Nous mistico
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nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
è nella Sophia, che è il principio, nulla vieta che egli sia presso il Dio e che egli sia Dio; e non è presso il
Dio puramente e semplicemente (gumnw=ò), ma rimanendo nel suo principio, cioè nella Sophia» (I,289).
«Cristo, in quanto è Logos, si dovrà pensare come avente il suo esistere nel principio, cioè nella Sophia»
(I,292). «Il Logos annunzia la Verità, spiega e manifesta la Sapienza a coloro che le possono ricevere»
(ComGv II,40). «Che si deve dire della Sapienza, la cui nozione si concepisce anteriore al Logos?» (II,90).
«C’è un principio, in cui il Logos era, principio di cui abbiamo dimostrato l’identità con la Sophia sulla
base dei “Proverbi”» (II,225). «Il principio, cioè la Sophia ci ammaestrerà intorno al Logos che ha in sé»
95
(XX,370) .
Troviamo fondamentali corrispondenze tra l’esegesi origeniana e quella di valentiniana. Il
ajrchv
termine viene assunto in senso metafisico ed ipostatico, e niente affatto cronologico: esso indica
qeovò),
l’ipostasi del Figlio come l’Unigenito (qeovò) emanato dal Padre (oJ precedente lo stesso Logos.
In ComGv I,90-II,33, ovvero nell’interminabile esegesi del primo versetto del Prologo, che rappresenta
certo il vertice teologico-speculativo del pensiero di Origene, questi ripropone la decisiva distinzione
oJ qeovò;
valentiniana in tre distinti “soggetti” logici della rivelazione giovannea: 1) il Padre, 2) il
Principio, identificato con l’ipostasi del Figlio; a differenza del testo valentiniano, forse in prospettiva
qeovò
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antignostica, è definito come Sophia ; 3) il Logos, (senza l’articolo, come indica il testo
giovanneo), che è nel Principio, ovvero che sussiste nell’ipostasi del Figlio-Sophia (e che in quanto tale è
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presso il Dio) , ma che è operativamente rivolto verso il mondo della creazione, definita da Tolomeo
gevnesiò». 98
«prwvth Ora – malgrado in qualche caso Origene non sembri del tutto coerente –, la sua
esegesi del Prologo del vangelo di Giovanni è inintellegibile senza riconoscere: 1) la prevalente, netta
subordinazione del Logos rispetto a Sophia; 2) la differenza fondamentale di funzione teologica rivelata
ejpivnoiai;
da queste due distinte 3) la profonda dipendenza nei confronti del modello valentiniano, che in
proposito Origene dimostra.
L’identificazione valentiniana Unigenito-Principio torna, identica, in Origene:
«Videndum primo est, quid sit Unigenitus Filius Dei, qui multis quidem et diversis nominibus pro rebus vel
opinionibus appellantium nuncupatur. Sapientia namque dicitur, sicut et Salomon dixit ex persona
Sapientiae: “Dominus creavit me initium viarum suarum”… Semel recte receptum est Unigenitum Filium
Dei Sapientiam eius esse substantialiter subsistentem… Quaeque Sapientia quia ipse est, qui est solus
natura Filius, idcirco et Unigenitus dicitur» (DePrinc I,2,1-2; 2,5).
Tramite il riferimento a Proverbi 8,22, ove la Sophia è identificata con l’ajrchv delle vie di Dio,
Origene può interpretare il Principio di Gv 1,1 con la Sophia stessa. Ma ciò facendo, egli non fa che
dipendere ancora, malgrado la sua correzione, dall’esegesi valentiniana del Prologo, in quanto sostituisce
con il termine biblico di Sophia il valentiniano, l’originario (e comunque corrispondente) termine
95 In modo del tutto corrispondente, si esprime il DePrinc: «Quali autem modo intelleximus Sapientiam “initium viarum”
Dei esse, et quomodo creata esse dicitur, species scilicet in se et rationes totius praeformans et continens creaturae: hoc modo
etiam Verbum Dei eam esse intellegendum est per hoc, quod ipsa ceteris omnibus, id est universae creaturae, mysteriorum et
arcanorum rationem, quae utique intra Dei Sapientiam continentur, aperiat; et per hoc Verbum dicitur, quia sit tamquam
arcanorum mentis interpres» (DePrinc I,2,3). E, ancora: «Verbum est arcana sapientiae ac scientiae mysteria interpretans ac
proferens rationabili creaturae… Cum in semet ipsa primum describit Sapientia ea, quae revelare vult ceteris, ex quibus ab illis
agnoscitur et intellegitur Deus, et haec dicatur “figura expressa substantiae Dei”» (I,2,7-8). Cf., inoltre, ComGv, Frag I, che, pur
se evidentemente rielaborato dalla tradizione, è del tutto in linea con i brani sopra citati; ad esempio: « Quando dicono che il Logos è
principio, lo intendono altro (eJvteron) da questa Sophia, non secondo la sostanza (kat*oujsian), ma soltanto secondo l’aspetto
uJvparxiò)…
(ejpinoiva/) e secondo la relazione (scevsei). C’è quindi una sola e medesima sussistenza (aujthV la quale è Sophia in
quanto è unita e propria a Dio, ed è Logos demiurgo in quanto si protende, per così dire, alle opere della creazione».
96 Ovviamente, nel testo di Tolomeo, dedicato alla genesi della prima, perfetta ogdoade, non può certo essere collocata
Sofiva, l’ultimo dei primi trenta eoni del pleroma divino, responsabile del peccato, della frantumazione del pleroma e della caduta
nel kenoma della sostanza spirituale.
97 Proprio in quanto è eternamente in Sophia-Principio, il Logos è presso il Dio: « Di lui è detto: “Egli era presso il Dio”
e non “venne presso il Dio”, perché egli è eternamente con il Padre… Egli non può essere separato dal principio né staccato dal
Padre, e perché non viene “nel principio” dal non-essere-nel-principio e non viene presso il Padre dal non-essere-presso-il-Dio.
Prima di ogni tempo ed eone, “nel principio era il Logos” e “il Logos era presso il Dio”» (ComGv II,8-9).
98 Ad esempio, in Frammenti sull’epistola agli Efesini, I, leggiamo l’interpretazione inversa di quella prevalente nel
ComGv: l’epinoia Sophia non è identificata con l’Unigenito, ma è uno degli appellativi che sussiste nel Logos Unigenito (cf.
«Journal of Theological Studies» 2, 1901, 235). Cf., in proposito, M. S , La teologia trinitaria di Origene…, 124-126, che
IMONETTI
– proprio appoggiandosi sul FrEph I da una parte, e su ComGv I,292 dall’altra (brano la cui portata tecnica teologica viene
relativizzata), conclude invitando a «non sopravvalutare» il rapporto di subordinazione del Logos nei confronti della Sophia.
Evidentemente, non condivido questa conclusione; i brani origeniani nei quali si identifica la Sophia con il Principio nel quale il
Logos sussiste sono troppi (anche in ComGv) e troppo chiari! Cf., ad esempio, ComMt XVII,14,32, e quanto dimostra lo stesso M.
S , I vignaioli perfidi, in «Orpheus» 17 n.s., 1996, 35-49, ora in Origene esegeta, 173-184, in part. 180-184.
IMONETTI 23
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Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
filosofico di Nous, attestato come sinonimo dell’Unigenito/Principio non solo da Teodoto, ma anche dalla
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Grande notizia . Dunque, come per Tolomeo e Teodoto il Logos è nel Principio-Unigenito-Nous, così
per Origene il Logos è nel Principio-Unigenito-Sophia.
IIIc – La distinzione tra Unigenito e Primogenito
Ma un altro excerptum ex Theodoto non solo prova come il debito origeniano sia ancora più
sistematico, ma rende al tempo stesso più evidente in che senso il modello valentiniano sia reinterpretato
e radicalmente superato:
«Il Padre, che era sconosciuto, volle farsi conoscere dagli eoni. E per mezzo della sua intenzione, in
quanto egli conosce se stesso, ha emanato l’Unigenito, spirito di conoscenza nella conoscenza… E il Figlio
Unigenito, rimanendo nel seno del Padre (cf. Gv 1,18), spiega agli eoni l’intenzione per mezzo della
conoscenza, in quanto anche lui è stato emesso dal seno del Padre. Ma, d’altra parte, qui in terra non già
Monogenhvò:
l’Unigenito (oJ Gv 1,18) è stato visto, ma “come l’Unigenito” è stato chiamato
kaiV oJ
dall’apostolo: “gloria come dell’Unigenito” (Gv 1,14), poiché essendo uno e lo stesso (eJ=iò
aujtovò), meVn th=/ ktivsei) Prwtovtokoò:
mentre Gesù nella creazione (ejn è il Primogenito (oJ Col 1,15),
deV plhrwvmati)
nel pleroma invece (ejn è l’Unigenito, ma è sempre lo stesso (toiou=toò), che in ciascun
katabavò)
luogo è tale quale può essere compreso. E mai colui che è disceso (oJ si divide da colui che è
meivnaò).
rimasto (oJ Infatti dice l’apostolo: “Colui che è asceso è lo stesso che è disceso” (Ef 4,10)»
(ExcTh 7,1 e 3-4). Monogenhvò)
L’excerptum distingue due eoni, l’Unigenito (oJ e il Primogenito (oJ
Prwtovtokoò); il primo, al tempo stesso rimane nel seno del Padre e si identifica con l’atto di mediazione
che rende possibile la rivelazione del Padre a tutti gli eoni del pleroma; il secondo, invece, rappresenta
l’eone creatore e redentore della sostanza spirituale emanata e decaduta. La distinzione fondamentale è,
meivnaò)
quindi, quella tra il Figlio in quanto rimane (oJ presso il Padre e il Figlio in quanto discende (oJ
katabavò), per formare e redimere il pleroma. Ma Unigenito e Primogenito, pur essendo due eoni distinti
100
con due funzioni rivelative e salvifiche ben distinte, comunque sono «sempre uno e lo stesso» , cioè
101
l’unico Figlio pensato a due diversi livelli della sua azione mediatrice e redentrice . Ma ritorniamo al
testo del DePrinc che apre la trattazione del Figlio di Dio e delle sue epinoiai:
«Videndum primo est, quid sit Unigenitus Filius Dei..., Sapientia…Dicitur autem et Primogenitus, sicut
dicit apostolus Paulus: “Qui est primogenitus omnis creaturae”. Nec tamen alius est Primogenitus per
naturam quam Sapientia, sed unus atque idem est» (DePrinc I,2,1).
Le corrispondenze sono impressionanti: le epinoiai del Figlio sono ordinate secondo la stessa
gerarchia. Quella dell’Unigenito-Principio precede quella del Primogenito, ove la precedenza rivela,
chiaramente, una ben precisa differenza di operazioni, identificabili con quella propria della Sophia e del
102
Logos . La conclusione è, però, identica: malgrado la differenza non casuale di epinoia, il Figlio è «unus
eJ=iò kaiV oJ aujtovò 103
atque idem», ! Un fondamentale passo del Commentario al Vangelo di Matteo
99 Cf. la Grande notizia valentiniana in I , AdvHaer I,I,1: dalla prima sizigia Padre/Abisso/Preprincipio e
RENEO
Madre/Ennoia/Silenzio, è emanata la seconda sizigia Nous/Unigenito e Verità. Sul senso della sostituzione di Nous con Sophia
operata da Origene, cf. M. S , La teologia trinitaria di Origene…, 124.
IMONETTI
100 Per un’identificazione tra gli appellativi di Unigenito e Primogenito (ove non viene comunque rilevata la distinzione di
funzioni tra le due epinoiai), cf. il valentiniano Trattato tripartito 57,20.
101 Cf. infra, nota 122, dedicata al commento di alcuni ExcTh da attribuire a Clemente stesso.
102 In DePrinc I,2,5, ritorna, anche se invertita, la successione tra Primogenito e Sophia: ma in questo caso, anche se
Origene pare insistere più sulla corrispondenza che sulla distinzione delle due epinoiai, il ragionamento parte da quella rivelativa per
risalire a quella più intima, che è appunto la Sophia come Principio Unigenito. Comunque, cf. la sintetica affermazione di J. R -
IUS
C : «A los dos estados fundamentales del Hijo: Unigénito=Nus/Aléteia y Primogénito=Logos/Zoé, según los Valentinianos,
AMPS
corresponden las dos epínoias fundamentales de Cristo, según Orígenes: Sabiduría, o Principio, y Logos» (El dinamismo
trinitario…, 117).
103 F.H.M. S , nel suo commento all’edizione degli Extraits de Théodote, Paris 1948, 1970(2), pur ammettendo
AGNARD
che «la doctrine peut, à la rigueur, convenir aux Valentiniens», precisa che «l’insistance sur l’unité est vraiment très marquée» (71,
nota 4) e ipotizza un intervento esplicativo di Clemente sull’originario testo valentiniano, volto a radicalizzare l’identità tra il
Mediatore pleromatico e quello extrapleromatico. Simonetti, nel suo commento allo stesso frammento, respinge giustamente
l’ipotesi di Sagnard, considerandola avanzata «senza validi motivi» (M. S , Testi gnostici in lingua greca e latina, Milano
IMONETTI
1993, 505, nota 300). Su ExcTh 7, cf. A. O , La teología del Espíritu santo…, 642-647, ove l’excerptum è invece attribuito ai
RBE
valentiniani e non a Clemente (il quale non comprenderebbe la dimensione simbolica della distinzione mitica tra gli eoni e
riproporrebbe la consueta accusa cattolica ai valentiniani – portata da Ireneo, Tertulliano, Origene – di materialismo teologico,
probolhv
attestato dalla interpretata come emissione animale e divisiva di un sostrato divino comune: cf., ad esempio, ComGv
XX,157-158); e Hacia la primera teología…, I,453-461, che pure interpreta l’excerptum unicamente in ambito intratrinitario (cf. la
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Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
conferma come la distinzione e l’ordine gerarchico tra Unigenito-Principio e Primogenito, ovvero tra
Sophia e Logos, non siano affatto casuali:
«L’eccellenza [di Gesù] non consisteva nell’essere profetà, bensì nell’essere Figlio di Dio “primogenito di
ogni creatura, immagine del Dio invisibile, nel quale sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle
ma=llon),
sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili” (Col 1,15). E, ancora di più (kaiV la sua superiorità
uJperochv)
(hJ consisteva nell’essere la Sophia di Dio che dice: “Dio mi ha creato principio (ajrchv) delle
sue vie, per le sue opere” (Prov 8,22), prima di fare qualcosa e “prima del tempo mi ha fondato in
arch/=),
principio (ejn prima di fare la terra” (Prov 8,23)» (ComMt XVII,32).
Malgrado queste evidenti corrispondenze, che spingono ad ipotizzare una dipendenza diretta di
Origene da un qualche modello valentiniano, di cui ExcTh rappresenta una variante, altrettanto evidenti
sono le differenze. Esse si riassumono nella decisiva sostituzione origeniana della categoria valentiniana
ktivsiò)
di emanazione (che pure è espressa in ExcTh con il termine con quella tradizionale di creazione.
Risulta di una qualche utilità tornare, in proposito, all’esegesi del Prologo di Tolomeo e alla Grande
notizia. Questa – dopo aver riservato alla sola seconda sizigia Unigenito-Nous/Verità la conoscenza del
kaiV ajrchVn
Prepadre Abisso, e dopo averla definita «il Principio e il Padre di tutte le cose (patevra
tw=n pavntwn)»
104 – definisce la terza sizigia (Logos-Vita) della prima ogdoade «Padre di tutti gli esseri
tw=n met*aujtoVn ejsomevnwn)
che sarebbero esistiti dopo di lui (patevra e principio e formazione di
kaiV movrfwsin pantoVò tou= Plhrwvmatoò)»
105
tutto il pleroma (ajrchVn : questa rigorosa
corrispondenza prova che Unigenito e Logos rappresentano l’identico atto di mediazione del Figlio
secondo due modalità diverse; il primo, nel suo sprofondarsi nella conoscenza del Padre-Abisso, è l’eone
che fonda la possibilità della mediazione; il secondo è l’eone che traduce la possibilità in atto, ovvero che
rende possibile a tutti gli eoni inferiori la partecipazione all’atto di mediazione di Unigenito. La notizia
relativa a Tolomeo conferma chiaramente quest’interpretazione: nell’Unigenito, «il Padre ha emanato
pavnta oJ PathVr proevbale spermatikw=ò)» 106
seminalmente tutte le cose (taV ; il Logos, invece, è l’eone
che traduce in atto effettivamente “creativo” la seminale potenza emanativa dell’Unigenito, dando così
origine alla sostanza formata (morfhv) degli eoni: oJvlhn tw=n aijwvnwn
«Da questo, è stato emanato il Logos e in lui tutta la sostanza degli eoni (thVn
oujsian), che successivamente il Logos ha formato (ejmovrfwsen). Poiché parla della prima genesi, bene fa
iniziare l’insegnamento dal Principio, cioè dal Figlio e dal Logos… Infatti, per tutti gli eoni dopo di lui, il
kaiV genevsewò aivtioò)» 107
Logos è stato l’autore di formazione e generazione (morfh=ò .
gevnesiò
Si noti come Tolomeo riferisca il termine alla formazione degli eoni derivata dal
Principio, interpretando quindi il Prologo giovanneo come testo relativo alla teogonia, quindi
all’emanazione del pleroma eterno, e non certo alla creazione del mondo demiurgico, materiale, decaduto,
ktivsiò:
perituro. Questo spiega, tornando ad ExcTh 7, l’anomala utilizzazione del termine anche se
l’excerptum tende a prolungare l’azione di mediazione, formazione, quindi redenzione operata dal Logos-
Primogenito anche in ambito extrapleromatico, comunque queste sue funzioni sono quelle che l’eone
opera anche all’interno dell’unica autentica “creazione”, quella spirituale del pleroma. Il Logos, cioè,
ktivsiò 108
agisce come mediatore/“creatore”/formatore/redentore dell’intera pneumatica , sì che l’eone del
pneumatikoVn
Salvatore-Gesù che discende nel kenoma a recuperare «il seme spirituale» (toV
109
spevrma ) prigioniero della materia non è che la reduplicazione dell’eone Logos che forma e redime il
formula riassuntiva: «a Patre ad Unigenitum secundum intellectum; ab Unigenito ad Verbum-Christum secundum amorem»),
basandosi sull’identificazione valentiniana Primogenito-Logos-Spirito Santo d’Amore; significativamente, Orbe affianca a questo
schema teologico, che giudica influente sullo stesso Origene, quello tertullianeo Padre/Sophia-nel-seno-del-Padre (=Logos
ejndiavqetoò)/Sermo proforikovò).
prolatus (=Logos Cf., infine, Hacia la primera teología…, 460-461; e En los albores…, 153.
104 Cf. I , AdvHaer I,1,1 e 2,1.
RENEO
105 I , AdvHaer I,1,1.
RENEO
106 I , AdvHaer I,8,5.
RENEO
107 I , AdvHaer I,8,5.
RENEO
108 ktivsiò
In effetti, il ricorso al termine è determinato dalla citazione biblica: «Primogenito di tutta la creazione
pavshò ktivsewò)»
(prwtovtokoò (Col 1,15). Se tutta la tradizione valentiniana interpreta il Primogenito come appellativo del Logos,
ktivsiò
quindi come eone pleromatico, è del tutto evidente che la che dal Primogenito viene fatta dipendere è una creazione
pleromatica. Per quanto riguarda l’insistenza di ExcTh 7 sulla dipendenza del pleroma dall’Unigenito e non dal Primogenito, la
difficoltà si risolve proprio tramite la distinzione tra genesi seminale o potenziale e genesi o formazione (“creazione”) effettiva degli
eoni. 109 ExcTh 1,1. 25
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
pleroma. Insomma, come l’Unigenito e il Primogenito sono «l’unico e lo stesso», pur rimanendo il primo
nel seno del Padre come fondamento del pleroma e divenendo il secondo principio ordinatore della
creazione spirituale pleromatica, così il Logos e Gesù sono «l’unico e lo stesso», sia a livello pleromatico,
che a livello extrapleromatico.
Passando ad Origene, risulta ormai evidente la radicale novità della sua reinterpretazione del
modello valentiniano: assumendo quelle che nei testi valentiniani rimanevano ambigue sollecitazioni, la
pluralità degli eoni viene interpretata come pluralità di epinoiai dell’unica ipostasi del Figlio. Ma se
valentiniana rimane la soluzione di distinguere un aspetto recettivo e potenziale della filialità (la Sophia-
Unigenito che è il Principio) rivolta al Padre, da un aspetto produttivo e attivo della filialità (il Logos-
gevnesiò lovgoi,
Primogenito) rivolta alla spirituale, quindi alla nascita di nuovi l’unica ipostasi del Figlio
lovgoi
che si tende in questa duplice direzione e media il Padre con i nuovi spirituali media e anzi
riunifica in se stessa nature ontologicamente differenti, non consustanziali: la natura assoluta e
lovgoi.
incommutabile di Dio con la natura creata e mutevole dei Più semplicemente, Sophia-Unigenito è
il Figlio che è generato dal Padre e che si costitusice come ipostasi contemplando la sua origine semplice
e abissale; il Logos rappresenta il Figlio che opera la creazione, divenendo il Primogenito di una serie di
lovgoi a lui eternamente connessi proprio come frutto inseparabile del suo stesso eterno atto creativo (cioè
lovgoi
come «vita fatta nel Logos»). La Sophia è prima e sta senza i creati (che in lei sono ancora solo
teoremi, cioè la potenzialità della creazione intellettuale), mentre – come vedremo meglio più avanti – il
lovgoi
Logos-Primogenito non sta senza i creati, con i quali ha una relazione di coeternità. Pertanto, la
priorità della Sophia, rispetto all’ambito della creazione, è ontologica e causale: soltanto da questo punto
di vista, la Sophia-Unigenito (l’epinoia assoluta del Figlio in sé e per sé, ovvero in relazione al Padre che
lo trascende) è prima del Logos-Primogenito (e di tutte le epinoiai del Figlio in altro e per altro, quindi
110
relative alle creature) , ovvero il Figlio è solo e “prima” (ovviamente non in senso cronologico) delle sue
creature intelligenti. E’ invece attribuito al Logos il compito dell’effettiva creazione, quindi della
relazione inseparabile (essa stessa sottratta al tempo!) con i logoi, relazione comunque scandita secondo
tavxiò
una intrascendibile tra Creatore e creatura (ma, almeno nella creazione originaria, senza alcuna
tavxiò all’interno dei logoi creati).
Insomma, si comprende la profondità teologica del Figlio origeniano soltanto riconoscendolo
come concentrazione, risoluzione, metabolizzazione spirituale del mitizzante, eppure vertiginoso
dinamismo teogonico del pleroma valentiniano. L’astratta processione degli eoni viene restituita come
genesi della Trinità divina e come suo prolungarsi in un eterno dinamismo creativo.
IV – I F P : S -U
L IGLIO IN SÉ E NEL ADRE OPHIA NIGENITO E LA PRIMA TETRADE VALENTINIANA
jEn ajrch=// hj=n oJ Lovgoò kaiV oJ Lovgoò hj=n proVò toVn qeovn
Identificata l’intima struttura – di derivazione valentiniana! – che sorregge la rigorosa gerarchia
delle epinoiai del Figlio, passiamo a concentrarci sulle due epinoiai fondamentali, cominciando dalla
prima: quella assoluta del Figlio in sé, l’ajrchv-Unigenito-Sophia, tenendo presente che la sua modalità
teologica viene desunta dalle prime due affermazioni del primo versetto del Prologo giovanneo. Sophia,
infatti, è il Principio del Figlio (in cui il Logos originariamente è collocato), Dio presso il Dio Padre.
Ma, avendo evidenziato l’influenza del modello valentiniano che personalizza l’ajrchv, perché
111
Origene sente la necessità di sostituire all’eone Nous l’epinoia Sophia , identificando con l’ajrchv-
Unigenito proprio il nome dell’eone colpevole, per i valentiniani, della caduta del divino fuori di Dio?
Certo, due sono le risposte che immediatamente salgono alla mente: 1) Per motivi scritturistici, in quanto
Proverbi 8 e 1Cor 1 identificavano rispettivamente la Sophia come la prima manifestazione del Padre, il
suo atto creativo, la stessa identità divina di Cristo. 2) Per motivi antignostici, cioè per restituire la sua
assoluta dignità a questo nome divino, respingendone la gnostica interpretazione “lapsa”. Ma, forse, si
può aggiungere una ragione più profonda: Origene ha bisogno, nella sua concezione dinamica della
Trinità divina, di trovare uno spazio per l’elemento femminile in Dio e ciò per motivi ancora riconducibili
all’influenza della teologia gnostica. Sophia (nella quale si riassumono le varie rappresentazioni gnostiche
delle ipostasi femminili primordiali, dalla prima alla seconda donna barbelo-gnostica all’Ennoia
valentiniana) è infatti il ricettacolo dell’abisso paterno: la scaturigine dell’alterità rispetto al Padre, quindi
110 «Di tutti gli aspetti, per cui si applicano vari nomi a colui che è il Primogenito di ogni creatura, il primo in ordine di
tempo (presbuvteron) è quello di Sophia» (ComGv I,118).
111 Cf., ad esempio, J. R -C , El dinamismo trinitario…, 118.
IUS AMPS 26
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
la manifestazione della sua potenza dinamica e generativa, la radice della stessa inquietudine rivelativa e
creativa che muove la profondità di Dio. D’altra parte, Sophia indica la dimensione recettiva della
filialità, quindi la dimensione teoretica e mistica del Figlio, che attinge la sua identità ipostatica (il suo
qeovò) proVò toVn qeovn),
essere soltanto in quanto femminile (nel suo essere passivo, scaturito dal
Padre e sprofondato nella contemplazione del suo abisso.
IVa – Sophia e le prime due sizigie valentiniane: Abisso, Ennoia, Intelletto e Verità
Ancora una volta, il raffronto con il modello valentiniano è prezioso per individuare la logica
interna dell’articolazione delle epinoiai del Figlio in relazione al Padre. Origene cita esplicitamente la
seconda e la terza sizigia valentiniane, dimostrando una perfetta conoscenza dell’esegesi di Tolomeo del
Prologo giovanneo (condivisa e mediata da Eracleone?): periV aijwvnwn ejn suzugivaiò
«coloro che hanno escogitato una mitologia di eoni in sizigie (thVn
muqologivan) e credono quindi che Logos-Zoé siano stati emessi (probeblh=sqai) da Nous-Aletheia»
(ComGv II,155).
Per la Grande notizia, il Padre è l’Abisso (Buqovò) assolutamente originario e trascendente,
112
pensato, secondo medioplatoniche modalità apofatiche, precedente l’essere e del tutto immateriale . La
jvEnnoia-Grazia-Silenzio
sua compagna di sizigia, l’ (Sighv), è il ricettacolo o la matrice del seme
jArchv,
spirituale, dal quale deriveranno prima, a partire dal Figlio Unigenito, l’ tutti gli altri eoni del
pleroma, quindi – tramite lo stesso errore peccaminoso di Sophia – la natura spirituale extrapleromatica
113
da redimere . Il termine Silenzio, che designa Ennoia, è concepito da una parte come simbolo della
mistica passività e recettività della Madre, che è Pensiero ammutolito che si unisce, inabissandovisi, con
l’Abisso inesplorabile; dall’altra in tensione con il termine Logos, che designerà il dinamismo relazionale
del Figlio-Intelletto. Ennoia-Silenzio è comunque anche femminile potenza generativa, inquieta, dinamica
jArchv.
e produttiva, che appunto dà origine all’Intelletto-Unigenito- Ma soprattutto, come Orbe ha
114
chiaramente dimostrato , Ennoia, matrice dell’alterità, personifica la stessa modalità seconda e derivata
del Nous, è il Nous nella sua anteriorità potenziale, nella sua recettività e dipendenza dal Padre. L’eone
Nous rappresenta, invece, il Figlio in atto, l’Unigenito-Principio che si costituisce come atto di
contemplazione dell’infinita ricchezza veritativa dell’Abisso; la sua compagna di sizigia, Verità, è
appunto l’immagine filiale del Padre, quindi la totalità delle verità paterne emanate e ipostatizzate, in
vista della emanazione del tutto (ovvero della totalità di tutti gli altri eoni). La caratteristica “ipostatica”
del Nous rimane, comunque, quella di essere l’eone che ancora non si apre alla effettiva produzione della
115
totalità, ma che, a differenza dell’eone Logos che egli stesso emana , è l’unico eone capace di
116
contemplare e comprendere l’abisso del Padre .
Origene riassume l’intera prima tetrade nella relazione tra il Padre e il Figlio in sé, in quanto
Unigenito-Principio-Sophia. L’Unigenito è Sophia proprio in quanto è Nous che è Ennoia. Il Figlio, cioè,
è generato dal Padre-Abisso come colui che – come Ennoia-Sigé – accoglie in sé in silenzio, e contempla,
prima ancora di pronunciarli e di renderli creativamente operanti in quanto Logos, i teoremi della
117
Verità . Infatti, identificatala con il Principio, Origene definisce «Sophia il sussistere (suvstasiò) della
112 «[I Valentiniani] dicono che c’è un eone perfetto Preesistente (proovnta); lo chiamano anche Preprincipio
(proarchvn) e Prepadre e Abisso. Era invisibile e incomprensibile, eterno e ingenerato e stava in grande tranquillità e solitudine
nei tempi infiniti» (I , AdvHaer I,1,1); significativamente, egli è anche definito «senza principio (ajvnarcoò)» (I,2,1).
RENEO
113 «Una volta l’Abisso meditò di emanare da sé un Principio (ajrchvn) di tutte le cose e depose a guisa di seme
spevrma)
(kaqavper questa emanazione (probolhvn), che meditò di emanare, nel Silenzio che esisteva insieme con lui, come in una
ejn mhvtra/).
matrice (wJò Essa, avendo accolto questo seme ed essendo diventata pregna, partorì Intelletto (Nou=n)» (I ,
RENEO
AdvHaer I,1,1).
114 «El Nous valentiniano puede ser en efecto considerado como el Nous actu en contraste con el Nous potentia o in
silentio que es la Ennoia (Sige)» (A. O , En los albores…, 140, nota 126).
RBE
115 «Il Nous perfetto, generato dall’Abisso perfetto, non ha potuto far sì che fosse perfetta la emissione derivata da lui,
che è cieca per quanto riguarda la conoscenza della grandezza del Padre; e il Salvatore ha mostrato un simbolo di questo mistero
in colui che fu cieco dalla nascita, essendo cieco in tal modo l’eone che è stato emesso dall’Unigenito, cioè l’Ignoranza.
Attribuiscono l’ignoranza o la cecità al Logos di Dio» (I , AdvHaer II,17,9).
RENEO
116 «Nous, simile e uguale a colui che aveva emanato, il solo che comprendesse la grandezza del Padre… Essi affermano
che il loro Prepadre è conosciuto soltanto dall’Unigenito nato da lui, cioè dal Nous e resta invisibile e incomprensibile per gli altri
eoni. Secondo loro solo il Nous godeva a vedere il Padre e gioiva a contemplare la sua incommensurabile grandezza » (I ,
RENEO
AdvHaer I,1,1 e 2,1). E’ evidente, in proposito, l’influenza di Gv 1,18, ove si afferma che soltanto l’Unigenito è in grado di vedere
nel seno del Padre, rivelando ciò che per qualsiasi altro essere rimane invisibile. Cf. infra, nota 122.
117 Si noti quest’affermazione, ove è chiaro l’influsso valentiniano: «L’Unigenito è Verità, in quanto contiene, secondo il
volere del Padre, con chiarezza assoluta tutta la ragione dell’universo» (I,186).
27
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
contemplazione relativa a tutte le cose e dei concetti (nohvmata)» (I,111). Sophia è l’Unigenito che
rimane sprofondato nel Padre dal quale è generato, il Figlio in sé che lo contempla, mentre solo in quanto
118
Logos il Figlio diviene per altro, comunica e attiva la verità contemplata nelle creature spirituali .
D’altra parte, il Logos non potrebbe operare, creare, redimere, mediare Dio con le creature, se non
119
permanesse anche nella sua femminile dimensione recettiva e contemplativa dell’Abisso paterno:
ajrch/=),
«Il Logos… che era nel principio (ejn rimane sempre Dio (qeovò) per il fatto di essere presso il
toVn qeovn);
Dio (proVò e non avrebbe questo, se non rimanesse presso il Dio, non rimarrebbe Dio se non
mhV parevmene th=/ ajdialeivptw/
perseverasse nella contemplazione perenne del profondo del Padre (eiJ
qeva/ tou= patrikou= bavqouò)» (II,18).
Il profondo, l’abisso (bavqoò) del Padre (come non leggervi una chiara eco del valentiniano
Buqovò) è il fondamento nel quale il Principio mantiene il Logos, il quale deriva proprio dalla sua
dimensione femminile, originariamente passiva e recettiva, la sua stessa divinità. Detto nei termini della
valentiniana mito-teologia in sizigie, il Figlio è Logos in quanto Nous dipendente dall’Ennoia. Ma forse,
questa Sophia, femminilmente, passivamente e silenziosamente scaturente dal seno del Padre (cf. Gv
ejndiavqetoò,
1,18), non può essere identificata con il Logos cioè non ancora personalmente identificato,
che vive nel Padre soltanto come informe possibilità? Se, infatti, il Figlio diviene Logos, quindi principio
pienamente attivo, soltanto in relazione alle creature, la sua sussistenza ipostatica non sarebbe appunto
soltanto seconda e strumentale? Nella sua concezione del Figlio non si riallaccerebbe, quindi, Origene ad
un Giustino, a un Atenagora, ad un Teofilo di Antiochia, ad un Tertulliano?
Vi è un fondamentale passo del ComGv che elemina qualsiasi dubbio in proposito:
yilai=ò fantasivaiò)
«La Sophia non ha il suo esistere in semplici rappresentazioni (ejn del Dio e Padre
dell’universo, [simili] per analogia ai pensieri umani [che si fondano] su rappresentazioni incerte
(fantavsmata). Chi è in grado di concepire come vivente e per così dire animata un’ipostasi incorporea di
teoremi multiformi, che contengono le ragioni di tutti gli esseri, conoscerà questa Sophia di Dio
trascendente ogni creatura» (ComGv I,243-244).
Origene precisa con assoluta nettezza che l’epinoia Sophia designa la stessa ipostasi del Figlio,
che in alcun modo può essere confusa con una qualche rappresentazione o intenzione del Padre. Dunque,
in quanto Sophia o Unigenito o Principio, il Figlio esiste già come personalmente distinto dal Padre, pure
se la sua attività intellettuale è rappresentata più come recettiva e passiva, che non attiva (e questo ancora
120
in continuità con il modello valentiniano) .
118 logikav)
Si intende «per Logos, invece, la comunicazione agli esseri dotati di logos (taV di ciò che è contemplato»
(ComGv I,111). Cf. FrComGv I: «C’è una sola e medesima sussistenza…, la quale è Sophia in quanto è unita e propria a Dio ed è
Logos creatore in quanto si protende alle opere della creazione».
119 Che, anche per diretta influenza di Prov 8,22-23, la dimensione femminile e “sponsale” dell’Ennoia rimanga anche
nell’Unigenito di Origene, cf. ComGv I,55: «E che dire della Sophia, che “Dio creò Principio delle sue vie, in vista delle sue
opere”, in cui il Padre si compiacque, allietandosi della sua multiforme bellezza intellegibile, contemplata soltanto da occhi
intellegibili?».
120 Per Orbe, che riassume il sistema di Tolomeo, l’Unigenito nel seno del Padre è soltanto un Figlio concepito, ma non è
ancora un Figlio generato; soltanto «extra sinum Dei», con il pleroma generato dall’Unigenito, si darebbe «il Figlio (propriamente
detto)». «Virtualmente contenuto nel Nous, come nel Principio (Arché), il Pleroma rivelerebbe con i suoi eoni le virtù
dell’Unigenito. Non rivelerebbe nemmeno tutte le perfezioni dell’Unigenito, ma soltanto quelle extradivine, orientate verso
l’universo creato, insite nell’Unigenito in quanto Verità. In modo più semplice, il Pleroma strettamente inteso si compone
unicamente delle perfezioni dell’Unigenito relative all’economia gratuita» (La teologia…, 113). Ritengo che considerare
l’Unigenito soltanto come concepito, e non ancora generato, sia fuorviante e contraddittorio. Prendiamo in considerazione la fonte
qeovò),
biblica dalla quale il termine è tratto, Gv 1,18: «Dio nessuno l’ha mai visto; Dio Unigenito (MonogenhVò che è nel seno del
wjVn eijò toVn kovlpon tou= patrovò),
Padre (oJ questi lo ha rivelato (ejxhghvsato)»; essa afferma evidentemente che, già nel seno
del Padre, il Figlio è appunto generato, e che questa sua intimità con il Padre, gli permette di rivelare ad extra la sua ricchezza. Se
poi passiamo al sistema di Tolomeo, l’Unigenito è il Figlio nella sua identità più profonda, ovvero l’alterità metafisica in radice,
tant’è che l’intero pleroma è in lui virtualmente contenuto e da lui generato. Ritengo che proprio la distinzione origeniana tra
l’epinoia Sophia e quella Logos sia quella che meglio ci permette di comprendere l’intima articolazione del sistema di Tolomeo e le
sue stesse differenze rispetto a quello origeniano. Per il cattolico, Sophia, che è l’Unigenito nel seno del Padre, il Principio, ha
perigrafhv
comunque un’ipostasi; il Logos è una dipendente da questa ipostasi, che scaturisce nel seno del Padre, traendo
direttamente da lui il suo esistere. Per lo gnostico, analogamente, il Nous è il Figlio in sé, l’unico generato, già individuato rispetto
al Padre, rispetto al quale il pleroma del Logos da lui generato è la rivelazione e la rappresentazione ipostatica «extra sinum Dei»
dell’intenzione rivelativa, creativa e redentiva dell’Unigenito. 28
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
perigrafhv 121
In ComGc I,291-292, Origene parla di del Logos , sottolineando come l’assunzione
perigrafaiv dunavmeiò,
di questa identità circoscritta si dia all’interno di una serie di o di «esseri divini e
viventi e dotati di logos, tra i quali il più eccelso e il migliore era Cristo»; ma Origene aggiunge che la
perigrafaiv,
serie di tutte queste culminanti in quella del Salvatore, sussiste unicamente in quanto inerisce
alla Sophia:
«E quindi, come sono molteplici le potenze di Dio, ciascuna secondo la propria circoscritta individualità
perigrafhvn)
(kataV – e il Salvatore le supera tutte quante –, così… anche Cristo, in quanto è Logos, si
ajrch=/, th=/ Sofiva/,
dovrà pensare come avente la sua ipostasi “nel principio”, cioè nella Sapienza (ejn
thVn uJpovstasin ejvcwn)» (ComGv I,292). duvnamiò
Il Logos di Origene rappresenta la suprema creatrice che ordina un sistema di
dunavmeiò perigrafhv
create, ciascuna con la propria o individualità (e, per esse, questa coincide con la
duvnamiò perigrafhv
stessa ipostasi: cf. XX,182); ma, la o divina, che è il Logos, è il rivelarsi di
ejn ajrch=/:
un’uJpovstasiò trascendente, anteriore, l’Unigenito-Sophia, che attinge la sua eterna identità
122
nella sua recettiva dipendenza dal Padre . Non a caso, lo stesso atto creativo, che è ripetutamente
121 perigrafhVn
Origene dichiara di «assumere il Logos come dotato di una propria individualità circoscritta (ijdivan
ejvconta)» (I,291).
122 Come testimonianza della diffusione e della pregnanza della distinzione tra Unigenito e Primogenito, sono di fondamentale
importanza due enigmatici Excerpta ex Theodoto, entrambi da attribuire allo stesso Clemente e non alla sua fonte valentiniana: «Noi
taujtovthti)
diciamo che questo Logos, nella sua identità (ejn è Dio in Dio e di cui si dice che è “nel seno del Padre”, indivisibile
(ajdiavstatoò), impartecipabile (ajmevristoò), Dio unico. “Tutto è stato fatto per mezzo di Lui”, attraverso l’operazione immanente
thVn prosech= ejnevrgeian) taujtovthti):
(kataV del Logos nella sua identità (ejn le realtà spirituali, intellegibili, sensibili.”Questi
ha spiegato il seno del Padre”, questi, il Salvatore…, “il Primogenito di tutta la creazione”. E questo Unigenito, nella sua identità
taujtovthti), duvnamin ajdivastaton)
(ejn secondo l’inseparata potenza (kataV del quale opera il Salvatore, questi è la Luce della
chiesa» (C ’A , ExcTh 8,1-3). Nel Figlio, vengono chiaramente distinte due dimensioni successive: quella
LEMENTE D LESSANDRIA taujtovthti)
dell’Unigenito, del Figlio che è ancora “nel seno del Padre”, nella sua assoluta identità (ejn con il Padre; e quella del
Primogenito, che – operando tramite la potenza che gli deriva dall’Unigenito – crea e redime, rivelando i segreti del seno del Padre.
Corrispondente risulta la struttura teologica del secondo excerptum: «”E il Logos è divenuto carne” (Gv 1,14), non soltanto quando
thVn parousivan), ajrch=/),
si è fatto uomo con la sua venuta (kataV ma anche “nel principio” (ejn quando il Logos nella sua
ejn taujtovthti Lovgoò) perigrafhvn)
identità assoluta (oJ è divenuto Figlio nella sua individualità (kataV e non secondo la
sostanza (kat*oujsivan)… Paolo dice: “Questi che è l’immagine del Dio invisibile”; poi aggiunge: “Primogenito di tutta la
Lovgoò oJ ejn taujtovthti);
creazione”. Con “Immagine del Dio invisibile”, egli designa il Logos nella sua identità assoluta (oJ con
ajpaqw=ò),
“Primogenito di tutta la creazione”, colui che, generato impassibilmente (gennhqeiVò è divenuto il creatore e il
kaiV genesiavrchò)
genesiarca (ktivsthò di tutta la creazione e di tutto l’essere » (C ’A , ExcTh 19,1 e 4).
LEMENTE D LESSANDRIA
saVrx ejgevneto
Questo testo, di portata capitale, interpreta il giovanneo come rivelazione di un movimento kenotico e rivelativo del
perigrafhv
Figlio non limitabile alla sua incarnazione storica. F.H.M. S , Extraits de Théodote..., 93, interpreta la come
AGNARD
taujtovthò
sinonimo di ipostasi personale, mentre identifica la propria del Figlio con l’oujsiva, interpretata – forse in base ad un
condizionamente confessionale – come proto-nicena identità dell’essenza divina. La debolezza dell’ipotesi di Sagnard sta nel non
riuscire a spiegare in maniera soddisfacente l’oujsiva di ExcTh 19,5, (cf. la debolissima e confusa nota 2 in Extraits de Théodote...,
97), che viene chiaramente riferita, da Clemente, ad una dimensione kenotica, e comunque individuale, e non certo assoluta, relativa
all’identità dell’essenza divina. Invece, A. O , En los albores…, 108-117, interpreta questi due excerpta a partire dallo schema
RBE ejn taujtovthti,
teologico 1) Padre; 2) Logos immanente; 3) Logos proferito. 1) Originariamente, il Logos è nell’identità assoluta di
Dio, nel seno del Padre, ma come ancora indifferenziato. 2) La prima incarnazione è quella tramite la quale il Logos è concepito nel
perigrafhv,
seno del Padre, quindi acquisisce una una propria distinzione, comunque senza ancora uscire dal seno del Padre. E’ il
ejndiavqetoò, perigrafhv
Logos identificabile con la Sophia ancora impersonale di Tertulliano. La indica, quindi, una dimensione
non ancora ipostaticamente determinata. 3) La seconda incarnazione (che, chiaramente, precede quella storica nell’uomo Gesù) è
quella tramite la quale il Logos viene generato effettivamente dal Padre come seconda persona individuata, acquisendo finalmente
oujsiva: proforikovò,
una propria quella del Logos il Sermo di Tertulliano. Entrambe le interpretazioni mi lasciano perplesso (ma cf.,
in proposito, lo stesso A. B , La soteria in Clemente Alessandrino, Roma 1972, 620-621): quella di Sagnard, perché, come
RONTESI oujsiva,
sopra rilevato, forza in senso protoniceno la prima ricorrenza del termine non riuscendo a coordinarla con la seconda; quella
perigrafhv
di Orbe, perché riferisce l’incarnazione a quella che interpreta come concezione ancora impersonale nel seno del Padre,
sicché il soggetto dell’incarnazione sarebbe un Figlio non ancora ipostaticamente identificato (cf. supra, nota 120); ma allora perché
ExcTh 8 definisce «il Logos nella sua identità» come Unigenito, cioè come unico Figlio (già!) generato? Se il pur polemico
orizzonte di riferimento di Clemente è quello valentiniano, per il quale l’Unigenito nel seno del Padre è identificato con il Nous,
possiamo definire il Figlio in sé, cioè sprofondato nella conoscenza del Padre, come insussistente, come mera Sophia immanente e
impersonale? Personalmente, ritengo che proprio l’identificazione, in ExcTh 8,3, dell’Unigenito con il «Logos nella sua identità»
possa, anche grazie al confronto con la soluzione origeniana, essere il filo d’Arianna di questo brano labirintico: 1) In quanto
oujsiva
Unigenito, il Figlio ha già una propria individuata (certo non interpretabile come consustanziale con quella del Padre), una
propria ipostasi, paragonabile alla Sophia origeniana. Non a caso, Clemente parla di Unigenito: il Figlio è quindi nella sua identità
assoluta, comunque come generato, pur se non uscito operativamente dal seno del Padre. 2) In quanto Primogenito, il Figlio
perigrafhv,
acquisisce una propria che evidentemente – essendo identificata con la dimensione incarnata e kenotica del Figlio – non
può essere identificata con la sua identità personale; essa, piuttosto, dev’essere identificata con la sua operazione, con quella potenza
creativa, rivelativa, redentrice, che implica relazione alle creature (così come Origene interpreta perigrafhv in ComGv I,291-292),
quindi diminuzione e uscita dall’intimità del seno del Padre, ove il Figlio attinge la sua assoluta perfezione di Unigenito. Insomma,
la prima, fondamentale incarnazione del Figlio è il passare dal suo stato di «Logos nell’identità» (che ExcTh 8 definisce con il suo
29
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
associato alla Sapienza da parte di Origene (e ciò in base a Prov 8,22-23), sussiste secondo la modalità
della causa formale e non della causa efficiente o demiurgica, che invece caratterizzerà il Figlio come
123
Logos :
«Tutte le cose sono fatte secondo la Sophia, cioè secondo i tipi [derivanti] dal complesso dei concetti che
thVn Sofivan kaiV touvò tuvpouò tou= susthvmatoò tw=n ejn aujtw=/
sono in lui [nel Logos] (kataV...
nohmavtwn)… touVò... tw=n ejsomevnwn lovgouò)
secondo le ragioni delle cose future (kataV già da
prima manifestate (protranwqevntaò) da Dio nella Sophia. “Egli infatti ha fatto tutto nella Sophia” (Sal
103,24). E si deve affermare che Dio, avendo creato, per così dire, una Sophia vivente (ejvmyucon
Sofivan), tw=n ejn aujth=/
le affidò il compito di trasmettere, dagli archetipi che essa conteneva (ajpoV
tuvpwn), plavsin), eijvdh)
agli esseri e alla materia, sia la struttura (thVn sia le forme (taV e, come io
oujsivaò)»
ritengo, anche le sostanze (taVò (ComGv I,113-115).
Il Figlio in quanto Sophia è, quindi, il Figlio che accoglie femminilmente dal Padre non soltanto
124
un sistema vivente di teoremi, di paradigmi intelligenti della futura creazione , ma la propria stessa
125
ipostasi personale . La funzione di questa epinoia è quindi quella di suggerire, certo soltanto
analogicamente, un tempo di sospensione tra 1) l’“anteriore”, stupito, silenzioso accoglimento dell’essere
e della verità, nel quale il Figlio ancora non agisce ad extra, intento com’è ad identificarsi come
intelligenza mistica del Padre, Nous assolutamente abissale; e 2) il “successivo” atto creatore e rivelatore,
che pure – come vedremo – caratterizza così intimamente il Figlio in quanto Logos, da risultare
126
inseparabile da esso . Se, quindi, il Figlio come Sophia-Unigenito è l’esegeta dei misteri ineffabili
ejn ajrch=/,
essere l’Unigenito, mentre ExcTh 19,4 definisce tramite la definizione paolina di “Immagine del Dio invisibile”), a
perigrafhv,
quello di Primogenito, dotato di un proprio specifico ruolo di mediazione con le creature, appunto di che tradurrei con
«configurazione relazionale». La mia proposta, quindi, nega, contro Orbe, la possibilità di distinguere in questi excerpta clementini
perigrafhvn)
un Logos immanente – per di più distinto dall’Unigenito – (kataV da un Logos proferito (kat*oujsivan). 3) Questa
perigrafhv hJ oujsiva)»;
è definita, in ExcTh 19,5, «sostanza schiava (douvlh si tratta, evidentemente, di una sostanza kenotica,
appunto quella del Primogenito, del “Figlio per altro”. Non a caso, in ExcTh 33,2, Clemente propone – contro i valentiniani – la sua
tou= uJpokeimevnou)»;
prospettiva del Primogenito come derivato dalla sua «realtà soggiacente (ejk così, in ExcTh 19,5,
hJ oujsiva)» tou= uJpokeimevnou)…
«l’essenza schiava (douvlh viene definita come «derivata dalla sua realtà soggiacente (ejk
kaiV uJpokeimevnh th=/ drasthrivw/ kaiV kuriwtavth/ aijtiva/)».
passiva e sottomessa alla causa attiva e signoreggiante (paqhthV
toV uJpokeivmenon?
Cosa si intende con Lo interpreterei, appunto, come termine che designa non il sostrato divino paterno (come
proposto, pure se con diverse soluzioni, sia da Sagnard che da Orbe), ma «il Logos nell’identità», quindi il sostrato ipostatico del
perigrafhv
Figlio, «causa attiva e signoreggiante» che sorregge tutte le sue manifestazioni economiche (la incarnata di 19,1, distinta
dall’oujsiva ipostatica del Figlio; l’oujsiva schiava del Primogenito in 19,5; il Primogenito in 33,2). Insomma, l’oujsiva di ExcTh
19,1 avrebbe un’accezione ipostatica (il Figlio in sé), mentre quella di ExcTh 19,5 avrebbe un’accezione economica (il Figlio per
oujsiva perigrafhv,
altro); mentre senza specificazione non è possibile attribuire nuova all’incarnazione dell’Unigenito nella sua
oujsiva douvlh,
quando questa viene specificata come kenoticamente asservita all’ipostasi soggiacente, essa può essere identificata
perigrafhv. oujsiva
con la Propendo, quindi, per l’ipotesi (che in effetti rimane il punto critico della mia proposta) che l’ di ExcTh
19,1 non sia da interpretare nel senso di quella di ExcTh 19,5, come propone Orbe (per il quale, quando ExcTh 19,1 esclude che
perigrafhv oujsiva,
l’assunzione della da parte del Figlio coincida con l’assunzione di rinvia quest’ultima alla dimensione del Logos
proferito). Ritengo, comunque, che ExcTh 8 e 19, a differenza di quanto proposto da Orbe, non vadano niente affatto interpretati nel
ejvdiavqetoò/proforikovò,
senso dello schema teologico del Logos quanto piuttosto nel senso – origeniano! – della Sophia come
taujtovthti)»,
“Figlio in sé” e del Logos come “Figlio per altro”. In tal senso, l’espressione « Logos nell’identità (ejn mi pare
suggerire l’identità ipostatica del Figlio, al di sotto della pluralità di incarnazioni o manifestazioni, comunque operate dalla sua
duvnamiò ejnevrgeia.
o D’altra parte, come abbiamo visto, in ExcTh 7 Clemente – presumibilmente riportando un testo
eiJ=ò kaiV oJ aujtovò,
valentiniano – afferma l’essere malgrado il suo distinto rivelarsi come Unigenito (in ambito pleromatico, o
meglio nell’ambito della prima tetrade) e Primogenito (nell’ambito della creazione, o meglio in quello della seconda ogdoade, radice
della totalità espansa del pleroma). Non è allora possibile rileggere «il Logos nell’identità» in relazione non all’indistinta
immanenza nel Padre, ma appunto alla sua propria unica, permanente identità ipostastica? E non è questa insistenza sull’identità del
Figlio Unigenito, attraverso tutte le sue manifestazioni, una chiara testimoniana dalla polemica antignostica di Clemente?
123 J. R -C , El dinamismo trinitario..., 135-139.
IUS AMPS
124 Sulla dimensione “futura” della creazione, operata secondo i modelli “prima” presenti nella Sapienza che,
ajrchv
“anteriormente” ad ogni temporale, è generata dal Padre, cf. DePrinc I,2,2: «In hac ipsa ergo Sapientiae subsistentia, quia
omnis virtus ac deformatio futurae inerat creaturae, vel eorum quae principaliter exsistunt vel eorum quae accidunt consequenter,
virtute praescientiae praeformata atque disposita: pro his ipsis, quae in ipsa sapientia velut descriptae ac praefiguratae fuerant,
creaturis se ipsam per Salomonem dicit creatam esse Sapientia “initium viarum” Dei, continens scilicet in semet ipsa universae
creaturae vel initia vel rationes vel species» (I,2,2).
125 «Semel recte receptum est, Unigenitum Filium Dei “Sapientiam eius” esse substantialiter subsistentem» (DePrinc
I,2,2). Sulla relazione eterna tra il Padre e la sua Sapienza sussistente, cf. I,2,3 e 4,4.
126 Se il Padre è Nous primordiale e abissale, il Figlio è Logos che rivela ciò che ha prima conosciuto e contemplato del
Padre; in tal senso, il Figlio in quanto conosce diviene Nous egli stesso (che non a caso riproduce in sé i tipi della debordante
ricchezza noetica del Padre), è cioè Unigenito, Principio, Sophia, appunto; in quanto rivela alle creature, il Figlio diviene Logos e
Primogenito (la rivelazione presuppone la relazione ad altro, cioè l’essere il primo nell’ordine della relazione). «Il Figlio può anche
kruvfia)
essere il Logos in quanto annunzia i segreti (taV di quel Padre che è Intelletto (Nou=ò), per analogia con l’appellativo di
Logos dato al Figlio. Come presso di noi la parola annunzia ciò che è contemplato dall’intelletto, così il Logos di Dio rivela il
30
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
dell’abisso paterno, che recepisce in sé come sistema paradigmatico di verità, il Figlio come Logos ne è il
127
traduttore, che trasferisce nella creazione l’ordine noetico contemplato .
IVb – Sophia come Verità: il sistema di teoremi
Alla sizigia valentiniana Nous-Aletheia corrisponde, quindi, l’indissolubile relazione origeniana
tra le epinoiai Sophia e Verità: miva),
«Se la Verità è una (ajlhvqeia è chiaro che bisogna ragionevolmente concepire come unica anche la
kataskeuhv) ajpovdeixiò),
Sapienza, che della Verità è la condizione (hJ e la dimostrazione (hJ in quanto la
sapienza che è ritenuta tale ma non possiede la verità, non si può neppure chiamare, correttamente
parlando, sapienza. Ma se una è la Verità e una la Sapienza, dev’essere uno anche il Logos che annunzia
kaiV fanerw=n)
la Verità, spiega e manifesta (aJplw=n la Sapienza a coloro che le possono ricevere»
(ComGv II,40).
La mitica relazione sponsale della seconda sizigia valentiniana viene razionalisticamente
restituita come immanenza della Verità nella Sapienza, cioè nell’Intelletto divino che la pensa e la
128
dispiega . Ma la struttura teologica valentiniana rimane invariata: dalla diade Intelletto-Verità, procede
l’epinoia del Logos, attraverso la quale il Figlio costituisce le creature (la Vita, come vedremo), nelle
quali costituisce e per le quali interpreta quel sistema di Verità che, in quanto Sophia, riceve e contempla
eternamente dal Padre. Che qui si tratti non di casuale accumulazione di attributi teologici, ma di
dipendenza sistematica dal modello valentiniano, demitologizzato e razionalizzato, è confermato da un
altro brano del ComGv (sul quale dovremo tornare), ove ritroviamo, interpretati come intime,
indispensabili epinoiai del Figlio creatore, tutti e quattro gli eoni della seconda e della terza sizigia
valentiniana: ejpivnoiai
«Una volta raccolte le del Figlio, ci si deve chiedere quali di esse siano sopravvenute
(ejpigegovnasin), perché certo non sarebbero state né tante né tali, se i santi avessero perseverato nello
stato di beatitudine in cui avevano incominciato. Forse sarebbe rimasto unicamente Sophia, e forse anche
Logos e anche Vita e in ogni caso Verità, ma non certamente le altre che assunse per causa nostra» (I,123).
E si noti la sfumatura di subordinazione della coppia di epinoiai Logos/Vita (“forse anch’esse
inalienabili”) alla coppia Sophia(=Nous)/Aletheia (“forse l’unica epinoia”/“epinoia in ogni caso
inalienabile”): quasi un riflesso involontario di dipendenza dalla schematizzazione valentiniana, riflesso
che forza lo stesso contesto teologico, in quanto la presenza delle creature rende assolutamente
inalienabili le epinoiai Logos/Vita anche nel caso dell’assenza della caduta. hJ polupoivkiloò
Ma, tornando all’articolazione interna del Figlio-Unigenito, cosa significa che
sofiva tou qeou= 129
(Ef 3,10) è vivente unità totale di Verità, sistema di molteplici teoremi e perché
Padre che egli conosce, dal momento che nessuna creatura può lanciarsi verso di lui senza una guida» (ComGv I,277). Certo, nel
ComGv, si dà anche un evidente esempio di incoerenza: «Come l’eruttare è il venire fuori di aria nascosta in colui che erutta e, per
così dire, manda in su aria che è dentro, allo stesso modo il Padre, non contenendo i teoremi della verità, li erutta e ne crea
l’impronta (tuvpoò) nel Logos, che per questo è chamato “Immagine del Dio invisibile”» (ComGv I,283). In questo brano, il ruolo
recettivo di accoglimento noetico del sistema delle verità derivato dal Padre è direttamente attribuito al Logos e non alla Sophia.
Ma, per spiegare quest’incoerenza, si consideri che Origene, come testimoniano ComGv II,126 e V,fr. V, sta pensando al Logos “nel
principio”, cioè nella Sophia.
127 Interessante, in proposito, un riferimento a Clemente d’Alessandria, che definisce il Figlio come «il primo interprete
prw=toò ejxhghthvò)
(oJ dei comandamenti divini, il Figlio Unigenito che ci dispiega (ejxhgouvmenoò) il seno del Padre»
(Stromateis I,169). L’evidente riferimento a Gv 1,18 è ancor meglio chiarito in Stromateis V,81: «”Dio non lo ha mai visto nessuno.
L’Unigenito Dio, quel che è nel seno del Padre, Egli lo rivelò (ejxhghvsato)”, Egli che nominò seno di Dio l’invisibile e l’ineffabile
ajovraton kaiV ajvrrhton kovlpon),
(toV onde alcuni lo hanno chiamato abisso (buqovn)». Quello che qui Clemente attribuisce al
Logos, Origene attribuisce a Sophia: appunto essere l’esegeta dell’Abisso, l’interprete della sovrabbondante verità del seno del
Padre, che appunto soltanto l’Unigenito conosce: «Verbum Dei eam [Sapientiam] esse intellegendum est per hoc, quod ipsa ceteris
omnibus, id est universae creaturae, mysteriorum et arcanorum rationem, quae utique intra Dei Sapientiam continentur, aperiat; et
per hoc Verbum dicitur, quia sit tamquam arcanorum mentis interpres» (I,2,3). E, ancora: «Verbum est arcana Sapientiae ac
scientiae mysteria interpretans ac proferens rationabili creaturae… Cum in semet ipsa primum describit Sapientia ea, quae
revelare vult ceteris, ex quibus ab illis agnoscitur et intellegitur Deus, et haec dicatur “figura expressa substantiae Dei”» (I,2,7-8).
128 aujtoalhvqeia), oujsiwvdeò),
«La Verità-in-sé (hJ la Verità sostanziale (hJ quella che è, per così dire, il prototipo
(prwtovtupoò) della verità che si trova nelle anime dotate di logos, quella Verità le cui immagini si imprimono in coloro che
meditano sulla verità, non è stata fatta né per mezzo di Gesù Cristo né di altri, ma è stata fatta [direttamente] da Dio. Allo stesso
modo che non sono stati fatti per mezzo di qualcuno né il Logos che era nel principio né la Sophia…, così non è stata fatta per
mezzo di qualcuno neppure la Verità» (VI,38).
129 Raccolgo, qui di seguito, le affermazioni più significative: bisogna concepire «Sophia… come un’ipostasi incorporea,
uJpovstasin... zw=san kaiV... ejvmyucon)
animata, vivente (ajswvmaton di teoremi multiformi, che contengono le ragioni di tutti gli
31
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
Origene insiste così ripetutamente su queste espressioni – evidentemente tecniche – per designarne
l’intima, teoretica attività? La Verità valentiniana, compagna di sizigia del Nous, e oggetto della
conoscenza dell’Unigenito, in cosa si identifica? Insomma, cosa pensa il Figlio quando contempla il
Padre? In particolare, è nota e quasi scontata l’identificazione dei contenuti intellettuali di Sophia con la
totalità del mondo delle idee, dei modelli archetipici del mondo. Ma Sophia pensa soltanto idee, oggetti
veritativi assoluti, paradigmi ontologici e matematico-cosmologici? O l’essere sistema di teoremi non
indica qualcosa di più profondo?
IVc – L’eternità della creazione intellettuale
Non escludo affatto la presenza, nella concezione origeniana delle verità pensate da Sophia, del
modello vulgato platonico, che identifica gli intellegibili con le forme ideali, gli oggetti archetipi e gli
stessi modelli matematici fissati dal Demiurgo del Timeo nell’atto di costituire l’ordine dell’universo. Ma
quest’interpretazione dei teoremi della Sophia mi pare comunque superficiale, relativa soltanto all’aspetto
secondario e in qualche modo platonicamente residuale (assunto quasi per automatico riflesso scolastico,
per di più rafforzato dalla mediazione filoniana) della sua dottrina della verità. E questo anche per il
rapporto di continuità che, malgrado le radicali differenze, Origene mantiene con lo gnosticismo, che
aveva nettamente svalutato la creazione corporea, quindi ripensato la Verità del Nous divino come niente
affatto rappresentabile nei termini del razionale modello cosmologico, ma piuttosto come conoscenza
teoretica della pluralità degli eoni del pleroma e, tutt’al più, del loro destino di alienazione e
riconciliazione. Si pensi, in proposito, all’astrusa, farneticante simbologia grammaticale e numerologica
130
di Marco il Mago, polemicamente riassunta da Ireneo : lettere e numeri sono il codice cifrato della verità
pleromatica emanata dall’Abisso, che si identifica con la stessa totalità vivente degli eoni. Insomma, la
Verità profonda è quella delle persone divine nel loro vorticoso e comunque antropomorfico procedere,
cadere e ritrovarsi, e niente affatto quella di misure assolute, modelli ontologici oggettivi, idee archetipe
dell’ordine mondano.
Ma, tornando ad Origene, come possiamo ipotizzare che la Sophia, contemplando i teoremi che
ella riceve dal sovrabbondante traboccare, dall’eruzione della verità dal Padre, possa essere personale
teoria di idee, di paradigmi intellegibili dell’universo materiale? Assolutizzare questa interpretazione
della Sophia come ricettacolo delle idee significherebbe dimenticare come Origene consideri il cosmo
visibile come creazione seconda, anzi arrivi a definirlo – in prossimità, se certo non in sintonia con gli
katabolhv, 131
gnostici – come quindi come realtà decaduta e fallace (pure se antignosticamente ordinata
dall’intervento demiurgico e in prospettiva redentivo del Logos). Un pensiero che considera la
molteplicità e la ricchezza visibile della creazione come dimensione seconda, fenomenica e difettiva,
difficilmente può accontentarsi di identificare l’intimo contenuto dell’eterna verità in sé con gli archetipi
ideali del mondo sensibile creato, come pure – con un certo automatismo – si tende a pensare del modello
cosmologico origeniano. Ma allora, cosa penserebbe Sophia con i suoi teoremi? Non modelli oggettivi o
misure matematiche, cosmologiche, ma un sistema di atti personali (creati) di pensiero, che appunto
Nou=ò noveò,
rendono Sophia mondo vivente, molteplice e animato, cioè di teoria del pleroma! Questa è
la prima realtà pensata eternamente da Sophia, l’autentica, archetipa, più pura dimensione dei teoremi,
lovgoi
delle potenze di intelligenza: l’eterno progetto dei nel Logos. Rispetto a questo primo, intellettuale
qewrhmavtwn periecovntwn touVò tw=n oJvlwn lovgouò)»
esseri (poikivlwn (ComGv I,244), «… intendendo per Sophia il
tw=n oJvlwn qewrivaò kaiV nohmavtwn)»
sussistere (suvstasiò) della teoria relativa a tutte le cose e dei concetti (periV (I,111). «Il
qewrhmavtwn oJvntoò ejv aujtw/=, kaq*oJv Sofiva ejstivn)
Logos, in quanto Sophia, ha in sé un complesso di teoremi (susthvmatoò Sofivan)
… [e forse] riserva a sé alcuni di questi teoremi» (ComGv II,126). «… Sophia vivente (ejvmyucon [cui è affidato] il
tw=n ejn aujth=/ tuvpwn),
compito di trasmettere, dagli archetipi che essa conteneva (ajpoV agli esseri e alla materia, sia la
plavsin), eijvdh) oujsivaò)»
struttura (thVn sia le forme (taV e, come io ritengo, anche le sostanze (taVò (ComGv I,115). Due brani
riferiscono al Logos, ma appunto in quanto è “nel principio”, cioè in Sophia, quest’attività teoretica: « Il Padre, non contenendo i
th=ò ajlhqeivaò qewrhvmata),
teoremi della verità (taV li erutta e ne crea l’impronta (tuvpoò) nel Logos» (ComGv I,283). «Ora, il
Logos di Dio, preso nel suo complesso, [come] il Logos che era nel principio presso il Dio… è un Logos unico, risultante da
eiJ=ò sunestwVò ejk pleivonwn qewrhmavtwn)
numerosi teoremi (lovgoò e ciascun teorema costituisce una parte della totalità del
tou= oJvlou lovgou)»
Logos (mevroò (ComGv V,fr. 5). Dunque, proprio in quanto Sophia, lo stesso Primogenito può essere definito
mondo intellegibile: «Cercherai se il Primogenito di ogni creatura possa essere mondo… soprattutto in quanto è Sophia multiforme
hJ polupoivkiloò), lovgouò)
(Sofiva poiché in lui ci sono le ragioni (touVò di qualsiasi essere, le ragioni secondo cui tutte le cose
sono state fatte da Dio nella Sophia… mondo tanto più vario (poikilwvteroò) di quello sensibile e superiore ad esso, quanto il
oJvlou kovsmou Lovgoò)
Logos del mondo totale (tou= supera il mondo materiale» (XIX,147).
130 Cf. I , AdvHaer I,14,1-16,3.
RENEO
131 «Come può questo nostro mondo avere parti “lassù” [nel trascendente mondo della Sophia],dal momento che la sua
hJ ktivsiò katabolhv ejstin;)?...
creazione è caduta (ouJ= E pertanto questo mondo, nella sua totalità (oJvloò) e con tutte le cose
katabolh=/ ejstin).
che contiene, è in una [condizione di] caduta (ejn Fuori della caduta vengono invece a trovarsi i discepoli veri
di Gesù» (ComGv XIX,149-150). 32
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
pleroma dialettico (che connette Creatore e creature), la presenza degli archetipi delle realtà cosmologiche
tavxeiò
(cioè del mondo strutturato secondo di realtà discendenti) rappresenta soltanto un oggetto noetico
secondario, pensato come solo transitoriamente dispiegato in seguito alla preconosciuta caduta dei noes.
Ma nell’eterna prescienza archetipica di Sophia, la caduta stessa (e con essa la seconda, “medicinale”
creazione e gli stessi modelli cosmologici che la strutturano) si è sempre già risolta nell’identità logica
dell’inizio e della fine, nella beata fruizione della spirituale unità tra Creatore e creature. Il sistema
vivente dei teoremi è allora il sistema degli atti intelligenti che il Figlio come Sophia eternamente pensa e
il Figlio come Logos eternamente crea. Il platonico mondo delle idee platonico è, appunto, sostituito
lovgoi; Lovgoò,
dall’origeniano mondo dei l’idea/lovgoò è tolta nella Persona del totalità vivente delle
creature/lovgoi:
«Cercherai se il Primogenito di ogni creatura possa essere mondo… soprattutto in quanto è Sophia
hJ polupoivkiloò), lovgouò)
multiforme (Sofiva poiché in lui ci sono le ragioni (touVò di qualsiasi essere, le
ragioni secondo cui tutte le cose sono state fatte da Dio nella Sophia… mondo tanto più vario
oJvlou
(poikilwvteroò) di quello sensibile e superiore ad esso, quanto il Logos del mondo totale (tou=
kovsmou Lovgoò) supera il mondo materiale» (XIX,147).
Comunque, soltanto comprendendo la dimensione antropomorfa del noetico assoluto origeniano
(L’Unigenito-Sophia è l’Uomo che pensa eternamente gli uomini) è possibile non fraintendere l’epocale
eijkwVn
svolta giudeo-cristiana che, sin dalla traduzione greca di Gen 1,26-27, definisce come non più il
mondo, «dio sensibile» – come faceva Timeo 92c –, ma l’uomo; e che, con lo stesso Vangelo di Giovanni
– casualmente? – attribuisce proprio all’Uomo divino, al Logos incarnato (Primogenito di tutta la
pleromatica creazione di fratelli redenti ) il termine che Timeo 92c riservava ancora al mondo:
monogenhVò.
La questione della conoscenza degli archetipi da parte di Sophia non può non interferire con
un’altra grande questione origeniana, quella della creazione eterna. In proposito, considero esemplare la
132 133
netta posizione di Daniélou , mentre non trovo convincente quella di Orbe , che cerca un introvabile
tertium quid tra creazione eterna e creazione temporale (comunque correttamente esclusa), identificando
la creazione di un archetipo ideale (l’idea di uomo, l’uomo essenziale) con l’oggetto dell’eterna
intenzione creatrice di Sophia. Ma ritengo che questo rappresenterebbe una reduplicazione indebita,
empia persino, dell’unico autentico archetipo dell’Uomo, dell’Immagine assoluta e puramente intelligente
(e non solo intellegibile) che è lo stesso increato Logos creatore. Dopo aver contestato e superato la
concezione (evidentemente troppo materialistica!) del platonico mondo delle idee, ammettere la necessità
della creazione di un eterno modello ideale significherebbe introdurre un inutile doppione del Logos
stesso. In realtà, se Sophia deve pensare la creazione – nella sua dimensione puramente teoretica, ove si
dà soltanto il progetto della creazione e non la sua attuazione, delegata all’epinoia relazionale Logos –,
non ha alcun senso che pensi l’idea di Uomo, in quanto questa già esiste eternamente, si identifica con la
stessa ipostasi dell’Unigenito. Insomma, se Sophia deve pensare, prefigurare creativamente l’archetipo
della prima creazione dell’uomo, a Sophia è sufficiente pensare se stessa, senza creare o pensare alcunché
di altro. Ma se Sophia deve pensare il progetto della creazione (protologica!), non può limitarsi a pensare
se stessa, ma deve pensare un modello di ciò che il Figlio stesso in quanto Logos crea. Ritengo, perciò,
che Sophia non possa non pensare anche le creature, individualmente differenziate, come suo eterno
contenuto noetico. Sophia, cioè, pensando l’archetipo della creazione, non può non pensare il Logos con
132 Scrive J. D : «La visione di Origene è quella di un mondo di creature spirituali che circondano il Logos e
ANIÉLOU
partecipano a lui… Un aspetto essenziale di questa dottrina è che il mondo dei Logikoi è coeterno al Logos. Questo è uno dei punti
in cui la teologia di Origene è più inserita nella cosmologia… Per lui non esiste tempo in cui il Logos non sia stato. E ci si potrà
servire di lui, su questo punto, nella controversia antiariana. Ma poiché egli conserva la relazione dal Logos ai Logikoi, sono allora i
Logikoi a diventare eterni» (Origene…, 306).
133 Si noti la faticosa soluzione all’enigma della creazione eterna dell’uomo, proposta da Orbe: «Dio fece l’Uomo
essenziale, destinandolo ad essere sua immagine e somiglianza… Apparso il sesto giorno, a coronamento della creazione
(razionale), non significa secondo l’Alessandrino che egli venga nel tempo. L’esamerone applicato all’Uomo essenziale ignora il
tempo. Con buona logica e secondo i presupposti di Origene non fu creato nel tempo come l’uomo sensibile plasmato di cui parla
Gen 2,7. Neppure ab aeterno. Venne creato secundum praefigurationem et praeformationem nella Sophia personale eterna e
realmente definito mediante la Sophia stessa» (A. O , Introducción a la teología…, 206). Comunque, Orbe riconosce con grande
RBE
lucidità la preponderanza, in Origene, della teoria della creazione eterna del mondo: cf. ivi, I,203-210; in particolare:
«L’Alessandrino vincola la Sophia personale al mondo degli esseri razionali e, per suo tramite, anche al mondo sensibile. La
gennesis del Verbo, sufficiente in sé a spiegare la preistoria del mondo, non acquista autonomia. La coeternità con il Padre, meglio
precisata rispetto agli ecclesiastici del tempo, s’impiglia in una moltitudine di coordinate attente a eternizzare anche il mondo. Ciò
sfuma i confini tra la necessaria generazione reale del Logos e la libera generazione intenzionale dell’universo in lui. Anche i limiti
tra la paternità e l’onnipotenza appaiono oscuri e, di conseguenza, lo sono pure i confini tra i due ordini divino e creaturale» (209).
33
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
tutti i singoli logoi creati. Quello che il Figlio come Sophia pensa in sé, il Logos che lo traduce in atto,
entrando in relazione con le creature. Evidentemente, questo passaggio dall’anteriorità logica di Sophia
(del progetto) alla susseguente realizzazione operativa del Logos non può in alcun modo essere un
passaggio di tipo cronologico. Ciò significa che quello che “prima” eternamente Sophia pensa come
archetipo ideale (la conoscenza delle creature logoi come progetto della loro “imminente” creazione) è
eternamente connesso con il “poi” della creazione effettiva operata dal Logos. Ciò significa che il Figlio è
eternamente con quelle creature che Sophia pensa e che il Logos crea:
«Quas virtutes Dei [bene faciendi virtus et creandi ac providendi] absurdum simul et impium est putare vel
ad momentum aliquod aliquando fuisse otiosas… Et ideo nullum prorsus momentum sentiri potest, quo non
virtus illa benefica bene fecerit. Unde consequens est fuisse semper quibus bene faceret, conditionibus
videlicet vel creaturis suis... Et per hoc consequens videtur quod neque conditor neque beneficus neque
providens Deus aliquando non fuerit... Semper erat in Sapientia ea quae protinus etiam substantialiter
134
facta sunt» .
Ritengo che DePrinc I,4,4-5, ove (a ragione, a mio avviso!) De Faye considerava massiccio
l’intervento normalizzatore di Rufino, si accordino solo problematicamente al paragrafo precedente, che
cercano di reinterpratare e correggere goffamente. I paragrafi 4-5, infatti, sono evidentemente preoccupati
dinanzi all’affermazione dell’eternità delle creature («neque ingenitas et coaeternas Deo creaturas
dicamus»); riducono quindi l’atto sempre creatore di Dio alla prescienza che la Sophia ha delle idee, degli
archetipi della creazione, a partire dai quali tutte le creature vengono create nel tempo. Ma la soluzione
qui prospettata (quella rufiniana, ripresa come autenticamente origeniana da Orbe e dallo stesso Simonetti
nel suo commento al De principiis) non risolve affatto la difficoltà, anzi la accresce. Se l’eternità della
creazione coincidesse soltanto con la contemplazione dell’idea della futura creazione, da parte di Sophia,
le difficoltà sollevate da Origene in I4,3 – come può il Figlio trattenersi dall’operare una cosa buona?
Come può Dio essere inattivo prima e divenire attivo poi? – risulterebbero tutte potentemente rafforzate.
Cioè, il Figlio penserebbe senza operare immediatamente il bene; il Figlio passerebbe dall’inerzia
teoretica all’azione creativa. Insomma, la sola teoria di Sophia è in effetti pigra e niente affatto generosa.
Insomma, l’eternità di Dio dovrebbe essere operativamente vacua e velatamente invidiosa.
Si badi, inoltre, che la vera realtà, quella che principaliter è oggetto dell’intenzionalità di Dio, è,
per Origene, unicamente quella intelligente. Quale sarebbe l’idea universale dei molteplici noes?
Torniamo alla difficoltà già incontrata: questa idea non può essere che quella dell’Uomo razionale
universale, che però deve essere logicamente identificata con il Figlio stesso, il Logos divino, l’Immagine
archetipica, a partire dalla quale tutti i noes sono (saranno, nell’ipotesi di DePrinc I,4,4!) creati. Ma, in
questo caso, il rapporto di Dio e della Sophia con l’idea Uomo-Figlio sarebbe un rapporto puramente
autoreferenziale (Sophia penserebbe nient’altro che il Logos, e non le “future” creature, cioè il Figlio
penserebbe se stesso), in alcun modo aperto all’atto creativo che pone l’alterità eternamente voluta, creata
nella sua contingenza, signoreggiata.
Ritengo, invece, che l’idea che Sophia contempla non possa essere che se stessa (il Figlio) come
archetipo del Logos creatore di logoi, ove l’archetipo precede l’atto creativo del Logos logicamente, ma
non cronologicamente. Tenendo poi presente la distinzione tra Sophia teoretica e Logos creatore, diviene
assai problematico degradare questa relazione – che così intimamente condiziona lo stesso interno ed
eterno articolarsi dell’ipostasi del Figlio – nell’ambito di una scansione cronologica tra il prima
dell’eternità e il dopo della creazione effettiva di ciò che, ab aeterno, Dio conosce e vuole come creato (si
badi che Origene non riesce minimamente a porre il problema della temporalità come creata, così come
riuscirà a porlo e a “risolverlo” paradossalmente Agostino). La trascendenza della conoscenza della
creazione dei noes nel Figlio non può, quindi, essere di tipo cronologico, ma soltanto ontologico. Si noti,
in tal senso, come nella prima Omelia sulla Genesi, Origene affermi 1) che l’anteriorità del Principium
rispetto alla prima creazione è soltanto causale e niente affatto temporale e 2) che la creazione è fatta nel
Principio stesso: «Non ergo hic temporale aliquod principium dicit, sed “in principio”, id est in
Salvatore» (I,1); pertanto, 3) il tempo prima della creazione del mondo (visibile) non esiste, tant’è che il
testo biblico parla non di «dies prima», ma di «dies una» (I,2), riferendosi cioè ad una dimensione
135
ontologica del tutto sottratta alla serie temporale . 4) La prima creazione di Dio è relativa al cielo (sì che
la terra di Gen 1,1 perde il suo ruolo all’interno della descrizione della creatura fatta in principio), è
134 DePrinc I,4,3 e 5. Cf. I,2,10.
135 Sull’interpretazione origeniana di Gen 1,1, cioè della creazione del cielo e della terra come creazione protologica della
totalità delle sostanze spirituali, «qui formaient alors une unité» (91, n. 89), cf. P. N , Genèse 1,1-2 de Justin à Origène, in
AUTIN
A V , In principio. Interprétations des premiers versets de la Genèse, Paris 1973, 61-93, in part. 88-92.
A V 34
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
136
quindi creazione puramente spirituale o intellettuale, quindi non ancora corporea . Infine, come
vedremo, l’interpretazione origeniana del Prologo prosegue con l’identificazione della creazione
intellettuale e dello stesso Spirito Santo con “la vita fatta nel Logos”. E’ cioè indispensabile connettere la
questione dell’eternità della creazione alla concezione origeniana del divenire di Dio: lo Spirito nasce
quando il Figlio crea; interpretare la creazione come operazione temporale di un progetto eterno
significherebbe distruggere l’intero dinamismo trinitario, così come Origene lo ha pensato, ovvero
significherebbe confinare lo Spirito-“vita fatta nel Logos” in una dimensione temporale, distinta da qualla
eterna ove risiederebbero Padre e Figlio, anzi confinare nel tempo lo stesso Logos, che si dispiega
soltanto producendo eternamente la vita (lo Spirito) in lui.
Di grandissima importanza, per valutare la concezione origeniana della Sophia sistema
molteplici e vivente di teoremi, l’excursus in ComGv XIII,302-306 dedicato alla struttura teoretica delle
scienze: le scienze e le arti umane sono articolate come sistema dispiegato di teoremi (« ambito costituito
da numerosi teoremi»: XIII,302), dedotti da principi (ajrcavi), che soltanto progressivamente le
intelligenze degli uomini riescono a portare a perfezione, realizzando «il frutto completo… il compimento
tevloò)» 137
(toV (XIII,302) della disciplina . Le scienze profane servono, comunque, ad Origene come
schema analogico per rivelare la vera identità della verità assoluta, che non può non coincidere con il
contenuto noetico della Sophia:
«Se questo è vero di certe arti e di certe scienze, tanto più è possibile constatarlo per l’arte delle arti e la
th=ò tevcnhò tw=n tecnw=n kaiV ejpisthvmhò tw=n ejpisthmw=n).
scienza delle scienze (ejpiV Infatti, le
scoperte dei primi sono elaborati da quelli che vengono dopo di loro e consegnate ad altri ancora, i quali
con la loro accurata ricerca immettono in queste scoperte gli elementi che determinano il processo di
toV eJvn sw=ma th=ò ajlhqeivaò metaV
riunificazione della verità con la sapienza in un solo corpo (tou=
sofivaò sunacqh=nai). Quando l’opera dell’arte delle arti sarà compiuta nella sua pienezza, allora
veramente godono insieme chi semina [i profeti] e chi miete [gli apostoli], perché Dio accomunerà gli uni e
gli altri in un solo esito con la sua ricompensa» (ComGv XIII,303-304).
Dunque, la scienza delle scienze è la scienza dell’economia divina, capace di scoprire
progressivamente la totalità della rivelazione, connettendo ogni aspetto della storia sacra (dell’Antico e
del Nuovo Testamento) al principio assoluto che la governa e nella quale essa si risolve: i suoi principi
non possono che essere il Logos stesso (nella sua dialettica tra identità ipostatica e molteplicità delle
epinoiai) e le vicende del suo corpo creaturale (si pensi alla stessa sopra evidenziata dialettica cristologica
138
diafwnivai ajnagwghv
identificata nella tensione tra e o «scopo mistico» che sorregge tutta la Scrittura) .
Non ritengo affatto casuale, infatti, l’espressione «il processo di riunificazione della verità con la
sapienza in un solo corpo», che interpreto come formula cristologica, come conferma l’interpretazione
dell’arte delle arti come redenzione che dischiude alla contemplazione (alla totale scienza delle scienze).
nou=ò tevloò
E’ soltanto nel mistico che la scienza teologica attinge il suo e il suo frutto, la sua totalità
lovgoò
sistematica, riservata unicamente al creato che ha recuperato, nell’apocatastasi, l’unità con il corpo
mistico del Logos creatore, attingendo la teoria dell’eterna verità divina, che è lo stesso oggetto noetico
archetipicamente contemplato da Sophia:
«L’espressione ”Raccoglie frutto per la vita eterna” (Gv 4,36) si riferisce al beneficio che deriva dalla
fuvsin)
contemplazione (qewriva) stessa, un beneficio che di per sé e per sua stessa natura (kataV
nw=/)
appartiene all’intelletto (tw=/ e in modo tutto particolare si trova nella natura dotata di logos (th=/
logikh=/)» (ComGv XIII,298).
136 «Cum enim omnia quae facturus erat Deus, ex spiritu constarent et corpore, ista de causa in principio et ante omnia
coelum dicitur factum, id est omnis spiritalis substantia, super quam velut in throno quodam et sede Deus requiescit. Istud autem
coelum, id est firmamentum, corporeum est. Et ideo illud quidem primum coelum, quod spiritale diximus, mens nostra est, quae et
ipsa spiritus est, id est spiritalis homo noster qui videt ac perspicit Deum. Istud autem corporale coelum, quod firmamentum dicitur,
exterior homo noster est, qui corporaliter intuetur» (HomGen I,2). Si noti l’identificazione dell’aspetto corporeo creato da Dio con
l’uomo esteriore, che si serve dei sensi, che quindi ha sovrapposto qualcosa di inferiore e di defettivo alla propria identità
intellettuale; ciò significa che la corporeità è interpretata da Origene come dimensione puramente seconda, propria del mondo
noveò,
materiale creato conseguentemente al peccato dei e niente affatto come dimensione corporea eterea propria delle stesse
creature razionali, prima della loro caduta. Insomma, questo importante brano sembra testimoniare la dimensione del tutto
immateriale delle mentes, originariamente create da Dio come intime alla stessa Sophia, quindi come trono sul quale Dio stesso e il
suo Figlio sono seduti.
137 Si noti il parallelismo tra dottrina gnoseologica e dottrina mistica: gli spirituali perfetti fruttificano nel Logos,
«ottengono il fiore di Cristo che è oltre il fiore» (I,261-264); sul mistico «Logos nel pieno del suo fiorire», cf. VI,270. Sul pleroma
come sbocciare degli eoni dal Padre, cf. Trattato tripartito 62,8-121; 73,20-29.
138 Cf. supra, paragrafo IIa. 35
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
Se, quindi, Sophia – il Figlio nel suo contemplare – riceve dal Padre i tipi di tutta la creazione
razionale, e se questi si identificano con l’intelligente, vivente corpo protologico ed escatologico che il
Logos – cioè il Figlio nel suo operare – si appresta a creare (con la deformazioni che, con la caduta,
questo corpo assume), non è Sophia, in quanto corrispondente all’Ennoia valentiniana, definibile come
139
Grazia ? Le verità eterne più intime della Sophia-Nous sono, infatti, la manifestazione molteplice e
140
personale della stessa grazia, della volontà benefica del Padre . Insomma, Sophia che eternamente pensa
lovgoi,
l’Idea di uomo, pensa il Logos come eterno creatore di tutti i pensa cioè l’eterna manifestazione
della grazia e dell’azione creatrice del Figlio. «Semper erat in Sapientia ea quae protinus etiam
substantialiter facta sunt», cioè sempre nel Figlio come Sophia è pensato il Figlio come Logos creatore
delle sostanze intelligenti.
IVd – Excursus plotiniano: il Nous come sistema di teoremi e Volto totale di volti
Sospendendo l’indagine relativa al rapporto di Origene con lo gnosticismo valentiniano, ritengo
di grande interesse gettare uno sguardo al Nous plotiniano, che presenta alcune singolari coincidenze con
la nozione origeniana di Sophia. Pare superfluo, preliminarmente, indicare le irriducibili differenze
metafisiche tra i due sistemi teologici: la personalità di Dio, la volontarietà del suo atto, la nozione di
creazione, quella di peccato e di grazia, quella di kenosi divina, rendono inaccettabile e irrimediabilmente
irrazionale il sistema di Origene agli occhi di Plotino (che, non a caso, tanto polemizzò contro la gnosi
cristiana). Eppure, alcune significative analogie (che appunto non sono affatto identità di prospettiva)
possono essere indicate. In primo luogo, in analogia con Sophia (epinoia teoretica del Figlio,
corrispondente al valentiniano eone Nous), il Nous plotiniano è un’ipostasi del tutto priva di attività
demiurgica, delegata all’inferiore ipostasi dell’Anima; come Sophia, anche il Nous plotiniano è
caratterizzato dal movimento di derivazione, conversione e sprofondamento mistico nell’Uno. Ma quello
che qui mi interessa rilevare è che anche il Nous plotiniano è definito come vivente sistema di teoremi ed
ha, come suo contenuto noetico, una pluralità di idee che è però pensata come pluralità di atti intelligenti,
di volti (provswpa) persino. E, come Origene, anche Plotino pensa l’attività della scienza del Nous come
unità o sistema di una molteplicità di teoremi, come scienza delle scienze – «scienza nella sua totalità
pa=sa)»
141
(ejpisthvmh... –, che possiede in atto la pluralità delle scienze particolari, identificate con una
pluralità di atti intelligenti che conoscono, secondo una molteplicità di prospettiva, l’identità del
noveò
142
contenuto noetico ; sì che il Nous è la totalità dei che in lui si identificano. kaiV hJ noeraV ouJsiva),
«Cos’è questa idea (ijdeva)? Ogni singola idea non è diversa dal nous (nou=ò
nou=ò). pavnta
ma ciascuna è nous (ajll’eJkavsth Nella sua totalità il Nous è la totalità delle idee (taV
eijvdh), deV eij=doò nou=ò eJvkastoò),
ma la singola idea è il nous in quanto singolo (eJvkaston come la
hJ oJvlh ejpisthvmh taV paventa qewrhvmata),
scienza nella sua totalità è tutti i suoi teoremi (wJò ma
deV mevroò th=ò oJvlhò),
ciascun teorema è parte della scienza intera (eJvkaston non come se fosse
wJò diakekrimevnon tovpw/),
separato nello spazio (oujc ma in quanto ciascuno ha la sua potenza solo nel
deV duvnamin eJvkaston ejn tw/= oJvlw/)…
tutto (ejvcon Un’unica natura, dunque, l’ente e l’intelletto
fuvsiò tov te ojvn oJv te nou=ò) 143
(miva … Questo universo è un vivente che racchiude in sé tutti i
viventi… è necessario che nel Nous esista l’intero archetipo e che il Nous sia il mondo intellegibile, di cui
Platone dice: “In ciò che è vivente” (Timeo 39e)» (Enneadi V,9,8-9).
Sia Origene che Plotino, quindi, recepiscono l’esigenza di intellettualizzare il mondo delle idee
archetipali, di introdurre gli atti intellettivi come intime articolazioni di Sophia-Nous-Logos, di concepire
139 Si confronti questo straordinario testo valentiniano, che identifica nell’ajgavph la radice della teogonia, quindi il
superamento cristiano del monoteismo: «Il Padre ingenerato… era solo, solitario e riposava solo, come dicono, in se stesso
aujtoVò ejn eJautw=/ movnoò).
(ajnapauovmenoò Ma poiché era atto a generare, gli sembrò opportuno generare e produrre ciò
gaVr h\\n
che di più bello e perfetto aveva in sé: infatti non era amante della solitudine (filevrhmoò). Era tutto amore (ajgavph
oJvloò), ajgapwvmenon)»
dicono, e l’amore non è amore se non ci sia l’oggetto amato (toV (Elenchos VI,29,5). Ricordo che Grazia
(Cavriò) era uno dei nomi di Sigé, la compagna di sizigia del PrePadre-Abisso: cf. I , AdvHaer I,1,1; la Lettera dogmatica dei
RENEO
valentiniani riportata da E , Panarion XXXI,5,4.
PIFANIO
140 Cf. l’insistenza sulla Volontà del Padre, che il Figlio è l’unico a poter assecondare, in XIII,228-234.
141 P , Enneadi VI,2,20.
LOTINO
142 taV qewrhvmata taV kaqevkasta)
«Come una scienza, che è un tutto unico, si divide in teoremi particolari (eijò senza
spezzarsi o frantumarsi, poiché ciascuno di questi contiene in potenza il tutto di cui il principio e la fine fanno una cosa sola, così
bisogna che anche ciascuno si disponga in modo che in lui il principio sia anche la fine e che l’essere intero e tutte [le sue parti]
entrino nella facoltà migliore della sua natura; così diventato [Nous] egli abita lassù; infatti, quando si possiede questa facoltà
superiore, si viene a toccare con essa l’Intellegibile» (P , Enneadi III,9,2); cf. IV,3,2; IV,9,5 (nella scienza, nella parte in atto
LOTINO
c’è il tutto potenzialmente, il singolo teorema riassume la totalità della scienza, da esso deducibile); VI,9,4-5.
143 In P , Enneadi VI,6,6, si ribadisce l’identità tra realtà pensata e atto pensante nel Nous; cf. VI,6,15; VI,2,22.
LOTINO 36
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
l’ipostasi seconda come un vivente atto di contemplazione totale che dispiega la traboccante semplicità
del Padre-Uno nella molteplicità degli atti singoli delle idee-intelligenze-logoi-volti-teoremi, che, per il
principio della compenetrazione infinita delle realtà immateriali (quella che verrà definita trinitariamente
144
pericoresi), si riunificano nell’unico Intelletto . Ma, ipostasi di mediazione tra alterità/molteplicità (con
le quali scaturisce qualcosa d’alto rispetto all’Uno) e unità/identità (derivate dalla conversione teoretica
all’Uno), Nous e Sophia sono atti dialettici pensanti che operano una vera e propria sintesi degli opposti,
sicché in essi la stessa singolarità, del volto e dello sguardo, può essere accolta:
«Dall’Uno deriva, per il Nous, la molteplicità: impotente (ajdunatw=n) a contenere la potenza (duvnamin)
che porta in sé, il Nous la frantuma e riduce l’unità a molteplicità, per poterla sostenere parte a parte…
zwvsh/ poikivlh/)
Potremmo paragonare il Nous ad una sfera vivente e varia (sfaivra/ o potremmo
ti)
immaginarlo come un volto totale (pamprovswpovn smisuratamente splendente di volti viventi (crh=ma
lavmpon zw=si proswvpoiò) o come un insieme di anime pure, che convergono in un unico essere, non solo
prive di qualsiasi difetto, ma anche in possesso di tutto ciò che ad esse appartiene, con il Nous universale
sulla loro vetta, così che tutta la regione risplende di luce intellegibile. Ma in questo modo lo vedremmo
come dall’esterno, come un essere ne vede un altro; è necessario invece che noi stessi diveniamo Nous e
145
trasformiamo noi stessi in visione» .
Certo, sarebbe una forzatura ingenua pensare il singolo nous plotiniano, puro atto impersonale,
come corrispondente al nous origeniano, creatura personale di un Dio personale. Ma, pur ribadendo la
radicale differenza di struttura teologica tra il cristiano Origene e il neoplatonico pagano Plotino, non mi
pare peregrino ipotizzare su entrambi un’influenza gnostico-cristiana, più che una dipendenza da una
comune tradizione medioplatonica. In realtà, è proprio lo gnosticismo, soprattutto valentiniano, ad avviare
una radicale personalizzazione ed antropologizzazione del mondo trascendente platonico; pur reagendo
sistematicamente e violentemente, all’interno della sua stessa scuola, contro questa infelice commistione
di platonico e di cristiano (antropomorfico), Plotino finirebbe per recepire, suo malgrado, alcuni elementi
residuali dell’orizzonte teologico che respinge. Con questo, non si esclude certo un autonomo percorso
del pensiero greco che, sin da alcune allusioni di Platone e dal libro lambda della Metafisica di Aristotele,
aveva cominciato a pensare l’intellegibile come Nous. Ma è proprio certo che quegli gnostici importuni e
lovgoi
irrazionali, con la loro pretesa di essere divini, tutti intimamente predestinati a tornare ad essere
provswpon
puri intelletti, ricongiungendosi al Figlio del Padre (cf. ExcTh 23,5), non abbiano in alcun
modo condizionato il rigore teoretico del platonico Plotino?
V – I F : L -P
L IGLIO IN ALTRO E PER ALTRO OGOS RIMOGENITO E LA SECONDA TETRADE
VALENTINIANA kaiV qeoVò hj=n oJ Lovgoò
Se Sophia-Unigenito rappresenta il Figlio in sé, ipostaticamente individuato, ma ancora separato,
recettivamente sprofondato nella contemplazione beata del Padre, il Logos-Primogenito rappresenta il
Figlio in altro e per altro, che – come nel caso della seconda tetrade della prima ogdoade valentiniana – si
rivolge alla genesi dello spirituale, si incarna – come suggerisce Clemente in ExcTh 19 – già nel suo
lovgoi,
corpo immateriale di suo eterno oggetto d’amore. L’essere Primogenito, infatti, significa essere il
tavxiò
primo di una serie creata di fratelli, dunque il vertice creativo di una comunque ormai eternamente
connessa al Logos. Seguendo l’interminabile esegesi origeniana del primo versetto del Prologo
giovanneo, il passaggio dall’epinoia Sophia all’epinoia Logos significa il passaggio dal Logos “in
ejn ajrch?/ hj=n oJ Lovgoò
Principio” (=in Sophia) – –, cioè dal Logos che è sprofondato nel Padre –
kaiV oJ Lovgoò hj=n proVò toVn qeovn kaiV qeoVò hj=n oJ Lovgoò
–, al Logos che diviene Dio – –
lovgoi). aujtw=/ zwhV hj=n),
creatore di dèi (i La vita creaturale, fatta nel Logos (ejn è l’evento gratuito
che sopraggiunge nel Logos, divenendo, così, inseparabile da lui: il Logos non può darsi senza i suoi
144 noevò,
Sulla molteplicità dei che si unificano nel Nous, cf. P , Enneadi VI,7,17: «Molti intelletti. Tutte queste
LOTINO meVn pa=ò nou=ò, oiJ deV
realtà [intellegibili] sono dunque intelletti: è Intelletto il loro insieme e i singoli sono intelletti (oJ
eJvkastoi noi=). Ma l’Intelletto universale, mentre contiene ogni intelletto, lo contiene nella sua singolarità come identico? E
allora ne conterebbe uno solo. Ma se gli intelletti sono molti, devono essere anche differenti. E allora di nuovo: come ciascuno può
presentare una differenza? Esso ha la differenza in quanto diviene unità assoluta, poiché il Nous universale non è affatto identico
ad un’intelletto qualsiasi».
145 poikiliva
P , Enneadi VI,7,15. Sulla molteplicità di potenze nel tutto dell’universo e sul ricorrere del termine (si
LOTINO
hJ polupoivkiloò sofiva tou qeou=
ricordi la definizione di Ef 3,10), cf. P , Enn IV,4,36.
LOTINO
37
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
lovgoi, che ne costituiscono la sua intima creata articolazione. La diade valentiniana Logos-Vita è
reintepretata da Origene appunto come eterna incarnazione del Figlio, vivificatore e illuminatore del suo
hJ zwhV hj=n toV fw=ò tw=n ajnqrwvpwn);
pleroma (kaiV così, la reintepretazione della diade
valentiniana Uomo-Chiesa specificherà l’articolazione protologica della creazione intellettuale.
lovgoi
Va – L’incarnazione eterna del Logos e la genesi dello spirituale: dagli eoni ai
Pavnta di*aujtou= ejgevneto
Avendo già trattato dell’identificazione dei teoremi contemplati dalla Sophia con gli archetipi
della creazione intellettuale e dell’eternità della creazione del Logos, che traduce da sempre in atto ciò
che prima Sophia riceve in sé come volontà d’amore del Padre, risulta più agevole comprendere la pur
complessa interpretazione origeniana della creazione di tutte le cose da parte del Logos, ancora una volta
evidentemente dipendente dal suo modello valentiniano, pur se fortemente innovativa rispetto ad esso.
1) I valentiniani definiscono il Logos-Primogenito (in sizigia con Zoé) come l’eone che,
accogliendo in sé i semi del pleroma emessi dal Padre nell’Unigenito, è «padre di tutti gli esseri che
146
sarebbero esistiti dopo di lui e principio e formazione (movrfwsin) di tutto il pleroma» ; Eracleone, in
un suo importante frammento trasmessoci proprio da Origene, conferma la sostanza di quest’affermazione
147
di Tolomeo . Insomma, il tutto generato dal Logos è la totalità degli eoni successivi e di tutta la sostanza
spirituale emessa, riassunti nella sizigia Uomo-Chiesa. Il Logos, cioè, originando il pleroma, dispiega
nella molteplicità quella filialità che l’Unigenito concentra in se stesso. Di grande importanza, in
proposito, un’affermazione valentiniana (che già pare demitologizzare cristologicamente il mito gnostico)
riportataci da Clemente: «I Valentiniani chiamano tutti gli eoni con lo stesso nome del Logos, logoi
(lovgouò)» (ExcTh 25). Il Figlio, cioè, generando il pleroma, genera il suo stesso corpo mistico, la
molteplicità dei suoi fratelli. Anche per Origene, la genesi di tutte le cose cui allude Gv 1,3, quindi la sua
specificazione come genesi della vita in Gv 1,4, è la genesi del pleroma spirituale. Origene, cioè, deriva
lovgoi.
dagli stessi valentiniani l’identificazione della prima genesi operata dal Logos come genesi di Ma,
a differenza dei valentiniani, Origene interpreta questa genesi come creazione dal nulla.
Conseguentemente, la barocca escrescenza degli eoni-logoi valentiniani emessi e formati dal Logos viene
sostituita dal pleroma delle creature: gli eoni emanati originariamente dall’Unigenito, che esprimono le
molteplici virtualità di Cristo, sono cioè tutti razionalisticamente risolti nella distinzione, comunque
interna alla dialettica ipostasi di Cristo, tra Logos creatore e logoi creati, tra Capo divino e suo
contingente corpo mistico.
2) In analogia con il sistema valentiniano, la creazione spirituale è comunque il dispiegamento
della stessa intimità del Logos. Ciò significa che “quando” il Figlio si rivela come Logos, egli diviene se
stesso pensando e creando in sé la totalità delle creature intellettuali. Insomma, essendo il Logos il Cristo
totale, il Capo non può darsi senza il suo corpo logico, Cristo si dà soltanto insieme con i suoi cristi
148
creati . 3) La creazione operata dal Logos è, almeno nella sua determinante dimensione assolutamente
protologica (quella della «prima creazione»), creazione di esseri intelligenti assolutamente incorporei,
come persino la traduzione di Rufino attesta, riportandoci l’interpretazione origeniana di Gv 1,4:
146 I , AdvHaer I,8,1.
RENEO
147 «Eracleone… dà della proposizione “Ciò che è stato fatto in lui era vita” un’interpretazione assai forzata; egli infatti
ha inteso “in lui” in riferimento “agli uomini spirituali”, quasi affermando che il Logos e gli spirituali siano una stessa realtà
(taujtovn), sebbene non l’abbia detto espressamente. Dice infatti, come se esponesse le cause prime: “Egli infatti diede loro la
mwvrfosin), thVn gevnesin),
prima formazione (prwvthn quella cioè che corrisponde alla genesi (kataV portando ad una forma (eij
morfhvn), fwtismovn) ijdivan)
ad un’illuminazione (eijò e a una determinazione individuale (perigrafhVn ciò che è stato seminato
da altro e manifestandolo» (E , in ComGv II,137). Interpreto l’altro che ha seminato non come il Demiurgo, come
RACLEONE
propone Corsini nella sua traduzione, ma come l’Unigenito, come provato dal passo di Tolomeo sopra citato; d’altra parte, come
può il Demiurgo intervenire ad un livello così intimo della teogonia, cioè a livello di ogdoade primigenia? Qui Eracleone,
commentando i primi versetti del Prologo, sta illustrando la genesi, la prima formazione secondo la sostanza dei primi trenta eoni
del pleroma. C’è da precisare la difficoltà del termine illuminazione, riferito all’azione del Logos; in effetti, per i valentiniani,
soltanto l’eone Cristo-Spirito Santo dona l’illuminazione e la formazione secondo la gnosi al pleroma (cf. I , AdvHaer I,2,5-6).
RENEO
pneumatikoiv:
Per quanto riguarda la critica origeniana, Origene 1) respinge l’identificazione ontologica tra Logos e il Logos
origeniano, infatti, accoglie dentro di sé creature tratte dal nulla e non eoni consustanziali; 2) come conferma ComGv II,138,
rimprovera – in maniera, invero, piuttosto capziosa e pretestuosa – Eracleone per aver riferito la creazione “nel Logos” agli uomini
spirituali, e non soltanto agli spirituali, introducendo un’evidente limitazione all’interno della creazione originaria del Logos: « lo
spirituale infatti è più che uomo». Si potrebbe dire che, in proposito, Origene rimprovera ad Eracleone di non essere
sufficientemente spirituale, cioè di non aver compreso l’identità assolutamente incorporea della prima creazione del Logos.
148 Sui noes come Cristi, cf. VI,42: «In ciascun santo si trova, per così dire, Cristo e in virtù di quest’unico Cristo
diventano altrettanto numerosi Cristi tutti coloro che lo imitano e che sono conformati ad immagine di lui, il quale è immagine di
Dio». Cf. anche DePrinc II,6,6, ove tutti i santi sono unti, quindi cristi.
38
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
«Omnes animae atque omnes rationabiles naturae factae sunt vel creatae, sive sanctae illae sint, sive
nequam; quae omnes secundum propriam naturam incorporeae sunt, sed et per hoc ipsum, quod
incorporeae sunt, nihilominus factae sunt; quoniam quidem “omnia a Deo per Christum facta sunt”, sicut
generaliter Iohannes docet in evangelio dicens: “In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et
Deus erat Verbum. Hoc erat in principio apud Deum. Omnia per ipsum facta sunt et sine ipso factum est
nihil”» (DePrinc I,7,1).
La differenziazione tra ordini (tavxeiò) di creature (più o meno perfette, più o meno sante, quindi
più o meno razionali o corporee) pertiene non alla prima, originaria creazione di Dio, ma alla seconda
katabolhv noveò.
creazione divina, definita in ComGv XIX,149-150, in quanto conseguente al peccato dei
Originariamente, tutte le creature erano dotate di identica dignità, di identica potenza di intelligenza, di
noevò, lovgoi, qeoiv,
identica, incorporea collocazione: tutte le creature erano nel Nous, nel Logos, in
149
Dio . JO qeovò, qeovò, oij qeoiv:
Vb- l’Archetipo e le immagini
Tocchiamo qui il punto essenziale del nostro tentativo di analisi del rapporto di concordia
discors tra Origene e valentinismo: se la rivelazione cristiana – e in particolare il Prologo giovanneo –
qeovò) hj=n
annuncia la novità del Dio (oJ che genera un Figlio, di un Dio che diviene altro da sé (qeoVò
oJ Lovgoò) Lovgoò hj=n provò toVn qeovn),
in sé (oJ quindi di una divinità donata e partecipata, essa ha
l’ardire di prolungare questa genesi alterante del divino fuori di sé, nella creatura umana, vivificata e
illuminata dal Logos. L’incarnazione del Logos in Gesù si compie nella paradossale affermazione rivolta
ejste)!»
agli uomini che credono: «siete dèi (Qeoiv (Gv 10,34); come Padre e Figlio sono uno nell’altro,
così, grazie al Figlio che è in loro, gli uomini sono uno (eJvn) nel Padre e nel Figlio (cf. Gv 17,21-23). Lo
gnosticismo nasce all’interno di questa inedita tensione teologica: Dio è Padre di un Figlio, il Figlio è la
radice della filialità, quindi della divinità delle creature. Il Prologo suggerisce ai valentiniani, come ad
Origene, che questa inaudita novità teologica è da collocare sin dal Principio: la genesi del Figlio già è
genesi dei figli, la genesi di Dio dal Dio è già genesi degli dèi in Dio. Il pleroma valentiniano non è altro
che la traduzione figurale di quest’annuncio: l’uscire del Padre dalla sua primordiale ipseità; la
generazione del Figlio che è presso il Padre; la generazione operata dal Figlio, che dal Padre procede
verso la molteplicità dei figli, delle “creature” spirituali. Le correzioni origeniane a questo schema sono,
al tempo stesso, profonde, radicali; ma, proprio in quanto correzioni, esse confermano la struttura
150
teologica di riferimento . La corretta esegesi del Prologo comporta: 1) la demitologizzazione, la
razionalizzazione della teologia figurale gnostica; 2) la restituzione del rapporto tra Figlio e figli (la vita
fatta nel Logos) come rapporto di creazione; 3) l’attribuzione della libertà alle creature, responsabili del
loro accogliere o respingere, ottenebrandosi, la Luce del Figlio. Comunque, come i valentiniani avevano
compreso, il Prologo rivela la genesi precosmica del mondo divino e la cristologia come sua ratio
creativa e interpretativa. Ne deriva che la generazione del Figlio si prolunga, per eterna volontà di
creazione, nella nascita di una pluralità di logoi, dèi creati, sospesi tra l’intimità con il Logos-Dio nel
quale sono da sempre radicati e la contingenza della loro relazione, del tutto dipendente dalla volontà di
Dio ed esposta al rischio della libertà. Il processo di amore del Padre è inarrestabile, nel Figlio eterno lo
sguardo generativo del Padre radica una pluralità di creature logiche, instabili eppure volute, perdute
eppure redente. Come separare, dunque, il Logos da Sophia, l’autoidentificazione ipostatica del Figlio che
149 Per una netta affermazione della preesistenza dei noes, cf. CmGv XIII,236-244. L’essere logikos presuppone una
perfezione iniziale perduta: «Come può non essere assurdo che il Padre abbia creato qualcosa di incompiuto e che poi il Salvatore
abbia portato a compimento questa creatura incompiuta? Io sono convinto che questo passo contenga un mistero più profondo
musthvrion). logikovn)
(baquvteron... Forse, infatti, l’essere dotato di logos (toV non era affatto incompiuto quando fu posto nel
paradiso terrestre… E pertanto egli era forse compiuto (tevleioò) e divenne in qualche modo incompiuto (ajtelhvò) a causa della
thVn parakohvn)
disobbedienza (diaV ed ebbe quindi bisogno di qualcuno che rimediasse alla sua incompiutezza… Ma non è
soltanto l’uomo a essere caduto da uno stato di compiutezza ad uno stato di incompiutezza… in una parola, [sono caduti] tutti
eJautw=n ajrchvn)
coloro che “lasciarono la propria dimora” (Giuda 6) e non conservarono il loro principio (thVn e intendo
principio non come sinonimo di potere, ma come l’opposto di fine (tevlei) e connesso quindi con ciò che è primo (prwvtw/)»
(ComGv XIII,238-239; 241; 243-244). Cf. I,97, ove si afferma che «i santi vivevano una vita affatto immateriale e incorporea
pavnth kaiV ajswvmaton zwhvn)» logikovn
(ajvu>lon e XX,86, ove si sottolinea come ciascun sarà restituito, grazie all’incarnazione
del Logos, allo stato primitivo, prima che divenisse carne. Rimando, ancora, al saggio di E. P , L’uomo e il suo destino…,
RINZIVALLI
contenuto in questo volume.
150 Per una magistrale dimostrazione del rapporto di dipendenza e insieme di opposizione di Origene nei confronti del
probolhv
valentinismo, e in particolare sull’influenza della pur avversata dottrina della del pleroma valentiniano sulla concezione
origeniana della generazione del Figlio «tanquam a mente voluntas» (cf. DePrinc I,2,6; I,2,9; IV,4,1), quindi sostanzialmente
dipendente dalla volontà libera del Padre, cf. A. O , Hacia la primera teología…, I, 387-397; 504-512.
RBE 39
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
cerca il Padre rispetto al suo atto rivelativo che lo fa sporgere, in se stesso, verso le creature, intime e
151
lapse ? La stessa personalità ipostatica del Logos è intimamente connessa alla creazione dell’ordine nel
quale risulta inserito:
«E allo scopo ancora di assumere il Logos come dotato di una propria individualità circoscritta (ijdivan
perigrafhVn ejvconta), tugcavnonta zh=n kaq*eJautovn),
quasi vivesse per se stesso (oiJ=on si deve
periV dunavmewn, ouj movnon dunavmewò)…
parlare non solo di potenza, ma anche di potenze (kaiV Si
tinwn qeivwn zwv/wn
dà il nome di potenze a certi esseri divini viventi e dotati di logos (logikw=n
dunavmewn), hJ ajnwtevrw kaiV kreivttwn)
tra i quali il più eccelso e il migliore (wJ=n era Cristo,
eijsin)
chiamato non soltanto Sophia, ma anche Potenza di Dio. E quindi, come sono molteplici (pleivonevò
le potenze di Dio, ciascuna secondo la propria circoscritta individualità (e il Salvatore le supera tutte
quante), così in virtù delle nostre considerazioni precedenti, anche Cristo, in quanto è Logos, si dovrà
pensare come avente il suo esistere nel principio, cioè nella Sophia» (I,291-292).
Questo densissimo brano – che in parte abbiamo già commentato supra, in IVa – afferma: 1) il
perigrafhv,
Figlio assume una sua cioè una sua configurazione relazionale, quando, da Sophia (nella
quale comunque mantiene il suo principio, cioè la sua radice ipostatica), diviene Logos. 2) Sinonimo di
duvnamiò,
Logos è Potenza, sicché lo stesso versetto di appoggio, 1Cor 1,24, viene interpretato come
152
rivelazione delle due meta-categorie , appunto Sophia e Logos, che riassumono tutte le epinoiai del
Figlio. 3) In quanto epinoia relazionale, Logos-Potenza non può essere pensata senza l’oggetto della sua
dunavmeiò, logikoiv, perigrafhv,
intenzionalità relazionale: le i essi stessi dotati di una loro propria
coincidente, però, con la loro sostanza creata. 4) Se il Logos diviene principio di vita per gli esseri con i
quali si mette in relazione, essi stessi sono viventi: il Logos è, cioè, Vita delle vite create. 5) In quanto
Logos, Cristo è definibile come «eccelso e migliore… il più augusto», il che significa che – a differenza
della sua dimensione ipostatica, cui allude l’epinoia Sophia – , kenoticamente, il Logos diviene
inseparabile dall’ordine delle potenze (le «virtutes» che eternamente il Figlio Sophia contempla come
teoremi, come verità scaturite dalla volontà del Padre, e che solo il Logos traduce in atto, creandole), delle
quali pure è il vertice supremo. qeovò)”
«Come vi è differenza tra “il Dio (oJ e “Dio (qeovò)”, così forse vi è differenza tra “il Logos (oJ
Lovgoò)” qeovò)”,
e “logos (lovgoò)”. Come il Dio dell’universo è “il Dio (oJ e non semplicemente “Dio
Lovgoò)”,
(qeovò)”, così la fonte del logos che è in ciascuno dei logikoí è “il Logos (oJ mentre non
sarebbe esatto chiamare quel [logos] che è in ciascuno “il logos” allo stesso titolo del “primo Logos”… Il
qeovò)
Dio (oJ è Dio-in-sé (aujtovqeoò)… All’infuori del Dio-in-sé, tutti quelli fatti Dio per partecipazione
qeovò).
alla divinità di lui si devono chiamare più propriamente “dio” (qeovò) e non “il Dio” (oJ Tra
questi, di gran lunga il più augusto (timiwvteroò) è il “Primogenito di ogni creatura” (Col 1,15), in
spavsaò th=ò
quanto, in virtù dell’essere presso il Dio, per primo trasse a sé la divinità (prw=toò...
qeovthtoò eijò eJautovn), divenuto poi ministro (diakonhvsaò) di divinizzazione per gli altri dèi che sono
dopo di lui…, attingendo da Dio e comunicando loro senza invidia (ajfqovnwò), secondo la sua bontà
thVn aujtou= crhstovthta),
(kataV perché fossero divinizzati» (ComGv II,14-15; 17).
La teologia proposta da questa serie di brani (l’autentica, profonda teologia di Origene!) è
sconcertante, almeno a partire da una prospettiva post-nicena. La prossimità con lo gnosticismo è, invece,
innegabile. Il rapporto tra Dio e le creature è interpretato come comune partecipazione ad una dimensione
divina; l’identità profonda della creatura è divina, e ciò non soltanto escatologicamente, ma anche
protologicamente, in quanto le creature sono create immediatamente come dèi, precosmicamente, “nel
momento stesso” in cui il Figlio ab aeterno si rivela come Logos. Inoltre, si noti la decisiva distinzione –
creazionistica e antignostica – tra Dio e gli dèi: essa precisa che il Dio (=il Padre) è Dio assolutamente, in
se stesso (aujtovqeoò), mentre Dio (=il Logos) e gli dèi (=i logoi) sono tali soltanto in altro e per altro,
crhstovthò
cioè per partecipazione o accoglimento di un libero dono che proviene dall’alto (si noti la del
Figlio, il suo donare «senza invidia», evidentemente trasmettendo ciò che senza invidia il Padre gli ha
donato). Ebbene, questa stessa fondamentale distinzione è riproposta per spiegare la differenza tra il
qeovò
Padre e il Logos creatore, che non a caso è definito (senza l’articolo!), cioè Dio non in sé e per sé,
assolutamente, ma per partecipazione e per dono: è il Padre che lo genera come sua Immagine. La
trascendenza del Logos rispetto alle creature è quindi una trascendenza relativa, non assoluta: non a caso,
151 «Es imposible trazar no sólo la prehistoria, pero ni aun la historia de Cristo, sin desarrollar paralelamente las de
Sofía… Necesaria [resulta] la trayectoria de Sofía para entender la de Cristo, como viceversa» (A. O , Cristología gnóstica…,
RBE
I,53). 152 Cf. supra, paragrafo IIIa . 40
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
ritroviamo qui la definizione del Logos come Primogenito, quindi come primo di una serie a sé
prw=toò.
omogenea, seppure anomala e in sé asimmetrica, in quanto creata dal suo Questo non significa
affatto che il Figlio non trascenda assolutamente le creature, ma – si badi – le trascende in quanto Sophia
e Unigenito, in quanto eterna ipostasi assoluta generata dal Padre e convertita nella contemplazione del
perigrafhv
Padre, e non in quanto Logos creatore, la cui è appunto da interpretarsi come configurazione
relazionale, assunzione di un rapporto di reciprocità con le creature, che gli divengono eternamente
connesse, inseparabili. Insomma – e qui torniamo al rapporto conflittuale di Origene con il suo modello
153
suggeneiva
valentiniano –, Origene pensa come coappartenenza, eterna, seppure non consustanziale, la
154
relazione di partecipazione tra Logos e logoi, Cristo e cristi, Dio e dèi, Essere ed esseri . Spero si colga
la potente tensione di questa correzione: accogliere l’interpretazione pleromatica valentiniana della
rivelazione della filialità cristiana – gli dèi (figli) sono in Dio (Figlio) nel Dio (Padre) –, correggendola
creazionisticamente in senso cattolico, proponendo – con uno sforzo concettuale impressionante – la
sintesi dialettica, altamente paradossale, di un pleroma eternamente creato, di un’incarnazione eterna, di
155
un “corpo” divino di Dio nel Dio .
Ma perché parlare di corpo e di incarnazione, quando in questa dimensione divina tutto è spirito,
immateriale, logico, intellettuale, cristico, eterno? Ancora una volta, il contesto gnostico alessandrino,
eretico e cattolico, ci viene in soccorso. 1) Come afferma Clemente, in ExcTh 10, rispetto all’assoluta
semplicità e priorità del Padre, persino il Figlio è corporeo, come tutte le immateriali potenze create sono
156
corporee . 2) Come abbiamo letto in ExcTh 19, l’incarnazione è già riferibile al Figlio quando, da
perigrafhv, douvlh hJ oujsiva .
157
Unigenito, diviene Logos Primogenito, assumendo 3) I valentiniani
sarkivon 158
ExcTh interpretano come il seme spirituale consustanziale a Sophia e al Salvatore . In
particolare, è ExcTh 10 che qui risulta illuminante: la corporeità del Logos, come quella delle potenze
spirituali a lui subordinate, non è certo una corporeità materiale, bensì è il loro essere ontologicamente
determinati come derivati, non originari, quindi determinati da altro, non in sé, non assoluti. In quanto
toV genhtovn,
tutti partecipi dell’ambito de sia il Logos increato che le potenze create hanno, infatti, una
morfhv, oujsiva,
una e proprio per questo possono essere definiti corporei, a differenza del Padre
159
ajvmorfoò, ajnouvsioò ajswvmatoò.
assolutamente ingenerato, che è del tutto , quindi Ma torniamo, a
questo punto, ad Origene e alla sua teologia dell’immagine:
qeoVò oJ qeovò);
Vero Dio è dunque “il Dio” (ajlhqinoVò coloro invece che sono dèi in quanto prendono forma da lui
deV kat*ejkei=non morfouvmenoi qeoiV), eijkovneò prwtotuvpou).
(oiJ sono come immagini di un prototipo (wJò E
ajrcevtupoò eijkwvn)
l’immagine archetipa (hJ delle varie immagini e il Logos che era presso il Dio, che era nel
principio… Il logos che è in ciascun logikós ha, rispetto al Logos…, lo stesso rapporto (lovgon) che il Logos che è Dio
aujtovqeoò)
ha nei confronti del Dio. Il Padre, il Dio vero, il Dio-in-sé (oJ sta alla sua Immagine e alle immagini
dell’Immagine (ed è anche per questo che gli uomini non sono detti “immagini” di Dio, ma “secondo l’Immagine”),
aujtovlogoò)
come il Logos in sé (oJ sta al logos che è in ciascun logikós. L’uno e l’altro sono sorgenti: di divinità il
Padre, di logos il Figlio» (II,17-18; 20-21).
153 Mi limito a rinviare a DePrinc IV,4,8-10. L’influenza filosofica è in proposito decisiva. Dell’anima, Platone afferma il
ouj=sa tw=/ te qeivw/ kaiV ajqanavtw/
suo «essere congenere con il divino, con l’immortale, con l’essere che sempre è (suggenhVò
kaiV tw=/ ajeiV ojvnti))» (Repubblica X 611e). L’idea de «la omnipresencia del Logos en todos los racionales en cuanto racionales»
è, per Orbe, un elemento «estoico» (A. O , En los albores… 133-134). Sull’intelletto come «cosa di perfezione assoluta e divina»
RBE
e come «frammento dell’Anima universale… impronta fedele di un’immagine divina», cf. F , Mutat 233; cf., inoltre, Opif 146.
ILONE
154 metevconteò) jvOntoò)
«Tutti coloro che partecipano (oiJ di “Colui che è” (tou= – e i santi vi partecipano –, si
possono a buon diritto chiamare “esseri” (ojvnteò); coloro invece che hanno rifiutato di partecipare di "Colui che è”, essendo
privi dell’Essere, diventano “non esseri”» (ComGv II,98).
155 Cf. G. L , Origene e l’incarnazione eterna di Cristo. L’Eden spirituale come immanenza dell’uomo nel Logos ,
ETTIERI
in I. Sanna (ed.), Gesù Cristo speranza del mondo, Roma 2000, 307-322.
156 «Ma non solo gli esseri pneumatici e intelligenti, gli arcangeli, i protoctisti, ma in verità nemmeno egli stesso [il
Figlio] è senza forma (ajvmorfoò), senza figura (ajneivdeoò) e senza aspetto (ajschmavtistoò) e senza corpo (ajswvmatoò), ma
ejvcei ijdivan) lovgon
anch’egli ha una forma propria (morfhVn ed un corpo (sw=ma) corrispondente alla sua superiorità (ajnaV
th=ò uJperoch=ò) rispetto a tutti gli esseri spirituali.Così come i protoctisti hanno un corpo corrispondente alla loro superiorità
genhtovn) ajnouvsion),
rispetto a tutti gli altri esseri. Infatti, generalmente, ciò che è divenuto (toV non è senza sostanza (oujk ma
swvmasin)
d’altra parte [gli esseri superiori] non hanno una forma (morfhvn) e un corpo (sw=ma) simile (oJvmoion) ai corpi (toi=ò
che sono in questo mondo» (ExcTh 10,1-2). Com’è evidente dall’insistenza sulla dimensione creata degli esseri spirituali,
riconosciuta è la paternità clementina di questo excerptum – che ritengo di straordinaria importanza per la valutazione della vexata
quaestio della incorporeità/o/corporeità protologica ed escatologica delle creature.
157 Cf. supra, nota 122.
158 Cf. infra, nota 185.
159 oujsiva,
Sulla trascendenza di Dio Padre rispetto alla stessa cf. ComGv XIX,37: «Non si comprende o si vede Dio per
passare in un secondo momento alla Verità, bensì, al contrario, prima la Verità, per poi passare a vedere la sostanza (oujsiva) di
Dio, o meglio la sua potenza (duvnamiò) e la sua natura (fuvsiò) che trascendono la sostanza». Cf., inoltre, ContraCelsum .
41
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
La fondamentale differenza tra il Dio e gli dèi (comprendendo in questa categoria sia il Logos
genhtovn),
che i logikoí) è, anche in questo caso, la partecipazione all’ambito del divenuto (toV della
genesi, come testimoniato dal non essere assolutamente dèi, ma dall’aver ricevuto la divinità dal Dio, cioè
morfhv morqouvmenoi qeoiV).
di avere ricevuto una dal Padre (oiJ Mentre Clemente indicava nella
corporeità il segno della dipendenza ontologica del divenuto rispetto all’informe assolutezza del Padre,
Origene insiste sulla nozione – in realtà corrispondente – di immagine. Rispetto all’archetipo, qualsiasi
immagine o tipo è (si pensi all’ambito ermeneutico) ombra, carne, corpo. Certo, concludere che il Logos è
160
soltanto l’ombra o il corpo del Padre, pare eccessivo, né Origene lo afferma . D’altra parte, in ComGv
XXXII,353, il Figlio viene definito, sulla base di Eb 1,3, «riflesso (ajpauvgasma) di tutta quanta la gloria
161
di Dio… nella sua totalità», la quale è, nella sua trascendenza assoluta, inattingibile per il Figlio stesso ,
dal quale derivano «riflessi parziali che raggiungono i logikoí»; la nozione di riflesso testimonia, quindi,
l’affievolirsi della luce e della gloria del Padre nel Logos, affievolirsi che si accentua ulteriormente nella
conoscenza dei logikoí. Dunque, il Logos, in quanto Immagine che media il Padre alle creature, assume
aujtovlogoò),
una funzione di fonte conoscitiva, è il Logos in sé (oJ che, comunque, rinvia oltre di sé,
aujtovqeoò), qeoVò oJ
all’Archetipo che lo trascende, che è Dio in sé (oJ l’unico vero Dio (ajlhqinoVò
qeovò), fonte di ogni essere divino e di ogni illuminazione. Rispetto alla separata, luminosa perfezione del
Padre, il Figlio in quanto Logos si deve, quindi, far carico del compito della mediazione: le creature sono
le immagini dell’Immagine del Padre, ricevono cioè la loro identità divina soltanto rimanendo dipendenti
dalla fonte, dall’archetipo della loro identità logica, così come il Figlio rimane Dio soltanto in quanto
rimane sprofondato nella teoria del Padre. Analogamente, soltanto la visione diretta e intima
aujtovlogoò),
dell’archetipo, il desiderio indefesso di essere uno con il Logos-in-sé (oJ permette ai logoi
di partecipare della divinizzazione e alla conoscenza del Dio in Dio. Il che vuol dire che si è
lovgoi
autenticamente soltanto quando si è del tutto privi di peccato:
«Logikós è unicamente colui che partecipa a questo Logos in quanto è tale, al punto da affermare anche
che soltanto il santo (aJvgioò) è logikós» (II,114).
La creazione logica originaria era quindi tutta ugualmente santa. La dottrina origeniana della
katabolhv, della frantumazione del creato pleroma spirituale, rivela al tempo stesso l’instabilità e
162
l’accidentalità della partecipazione della creatura al dono divino, come il peso della libertà della quale
ogni logos è dotato. Torneremo più avanti sul tema della caduta; ciò che è qui opportuno anticipare è che
il recupero della realtà logica alla sua originaria perfezione pleromatica comporta un incarnarsi del Logos
non soltanto nel corpo, ma a tutti i livelli di realtà. Cristo diviene tutte le cose perché i logoi tornino,
progressivamente, ad essere in lui. A questa dimensione dinamica e totalizzante dell’incarnazione
corrisponde una ben precisa dottrina della materializzazione, non limitabile soltanto all’assunzione storica
del corpo. Se il Cristo gnostico diviene attraverso gli eoni a tutti i livelli della realtà spirituale
(pleromatica ed extrapleromatica), quello origeniano, divenuto in sé attraverso le sue epinoiai assolute,
160 Comunque, in ComGv II,166, si afferma che il versetto evangelico «“in lui non c’era nessuna tenebra”, si può
applicare soltanto al Padre, perché Cristo, a causa della sua azione a favore degli uomini, ha preso su di sé le nostre tenebre, per
annientare con la sua potenza la nostra morte e dissipare le nostre tenebre». Analogamente, in II,49-50, Origene può parlare di
tou= Lovgou)»,
«ombra del Logos (skiaV riferendosi all’oggetto di fede di coloro che non sono ancora progrediti alla conoscenza
del Logos immateriale (cf. infra, nota 162). Infine, in II,123, si afferma che «neppure il Cristo possedette l’immortalità propria del
Padre, dal momento che gustò la morte a vantaggio di tutti». Certo, questi brani sono relativi al Cristo incarnato e creduto, eppure
rivelano la subordinazione ontologica dell’ipostasi del Figlio, che appunto può e deve farsi carico della tenebra, dell’ombra, della
morte, rispetto alla pura luce assoluta del Padre, fonte della vita che trascende la vita stessa (cf. XIII,19). Cf., infine, DePrinc II,6,7,
ove l’uomo Gesù è definito ombra salvifica del corpo della Sapienza. Che queste non siano elucubrazioni non fondate
paraV
filologicamente, è smentito proprio dagli ExcTh: «L’ombra della gloria del Salvatore, che [attinge] presso il Padre (th=ò
tw=/ Patriv), parousiva hJ ejntau=qa): deV skiva)
è la presenza qui in basso (hJ e l’ombra della Luce (fwtoVò non è tenebra
(skovtoò), ma è illuminazione (fwrismovò)» (C ’A , ExcTh 18). Anche questo testo, attribuibile allo stesso
LEMENTE D LESSANDRIA
Clemente, fa riferimento all’ombra salvifica dell’incarnazione, ma la dottrina dell’incarnazione premondana del Logos, attestata in
ExcTh 19, ci testimonia della plausibilità che si possa parlare anche del Figlio Primogenito come ombra del Padre: insomma, il
Logos è la Luce che diviene ombra, sin dalla sua azione creativa. Ricordo, infine, che per il valentiniano ExcTh 31, Sophia
peccatrice è definita come «ombra del Nome», ovvero come deficienza che turba il pleroma, vuoto e mancanza della gnosi del
Figlio, quindi come peccato (carne) che il Figlio dovrà assumere e illuminare. Cf. I , AdvHaer I,4,1; II,3,1.
RENEO
161 Il brano certamente più chiaramente subordinazionista dell’intero ComGv è XIII,151: «Il Salvatore e lo Spirito Santo
non sono da una parte neppure paragonabili con tutti gli esseri che sono stati fatti, ma li superano con una sovraeminenza e con
una trascendenza infinita. Essi però sono a loro volta superati dal Padre di altrettanto e di più ancora». Cf. XXXII,350.
162
«Qualsiasi essere dotato di logos (logikovò) non possiede sostanzialmente (oujsiwdw=ò) la beatitudine, come
ajcwvriston sumbebhkovò).
accidente inseparabile (wJò Infatti, se possedesse come accidente inseparabile la beatitudine e quindi
prohgoumevnhn),
la vita principale (thVn come potrebbe essere vero ciò che è detto di Dio: “Colui che solo possiede
l’immortalità” (1Tim 6,16)?» (ComGv II,124). 42
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
diviene in altro e per altro, si incarna a tutti i livelli derivati dell’essere (guidando i logoi al riattingimento
qeoiv) 163
della propria intima natura di attraverso la molteplicità innumerevole delle sue epinoiai relative .
Vc – La vita dei logoi nel Logos: la terza sizigia valentiniana (Logos e Vita)
ejn aujtw=/ zwhV hj=n
Ritengo che il luogo teologico nevralgico del CmGv, per apprezzare il suo rapporto di continuità
e superamento con lo gnosticismo, risieda nella relazione tra il Logos e la Vita, cioè nella
reinterpretazione origeniana della prima sizigia della seconda tetrade. La frenesia teogonica del pleroma
valentiniano – configurazione ontologica del volere generativo e rivelativo del Dio gnostico cristiano, che
diviene (eone) quello che fa (modalità produttivo-rivelativa, epinoia cristologica) – è razionalmente
superata e assunta in sé dal monoteistico, ma kenotico «divenire tutto» del Figlio origeniano, nel quale
164
non tutto è assolutamente necessario e teologicamente assoluto. Qualcosa sopravviene (ejpigivnetai) al
Figlio che diviene Logos, al Figlio che diviene altro: l’instabilità della realtà divina, ma creata, logica, ma
soltanto per partecipazione. Torniamo, da un nuovo punto di vista, su un brano già sopra analizzato:
ejpivnoiai
«Una volta raccolte le del Figlio, ci si deve chiedere quali di esse siano sopravvenute
(ejpigegovnasin), perché certo non sarebbero state né tante né tali, se i santi avessero perseverato nello
stato di beatitudine in cui avevano incominciato. Forse sarebbe rimasto unicamente Sophia, e forse anche
Logos e anche Vita e in ogni caso Verità, ma non certamente le altre che assunse per causa nostra» (I,123).
La natura ontologicamente mediatrice del Figlio si rivela capace di ospitare l’inaudito
sopravvenire di qualcosa di non divino, di una debolezza ontologica capace di alterare la stessa eterna,
essenzialmente divina configurazione dell’Unigenito-Sophia, che nei suoi teoremi contemplati come
scaturiti dal Padre legge da sempre la vivente intelligenza della creazione razionale. Il Figlio è
ontologicamente, cioè nella sua stessa ipostasi, alterato dal novum della creazione, eterna volontà di una
taV logikav,
creatura intimamente eletta, preconosciuta come caduta e redenta. I santi, non permangono
nel seno del Logos che li crea in se stesso, ma così facendo essi alterano la stessa eterna persona del
ejpivnoiai,
Figlio, che in se stesso diviene un altro nuovo, moltiplica e degrada le le manifestazioni della
sua ipostasi, è quindi costretto dal suo stesso amore a divenire, oltre che creatore, vivificatore e
illuminatore, redentore incarnato e crocifisso. Il peccato delle creature altera, quindi, il Figlio nella sua
intima, eterna configurazione; e in effetti, le epinoiai che indicano la relazione redentiva con la creatura,
pure sopravvenute, comunque sono inseparabili dalle altre (Nous-Sophia, Aletheia) del tutto necessarie,
assolute. Tutto questo diviene evidente quanto incontriamo una nuova, assolutamente fondamentale
denominazione cristologica, introdotta da Origene sulla scorta di Gv 1,3c-4 (Tutto è stato fatto per mezzo
gevgonen),
di lui e senza di lui niente è stato fatto. Ciò che è stato fatto (oJV era la vita in lui (ejn
aujtw=/ zwhV hj=n) e la vita era la luce degli uomini): mi riferisco alla denominazione «vita», termine
massimamente ambiguo, capace di significare sia una prerogativa assoluta del Figlio, che la sua azione di
vivificazione relativa alle creature. Sappiamo che Vita è la compagna di sizigia del Logos, per i
gevgonen)»,
165
valentiniani . E’ comunque l’ultimo lemma del versetto 3, «ciò che è stato fatto (oJv a
163 lovgoò ajvlogon
La stessa interiorità del decaduto è carne del Logos, che deve assumere ciò che è mortale e per
convertire la creatura: «E’ chiamato Logos perché rimuove da noi tutto ciò che è privo di logos (ajvlogon) e ci rende veramente
logici (logikoiv)… Diventiamo dotati di logos in modo divino, perché egli, in quanto è Logos e resurrezione, distrugge in noi tutto
ciò che è mortale e privo di logos… Considera un po’ se tutti gli uomini, in qualche modo, partecipino a lui in quanto è Logos. Per
questo l’apostolo ci insegna che coloro i quali sono decisi a trovare Cristo, non lo trovano fuori di loro stessi» (ComGv I,267-269).
lovgoò,
Ma, per la creatura decaduta, il tornare ad attingere la propria protologica ed ontologica identità di cioè tornare a
riappropriarsi dell’autentica, profonda dimensione di intelligenza puramente spirituale, non può che essere l’esito di un lento
processo, impercorribile senza il sostegno del Logos. Infatti, l’attingimento del «sommo grado, che si trova soltanto nei perfetti»
(I,273), comporta che la creatura sia guidata grado per grado, anzi epinoia per epinoia, dal Logos incarnato sino all’attingimento
logikoiv
escatologico della perfezione protologica. Comunque, la purificazione progressiva dei corrisponde alla progressiva
ascensione del Logos incarnato: «E si potrebbe, coerentemente, cercare se nell’ambito umano tra “il Logos fatto carne” e il
“Logos che era Dio” si possa vedere qualcosa di intermedio (metaxuv), per esempio il Logos riportato ai suoi primitivi elementi
bracuV leptunovmenoò),
del suo essere diventato carne e reso a poco a poco più smaterializzato (kataV fino a ritornare ciò che era
nel principio, Logos che era Dio e che era presso il Padre. E’ di questo Logos che Giovanni ha contemplato la gloria come di
Unigenito del Padre» (I,276).
164 ComGv II,129. Sul sopravvenire (ejpigivgnomai), cf. quello proprio delle epinoiai non assolute del Figlio, in I,123; sul
sopravvenire della regalità del Figlio di Dio, cioè dell’uomo Gesù, cf. I,191-192; sul sopravvenire di alcune epinoiai del Figlio,
susseguenti al peccato d’Adamo, cf. I,121-123; sulla luce che sopravviene alle tenebre, cf. II,150. Sul male che sopravviene agli
uomini in modo accidentale, cf. X,66.
165 Cf. ComGv II,155; T , in I , AdvHaer I,8,5-6; Grande notizia, in I , AdvHaer I,1,1-2.
OLOMEO RENEO RENEO
43
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
complicare enormemente l’interpretazione della vita come perfezione cristologica: il Figlio, che è
eternamente nel Principio, è anche Vita creata in lui stesso, vivificazione delle creature che irrompono
nello stesso seno del divino, come loro eterno e inseparabile oggetto di volontà, di amore.
hJ zwhV ejn tw=/ lovgw=/).
«La vita, quindi, è stata fatta nel Logos (gevgonen Ora il Logos non è diverso
(eJvteroò) da Cristo, il Logos che è Dio, che è presso il Padre e per mezzo del quale tutto fu fatto (taV
pavnta ejgevneto); e la vita non è diversa (eJtevra) dal Figlio di Dio, perché questi dice: “Io sono la via, la
verità e la vita” (Gv 14,6). E pertanto, come “la vita è stata fatta nel Logos”, così “il Logos era nel
principio”» (I,112).
Si noti l’ambiguità della nozione di Vita, che al tempo stesso indica, tramite la citazione di Gv
14,6, una perfezione intrinseca del Figlio – che è in se stesso eterna, divina Vita vivificante, in analogia
con la Vita che è eterna, inseparabile perfezione del Padre in Princ IV,4,1 – ed il novum della Vita
creaturale che il Logos crea in se stesso (appunto, secondo Gv 1,3c-4a). Origene, comunque, sente la
necessità di insistere sul Figlio come identità di alterità: non soltanto il Logos non è altro da Cristo che è
la Vita; ma lo stesso Cristo che è Vita non è altro dal Logos che crea in lui la vita. Quest’affermazione di
identità media, in realtà, un vero e proprio salto metafisico, quello tra Creatore e creatura. Il Logos
giovanneo, insomma, è il luogo di una sintesi dialettica per Origene ancora più paradossale, di quanto non
166
sia la dottrina valentiniana della sizigia Logos-Vita . Dunque, il Logos origeniano fa la vita in sé non per
sé ma per altro, per la creatura, che prima porta alla vita, quindi illumina (si ricordi la duplice formazione
valentiniana, quella secondo sostanza e quella secondo gnosi). Questa creatura, la Vita come unità
taV logikav,
spirituale de non è essenzialmente congiunta al Logos, ma una volta sopraggiunta, vi si
radica inseparabilmente.
«Se, dunque, il Salvatore è alcune cose per altri, alcune forse soltanto per sé e per nessun altro o per uno
solo o per pochi, occorre esaminare se, in quanto è vita che è stata fatta nel Logos, egli sia vita per sé e per
altri o solo per altri e, in questo caso, per quali altri… Il Salvatore, anche in quanto è vita, non è vita per
auJtw=/ ajllaV eJtevroiò),
sé ma per altri (oujc per i quali è anche luce. Questa vita sopravviene
aujtou= metaV
(ejpigivnetai) al Logos, ma una volta sopravvenuta diventa inseparabile da lui (ajcwvristoò
toV ejpigenevsqai tugcavnousa)» 167
(II,128-129) .
Ma in che senso la vita fatta, diviene inseparabile? Il termine indica l’impossibilità del distacco e
della caduta della vita creata nel Logos. Ma, d’altra parte, la vita si identifica con le creature stesse, che
decadono e dilatano, per questo, Cristo in nuove epinoiai redentive. La soluzione interpretativa proposta
168
da Rius-Camps, sulla scia di Orbe, mi pare indiscutibile : la vita sopraggiunta e non più separata dal
169
Logos è lo Spirito Santo, che Origene definisce creato , ma che una volta creato diviene il sostrato
inseparabile dal Logos, di cui partecipano tutte le realtà spirituali create.
La continuazione di questo fondamentale brano sulla vita che stiamo esaminando, riafferma,
proprio in funzione antivalentiniana, il passaggio dall’ambito delle metafisiche perfezioni assolute del
Figlio in sé (Sophia che emerge dall’abisso divino), all’ambito delle perfezioni del Figlio relative alle
creature, proprio ponendo la massima attenzione alla lettera del testo giovanneo; ma aggiungendo – cosa
della massima importanza per valutare la fondamentale questione del rapporto tra Logos creatore e logoi
166 ZWH.
Cf. G. G , Wesen, Stufen und Mitteilung der wahren Lebens bei Origenes, München 1962, 268-326; A.
RUBER
O , La teología del Espiritu Santo..., 151-154. Giustamente, Orbe insiste sul fatto che la vita valentiniana ha qui un ruolo più alto
RBE
di quello che svolge nei sistemi neoplatonici (151-152).
167 La continuazione del brano slitta dalla contestualizzazione protologica, dettata dal versetto giovanneo, alla
contestualizzazione redentiva, illuminativa: «Prima infatti è necessario che vi sia nell’anima il Logos che la purifica, affinché,
eliminate mediante la sua presenza e la sua opera purificatrice tutte le tracce di mortalità e ogni debolezza, la vita incontaminata
possa venire in chiunque si renda idoneo ad accogliere il Logos in quanto è Dio» (II,129); in effetti, dopo la caduta dei noes,
soltanto la redenzione permetta la stabilizzazione della vita come luce, quindi come spiritualmente perfettamente formata e
assolutamente identificata nel Figlio, come suo corpo creato.
168 Cf. J. R -C , El dinamismo trinitario..., 125-128.
IUS AMPS
169 Cf. ComGv II,73-78 e 86; in particolare: «Riteniamo come maggiormente consono alla pietà e alla verità che lo
genomevnwn)
Spirito Santo abbia maggiore una posizione preminente su tutto ciò che è stato fatto (pavntwn per mezzo del Logos e
prw=ton)
sia appunto nell’ordine il primo (tavxei degli esseri derivati (gegenhmevnwn) dal Padre per mezzo di Cristo… Solo
l’Unigenito è Figlio per natura sin dal principio. Lo Spirito Santo sembra aver bisogno del Figlio, che gli somministri l’esistenza
(uJpovstasin), cioè non soltanto l’essere, ma anche l’essere sapiente, logikós,giusto… Io ritengo che lo Spirito Santo offra, per così
uJvlhn)
dire, la materia (thVn dei doni di grazia concessi da Dio a coloro che per lui e per la loro partecipazione a lui sono
chiamati santi. Questa materia dei doni di grazia… è prodotta da Dio Padre, è dispensata da Cristo e diventa sussistente nello
Spirito Santo» (II,75-78). 44
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
creati, ovvero l’eventuale eterna creazione dei noes – che la creazione della Vita nel (e sottolineo nel!)
Logos non è in alcun modo subordinata a determinazioni di ordine temporale.
«E’ necessario inoltre osservare come ricorra due volte [la preposizione] “nel” (ejn): “nel principio il
Logos” e “nel Logos la vita”, e vedere qual differenza passa tra i due casi. Ora il Logos non fu fatto nel
principio; infatti non ci fu un tempo in cui il principio era senza Logos (ajvlogoò) e per questo è detto:
“Nel principio era il Logos”. La vita invece non era nel Logos, ma fu fatta, se è vero che la vita è la luce
degli uomini (cf. Gv 1,4); infatti quando non c’era ancora alcun uomo, non c’era alcuna luce degli uomini,
perché luce degli uomini è intesa in relazione agli uomini. Nessuno però ci dia addosso nella convinzione
che noi diciamo ciò in senso temporale (cronikw?ò): è soltanto la disposizione che richiede il primo, il
tavxewò toV prw=ton kaiV toV deuvteron kaiV taV eJfexh=ò ajpaitouvshò),
secondo e così via (th=ò anche
crovnoò mhV euJrivskhtai)
se non si trova un tempo (kajVn in cui non c’erano le cose che sono collocate al
taV uJpoV tou= lovgou uJpoballovmena trivta
terzo [la vita] o al quarto posto [la luce] dal Logos (oJvte
kaiV tevtrarta oujdamw=ò hj=n). Allo stesso modo quindi che “tutto è stato fatto (ejgevneto) per mezzo di
lui” e non “tutto era (hj=n) per mezzo di lui”; “senza di lui non è stato fatto niente” e non “senza di lui
niente era”; così “ciò che è stato fatto in lui era vita” e non “ciò che era in lui era vita”; così pure non
“ciò che fu fatto nel principio era Logos”, ma “ciò che era nel principio era Logos”» (II,130-131).
La Vita è la vivificazione delle creature che il Logos compie in se stesso; dunque la Vita
presuppone l’immanenza delle creature nel Logos stesso; mentre il Logos è “sempre” nella Sophia, la
Vita è fatta nel Logos, ovvero Sophia definisce la relazione eterna, ontologicamente essenziale e
necessaria, del Logos con il Padre, la Vita definisce la relazione eterna, ontologicamente creativa e non
ejn
necessaria, del Logos con le creature. Al tempo stesso, l’identica preposizione sottolinea, per Origene,
una relazione di duplice, radicale intimità: l’intimità del Logos con l’ipostasi della Sophia e quella del
Logos con i logoi. Se, certo, l’intimità tra Logos e Sophia attinge l’identità ipostatica, al di là delle
differenti epinoiai, mentre quella tra Logos e Vita mantiene la differenza insuperabile tra Creatore e
creatura, la stessa analogia sottolineata da Origene, sulla scorta del testo sacro, testimonia del grado di
radicalità con la quale egli ha pensato l’inseparabilità teologica tra Dio creatore e creature accidentali
sopraggiunte.
Fondamentale è, poi, l’esplicita affermazione della natura metatemporale della relazione che il
Logos ha con la Vita degli uomini che crea in se stesso: sempre vita e luce, dunque relazione alle creature,
sono attive nel Logos, come sue perfezioni di relazione, di creazione e redenzione. La relazione temporale
è cioè negata non soltanto nella definizione del rapporto tra Padre e Figlio, e dell’Unigenito con il
Primogenito (Sophia-Logos), ma anche nella definizione del rapporto tra Logos e Vita, ovvero tra Logos
e logoi creati, vivificati dal Logos in se stesso. E si badi – torniamo alla relazione di duplice intimità sopra
evidenziata – non soltanto non vi è tempo in cui il Figlio non è con il Padre, ma non vi è tempo in cui la
Vita e la Luce degli uomini, quindi le creature stesse, non sono con il Logos.
La densità teologica della Vita si approfondisce se passiamo ad esaminare l’identificazione della
Vita fatta dal Logos in se stesso con lo Spirito Santo. In II,75 (cf. supra, nota 168), lo Spirito Santo viene
definito come la prima creatura del Logos; la vita è appunto, secondo il Prologo giovanneo, la prima
creatura che il Logos fa in se stesso. Ma questa vita creata dal Logos che è Vita, divenendo inseparabile
da lui, accoglie in sé tutti i logoi. Lo Spirito Santo (che pure Origene definisce ipostasi della Trinità
divina in II,75) è quindi il sostrato creato di tutte le creature spirituali. Ad esse offre la materia, la
partecipazione a quella santità che, una volta ricevuta l’illuminazione divina – la meritoria formazione
oJvlh
secondo la gnosi – le mantiene in Dio. Lo Spirito, perciò, è lo stesso seme spirituale informe – la
oujsiva originariamente emanato nell’Unigenito, quindi fatto nascere da Logos-Vita, femminile radice
170
dell’alterità pleromatica – che per i valentiniani necessitava della formazione secondo la gnosi,
dell’illuminazione di Cristo-Spirito Santo. Si pensi all’esegesi di Tolomeo del Prologo, relativamente alla
terza sizigia. La Vita rappresenta la componente femminile del Logos, la consorte, nella quale il Logos
opera la generazione dell’altro, la germinazione o fruttificazione di tutti gli eoni spirituali, formati e
171
illuminati, rappresentati dalla quarta sizigia, Uomo-Chiesa :
170 Cf. T , in I , AdvHaer I,8,5.
OLOMEO RENEO
171 «E “ciò che è stato fatto in lui è vita”: qui Giovanni ha manifestato anche la sizigia: infatti ha detto che tutte le cose
deV zwhVn ejn aujtw=/).
sono state manifestate per suo mezzo e invece la vita in lui (thVn Questa perciò che è stata fatta in lui gli
era più affine (oijkeiotevra) delle cose fatte per suo mezzo: sta infatti insieme con lui e per suo mezzo porta frutti (karpoforei=).
Infatti, poiché ha aggiunto “E la vita era la luce degli uomini”, nominando l’Uomo, insieme con l’Uomo con lo stesso nome ha
manifestato anche la Chiesa, per dimostrare con un solo nome la comunanza della sizigia: infatti dal Logos e dalla Vita nascono
Uomo e Chiesa. Ha definito la Vita luce degli uomini perché essi sono da lei illuminati, cioè sono formati e manifestati. Questo dice
anche Paolo: “Tutto ciò che è manifestato è luce” (Ef 5,14). Pertanto la Vita, avendo manifestato e generato l’Uomo e la Chiesa, è
45
nou=ò
Il mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni
«Quanto al Logos che era nel Principio, cioè nell’Unigenito, nell’Intelletto e nella Verità, Giovanni lo
indica come Cristo, Logos e Vita: per cui, conseguentemente, definisce Dio anche questo, che è nel Dio
suvzugoò).
Intelletto. “Ciò che fu fatto in lui era Vita”, la consorte (hJ Per questo il Signore dice: “Io sono
la Vita” (Gv 11,25)»(ExcTh 6,3-4).
Ritroviamo, in quest’importante testo valentiniano, tutta l’intima articolazione del Figlio in
Origene. Anche la Vita fatta nel Logos è Dio! La differenza origeniana decisiva è sciogliere l’ambiguità
gevgonen,
dell’oJV interpretando il primo nato o divenuto nel Logos (interpretato dai valentiniani come il
primo emanato) come primo creato, quindi definendo gli eoni e gli spirituali derivati da quel seme come
creature. Creature comunque divine, per lo stesso Origene, tanto da essere radicate nella stessa divina
ipostasi dello Spirito Santo, tanto da costituire, nello Spirito e con lo Spirito, l’eterna consorte del Figlio.
E’ forse un caso che manchi una polemica sistematica e profonda di Origene, nei confronti dei
suoi modelli valentiniani, se si eccettua la forzata polemica, significativamente dedicata alla confutazione
172
della dottrina della consustanzialità tra Logos e spirituali, in II,137 ? Certo, in II,155, è teologicamente
fondamentale, pur se rapidissima, la stigmatizzazione della «mitologia di eoni in sizigie». Evidentemente,
Origene contesta nello schema valentiniano non solo l’ipostatizzazione delle epinoiai in eoni sessuati, ma
anche il non riconoscimento dell’asimmetria della relazione tra le due epinoiai, una creatrice e l’altra
creata (tant’è che la Vita origeniana può essere interpretata come la creata Sposa spirituale del Logos).
Così è chiara, ancora in II,155, la polemica contro l’identificazione valentiniana della Vita con la Luce,
che Origene non fa dipendere dalla vita creata nel Logos, ma dall’atto illuminatore del Logos stesso.
Eppure, il confronto si protrae per un solo paragrafo e pare rimanere superficialmente legato alla consueta
stigmatizzazione della facies mitologica della speculazione teologica valentiniana. Infatti, quello che
colpisce è che Origene rimproveri ai valentiniani soltanto dettagli, ma non contesti affatto la loro
sistematica allegorizzazione – che condivide, pur intendendola demitologizzare e razionalizzare – delle
affermazioni del Prologo giovanneo.
Fondamentale è, invece, la lunga analisi, in II,100-104, della complessa interpretazione che
aujtou=)”,
Eracleone propone di Gv 1,3, “Tutto fu fatto per mezzo di lui (di’
«intendendo il termine “tutto” come il mondo e ciò che è in esso, escludendo da questo “tutto” quelli che,
secondo lui, sono gli aspetti superiori al mondo e a ciò che è in esso. Egli afferma: “Non sono stati fatti
aijw=na),
per mezzo del Logos né l’Eone (toVn né gli esseri che sono nell’Eone”, che egli ritiene divenuti
tou= Lovgou gegonevnai)…
prima del Logos (proV E’ chiaro che sono forzate e contro ogni evidenza le
sue affermazioni circa pretesi esseri divini (qei=a) esclusi dal “tutto”» (ComGv II,100-101).
Eracleone intende, quindi, 1) sottrarre la prima tetrade (l’Eone) all’atto “creativo” del Logos; 2)
collocare la genesi e la formazione di tutta la sostanza spirituale, emanata dall’Unigenito e identificata
pavnta
con la vita, «nel Logos», considerandola a lui consustanziale; 3) riferire il di Gv 1,3 al mondo
materiale; 4) interpretare il ruolo del Logos nella creazione materiale soltanto come causa strumentale
(di*ouJ=) (cf. la citazione in II,102), ove questa è comunque forzatamente interpretata non come mezzo
di cui si serve il Demiurgo, ma come ispiratore della causa efficiente (cf. la citazione in II,103), cui
suggerisce, come modello del mondo materiale, il paradigma del pleroma. Origene replica 1) negando
l’esistenza di realtà divine, ovvero di una pluralità di eoni o ipostasi che diverrebbero anteriormente al
Logos; prima del Logos, infatti, non vi è nulla per Origene, se non il Padre e il Principio-Sophia, che non
pavnta
173
è che la radice ipostatica del Logos stesso ; 2) interpretando il come totalità della creazione
spirituale, non consustanziale con il suo Creatore e, in II,104, comunque presentata non come
originariamente una, ma come gerarchicamente distribuita in una serie di ordini (tavxeiò): cf. II,104; 3)
attribuendo la creazione del mondo al Padre, identificato antignosticamente con il Demiurgo, e
restituendo il ruolo di causa strumentale, suggerita dal testo evangelico, al Figlio: «E’ stato il Logos a
174
creare il mondo in qualità di ministro del Demiurgo» . pavnta
Ma, chiaramente, il mondo origeniano, cui allude il versetto del Prologo, il creato dal
Logos, per volontà del Padre, è il pleroma spirituale. Il mondo, cioè, è lo Spirito Santo, definito da
detta luce di questi» (T , in I , AdvHaer I,8,5-6).
OLOMEO RENEO
172
Cf. supra, nota 147.
173 «Prima di ogni tempo e eone, nel Principio era il Logos e il Logos era presso Dio » (ComGv II,9). Cf. II,72, in
di*ouJ=);
riferimento ad Eb 1,2: gli eoni sono creati dal Padre, tramite il Figlio, sua causa strumentale (toV cf., infine, II,92.
174 Sull’interpretazione di questo fondamentale testo di Eracleone, è d’obbligo il rinvio all’intero volume dedicatogli da
A. O , Hacia la primera teología…, I; cf., in particolare, 340-343.
RBE 46
DESCRIZIONE DISPENSA
Questa dispensa si riferisce alle lezioni di Storia del cristianesimo e delle chiese , tenute dal Prof. Gaetano Lettieri nell'anno accademico 2010 e tratta i seguenti argomenti:
[list]
Dialettica tra gnosi cattolica e gnosticismo eretico;
Cristo come figura della teogonia;
[/list]
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Atreyu di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia del cristianesimo e delle chiese e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università La Sapienza - Uniroma1 o del prof Lettieri Gaetano.
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