare. La scienza storica, in quanto
disciplina, poté conseguire il suo ruolo di scienza principale soprat-
tutto per il fatto che alle conoscenze acquisite attraverso di essa
vennero attribuite conseguenze significative per la legittimità di
).
controversi concetti politici” ( 25
La concezione sostenuta da Immanuel Kant — proprio nello
stesso anno 1793 della Statsverfassungslehre di Schlözer — che un
popolo non potesse trovare nella storia, ovvero in una “costituzione
civile già stabilita” alcuna dimostrazione dei propri diritti; che, per
essere il popolo rappresentato nel supremo potere legislativo del
capo dello stato/sovrano, al popolo stesso veniva fatto divieto
assoluto ad ogni resistenza contro il capo dello stato, anche nel caso
che questi avesse violato “il contratto originario” e avesse perso “in
tal modo, a giudizio dei sudditi, il diritto di essere legislatore, per
);
aver autorizzato il governo a condursi del tutto tirannicamente” (
26
( ) R. F , Widerstandsrecht und Konfessionskonflikt, cit., p. 29.
23 VON RIEDEBURG
) Ivi, pp. 16-25 sulla “nascita di un problema di ricerca”.
( 24 ) R. F , Widerstandsrecht und Konfessionskonflikt, cit., p. 30
(
25 VON RIEDEBURG
(traduzione di A.D.B.).
) La citazione in italiano è tratta da Sopra il detto comune: “Questo può essere
( 26 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 307
ANGELA DE BENEDICTIS
questa concezione era in qualche modo rovesciata dal movimento
costituzionale della prima metà del diciannovesimo secolo.
Uno dei primi esempi fu lo Entwurf einer Verfassung, die auf alte
germanischem Recht beruht, auf neu germanischen Ständen und auf
einem gesalbten König di J.F. Benzenberg (1816). L’anno dopo, nel
1817, Johann Ludwig Klüber, professore di diritto a Heidelberg,
sosteneva (Das öffentliche Recht des deutschen Bundes) che se l’isti-
tuzione Stato monarchico (di diritto pubblico) e la società borghese
(di diritto privato) dovevano essere necessariamente divisi e distinti,
doveva essere anche previsto un diritto del popolo — nel senso della
società di diritto privato borghese — alla resistenza contro lo Stato,
inteso nel senso di Stato monarchico istituzionalizzato, nel caso che
questo Stato violasse la costituzione. Il diritto di resistenza diventava
un problema di garanzie costituzionali a tutela di libertà e ugua-
glianza giuridica. Dopo il 1820, la radicalizzazione del conflitto rese
normale il ricorso a fondamenti storici per la legittimazione di
progetti costituzionali che rifiutavano sia le costituzioni concesse dal
).
monarca sia le vecchie rappresentanze cetuali (
27
Uno degli esempi più “spettacolari” della nuova attualità della
ricerca storica nel conflitto per l’assetto costituzionale dei nuovi stati
nel Deutscher Bund è ritenuto lo studio pubblicato nel 1832 da
Friedrich Murhard, consigliere di prefettura del regno di Westfalia-
dipartimento di Fulda. In Widerstand, Empörung und Zwangsübung
der Staatsbürger gegen die bestehende Staatsgewalt, in sittlicher
und rechtlicher Beziehung la contrapposizione tra “Rechtsstaat” e
“Gewaltstaat” veniva ricondotta ad una storia che da esempi molto
). I “sistemi statali di un diritto dei
risalenti conduceva al presente (
28
più forti” venivano visti in un percorso che andava da Machiavelli a
giusto in teoria, ma non vale per la pratica” [1793], in I. K , Scritti politici e di filosofia
ANT
2
, pp. 237-281: 265. Sul famoso saggio di K
della storia e del diritto, Torino, Utet, 1965 ANT
R. F , Widerstandsrecht und Konfessionskonflikt, cit., si sofferma alle pp.
VON RIEDEBURG
28-29. Il problema kantiano del “diritto di resistenza” in rapporto alla valutazione della
rivoluzione francese è stato oggetto di numerose analisi (tra le quali cfr. l’Introduzione di
a I. K , Scritti politici, cit., pp. 37-39). Rinvio, per questo, ai riferimenti di
G. S
OLARI ANT
, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 2, L’età delle rivoluzioni, 1789-1848,
P. C OSTA
Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 150-157.
) R. F , Widerstandsrecht und Konfessionskonflikt, cit., pp. 29-30.
( 27 VON RIEDEBURG
) Ibidem.
( 28 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
308 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Hobbes; mentre le “voci per una incondizionata obbedienza” anda-
vano da Lutero a Bodin a Hobbes, poi a Filmer, Kant e Gentz; e, di
contro, le “voci per la legittimità della resistenza e dell’esercizio del
potere coercitivo contro l’esistente potere dello Stato in casi parti-
colari” correvano da George Buchanan a John Milton, a John Locke,
).
a Algernon Sidney (
29
La Wissenschaftsgeschichte del problema “diritto di resistenza”
tracciata da von Friedeburg comprende ancora il Ranke della Ge-
schichte der Reformation (1838-1840); si sofferma sulla particolare
importanza del concetto di “Genossenschaft” sia nella Restauration
der Staatswissenschaften di Carl Ludwig von Haller (1816), sia nel
Volksrecht und Juristenrecht di Georg Beseler (1843), sia — e
ovviamente — sul Johannes Althusius di Otto von Gierke (1879);
giunge quindi allo Staatsrecht und Naturrecht in der Lehre vom
Widerstandsrecht des Volkes di Kurt Wolzendorff (1916), il punto
più alto della proiezione della concezione dualistica dello stato
monarchico sugli argomenti di jus resistendi elaborati tra Riforma e
Illuminismo, e contemporaneamente la negazione del diritto di
resistenza in quanto corpo estraneo, anacronistico, nello Stato mo-
derno. Diventato infatti lo Stato monarchico uno Stato costituzio-
nale — uno Stato moderno caratterizzato da un potere monarchico
costituzionalmente limitato — il diritto di resistenza era inteso come
un contributo all’origine del diritto del nuovo Stato (come già aveva
intuito Schlözer), ma ormai privo di significato attuale, dal momento
che lo Stato stesso forniva ai cittadini i mezzi giuridici per la tutela
dei loro diritti ( ).
30
( ) Ivi, pp. 30-32.
29 ) Ivi, pp. 33-45. Va segnalato che la Wissenschaftsgeschichte di von Friedeburg
( 30
prende in considerazione la posizione della cultura luterana ottocentesca, e poi soprat-
tutto di Troeltsch, e dopo Weimar di Hans Baron, concludendosi con il processo di
revisione dell’immagine di Lutero e della ortodossia luterana successivo alla fine della II
Guerra mondiale. La ricerca di von Friedeburg è parte integrante di questa stessa
revisione, condotta nel solco di altri studiosi come Luise Schorn-Schütte, di cui, al
proposito, Politikberatung im 16. Jahrhundert. Zur Bedeutung von theologischer und
juristischer Bildung für die Prozesse politischer Entscheidungsfindung im Protestantismus,
-F. E (eds.), Zwischen Wissenschaft und Politik. Studien zur
in: A. K OHNLE NGENHAUSEN
deutschen Universitätsgeschichte. Festschrift für Eike Wolgast zum 65. Geburtstag, Stutt-
-S (ed.),
gart, Franz Steiner Verlag, 2001, pp. 49-66, e più in generale L. S }
CHORN CHU
TTE
Alteuropa oder Frühe Moderne. Deutungsmuster für das 16. bis 18. Jahrhundert aus dem
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 309
ANGELA DE BENEDICTIS
Questo quadro sul diritto di resistenza, per nulla usuale nella
recente storiografia, consente, e giusto a questo punto, di delineare
un quadro molto meno chiaro, ma a mio parere similmente degno di
un certo interesse, della presenza del problema nella scienza giuri-
dica ottocentesca italiana.
Le diverse valutazioni della resistenza come problema della
scienza criminalistica italiana erano state discusse, negli anni ses-
santa, nel Programma del Corso di diritto criminale, Parte speciale di
), con una analisi della questione che utilizzava
Francesco Carrara (
31
ancora tutta la letteratura cinque-settecentesca dei “pratici”. Carrara
riteneva errato “nel punto di vista scientifico” associare il reato di
resistenza al concetto di lesa maestà, come invece molta criminali-
stica continuava a sostenere. Ma parlava, ovviamente, di reato.
La prospettiva di una considerazione del “delitto” di resistenza
nei termini rovesciati del “diritto” veniva individuata, a metà degli
anni ottanta, all’interno del dibattito dottrinale precedente il codice
penale del 1889 e come tentativo di risposta alla “sedizione anar-
). Nel saggio Diritto e delitto di resistenza uscito in tre parti
chica” (
32
nell’annata 1884 de “Il Filangieri. Rivista periodica mensuale di
), l’avvocato Luigi
scienze giuridiche e politico-amministrative” (
33
Masucci si addentrava nell’analisi sia della “teoria della resistenza
collettiva” sia di quella della “resistenza individuale”, dando conto
delle “grandi divergenze” e dei “continui tentennamenti” della
). L’intento di Masucci era duplice: soste-
scienza al proposito (
34
Krisenbewusstsein der Weimarer Republik in Theologie, Rechts- und Geschichtswissen-
schaft, Berlin, Duncker & Humblot, 1999.
) F. C , Programma del Corso di diritto criminale, Parte speciale, VI ed.,
( 31 ARRARA , M. S , Dissenso politico e diritto penale in Italia
vol. V, Prato 1890. Su C
ARRARA BRICCOLI
tra Otto e Novecento. Il problema dei reati politici dal “Programma” di Carrara al
“Trattato” di Manzini, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico”, 2,
, in Dizionario biografico degli
1973, pp. 607-702; e la voce redatta da A. M AZZACANE
italiani, 20, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1977, pp. 664-670.
) Sul dibattito M. S , Dissenso politico e diritto penale, cit., p. 646.
( 32 BRICCOLI
) L. M , Diritto e delitto di resistenza, in “Il Filangieri. Rivista periodica
(
33 ASUCCI
mensuale di scienze giuridiche e politico-amministrative”, IX, 1884, I, pp. 40-45;
119-140; 178-187. Il lavoro di Masucci era parte del dibattito dottrinale precedente il
,
codice penale del 1889, e tentativo di risposta alla “sedizione anarchica”: M. S
BRICCOLI
Dissenso politico e diritto penale, cit., p. 646.
) L. M , Diritto e delitto di resistenza, cit., p. 123.
( 34 ASUCCI © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
310 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
nerne la legittimità di entrambe le teorie, a determinate condizioni;
dimostrarne la completa appartenenza alla scienza giuridica del
diritto pubblico. Da una parte si trattava di dimostrare al popolo,
contro gli argomenti dei partiti anarchici, che la “teoria della resi-
stenza” era “teoria di ordine” in quanto frenava “le autorità sul
pericoloso pendio degli abusi” ai quali potevano essere facilmente
). Dall’altra parte si trattava di dimostrare
trascinate dal potere (
35
agli scienziati del diritto, contro coloro che ancora ravvisavano “nel
trionfo di questa dottrina un pericolo grave e permanente per il
pacifico e disciplinato svolgimento della vita delle nazioni”, che il
principio della resistenza era tutt’altro che pericoloso e sovversivo.
Intendeva, invece, mantenere l’ordine pubblico; dar voce alla co-
scienza dei popoli; era quindi principio giuridico e razionale quando
affermava la resistenza alla tirannia e l’opposizione all’ingiusti-
).
zia ( 36
La scienza che riteneva legittima la resistenza ai soprusi serviva
al mantenimento della pace e dell’ordine, e bisognava amarla. Chi
voleva che la pace e l’ordine non fossero “turbati né dagli abusi della
libertà, né dagli abusi del potere”; chi voleva che l’attività dei
cittadini e l’attività del governo concorressero “ad un unico scopo,
lo svolgimento pacifico, temperato, progressivo della vita del dritto”
non doveva “ribellarsi contro la teorica della resistenza ai soprusi”,
che era razionale in quanto tendeva “a ristabilire il necessario
equilibrio illegalmente rotto dalle autorità”. Doveva invece far com-
prendere al popolo che quella teorica distruggeva tutti gli argomenti
dei partiti anarchici. Di fronte alle loro obiezioni che non vi fosse
nessuno a sorvegliare e frenare i governanti, gli scienziati giuristi
dovevano rispondere che c’era il popolo a vigilare gelosamente
sull’osservanza delle leggi, frenando “le autorità sul pericoloso pen-
).
dio degli abusi” ( 37
Questa resistenza collettiva aveva “rischiarata la coscienza dei
popoli” e dato animo alla “dignità delle nazioni” soprattutto da
quando, con la gloriosa rivoluzione inglese, la teoria della resistenza
era diventata parte del diritto pubblico inglese. La rivoluzione
( ) Ivi, p. 120.
35 ) Ibidem.
( 36 ) Ivi, pp. 119-120.
( 37 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 311
ANGELA DE BENEDICTIS
francese aveva poi elevato “a regola l’eccezione”; e vi erano stati
ancora il 1815 e il 1830 in Europa. Blackstone, Romagnosi, Berriat
Saint Prix, Fischel, De Lolme, Maculay, Lamartine, Serrigny, Blun-
tschli, Melegari, Caruti, Casanova, Garelli, Palma, e molti altri non
citati “per brevità”, erano stati ed erano i “propugnatori dottissimi
e convinti” che avevano “definitivamente conquistato alla scienza”
“la teoria della resistenza collettiva legittima all’opera illegittima
).
delle pubbliche autorità” ( 38
La teoria della resistenza collettiva era giusta, quindi, e razio-
nale, ma doveva essere praticata solo in determinati casi. Ad essa
non poteva darsi “un’applicazione indefinita, senza spingere real-
mente le moltitudini a deplorevoli eccessi, e travolgere la società in
). Certamente, essa
continue lotte, fonti di disordine e di miseria” ( 39
non aveva motivo di essere in un governo monarchico costituzionale
rappresentativo, come quello italiano del tempo, che assicurava il
). In un tale
godimento di una “libertà temperata e feconda” ( 40
paese il diritto di resistenza non era più un principio giuridico e
).
razionale, ma rimaneva solo un “doloroso ricordo storico” (
41
Se sulla resistenza collettiva si poteva registrare una sostanziale
concordia dei giuristi “pubblicisti”, a proposito della “resistenza
individuale agli ordini illegittimi delle pubbliche autorità” non si
poteva dire lo stesso. Molti erano ancora i sostenitori della teoria
dell’ubbidienza passiva, convinti che la legge offrisse sempre agli
individui i mezzi per protestare pacificamente, e quindi la possibilità
che loro fosse resa ragione. Ma la teoria dell’obbedienza passiva non
era affatto razionale, non era affatto “indispensabile per l’ammini-
strazione dello Stato e per la tranquillità sociale”. La storia della
scienza giuridica, in questo caso la criminalistica anche dei secoli
), sosteneva Masucci nel
passati a partire dal diritto romano ( 42 ). La
mostrare l’assurdità della “teorica dell’ubbidienza cieca” (
43
storia, oltre che il lume della ragione, aiutava il giurista a determi-
( ) Ivi, pp. 44-45.
38 ) Ivi, pp. 119-120.
( 39 ) Ivi, p. 120.
( 40 ) Ivi, p. 122.
( 41 ) Ivi, pp. 124-125.
( 42 ) Ivi, p. 135.
( 43 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
312 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
nare i principı̂ che avrebbero potuto “agevolare efficacemente
).
l’opera faticosa del magistrato” nell’ardua fatica forense ( 44
Scienza del diritto pubblico e scienza del diritto criminale
dovevano entrambe riconoscere, in determinate circostanze, il di-
ritto di resistenza collettivo e il diritto di resistenza individuale.
Un anno dopo lo scritto di Masucci, nel 1885, il diritto penale
e il diritto costituzionale non erano più ritenuti adeguati a discipli-
nare insieme “scientificamente la materia troppo grave e complessa”
del diritto di resistenza. Una “teoria scientifica e completa sul diritto
di resistenza” poteva essere sviluppata solo specificamente dal di-
ritto pubblico. Vittorio Emanuele Orlando intendeva farlo con il suo
).
studio Della resistenza politica individuale e collettiva ( 45
Scopo di Orlando era non solo e non tanto offrire alla scienza
italiana un lavoro specifico che ancora mancava, ma soprattutto
“colmare una lacuna” generalmente lamentata nella scienza del
diritto costituzionale malgrado la ricchissima bibliografia esistente e
dovuta “in grandissima parte” a scrittori inglesi o tedeschi. Si
trattava di una bibliografia alla quale gli “scrittori speciali” avevano
contribuito non praticando “quella coordinazione sistematica senza
la quale non p[oteva] darsi trattazione scientifica”, poiché le loro
opere erano “veri e proprii scritti di polemica”, pubblicazioni
“infarcite di lunghe dispute teologiche”. Lutero e i giuristi di
Wittemberg tra i tedeschi; Milton, Salmasio, Filmer, Sidney tra gli
inglesi (protagonisti della “grande ribellione”, di uno dei “periodi
rivoluzionarı̂ che l’Europa ha attraversato in tempi moderni” ( ))
46
avevano teso “piuttosto a confutare o difendere quel tanto che in
quel momento interessava anzi che a trattare scientificamente l’ar-
gomento”. Nessuna delle loro pubblicazioni riusciva pertanto a
sollevarsi al “campo indipendente di una discussione propria ed
autonoma”.
( ) Ivi, p. 187.
44 ) V. E. O , Della resistenza politica individuale e collettiva, Roma-Torino-
( 45 RLANDO
Firenze, Loescher, 1885. Anche questo studio giovanile di Orlando fu parte del dibattito
, Dissenso politico e diritto penale,
dottrinale precedente il codice penale: M. S BRICCOLI , La scienza
cit., p. 646 n. Sul ruolo dello scritto nella riflessione orlandiana M. F IORAVANTI
del diritto pubblico: dottrina dello Stato e della costituzione tra Otto e Novecento, Milano,
Giuffrè, 2001, I, pp. 94-132.
) V. E. O , Della resistenza politica, cit., p. 1.
(
46 RLANDO
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 313
ANGELA DE BENEDICTIS
Il problema di fondo, che era quello “dell’obbedienza al sovrano
e dei limiti di essa”, aveva certo “relazioni assai intime con diversi
ordini di scienze” e di discipline, tra le quali, specialmente “le generali
discipline filosofiche” che si occupavano “dello sviluppo e del pro-
gresso dell’umanità, delle condizioni fondamentali di esistenza di
essa”. Ogni scienza aveva però “modi proprii di osservazione”, e do-
veva “necessariamente considerare un argomento da quel lato che
principalmente [aveva] rapporti con essa”. Questo lato era quello
“specifico del diritto pubblico”. A questo solo apparteneva e trovava
il suo proprio posto l’argomento della resistenza. Solo esso intendeva
“a una teoria scientifica e completa sul diritto di resistenza”.
Né in Inghilterra, né in Francia una tale teoria era mai stata
sviluppata nei rispettivi “periodi rivoluzionari”. In Germania essa
mancava soprattutto nel campo della filosofia del diritto. In Italia i
pur “pregevoli lavori” generali di diritto penale e di diritto costitu-
zionale non avevano comunque “disciplinato scientificamente la
materia troppo grave e complessa”. Questa materia doveva essere
trattata “in speciale maniera… onde ricevere una sistemazione rigo-
rosamente giuridica”. Data la confusione esistente, il fine richiedeva
necessariamente una esposizione introduttiva delle “varie dottrine”
sulla resistenza, che però non si poteva ricavare dai “veri e propri
scritti di polemica”, ma unicamente da “tre lavori assai diversi per
mole e per valore”, tutti tedeschi, collocabili tra scienze politiche e
scienze dello Stato. Fornivano la base alla trattazione scientifica e
sistematica di Orlando contributi in parte nati all’interno dei dibat-
titi per la istituzione di una landständische Verfassung — cui si è
accennato sopra —, come quello di Friedrich Murhard, Ueber
Widerstand, Empörung, und Zwangsübung der Staatsbürger gegen die
bestehenden Staatsgewalt (1832); e poi il capitolo di Robert von
Mohl in Die Geschichte und Literatur der Staatswissenschaften
(1855), e l’articolo di Bluntschli Gehorsam und Widerstand nel
Deutsches Staatswoerterbuch (1865).
Lo scopo della scientificità e sistematicità induceva Orlando ad
andare oltre le sue fonti e a porre un netto spartiacque tra un prima
e un poi, tra rivolta violenta e resistenza. Lo spartiacque era costi-
tuito sia dalla teoria e dal diritto costituzionale, sia dalla formazione
dello stato costituzionale. “La resistenza, sia popolare sia collettiva,
presuppone necessariamente una teoria ed un diritto costituzionale.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
314 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Non è quindi a discorrere di una giuridica nozione di quella per
tutto il lungo volger di tempo che la formazione dello stato costitu-
). Prima della resistenza vi era stata solo “rivolta
zionale precede” (
47
violenta contro la persona del Sovrano” che avesse oltrepassato e
calpestato il fine cui l’autorità suprema era preposta “cioè di curare
il meglio dei sudditi”. La rivolta violenta era apparsa naturalmente ai
sudditi come l’unico mezzo adatto a “scuoterne il giogo”: gli esempi
). Nella storia la legit-
erano “antichi quanto la storia medesima” (
48
timità della resistenza era stata discussa “con meri criteri filosofici
anzi che giuridici”, sia presso i classici, sia nel cristianesimo, sia nel
medio-evo. Durante la Riforma “il grido della resistenza popolare”
diventò “un dovere spirituale”, ma privo di base giuridica che
mancava “nella scienza poiché una teoria dello Stato non esisteva
ancora, mancava nelle costituzioni che non avean tradizioni liberali”.
Solo con Grozio e con Hobbes poté nascere una “dottrina sulla
resistenza politica”, dal momento che solo con loro “si formò una
teoria scientifica sullo stato”. Questa teoria presupponeva “la con-
siderazione dell’indole, dell’intima natura del rapporto politico fra
governanti e governati, ... la nozione dei diritti politici individua-
). Col suo supporto si potevano considerare sia la resistenza
li” (
49
individuale, sia la resistenza collettiva o popolare nella sua forma
legale e nella sua forma illegale o di rivoluzione. Ed era proprio a
partire dalla resistenza individuale che Orlando dimostrava come
solo la scienza del diritto costituzionale potesse ammetterla come
diritto.
Dato che la questione della legittimità o meno “della resistenza
del singolo cittadino all’azione dell’ufficiale pubblico, la resistenza
individuale” supponeva “necessariamente la illegalità del procedi-
mento del funzionario”, cadendo altrimenti nel “delitto di ribellio-
ne”, l’esame del problema apparteneva “insieme a due scienze del
diritto pubblico interno, il penale e il costituzionale”. Per assicurare
“chiarezza e rigore al soggetto e semplicità all’esposizione” biso-
gnava innanzitutto determinare “il lato dal quale ognuna” scienza
considerava la resistenza individuale, “i criteri di cui ognuna” si
( ) Ivi, p. 5.
47 ) Ivi, p. 5.
( 48 ) Ivi, p. 8.
( 49 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 315
ANGELA DE BENEDICTIS
serviva. Praticare tale delimitazione consentiva a Orlando di verifi-
care un risultato positivo e uno negativo: “Il Diritto costituzionale
esamina se fra i diritti di libertà esiste anche il diritto alla resistenza
individuale: il diritto punitivo invece annovera fra i reati quello della
resistenza al pubblico ufficiale, e vuol determinare se sia motivo
dirimente il reato, l’elemento di fatto che l’ufficiale suddetto agisse
illegalmente. Positivo è quindi il primo esame, negativo il secondo:
ma esiste fra essi necessariamente un rapporto che sarà bene deter-
). Il problema, come già in Masucci, poteva essere anche
minare” (
50
affrontato nella “fusione dei due aspetti”. Ma era importante “tenere
scrupolosamente distinti i campi delle scienze diverse… perché la
ragion metodica risponde[va] sempre alla ragione intima dell’argo-
). L’esame puramente negativo del diritto penale aveva
mento” (
51
bisogno “del soccorso del diritto costituzionale”, perché quest’ul-
timo considerava non tanto se il cittadino che resisteva al procedi-
mento illegale dovesse “ritenersi come scusato”, quanto piuttosto se
). La maniera in cui la
in tal caso egli usava di un suo diritto ( 52
scienza del diritto costituzionale considerava la materia era “sempli-
ce ed evidentissima”: “Il diritto costituzionale moderno studia l’or-
dinamento dei pubblici poteri col necessario presupposto della
libertà: sia più o meno lato il senso col quale gli scrittori moderni
definiscono la scienza, quel presupposto vien sempre ritenuto espli-
citamente o implicitamente. Ora la legittima resistenza apparisce
come una sanzione pratica della libertà individuale ed in questo
).
senso il diritto di resistenza è diritto di libertà” (
53
Essendo il diritto di resistenza un diritto di libertà, il “ricono-
scimento giuridico” di esso non poteva neppure concepirsi in forme
di governo che non ammettessero libertà — ovvero, per Orlando, in
qualsiasi forma di governo precedente lo Stato dotato di costituzione
liberale. Qui, ad esempio, la resistenza ad un arresto illegale di un
cittadino (l’esempio per antonomasia) non poteva essere ammessa
come diritto, “comunque una liberale giurisprudenza [avesse] am-
messo come dirimente il reato, il fatto dell’illegalità del procedimen-
( ) Ivi, pp. 41-42.
50 ) Ivi, p. 54.
( 51 ) Ivi, p. 44.
( 52 ) Ivi, p. 45.
( 53 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
316 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
to” ( ). Il problema era costituito soprattutto dal fatto che il più
54
delle volte l’arresto arbitrario era voluto “non dallo agente, mero
strumento, ma dalla mano più elevata” che lo faceva operare.
Davanti alla “massima fondamentale del dispotismo: quod principi
placuit legis habet vigorem” ogni “teoria liberale” veniva meno. In un
governo del genere “sanzionare il diritto politico di resistenza nel
cittadino, sarebbe [stata] una contraddizione col sistema e nessun
).
governo [aveva] mai pensato a stabilirla” (
55
Il diritto di resistenza come diritto di libertà aveva certo avuto
uno sviluppo storico, per quanto indiretto, che aveva coinciso “con
le successive affermazioni della libertà individuale e con le solenni
garanzie richieste perché fosse lecito al potere governante di pri-
varne il cittadino”. Tra gli “scrittori moderni” si discuteva molto se
“il diritto romano ammettesse la resistenza”, utilizzando prevalen-
temente passi del Codice e che si riferivano quindi “ad epoca in cui
ogni libertà popolare era venuta meno”. Tale era la “l. 5, C, de iure
fisci, (10, 1)”, che permetteva al privato di resistere all’ufficiale che
volesse “occupare quei beni caduti nel Fisco, senza un ordine
). Ma il diritto di resistenza individuale
speciale del principe” ( 56
rimaneva per Orlando questione puramente negativa del diritto
penale, mentre “un’importanza assai maggiore” rivestiva il diritto di
resistenza collettiva, perché aveva a che fare con il progresso storico
dell’umanità e poteva essere giuridicamente pensabile solo dentro la
costituzione. La differenza fondamentale tra i due diritti, quello
individuale e quello collettivo, stava nell’essere il primo la conse-
guenza della decisione di un giudice, ciò che non valeva per il
secondo. Nel caso della resistenza individuale ad un ufficiale che
avesse proceduto illegalmente avveniva una “dichiarazione solenne
di un magistrato che ne [aveva] l’autorità, la quale dichiarazione
retroagendo al momento in cui la resistenza ebbe luogo, stabili[va]
con obiettiva e indiscutibile certezza di chi fu il torto”. Era questa la
ragione principale che consentiva di difendere la legittimità della
resistenza individuale. “Non basta credere di essere nel diritto,
resistendo al funzionario; bisogna essere nel diritto: ed il giudicato a
( ) Ivi, p. 46.
54 ) Ivi, p. 47.
( 55 ) Ivi, p. 56, n. 9.
( 56 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 317
ANGELA DE BENEDICTIS
questo mira, a sostituire l’obiettiva constatazione della legittimità
della difesa alla obiettiva convinzione dell’agente”. Nulla di simile
poteva invece avvenire nella resistenza collettiva. Nessuna autorità
poteva giudicare “il conflitto fra il popolo e il governo” ( ).
57
I criteri per condurre l’esame, per distinguere i principı̂ in base
ai quali la resistenza collettiva o popolare potesse essere un diritto,
correvano lungo lo spartiacque della “costituzione vigente”. Nella
storia, prima del presente, Orlando individuava due “tipi storici più
salienti” nei quali ognuna delle diverse forme di resistenza collettiva
si era praticamente attuata: a) “resistenza collettiva legale”, ovvero casi
di resistenza che si erano “mantenuti entro i limiti della costituzione
vigente, volendone delle modificazioni, ma rispettandone la sostan-
za” ( ); b) “resistenza collettiva rivoluzionaria, o semplicemente rivo-
58
luzione”, ovvero la resistenza collettiva volta contro la costituzione
medesima, intesa a “distruggere l’ordinamento politico esistente”, a
“rimuovere la costituzione medesima come causa di ogni abuso” ( ).
59
Iscrivendosi l’oggetto di analisi di Orlando all’interno del diritto
costituzionale, il tipo della resistenza collettiva rivoluzionaria — so-
stanzialmente uno solo, la rivoluzione francese — naturalmente non
vi rientrava. “Il preteso diritto di rivoluzione avendo per iscopo ap-
punto la distruzione della costituzione, non può essere, per la con-
traddizione che nol consente, un diritto costituzionale” ( ). Per il di-
60
ritto pubblico moderno erano più rilevanti i tipi storici nei quali si era
realizzata la resistenza popolare legale contenuta nei limiti del dirit-
to ( ). Nel diritto pubblico romano questo ruolo era stato svolto dal-
61
l’istituzione del tribunato ( ). Nel medioevo il tipo storico della re-
62
sistenza collettiva aveva assunto una “forma specialissima”,
caratterizzata dal fatto che, per quanto “troppo di frequente, trasmo-
dasse in guerre civili e in sanguinose turbolenze, non perdeva il ca-
rattere di legale né diventava rivoluzione”. Per i principi generali di
diritto pubblico allora vigenti, quelli del sistema feudale, i rapporti
giuridici esistenti tra un sovrano considerato a lungo come primus inter
( ) Ivi, pp. 62-63.
57 ) Ivi, pp. 63-64.
( 58 ) Ivi, pp. 64-65.
( 59 ) Ivi, p. 104.
( 60 ) Ivi, p. 67.
( 61 ) Ibidem.
( 62 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
318 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
pares e i baroni “non eran quelli che modernamente si concepiscono
fra suddito e Sovrano, ma si riducevano a prestazioni determinate, in
corrispettivo di privilegi man mano strappati alla suprema autorità
dello Stato e che ogni dı̀ crescevano”. Allora, come anche nel periodo
in cui era sorto il Comune, il diritto di resistenza ebbe “questo ca-
rattere di diritto eccezionale, di privilegio”, ed era naturale che si lot-
). Era “forma spe-
tasse per “acquistarlo, o difenderlo, o allargarlo” (
63
cialissima” anche perché “diritto di resistenza armata”, che giunse a
far parte dell’ordinamento pubblico medievale a tal punto da essere
scritto “in due celebri Carte di quel tempo”, soprattutto la Magna
Charta e la Bulla Aurea d’Ungheria. Perciò “fu diritto costituzionale
vero e proprio codesto, di insorgere contro la violazione di una fran-
chigia, costringere l’autorità suprema a tornare al rispetto di essa, e
).
quindi prestarle di bel nuovo l’antica obbedienza” ( 64
Diritto costituzionale, il diritto di resistenza armato medioevale,
ma “diritto eccezionale e sfrenato”, le cui manifestazioni “energiche
e rozze non erano più compatibili col nuovo diritto pubblico che
). Le manifestazioni di
sorgeva”, quello dello “Stato moderno” (
65
quel diritto eccezionale e sfrenato furono annichilite “sotto l’uni-
forme potenza dell’autorità centrale”. La “coesione” fu poi raggiunta
dal dispotismo, la forma che “prevalse allora nella maggior parte
). Nessun tipo storico
delle nazioni europee, nei tempi moderni” (
66
di legittima resistenza collettiva, quindi, nei tempi moderni dello
Stato moderno, con una sola eccezione: il “tipo perfetto, quanto
).
inimitabile” dell’Inghilterra (
67
Se l’“esame storico” confermava il principio che lo “svolgimento
della popolare resistenza” rimaneva “nei limiti della costituzione
vigente”, rispettando la costituzione e spesso mirando a difenderla,
rimaneva però ancora per Orlando la necessità di determinare se
esistesse, e quale fosse “una ragione giuridica di essa”. Era una
questione che riguardava il presente. Bisognava cioè considerare se
esistesse un “diritto di resistenza collettiva”, ed in quali casi potesse
( ) Ivi, pp. 68-69.
63 ) Ivi, pp. 69-70.
( 64 ) Ivi, p. 69.
( 65 ) Ivi, pp. 69-70.
( 66 ) Ivi, p. 71.
( 67 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 319
ANGELA DE BENEDICTIS
ammettersene l’esercizio in quanto diritto politico. Due ne erano
sostanzialmente le condizioni: “Perché la resistenza legale si conce-
pisca come un diritto, occorre in primo luogo che il popolo abbia
per la costituzione una parte qualsiasi nell’andamento della pubblica
cosa. … Dato il concorso di questo elemento, e dell’altro da noi già
esaminato cioè che la resistenza popolare sia specificamente diretta
non tanto contro la costituzione quanto contro quel dato arbitrio,
può dirsi che la resistenza collettiva costituisca un diritto politico,
).
comunque per sua natura eccezionale” (
68
Nei tempi recenti vi era stato peraltro uno straordinario sviluppo
di mezzi morali di resistenza collettiva legale, che avevano “reso più
raro l’uso dei mezzi materiali di pura resistenza legale [l’uso delle armi]
che invece era frequente nel medio evo, quando dei mezzi morali era
). La pubblica opinione, la stampa, le asso-
quasi nulla l’efficacia” (
69 ) erano i mezzi
ciazioni politiche, le riunioni o assemblee popolari ( 70
morali, “una maniera di freni i quali tutelassero le pubbliche libertà
e i diritti della comunità senza aver ricorso all’uso della forza che
). Erano mezzi che
diventava ognora più difficile e più rovinoso” ( 71
appartenevano alle origini di un governo costituzionale. “In questo
senso, potrebbe dirsi che il governo costituzionale nelle sue origini e
nel suo sviluppo storico servı̀ mirabilmente ad organizzare una con-
tinua resistenza legale. Come espressione di questo momento storico
potè esser vera quella definizione per cui la costituzione fu ritenuta una
‘legge che il popolo impone ai suoi governanti, onde tutelarsi contro
).
il loro dispotismo’” (
72
Tutto ciò che stava prima della costituzione, quindi anche i
mezzi morali della resistenza collettiva legale, erano per Orlando
“storia”. Erano ormai radicalmente mutate “le condizioni giuridiche
e politiche dello Stato rappresentativo moderno”. Era quindi “na-
turale che quel vecchio sistema dei contrappesi, che se ne stava in
guardia contro gli eccessi del potere esecutivo, non [avesse] più il
medesimo interesse né costitui[sse] più lo scopo primordiale o
( ) Ivi, p. 73.
68 ) Ivi, p. 84.
( 69 ) Ivi, pp. 81-84.
( 70 ) Ivi, cit., p. 85.
( 71 ) Ibidem.
( 72 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
320 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
l’essenza delle attuali istituzioni rappresentative”. Non si doveva
comunque ritenerne superfluo lo studio, o tralasciare di valutare se
non fosse ancora il caso, in contingenze particolari, di fare ricorso a
). Per il presente “una grave quistione”, che
“quelle vecchie armi” ( 73
aveva diviso l’opinione di egregi pubblicisti italiani, riassumeva
perfettamente “i mezzi materiali di resistenza legale per l’attuale
): la Camera aveva il diritto di servirsi dell’arma
diritto pubblico” ( 74
del “rifiuto del bilancio… arme che fu definita dall’Arcoleo come atta
a ‘scalzare il governo con un colpo decisivo ben più possente che
)?
una rivolta di popolo’” ( 75
Si può tentare di sintetizzare la teoria scientifica del diritto di
resistenza costruita da Vittorio Emanuele Orlando sottolineandone
alcuni snodi salienti. Innanzitutto, Orlando relega il diritto di resi-
stenza individuale al solo ambito del diritto penale. Per quanto ri-
guarda il diritto di resistenza collettivo, poi, l’assegnarlo unicamente
all’ambito del diritto costituzionale dello Stato costituzionale com-
porta sostenere che, prima del presente, non fosse possibile alcuna
“ragione giuridica” della resistenza, il popolo non avesse parte nel-
l’andamento del governo, la resistenza fosse sempre sfrenata; che,
dopo il medioevo, la coesione dello Stato moderno e il dispotismo che
lo caratterizzò annullassero qualsiasi resistenza e qualsiasi capacità di
reagire all’arbitrio; e infine che nel medioevo e nello Stato moderno
non venisse esercitato alcuno dei mezzi morali della resistenza, ovvero
di quei freni volti a tutelare pubbliche libertà e diritti di comunità
senza ricorrere al mezzo materiale dell’uso della forza.
Le differenze con il diritto di resistenza della giuspubblicistica
tedesca tardo settecentesca e ottocentesca sono certo consistenti, e
dipendono (riducendo in una veloce considerazione una questione
degna di ben altro approfondimento) dalla diversità tra la storia
imperiale e la storia italiana da una parte, nonché dalla diversa
tradizione della scienza di diritto pubblico nel Sacro Romano Im-
pero della Nazione Tedesca e negli antichi stati italiani. Vi è però un
elemento comune, che — almeno nell’economia del presente saggio
— ha un peso specifico più consistente delle differenze riscontrabili
( ) Ivi, p. 86.
73 ) Ivi, p. 86.
( 74 ) Ivi, p. 87.
( 75 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 321
ANGELA DE BENEDICTIS
tra le due tradizioni scientifiche nazionali: la formulazione stessa di
un “diritto di resistenza” e di “dottrine” del diritto di resistenza.
Dato che questa formulazione sia il prodotto di una “visione
positivistiva e paleo-liberale”, ci si può allora di nuovo chiedere, con
Paolo Grossi, che cosa questa visione abbia reso totalmente incom-
prensibile delle concezioni del resistere presenti nella cultura giuri-
dica pre-ottocentesca.
II. La più recente storiografia europea interessata ai conflitti
politico-confessionali della prima età moderna ha mostrato come in
Germania, in Inghilterra e in Scozia il “vocabolario” giuridico (oltre
che politico e filosofico) dei contemporanei non contemplasse il
“diritto di resistenza”, ma conoscesse invece tre forme di resistenza
legittima, tra loro differenziate anche riguardo coloro ai quali era
consentito resistere.
Il diritto dei magistrati inferiori a proteggere i loro sudditi;
l’autodifesa consentita anche all’“uomo comune” o al “popolo
comune” in casi di necessità rigidamente definiti; l’autodifesa rico-
nosciuta come un diritto in base allo ius naturae e consentita ad
intere popolazioni nella loro capacità di corpi in grado di esercitarlo
allo scopo di difendere la “patria”: tutte queste tre diverse forme
avevano però in comune alcuni principi di fondo. Prevedevano il
ricorso alle armi senza peraltro permettere a chiunque di rifiutare
l’ordine e la sudditanza ad un superiore; riconoscevano la possibilità
di esercitare forme di autodifesa che potessero comportare il resi-
stere usando le armi contro i magistrati, ma senza rivolgersi contro
la monarchia; esprimevano la consapevolezza di quanto pericoloso
potesse diventare l’uso del diritto di autodifesa. Il concetto di
“resistenza lecita” cosı̀ precisato poteva essere desunto dalle diverse
e talvolta anche concorrenti fonti del diritto che costituivano l’or-
dinamento giuridico del XVI e XVII secolo, cioè nello ius divinum,
).
nello ius naturae, nello ius commune e nello ius romanum (
76
( ) R. F , Widerstandsrecht und Konfessionskonflik, cit.; R.
76 VON RIEDEBURG VON
F , Widerstandsrecht im Europa der Neuzeit: Forschungsgegenstand und For-
RIEDEBURG F , ‘Self Defence and Sovereignty: The Recep-
schungsperspektiven, cit.; R. VON RIEDEBURG
tion and Application of German Political Thought in England and Scotland, 1628-69 , in
“History of Political Thought”, XXIII, 2002, in particolare pp. 238-240.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
322 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Le nuove indagini sul “vocabolario” dei conflitti politico-reli-
giosi della prima età moderna (sulle quali ritornerò più avanti) ne
hanno pure individuato il profondo radicamento nella letteratura
). È dall’analisi di questa letteratura, e
giuridica tardomedievale (
77
del sapere in essa espresso, che risulta evidente come la definizione
del resistere risulti dal negarne l’identificazione con il ribellare.
Finora non si è dedicato a questo aspetto del problema l’attenzione
che merita — a parte alcune significative eccezioni — proprio in
quanto consente di verificare la piena appartenenza del vocabolario
e del discorso del resistere alla dimensione del conflitto. Si tratta
infatti di vocabolario e discorso che si formano all’interno del
), e
“sistema del crimenlaesae”, aprendovi un “varco notevole” (
78
che possono ammettere sia il resistere individuale sia il resistere
collettivo. Il luogo originario è nel commento di Bartolo da Sasso-
ferrato alla costituzione imperiale Qui sint rebelles del 1312 e nei
Commentaria ai Tres Libri Codicis, due testi che stanno all’inizio di
una tradizione di pensiero di lunghissima durata.
È stato recentemente osservato da Diego Quaglioni che le
glosse di Bartolo alla Qui sint rebelles rappresentano il più alto
sforzo teorico della tradizione giuridica e politica di matrice ita-
liana nella trattazione del tema dell’obbedienza e della resistenza al
potere. L’inserimento di queste glosse nel Corpus iuris conferisce
loro una importante funzione autoritativa nella scienza giuridica del
tardo medioevo e dell’età moderna, e ne fa la base di tutta la
speculazione successiva sul diritto di resistere ( ). I passi più signi-
79
ficativi del testo bartoliano sono la glossa a Tenore ( ) e la glossa a
80
( ) D. B , Ungehorsam oder Widerstand? Zum Fortleben des mittelalter-
77 }
O TTCHER
lichen Widerstandsrechtes in der Reformationszeit (1529-1530), Berlin, Duncker &
Humblot, 1991.
) M. S , Crimen laesae maiestatis. Il problema del reato politico alle soglie
( 78 BRICCOLI
della scienza penalistica moderna, Milano, Giuffrè, 1974, p. 316.
) D. Q , “Rebellare idem est quam resistere”. Obéissance et résistance
(
79 UAGLIONI
dans les glosses de Bartole à la constitution “Quoniam nuper” d’Henry VII (1355), in J.C.
e e
(ed.), Le Droit de résistance XII -XX siècle, Paris, ENS Éditions, 1999, pp.
Z ANCARINI
35-46: 38.
) B S , Super constituione extravaganti Qui sint rebelles, c.
( 80 ARTOLO DA ASSOFERRATO
104v: “Tertia pars, in qua ponit statutum, ad cuius intelligentiam sciendum est, quod
rebellare idem est quod resistere, secundum Hug. C. de deser. l. 2. lib. 12. & hoc
resistere potest fieri faciendo aliquid contra, vel non faciendo, & non obediendo, vel
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 323
ANGELA DE BENEDICTIS
Rebellando ( ). Che sia lecito resistere in determinate situazioni, e in
81
base a C. 10, 1, 5 (l. prohibitum) e C. 12, 40, 5 (l. devotum), sta nello
testo dottrinale che glossa una costituzione imperiale in cui il
resistere è definito come crimen laesae maiestatis. E questa glossa
).
viene poi inserita nel Volumen legum del Corpus iuris civilis (
82
) sono enume-
Nel commento di Bartolo ai Tres Libri Codicis (
83
rate esplicitamente le diverse circostanze nelle quali è lecito resistere.
Alla l. prohibitum Bartolo annota che chiunque ne abbia interesse
può resistere ai messi del principe che compiano un’esecuzione
formalmente illecita o ingiusta. Per resistere più efficacemente
chiunque può convocare congiunti amici e vicini, che anzi possono
muoversi senza essere convocati. Perché i soccorritori raggiungano
con maggiore rapidità colui che è oppresso, si pratica per consue-
tudine che gli oppressi gridino ad alta voce: “succurrite, succurrite”,
). Nel
allo scopo di convocare tutti coloro che possono sentire (
84
utranque scilicet vocabuli significationem continet, [...] licet hoc nomine, rebellis, iura
antiqua non utantur”.
) Bartolo da Sassoferrato, Super constituione extravaganti Qui sint rebelles, c.
( 81
104v: “Resistendo, vel non obediendo, licet ipsi guerram non inferant, ut dictum est. Et
advertendum est, quod in illo qui rebellat contra Principem, hæc constitutio loquiter
simpliciter, quasi contra eum non possit esse aliqua iusta causa resistendi. In eo vero
quod loquitur in eo qui rebellat contra officiale suos, loquitur limitative, scilicet in his
quæ ad commissum eius officium pertinent, & hoc quia si ultra facerent, posset ei
legitime resisti, vt C. de iure fisci. prohibitum lib. 10. & de meta. l. devotum. lib. 12”.
) D. Q , “Rebellare idem est quam resistere”, cit., p. 39.
( 82 UAGLIONI
) B S in Tres Codicis Libros Commentaria, Augustae Tauri-
(
83 ARTOLI A AXOFERRATO
norum, Apud Nicolaum Beuilaquam, MDLXXIIII (è l’edizione da cui citerò in seguito).
) “Prohibitum. Nunciis Principis non creditur sine litteris, & ipsi volentibus,
(
84
aliorum bona capere, quilibet cuius interest, potest de facto resistere. [...] Casus in
terminis est planus [...] Fateor tamen, quod dicti officiales debent portare signa
officialium, ex quibus cognoscantur, ut nuncij biretum rubeum, & similia. alias possit ei
resisti, ut l. item apud Labeonem. §. si quis virginem. ff. de iniuriis, iuncta l. si quis
ignorans. ff. loca. Item nota quod officiali iniuste exequenti licet de facto resistere, ut hic,
& l. devotum. j. de meta. quod. dic., ut per Cy. in l. j. s. unde vi, & per Gulielmum de
Gug. ff. de iustitia, & iure. l. ut vim. Item nota quod licet resistere etiam his, quorum
interest. Puto etiam, quod, quo ad resistendum, potest convocare coniunctos, & amicos,
& etiam sine convocatione possint convenire vicini, & amici, ut l. si quis in servitute. in
fi. ff. de furt. facit, quod nota . in l. ii, § cum igitur. ff. de vi, & vi armata. Ad hoc tamen,
ut homines citius veniant ad succurrendum oppresso, est de consuetudine inventum, ut
oppressi exclament, succurrite, succurrite ex quo videt omnes audientes convocare, ut l.
pretor ait. §. si quis adventu. ff. vi bonorum raptorum. & habes per gl. doctores. in d. l.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
324 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
commento alla l. devotum Bartolo scrive che è possibile difendersi
dai soldati che pretendono più del convenuto per il loro alloggia-
mento e che violano il possedimento di qualcuno, anche colpendoli.
E se i soldati intendono espellere qualcuno dal proprio possedi-
mento, amici e vicini dell’interessato possono colpirli allo scopo di
impedire l’azione, senza che questo costituisca un’offesa. Si tratta,
).
invece, di difesa ( 85
La lettura incrociata del commento alla costituzione Qui sint
rebelles, e del commento alle costituzioni di Diocleziano e Massi-
miano (l. prohibitum) e di Onorio e Teodosio (l. devotum) contenute
nei Tres libri mostra, insomma, attraverso quali argomenti fosse
possibile superare l’equazione resistere=rebellare.
Poco tempo dopo il commento di Bartolo, un altro giurista, il
“pratico” Luca da Penne interpretava i Tres Libri con un opera che
). Invero, quanto scrive da Penne sulle due
ebbe grande fortuna (
86
ut vim. Ultimo nota quod officiali Principis venienti cum literis debet obediri”: B ARTOLI
S in Tres Codicis Libros Commentaria, ad X. Librum Codicis, De iure fisci, Lex
AXOFERRATO
A , La responsabilità del giudice e
V (4r). Il passo era già stato riportato da D. Q UAGLIONI , “Ci-
dell’officiale nel pensiero di Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), ora in D. Q UAGLIONI
vilis sapientia”. Dottrine giuridiche e dottrine politiche fra medioevo ed età moderna. Saggi
per la storia del pensiero giuridico moderno, Rimini, Maggioli, 1989, pp. 97-98, n. 56.
) B S in Tres Codicis Libros Commentaria, ad XII. Librum
(
85 ARTOLI A AXOFERRATO
Codicis, De metatis & epidemiticis, Lex V (55v): “Devotum. Nullus miles ad præsidium
publicum seu privatum potest accedere, & contrafacientem tamquam sacrilegum quili-
bet potest expellere. & administrator qui eum transmiserit punitur, atque dictis militibus
transeuntibus solum hospitari licet, nihil pro se, vel pro animalibus ab hospitante
quærent vel exigent, sive hospitantis invitus sive volens det, & in hospitio invitis dominis
domorum, residentiam non faciet, contra faciens punitur. h. d. In tex. ibi, ultionis Nota
quod pro defendenda possessione sua licitum est ulcisci & talis ultio non est proprie
ultio, sed defensio, ut dicit gl. q. no. ad q. de eo, qui dixit in iudicio ad sui defensionem,
Titium ulciscendo percussisse. Nam istud verbum ultionis, non sumitur hic pro offensa,
sed potius pro defensa. In tex. ibi. qui primum Nota hic tex. expresse, quod si aliquis
vult me expellere de possessione mea, quod amici mei, & vicini mei possunt percutere
volentem me expellere, ne me expellat, quod est valde notandum”.
) Commentaria D. L P iuriscons. Clarissimi in Tres Posteriores Lib.
(
86 UCAE DE ENNA
Codicis Iustiniani. In quibus, & inter alia ab eo curiose observata multa, idque doctissime,
ad cognitionem magistratuum & Praefecturarum Francorum, collegit & animadvertit, usu-
mque antiquorum magistratuum Romanorum aptissime ostendit [...], Lugduni, apud Ioan-
nam Iacobi Iuntae F., MDLXXXII. Sulla importanza dell’opera di Luca da Penne (al quale
, The medieval idea of law as represented
è stato dedicato il classico studio di W. U
LLMANN
by Lucas de Penna. A study in fourteenth-century legal scholarship, London 1946; nonché
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 325
ANGELA DE BENEDICTIS
leggi Prohibitum ( ) e Devotum ( ) amplia considerevolmente gli
87 88
argomenti di Bartolo. Nel commento alla l. devotum non sono però
il saggio di O. C , Luca da Penne, in “Annali di storia del diritto”, IX, 1965, pp.
ALASSO
313-369) e sulla sua utilizzazione anche in secoli successivi proprio in relazione al tema in
oggetto, ha richiamato l’attenzione M. D’Addio, L’idea del contratto sociale dai sofisti alla
riforma e il “De Principatu” di Mario Salamonio, Milano, Giuffrè, 1954. Cfr. ancora M.
, Fides in rem publicam. Ambiguità e tecniche del diritto comune, Napoli, Jovene,
M ONTORZI , Diritto medievale e moderno. Problemi del processo, della
1984, pp. 325-365; M. A SCHERI ,
cultura e delle fonti giuridiche, Rimini, Maggioli, 1991, pp. 108-110. Il saggio di I. B
IROCCHI
B -
Un finto contrattualismo: il diritto di resistenza in Giambattista De Luca, in A. D E ENE
-K-H. L (edd.), Sapere, coscienza e scienza nel diritto di resistenza, cit., mostra
DICTIS INGENS
la presenza di motivi di da Penne anche nella dottrina del tardo XVII secolo.
) Commentaria D. L P , cit., pp. 11-12: “Prohibitum. Casus. Si ex
( 87 UCAE DE ENNA
aliqua causa (quæ multæ sunt) alicuius bona deferantur in fiscum, non licet officialibus fisci
auctoritate propria invadere ipsa bona sine speciali principis iussione. Quod si fecerint,
licitum est privatis quorum exinde interest, eis resistere: & a tali iniuria illos arcere. Si vero
ad capienda bona processerint cum literis principis, non licet tunc privatis resistere: sed
obedire tenentur. [...] Et nota quod privatus potest impune resistere officiali cum aliquid
facit contra iura. ut. hic, & in concor. hic signatis: immo punitur qui non resistit. j. de decur.
omnes. I. & hoc quando certum est ipsum inique ageret & manifeste contra legem. In dubio
autem obediendum est iudici [...] Sed pone, dum ageretur bellum, seu guerra in regno per
nonnullos prædones et illicitos invasores barbarica incursione, qua satis immanis est [...]
Quidam ex regnicolis ab his prædonibus vel infidelibus capti fuerunt, hi captivi cum non
possent aliter evadere, custodes occiderunt, & vulneraverunt: & sic facto carcere evaserunt:
accusantur de occiso, rupto carcere, & vi illata. Dic quod cum est notum captivum contra
iustitiam detineri, licitum est ei detentores occidere ut si non potest aliter evadere: evadat
qualitercumque potest. [...] non enim peccat qui defendit eum qui iniuriam patitur [...]
sed depellenda iniuria lex virtutis est. qui enim cum potest non repellit iniuriam a socio,
tam in ipso est iniuria, quam in illo qui facit. Item Proverb. 24. Erue eos qui ducuntur ad
mortem, & qui trahuntur ad interitum liberare necesses. Et Eccle. 4. Libera eum qui
iniuriam patitur de manu superbi. [...] immo nedum præmissa locum habent in capo a
prædonibus & latronibus, sed etiam a malis iudicibus: quinetiam contra iustitiam con-
demnato, licet tunc resistere condemnati, ut non ducatur condemnatus ad mortem: quia
tale iudicium simile est violentiæ latronum. Ed ideo sicut licet resistere latronibus, ita etiam
licet resistere principibus malis in tali casu. Et hoc verum, nisi a tali resistentia scandalum
sequeretur, quo casu licet damnatus resistere nequeat inferenti morte: fugere tamen de ipso
loco potest. […] Dicit etiam in hac. l. Dominus Bart. quod ad resistendum possit, qui vim
patitur, convocare amicos & vicinos. Et quod sine vocatione possint ad hoc venire [...] &
satis aperte probatur per suprascipta iura. Et subiungit quod consuetudine invenimus pro
maiori securitate, quos oppressi clamant alta voce, succurrite, succurrite: pro quo inducit
ff. vi. bon. rap. l. prætor. §. si quis adventu”.
) Commentaria D. L P , cit., p. 881: “Devotum. Hæc lex pulchra &
( 88 UCAE DE ENNA
bona est, sed ob neglectum iustitiæ, peccata provincialium, & nequitiam militum male
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
326 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
solo gli oppressi e gli amici e i vicini degli oppressi a poter resistere
insieme a difesa di chi sia oppresso. Dal momento che la legge è male
osservata e la giustizia risulta quindi trascurata, è proprio il populus
(la “ipsa plebs” nominata nella legge) che può resistere e insorgere.
Resistere contro un’ingiuria, difendere da un’ingiuria come lex
virtutis, uccidere un sacrilego è possibile al privato e al populus. E il
populus, in da Penne, ha anche facoltà di insorgere contro un
usuraio, nonché di uccidere un sacrilego e un idolatra, sulla base
dell’autorità del Vecchio Testamento: Maccabei 2.4 e Levitico 20. Per
agire resistendo ad azioni compiute contra iura e contro giustizia è
necessario sempre ricordare la differenza tra iustitia e neglectus
).
iustitiae (
89
Sono infatti ingiustizia, ingiuria, violenza che consentono a chi
le patisce di resistere a chi le perpetra, sia questi un ufficiale, o un
giudice o un principe. Questo il quadro che tanto Bartolo quanto
Luca da Penne descrivono nei loro casus, un quadro del tutto
intrinseco a quello che Sbriccoli ha definito il “sistema del crimen
servatur. Statuit hic Imperator ut nullus metator, mensor, seu miles accedat ad aliquod
prædium publicum vel privatum domus principis vel alterius causa præparandi vel
ospitandi. Quia si accesserit licentiam tribuit dominis, procuratoribus eorum, & plebi
eum realiter expellendi. Magistratus autem qui hunc destinaverit, relegatur ad tempus,
vult autem solum eis hospitium in domo concedi, ita quidem ut nihil petant milites a
dominis domorum pro usu eorum equorumque suorum. Mandat eos non immorari
postquam in civitatibus fuerunt hospitati, utque residentiam nullam agant. Qui autem a
domino domus ultra hospitium postulat, punitur. [...] Ipsique plebis. Not. quod etiam
populus resistere potest cum alicui ex eis irrogatur iniuria. & facit aperte II.q. 3. si quis
episcopus. 2, in fi. Quinetiam debet ut ibi.& de exact. tri. quotiens. Ut scilicet eum arceat
ab ipsa nequitia quam committit. Sic etiam potest insurgere populus contra usurarium
manifestum, ut ipsum ab urbe depellat. quod dic ut legitur & not. per gl. & Arch. de
usur. c.I.li. 6. Sic & contra sacrilegum que etiam tunc licitum est occidere. 2. Mach. c.
4. prope fi. sic etiam iubetur occidi ad rumorem idolatra, quod si populus hoc neglexerit,
a domino succidetur. Levitic. 20”.
) In questo rimane centrale, per il sapere giuridico medievale, il ruolo svolto
( 89
dalla giustizia nelle civiltà antiche. “Giustizia è il concetto centrale che lega assieme le
sfere del diritto, della religione e della morale [...] La giustizia fornisce uno “spazio del
ricordo” in cui oggi vale ciò che valeva ieri, e domani varrà ciò che vale oggi”: J.
, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà
A
SSMANN
antiche, trad. it., Torino, Einaudi, 1997, pp. 192-193. Per la memoria come costitutiva
, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, Laterza, 1995.
del diritto medievale P. G ROSSI
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 327
ANGELA DE BENEDICTIS
laesae” e al suo “stile dottrinale” ( ). Non vi si può trovare, per la
90
intima natura di quello stile dottrinale, alcuna definizione del diritto
di resistere. In Bartolo e in Luca da Penne si trovano posizioni che
mostrano la volontà di evitare in certe particolari occasioni l’equi-
parazione tra crimen rebellionis e crimen laesae maiestatis.
Nel sapere giuridico successivo a Bartolo e a Luca da Penne
inosservanza della giustizia e pratica dell’ingiuria vengono riferite
non solo ad ufficiali che compiono esecuzioni illecite o a giudici che
giudicano male, ma anche a chiunque violi patti stabiliti. Si tratta di
un percorso aperto da Baldo, che ha conseguenze sicuramente
epocali per le argomentazioni giuridiche e politiche sulla liceità del
). Nel consilium noto come Rex romanorum, Baldo si
resistere (
91
cimentava con una questione estremamente complessa, conseguente
alla nomina del signore Giangaleazzo Visconti a duca di Milano da
parte dell’imperatore Venceslao, avvenuta nel 1395. In base alla
nuova dignità Giangaleazzo pretendeva di esercitare giurisdizione
anche sui vassalli immediati dell’imperatore, ritenendo che l’infeu-
damento ottenuto con il titolo ducale annullasse preesistenti immu-
nità, libertà, privilegi o infeudamenti dei vassalli lombardi. Scri-
vendo il consilium su incarico di Giangaleazzo, Baldo si scontrava
con le difficoltà insite nella necessità di conciliare le esigenze del suo
signore con i dettami della sua coscienza giuridica. Nella sostanza, le
argomentazioni di Baldo si sviluppavano nel senso di sostenere che
il trasferimento di un vassallo da un signore feudale ad un altro senza
il consenso dello stesso vassallo comportasse una violazione del
contratto feudale. Secondo il diritto, ogni ligius il cui feudo cadesse
sotto la giurisdizione ora spettante a Giangaleazzo doveva rimanere
vassallo immediato dell’imperatore, nel caso che non si presentasse
a giurare fedeltà al nuovo duca. L’imperatore, da parte sua, non
poteva non rispettare le consuetudini feudali. Se poi un signore
feudale avesse assunto illegittimamente il controllo sul feudo di un
vassallo, allora il vassallo poteva dichiarargli guerra, usando violenza
contro di lui.
La concezione che il princeps fosse legato dal contratto non era
( ) M. S , Crimen laesae maiestatis, cit., p. 177.
90 BRICCOLI
) M. R , Widerstandsrecht und Lehnswesen, in A. D B -K-H.
(
91 YAN E ENEDICTIS
(edd.), Sapere, coscienza e scienza nel diritto di resistenza, cit.
L INGENS © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
328 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
specifica del diritto feudale, ma proveniva da una teoria generale
elaborata dai giuristi fin dal tardo XIII secolo. Secondo Guido da
Suzzara anche un princeps legibus solutus era vincolato dai patti da
lui conclusi, poiché il fare patti aveva origine dal diritto naturale
come parte dello ius gentium, e il princeps non poteva considerarsi
sciolto dalla loro forza obbligante. Anche Cino da Pistoia condivi-
). Nel solco di questa tradizione stava pure
deva lo stesso parere ( 92
il pensiero di Baldo, quando egli mostrava di ritenere che il diritto
dei vassalli a resistere potesse trovare utilizzazione ai più alti livel-
).
li (
93
Nelle specifiche e concrete situazioni conflittuali, i motivi de-
dotti dall’interpretazione della Qui sint rebelles, del commento ai
Tres Libri Codicis di Bartolo e Luca da Penne, del consilium Rex
romanorum di Baldo venivano spesso utilizzati congiuntamente per
legittimare opposizioni a comportamenti degli ufficiali giudicati
ingiusti e a violazione dei patti da parte del principe. La letteratura
consiliare era, per sua stessa natura, ricca di tali situazioni. Alcune di
esse sono state individuate in studi recenti, ai quali si farà ora
riferimento, che complessivamente coprono un periodo pluriseco-
lare nonché territori e poteri diversi.
Agli inizi del XV secolo un consilium steso dall’illustre canonista
Francesco Zabarella difendeva il populus di Trento, accusato di
). I cittadini si erano
ribellione dal vescovo signore della città (
94
inizialmente mossi contro riscossioni fiscali ingiuste eseguite dagli
ufficiali dello stesso vescovo, occupando i luoghi materiali di difesa
della città e del territorio, distruggendo le case di alcuni ufficiali,
( ) Per questo cfr. K. P , The Prince and the Law 1200-1600. Soverei-
92 ENNINGTON
gnty and Rights in the Western Legal Tradition, Berkeley-Los Angeles-London, Califor-
nia University Press, 1993, pp. 125-130.
) M. R , Widerstandsrecht und Lehnswesen, cit. Il saggio di Ryan evidenzia
(
93 YAN
come la questione della resistenza lecita dei vassalli fosse affrontata con il sapere
elaborato intorno al concetto di iurisdictio, si cui si vedano ora le recenti riconsiderazioni
2
, Iurisdictio. Semantica del potere politico medievale, Milano, Giuffrè, 2002 ,
di P. C OSTA
pp. XXXI-XCVI.
) D. G , Vom Widerstandsrecht gegen den bischöflichen Stadtherrn.
( 94 IRGENSOHN
Ein Consilium Francesco Zabarellas für die Bürger von Trient (1407), in “Zeitschrift der
Savigny Stiftung für Rechtsgeschichte”, CXVIII, KA LXXXVII (2001), pp. 307-385.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 329
ANGELA DE BENEDICTIS
manifestando infine l’intenzione di sottoporsi ad un altro signore.
Una serie di accordi raggiunti tra vescovo e populus e la successiva
firma di una concordia sembravano aver posto fine al conflitto. Ma
i patti non erano stati poi rispettati dal vescovo: i suoi ufficiali
continuavano a praticare estorsioni indebite. La violazione dei patti
da parte del vescovo veniva sentita come minaccia di violenza. Il
populus temeva che il vescovo volesse soggiogare la città e perfino
uccidere alcuni suoi cittadini; e per questo arrestava il vescovo, il
quale a sua volta colpiva la città con la pena dell’interdetto. L’argo-
mentazione giuridica di Zabarella a favore del populus era che i
cittadini erano stati provocati e quindi potevano difendersi lecita-
mente. Venivano giustificati in quanto “commoti” per le estorsioni
indebite degli ufficiali del vescovo. Questi, da parte sua, non avendo
messo rimedio alle estorsioni, ma anzi consentendole, aveva gravato
i cittadini senza poterlo fare di diritto. Aveva agito quindi come
privato, e in tal caso gli si poteva resistere di fatto e con violenza.
C’era una legge che lo consentiva, secondo Zabarella: la l. prohibi-
).
tum (
95
Nell’Impero della fine del XV e dell’inizio del XVI secolo
numerosi furono i giuristi attivi come consiglieri, giudici o amba-
sciatori della Lega Sveva e che si occuparono, quindi, dei problemi
politici e giuridici derivanti dal conflitto tra la Lega e gli imperatori.
Giuristi umanisti come Conrad Peutinger, Willibald Pirckheimer,
Johannes Reuchlin und Dietrich von Plieningen difesero gli accordi
fissati per iscritto dalla Lega — ciò che allora veniva definito
“costituzione” — e ne denunciarono l’avvenuta violazione da parte
dell’imperatore, giudicando lecita l’eventuale resistenza dei membri
della associazione costituita per il mantenimento della pace territo-
).
riale (
96
Bartolo, Baldo e le le sue fonti Guido da Suzzara e Cino da
Pistoia fornivano argomenti per contestare anche al sovrano ponte-
fice violazione di patti. Nel 1506 il giurista dello Studio bolognese
( ) D. G , Vom Widerstandsrecht gegen den bischöflichen Stadtherrn,
95 IRGENSOHN
cit., pp. 378-379.
) H. C , Landfriedenseinung und Ungehorsam. Der Schwäbische Bund in der
(
96 ARL F
Geschichte des vorreformatorischen Widerstandsrecht im Reich, in R. VON RIEDEBURG
(ed.), Widerstandsrecht in der frühen Neuzeit, cit., pp. 85-112.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
330 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Giovanni Crotto da Monferrato costruiva intorno a questo problema
un lungo e articolato consilium. Ne era stato richiesto dal populus
bolognese perché lo difendesse dall’accusa di ribellione che papa
Giulio II aveva rivolto al populus, con l’interdetto, per avergli
resistito preparando le armi ( ).
97
Il pontefice, intenzionato a portare Bologna a una stretta sud-
ditanza allo Stato della Chiesa, stava col suo esercito poco distante
dalla città e pretendeva di entrarvi, minacciandola di mutarne il
governo basato su accordi conclusi precedentemente con papa
Niccolò V. Il giurista Crotto, pur riconoscendo la necessità della
plena potestas papale, riteneva che di fronte a tale minaccia il populus
bolognese potesse “iuste resistere” al pontefice anche prendendo le
armi contro di lui. Apparteneva alle verità “in facto” che il papa non
potesse derogare ai capitoli sottoscritti da Niccolò V e dalla città
proprio riguardo al governo della città. Al pontefice che voleva
entrare in città si poteva quindi “licite et legitime... resisti et denegari
ingressus” ( ). Poiché sussisteva il fondato sospetto che volesse
98
turbare lo status della res publica, la communis opinio doctorum
confortava nel parere che non si dovesse ubbidire al pontefice che
emanava ordini contro il generale stato della Chiesa, e che gli si
potesse per questo resistere. Al di là degli specifici motivi riguardanti
Bologna, vi erano poi alcuni principı̂ generali che confermavano il
parere di Crotto. In base ad essi, in determinate situazioni si poteva
opporre violenza alla violenza (vim vi repellere licet) per la difesa
della persona e delle cose, e chi era oppresso — come il populus
bolognese — poteva convocare amici e vicini per resistere ( ). Ma al
99
popolo bolognese era lecito prendere le armi e resistere al pontefice
( ) A. D B , Il diritto di resistere. Una città della prima età moderna tra
97 E ENEDICTIS (ed.), Ordnung und
accusa di ribellione e legittima difesa (Bologna, 1506), in M.T. F }
O GEN
Aufruhr im Mittelalter. Historische und juristische Studien zur Rebellion, Frankfurt am
B , Repubblica per contratto.
Main, Klostermann, 1995, pp. 17-41; A. D
E ENEDICTIS
Bologna: una città europea nello Stato della Chiesa, Bologna 1995, pp. 170-183; A. D
E
B , Sapere, scienza e coscienza nel diritto di resistenza. Le ragioni di un seminario
ENEDICTIS B -K.H. L (edd.), Sapere, scienza e coscienza nel
e del suo titolo, in A. D E ENEDICTIS INGENS
diritto di resistenza, cit., pp. 8-15.
) I C , Consilia sive responsa, Liber secundus, Venetiis, ex officina
( 98 OANNES ROTTUS
Damiani Zenari, 1576, consilium 184, pp. 66r-73r.: 71v.
) Ivi, p. 72v. Al proposito il giurista cita esplicitamente i commenti di Bartolo
( 99
alla l. Prohibitum e alla l. Devotum.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 331
ANGELA DE BENEDICTIS
anche perché si trattava di difendere il proprio stato; o perché era
indotto a temere che la sicurezza della patria fosse messa in pericolo.
Il fine ultimo della quies patriae spingeva i cittadini “omisso iuris
) Vi
ordine arma capere & adversus oppugnantes illa exercere”. ( 100
era poi un altro motivo per cui i bolognesi potevano resistere al
papa. Per allontanare l’ingiustizia dell’interdetto, la città si era
appellata al concilio. Nella bolla di interdetto Giulio II condannava
l’appello in quanto contrario ad ogni forma iuris, ovvero alle costi-
tuzioni di Pio II (la bolla Execrabilis del 1463). Secondo Crotto la
sentenza di censura era valida, ma procedeva da causa ingiusta.
Essendo emanato da un pontefice che ordinava un comando ingiu-
sto — agendo come giudice che emanava sentenza ingiusta —, e
dopo che era stato interposto legittimo appello, l’interdetto doveva
).
ritenersi nullo e privo di efficacia (
101
Non è affatto azzardato, a mio parere, ipotizzare che situazioni
e discorsi come quelli sopra riferiti (e da poco “scoperti”) fossero
ripetutamente presenti nell’Europa del quattro-cinquecento. Le si-
tuazioni prodotte dalla Riforma luterana prima, e dalla diffusione
della Riforma calvinista poi, utilizzarono quei discorsi e li radicaliz-
zarono.
Le ricerche che, negli ultimi anni, hanno messo in discussione la
prolungatamente tenace communis opinio storiografica per la quale
Lutero e i ceti evangelici avrebbero sempre espresso la concezione
dell’obbedienza incondizionata all’autorità politica, sono anche
quelle che hanno riconsiderato criticamente la retroproiezione del
“diritto di resistenza” ottocentesco al conflitto religioso e politico
che attraversò la Germania nella prima metà del XVI secolo. Il
riesame di fonti già utilizzate e l’analisi di fonti poco conosciute ha
permesso di “accorgersi” come da parte luterana, attraverso la
riflessione e l’attività consiliatrice di giuristi e teologi, opporsi alla
politica di Carlo V dopo la dieta di Augusta significasse sia rifiutare
l’accusa imperiale di ribellione, sia ragionare in termini di difesa
della propria scelta religiosa e della propria autorità dai comandi
ingiusti di Carlo V. Non era resistenza (Widerstand) il termine-
concetto usato nei numerosi scritti nei quali si possono leggere le
( ) Ivi, p. 72v.
100 ) Ivi, pp. 72v-73r.
( 101 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
332 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
posizioni assunte nel conflitto. Erano invece quelli di difesa contro
comando ingiusto (Gegenwehr) e difesa per stato di necessità
(Notwehr).
Nei numerosi testi fatti stampare da aderenti alla Lega di
Smalcalda Gegenwehr era rivendicato come diritto dell’uomo a
). Per essere usato doveva
difendersi contro il potere ingiusto (
102
corrispondere a tre criteri di adeguatezza: nelle intenzioni (il mo-
vente doveva essere difesa, mantenimento o recupero dei propri
beni, non vendetta, cioè danneggiamento dell’altro); nei mezzi (la
difesa militare concepita solo come ultima risorsa); nel tempo (che
significava, da una parte, essere pronti ad armarsi già nel presente
per affrontare pericoli attesi nel futuro; dall’altra usare la difesa il più
rapidamente possibile, ma non necessariamente nell’immediato). Il
problema dell’obbedienza dovuta dai sudditi all’utorità era natural-
mente centrale in questi testi, ma intesa come fondata non tanto su
di una obbligazione unilaterale, quanto piuttosto su di una relazione
di reciprocità, una obligatio mutua. Per i giuristi autori della maggior
parte di questi testi era innegabile che usava un potere ingiusto quel
giudice il quale rifiutasse un appello e emanasse ordini su questioni
il cui officium era incompetente. A un ordine ingiusto nessuno
doveva obbedire, e la difesa degli interessati giudicati disobbedienti
e per questo ribelli era giuridicamente legittima.
Generalmente, nella pamphlettistica della Lega di Smalcalda
l’uso in senso stretto di Gegenwehr era riferito al corrispettivo diritto
dei principi imperiali sia alla immediata difesa di se stessi, sia alla
difesa dei propri sudditi secondo il principio della “pace territoriale”
(Landfriede). Ma con Gegenwehr si intendeva pure che tanto ai
principi imperiali, quanto ai ceti imperiali, quanto anche agli infe-
riores magistratus spettasse, secondo ius naturae, il compito di vim vi
repellere contro gli assalti dell’imperatore (una concezione sostenuta
anche un secolo dopo, nel corso della Guerra dei Trent’anni).
Diversamente da Gegenwehr, con il termine-concetto di
Notwehr si intendeva il diritto che il singolo aveva alla diretta difesa
del proprio corpo e della propria vita e di quelli della propria
famiglia, quando i magistrati competenti non fossero in grado di
( ) G. H -M , Das Widerstandsrecht des Schmalkaldischen Bundes, in R.
102 AUG ORITZ
F (ed.), Widerstandsrecht in der frühen Neuzeit, cit., pp. 141-161.
VON RIEDEBURG
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 333
ANGELA DE BENEDICTIS
farlo. Tale diritto era anche contemplato in un paragrafo della
Constitutio Criminalis Carolina del 1532, ed era quindi parte del
diritto penale: nella costituzione imperiale il suo esercizio era pre-
visto soprattutto contro le violenze dei soldati o gli abusi degli
). Ma nella seconda metà degli anni qua-
ufficiali dell’autorità (
103
ranta, all’acuirsi del conflitto tra Lega di Smalcalda e imperatore e
con la crisi dell’Interim, nella pamphlettistica contemporanea l’uso
del Notwehr venne riferito anche a gruppi di persone, dandone
un’interpretazione non solo individuale ma anche collettiva. Si
rivendicava nei casi di violenze compiute su giovani donne da soldati
“stranieri” dell’imperatore; o anche per la difesa di intere popola-
zioni, come sostenuto pure da Melantone. Nel concreto di specifiche
situazioni, come durante la difesa della città di Magdeburgo nel
1550-51, Gegenwehr e Notwehr (ma anche Defension) erano usati
contemporaneamente a indicare la difesa della “patria” e della
).
“nazione” (tedesca) dalle truppe spagnole dell’imperatore (
104
Una serie di consilia giuridici e di pareri teologici elaborati
nell’ambiente di Filippo Melantone, e stampati tra il 1546 e il 1547,
evidenziano il peso di argomenti tratti dallo ius naturae nel sostenere
la legittimità e possibilità della resistenza contro il principe legittimo
).
in caso di conflitti religiosi (
105
Lo stesso Melantone sosteneva che usare Gegenwehr contro un
principe violento fosse un diritto naturale che Dio aveva “piantato”
), sottolineando ripetutamente che il Vangelo
nell’animo umano (
106
( ) R. F , Widerstandsrecht und Konfessionskonflikt, cit.
103 VON RIEDEBURG
) È qui il caso di ricordare che sia R. von Friedeburg, sia gli autori dei saggi
( 104
compresi nel volume da lui curato, condividono la critica (peraltro già espressa da D.
, Ungehorsam oder Widerstand, cit.) alla distinzione operata per lungo tempo
B }
O TTCHER
dalla ricerca tra un “diritto di resistenza” costituzionale (Gegenwehr) e un “diritto di
, Le origini del
resistenza” privatistico (Notwehr), e fatta propria anche da Q. S
KINNER
pensiero politico moderno, 2, L’età della Riforma, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1989.
) M. S , Widerstandsrecht und Naturrecht im Umkreis von Philipp
(
105 CATTOLA
Melanchton, relazione presentata al convegno Herrschaftskrise und Glaubenskonflikt.
Das Interim 1548/50, organizzato dal Verein für Reformationsgeschichte e tenutosi a
Wittenberg nei giorni 3-6 ottobre 2001. Ringrazio l’Autore per avermi permesso di
leggere il manoscritto.
) M. S , Widerstandsrecht und Naturrecht, cit. sottolinea anche il ruolo
(
106 CATTOLA
della Zirkulardisputation über das Recht des Widerstandes gegen den Kaiser (Matth.
19,21) redatta da Martin Lutero il 9 maggio 1539.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
334 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
non annullava il diritto naturale, ma che piuttosto l’ordine del diritto
naturale era opera di Dio e corrispondeva al suo volere. Perciò
doveva essere legittimato anche il diritto all’autodifesa e alla difesa di
bambini, familiari e sudditi, poiché questo era stato iscritto nella
natura da Dio stesso. In determinati casi, quando si verificava una
atrox iniuria e non ci si poteva attendere alcun aiuto dall’autorità,
tale Gegenwehr non era solo consentita, ma anche ordinata. La
ragione umana poteva poi trovare l’idea della Notwehr semplice-
mente nel diritto naturale. I comandamenti di diritto naturale erano
quelli che Dio fin dalla creazione aveva iscritto nel cuore degli
uomini. Melantone li definiva anche filosoficamente come notitiae
inditae, in quanto tali appartenenti a un ordine generale del mondo
e costituenti una “legge naturale” fondata dalla giustizia eterna, una
legge che riguardava sia il “reggimento ordinario” del mondo sia la
). Tra le notitiae inditae che agivano come prin-
“giusta Chiesa” ( 107
cipi direttivi per la vita morale — come già Melantone aveva
sostenuto nei Loci communes theologici —, oltre a quelle che ordi-
navano di onorare Dio, di non rompere il matrimonio, stavano anche
quelle che ordinavano di mantenere i patti, e di resistere a un potere
ingiusto. L’ordine politico doveva essere sempre rispettato, ma
quando il principe diventava tiranno — e tale trasformazione era
riconoscibile dal fatto che volesse distruggere l’ordine politico della
comunità opera di Dio — allora doveva essere combattuto e le
). Nel locus de Magi-
autorità a lui sottoposte dovevano deporlo (
108
stratibus civilibus dall’idea che l’ordine politico fosse stato stabilito
da Dio e non fosse stato abolito dal Vangelo, Melantone derivava il
principio “Ne laedat civis civem, sed omnes sciant se inter sese
devictos esse ad mutuam defensionem et communem salutem, quae
consistit in compensatione aequali voluntatum, officiorum et rerum.
Si quis autem violaverit hunc ordinem poena afficiatur” ( ). Nel
109
locus De vindicta la dottrina della Gegenwehr naturale, pensata
anche per combattere le pretese degli Anabattisti di Münster alla
eliminazione di ogni tipo di autorità e alla istituzione di un regno del
Vangelo, veniva specificata nel senso di naturalis notizia o appetitio
( ) M. S , Widerstandsrecht und Naturrecht, cit.
107 CATTOLA
) Ivi.
(
108 ) Ivi.
( 109 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 335
ANGELA DE BENEDICTIS
conservationis sui adversus iniustam violentiam. Sulla base della
Drei-Stände-Lehre la Gegenwehr poteva essere esercitata non solo da
un principe, per difendere i suoi sudditi, persino con la guerra; ma
anche da ogni ceto o città o famiglia in quanto in grado di agire
politicamente: ovvero i sudditi intesi non come moltitudine ma come
realtà costituita di corpi. Ognuno secondo il suo Beruff poteva
).
punire un signore tirannico e senza Dio (
110
L’idea della difesa naturale cosı̀ sostenuta unificava diverse
tradizioni, una delle quali riprendeva principi fondamentali del
diritto romano dichiarati nel Digesto e ascritti anche all’ambito dello
ius gentium. La scienza giuridica cinquecentesca fece riferimento sia
allo ius naturae sia allo ius gentium, tendendo più al secondo quando
dall’istinto all’autodifesa di qualsiasi essere (animali e uomini) si
voleva passare al diritto all’autodifesa. Il diritto aveva bisogno di un
ragionevole riconoscimento, che poteva aver luogo solo tra uomini e
tramite la mediazione della ragione. Secondo le categorie del diritto
romano questo era l’ambito specifico dello ius gentium, al quale
pertanto doveva essere attribuita l’autodifesa in quanto diritto se-
).
condo giuristi come Jean de Coras o Hugues Doneau (
111
Il “droit naturel et des gens”, insieme agli esempi e alle testi-
monianze forniti da “les sainctes lettres, les histoires prophanes, les
loix greques et romaines”, era per il calvinista Jean de Coras quello
che provava un principio fondamentale per la società degli uomini.
Nella “commune negociation des hommes”, nella “commune societé
et conversation” per cui gli uomini erano stati creati, “les pactions,
transactions, accords, negociations, et consequemment les capitula-
tions d’entre le prince et ses subjects” erano assolutamente indispen-
). Nella Francia delle guerre di religione, e qualche anno
sabili (
112
( ) Ivi.
110 ) Ivi. Più in generale, sulle intime connessioni tra Widerstandsrecht e Natur-
( 111 , Das Naturrecht vor dem Naturrecht. Zur
recht, si veda, dello stesso M. S CATTOLA
Geschichte des “ius naturae” im 16. Jahrhundert, Tübingen, Niemeyer, 1999. Cfr. anche
, L’idea dei diritti naturali. Diritti naturali, legge naturale e diritto canonico
B. T
IERNEY
1150-1625, trad. it., Bologna, il Mulino, 2000, passim.
) J. C , Question politique: s’il est licite aux subjects de capituler avec leur
( 112 DE ORAS , Genéve, Droz, 1989. Per la lettura del testo cui qui
prince, a cura di R. M. K INGDON
B , Supplicare, capitolare, resistere. Politica come comunicazione, in
alludo, A. D E ENEDICTIS
-A. W (eds.), Petizioni e suppliche nella prima età moderna (sec.
C. N }
UBOLA U RGLER
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
336 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
prima del massacro della notte di San Bartolomeo, il principio
veniva però negato da chi, per ingraziarsi il re, per renderlo flessibile
“au point de la verité”, sosteneva che patti, transazioni, accordi,
capitolazioni tra re e sudditi erano nulli e anzi dovevano essere
proibiti. “Flateurs”, “notables fabricateurs de paradoxe” erano co-
loro che da qualche tempo seminavano tale opinione sia tra i
“populaire”, sia tra i “superieurs” e il principe. Soprattutto, insisteva
). In
Jean de Coras, ignoranti “de tout droict naturel et politic” ( 113
base a questo diritto Stati, o Parlamenti, o Pari potevano resistere
alla volontà del re discutendo di materie di stato, o di guerra, o di
imposizioni di nuovi tributi, o di fare nuovi editti e ordinanze;
potevano dichiarargli, mostrandone le ragioni, che la sua intenzione
non poteva essere attuata “selon droict et justice”. I “paradoxeurs”,
invece, incolpavano per questo Stati, Parlamenti e Pari del crimine
). Il disprezzo
di lesa maestà, li accusavano di essere ribelli al re ( 114
dei “paradoxeurs” per la storia, per i costumi e le consuetudini della
Francia li portava a non ammettere che, se il re o i suoi ufficiali
attentavano ai privilegi concessi ai sudditi con giuramento solenne
nel corso della cerimonia d’incoronazione, gli Stati potevano pre-
sentare gravamina richiedendo la restituzione dei privilegi. Per i
“paradoxeurs” un re che accettasse le “justes remontrances et
humble insistances”, le “humble resistances et raisonnable remon-
strances” non era più re. Facevano di tutto per sedurre il re con tale
argomento, e cosı̀ lo spingevano a trasformare il suo office in quello
di un tiranno. Ma lo slittamento verso la tirannide avrebbe natural-
mente avuto conseguenze, poiché, era sottinteso, avrebbe interrotto
la comunicazione politica tra re e sudditi: “S’il veut de roy devenir
tyran, c’est l’interes des subjects, qui ont droict d’y contredire, et par
tous moyens s’essayer de maintenir leur prince en roy et non en
tyran, et procurer envers luy qu’ il soit accompagné d’un bon
conseil, moderant toutes ses actions, le reduisant au cerne de la
XV-XVIII), Bologna, il Mulino, 2002,. Recentemente il pamphlet è stato analizzato anche
B , Il pensiero politico ugonotto dallo studio della storia all’idea di
da S. T
ESTONI INETTI
contratto (1572-1579), Firenze 2002, pp. 77-86.
) J. C , Question politique, cit., p. 4.
( 113 DE ORAS
) Ivi, p. 13.
(
114 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 337
ANGELA DE BENEDICTIS
raison, et chassant d’autour de luy tels flateurs que nostre parado-
).
xeur” (
115
Jean de Coras era uno dei giuristi tra i quali, come già i
contemporanei potevano chiaramente notare, la Riforma trovava
aderenti qualificati. La pubblicazione a stampa della sua, per quanto
anonima, Question politique, costituiva un contributo ai numerosi
scritti di propaganda prodotti prima e dopo il 1572. Certo, con la
Francogallia di François Hotman (1573), il De iure magistratuum di
Theodor Beza (1574) e con le Vindiciae contra tyrannos (1579) —
ovvero con i testi principali dei cosiddetti “monarcomachi” — la
questione della resistenza veniva assolutizzata anche attraverso una
maggiore connessione tra argomentazioni teologiche, politiche e
).
giuridiche (
116
Il discorso sulla tirannide si faceva più puntuale e articola-
), anche se non sempre e non necessariamente portava alla
to ( 117
necessità del tirannicidio. Alcune recenti riflessioni hanno mostrato
come nella Francogallia il tirannicidio non fosse affatto un discorso
esplicito o particolarmente voluto, come pure quello sul diritto di
resistenza. Il trattato di Hotman, con le sue due “strategie argomen-
tative” di tradizione-continuità e Sacre scritture ( ), era una trat-
118
tazione complessiva dei fondamenti storici del diritto pubblico
francese il cui scopo consisteva soprattutto nella definizione della
limitazione del potere regale. Già nella prefazione Hotman conside-
rava come causa principale della guerra civile in Francia la centra-
lizzazione del potere regio ai costi dei ceti. E poiché la storia di un
( ) Ivi, p. 21. Va ricordato che l’identificazione di comportamenti tirannici si
115
alimentava di una lunga tradizione sapienziale alla quale aveva dato un fondamentale
, L’iniquo diritto. “Regimen regis” e “ius
contributo Bartolo da Sassoferrato: D. Q
UAGLIONI
regis” nell’esegesi di I Sam. 8, 11-17 e negli “specula principum” del tardo Medioevo, in A.
B (ed, con la collaborazione di A. P ), Specula Principum, Frankfurt am
D
E ENEDICTIS ISAPIA
Main, Klostermann, 1999, pp. 209-242.
) Ch. S , Das Verhältnis von theologischen, politisch-philosophischen und
( 116 TROHM
juristischen Argumentationen in calvinistischen Abhandlungen zum Widerstandsrecht, in
B -K.H. L (eds.), Sapere, scienza e coscienza nel diritto di resistenza,
A. D
E ENEDICTIS INGENS B , Il
cit. I tre classici testi sono stati analizzati di recente anche da S. T
ESTONI INETTI
pensiero politico ugonotto, cit.
) M. T , Tyrannie et tyrannicide, cit., pp. 419-442.
(
117 URCHETTI
) Su cui P. C , Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 1, Dalla civiltà
(
118 OSTA
comunale al Settecento, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 81-96.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
338 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
diverso ordinamento dello Stato durava da ben undici secoli, in caso
di necessità tale ordinamento doveva essere difeso con la violenza e
).
con le armi contro il potere dei tiranni (
119
Nella riflessione giuridica calvinista — lo si è visto prima con
Jean de Coras — il legame pattizio tra sovrano e sudditi costituiva
uno snodo fondamentale. La teoria del doppio patto, di un patto
religioso con Dio e di un patto civile tra popolo e re, stava al centro
delle Vindiciae, frutto di una strettissima interazione tra argomenti
teologici e argomenti giuridici tratti dal diritto romano e dal diritto
). Da qui anche la “connessione esplicita tra resistenza
medievale (
120 ).
al sovrano e difesa dei beni essenziali della vita dei soggetti” (
121
Era il bene della comunità, l’agire con responsabilità pubblica e
non come privati, che spingeva i calvinisti, di fronte a coloro che
assegnavano al re un ruolo di comando unilaterale, a insistere invece
sulla necessità che il rapporto tra re e sudditi si basasse su patti. Più
risolutamente ancora delle accorate sollecitazioni di Jean de Coras (il
crinale del 1572 faceva la diferenza), la questione costituiva il nucleo
centrale della diatriba che nel 1575 oppose il professore ginevrino di
teologia — ma di formazione giuridica — Lambert Daneau al
professore di diritto Pierre Charpentier, anch’egli ginevrino, il quale
aveva invitato i protestanti ad abbassare le armi incondizionatamen-
). Gli argomenti usati da Daneau provenivano tutti dal diritto
te (
122
romano, e servivano per sottolineare che la guerra civile non poteva
concludersi — come insisteva Charpentier — con una resa dei
protestanti, ma con un patto „aequo iure“tra re e protestanti. Le
armi dovevano ancora essere tenute in mano non per motivi privati,
ma per il mantenimento — cosı̀ Daneau — dello “ius publicum”.
Sentirsi collettivamente responsabili del bene della comunità,
della difesa del diritto pubblico del regno faceva parte di una
( ) Ch. S , Das Verhältnis von theologischen, politisch-philosophischen und
119 TROHM
juristischen Argumentationen, cit.
) Ivi.
(
120 ) P. C , Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 1, Dalla civiltà comu-
( 121 OSTA
nale al Settecento, cit., p. 86.
) Una prima approfondita analisi dello scritto in Ch. S , Ethik im frühen
( 122 TROHM
Calvinismus. Humanistische Einflüsse, philosophische, juristische und theologische Argu-
mentationen sowie mentalitätsgeschichtliche Aspekte am Beispiel des Calvins-Schülers
Lambertus Danaeus, Berlin-New York, de Gruyter, 1996.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 339
ANGELA DE BENEDICTIS
concezione della politica che nell’ultimo quarto del XVI secolo si
trovò a dover fare i conti con la sfida di una nuova e diversa
elaborazione. Più di Jean Bodin, fu Justus Lipsius — con i Politico-
rum sive civilis doctrinae libri del 1589 — a delineare una dottrina
dello stato e un’etica politica che individuava l’unica via possibile di
soluzione dei conflitti nella vittoria della ragione sugli affetti e sulle
). Le passioni
passioni, cosı̀ per l’individuo come per la comunità (
123
che agitavano e minacciavano l’animo individuale costituivano un
pericolo ancora maggiore per la vita politica, procurando rivolta,
caos e anarchia. In questo quadro i ruoli dell’agire erano prefissati:
agire secondo ragione era possibile solo al sovrano, agire secondo
affetti e passioni era tipico del popolo. Ne conseguiva che il sovrano
doveva sempre disporre di un potere sufficiente per eliminare affetti
e passioni. Daneau rispose qualche anno dopo a questa sfida,
ponendosi allo stesso livello teorico di Lipsius con il trattato Politica
del 1596, e portando più in alto il livello delle argomentazioni già
utilizzate per rispondere a Charpentier. La soluzione dei conflitti
proposta da Daneau faceva propria la straordinaria accentuazione
neostoica del ruolo dell’autorità, ma l’autorità di Daneau era quella
della legge, intendendo con essa le leges regni fundamentales. L’ob-
bedienza alle leggi fondamentali del regno promessa dal re al popolo
(il riferimento e l’interpretazione della Digna vox, Cod. 1,14,4 erano
qui ovviamente centrali) rappresentava un criterio decisivo per la
valutazione della legalità del potere sovrano. L’inosservanza e la
violazione delle leges fundamentales erano un chiaro segno di tiran-
nide, poiché comportavano la rottura del patto tra sovrano e popolo.
Per mantenere le leges fundamentales (tra le quali stava la difesa della
vera religione) si poteva fare guerra al sovrano, rimanendo nei limiti
della necessaria resistenza e senza cadere nel pericolo della rivolta
).
poiché si difendeva la “constitutio” dello stato (
124
( ) Tra le più recenti letture di L , R. T , Philosophy and Government
123 IPSIUS UCK
1572-1651, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1993, pp. 45-64, e P.
, Specchi della politica, Bologna, il Mulino, 1999, pp. 76-78.
S
CHIERA ) Ch. S , Das Verhältnis von theologischen, politisch-philosophischen und
(
124 TROHM
juristischen Argumentationen, cit. Sul rapporto tra il concetto di leges fundamentales e
quello di constitutio sono fondamentali le ricerche di Heinz Mohnhautp, per le quali
-H. M , Verfassung, Berlin, Duncker & Humblot,
rinvio, in sintesi, a D. G
RIMM OHNHAUPT
1994. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
340 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
La Politica di Johannes Althusius stava all’interno di questo
processo di generalizzazione e assolutizzazione degli argomenti sulla
resistenza, sia come parte di un probl