Dono e libertà
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P
REMESSA
Questo volume, il primo di una serie dedicata alla storia del
pensiero patristico, è concepito come manuale introduttivo, prima messa a
fuoco di questioni da indagare e diligente raccolta di materiali. I risultati,
provvisori e inevitabilmente approssimativi, sono presentati senza pretesa
alcuna di approfondimento e di esaustività di analisi, quindi senza volere
mai chiamare direttamente in causa e discutere alcuno studio specialistico,
alcun dibattito storiografico, alcuna edizione dei testi originali (citati nelle
principali traduzioni disponibili, spesso riviste, comunque mai nominate),
pure doverosamente utilizzati, per quanto possibile conosciuti e meditati da
chi scrive.
La scommessa tentata è quella di partire sempre dalla lettura diretta
dei testichiave delle antiche tradizioni cristiane, ma per sollevare quanto più
possibile lo sguardo dai singoli contesti, dalle problematiche specifiche,
privilegiando uno sguardo d’insieme, superficiale e generico forse, eppure in
grado di cogliere, spero con una qualche efficacia, le principali linee di
tendenza dell’intero sviluppo storico dell’immensa questione indagata, che
meglio risaltano attraverso la loro comparazione e continua riconduzione ad
un bilancio complessivo. Bilancio, si badi, inevitabilmente approssimativo,
congetturale e zetetico, in quanto ogni sforzo di intelligenza unitaria di una
questione storica apparentemente così omogenea e coerente (l’analisi del
rapporto tra grazia e libertà inaugurato dall’evento storico del kerygma e
articolatosi nei secoli secondo un processo, seppure oscillante e tormentato,
sufficientemente identificabile in quanto dialetticamente “logico”) comunque
si rifrange in una molteplicità irriducibile di eccezioni, di punti di resistenza,
di differenze – talvolta evidenti, talaltra quasi impercettibili–, che ogni
singolare, irripetibile confessione di fede (non soltanto religiosa!)
umanamente comporta e che è compito dello storico tentare di riconoscere,
decifrare, custodire, trasmettere.
Pure se costantemente fedele a quest’esigenza “pluralistica”ed
antisistematica – secondo la quale la verità storica si ricostruisce soltanto
provvisoriamente e congetturalmente, attraverso l’inesauribile
accrescimento delle singolari prospettive interpretative sempre
reciprocamente più o meno irriducibili –, ho comunque voluto conservare al
volume l’approccio massimamente sintetico, la semplicità, la rapidità e
persino la levità con i quali è stato concepito: esso è frutto di alcuni corsi
tenuti negli ultimi anni presso la Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Roma La Sapienza, il primo di Storia del cristianesimo e
delle chiese, dedicato alle Metamorfosi del soggetto dal Nuovo Testamento
al XII secolo, da me tenuto nell’anno accademico 20062007; gli altri di
Storia della filosofia, dedicati alla Storia del pensiero cristiano, tenuti negli
anni accademici 20072008 e 20082009. A tutti i miei studenti che hanno
partecipato e animato questi corsi sono grato e ad ognuno di loro questo
testo è dedicato: parafrasando Marina Cvetaeva, confesso che, accogliendo
con libera intelligenza quanto loro proponevo, me lo hanno davvero donato
ed illuminato. Gaetano Lettieri
Alcune sezioni di questo lavoro sono state parzialmente anticipate
nella voce Grazia e libero arbitrio, che ho redatta per il dizionario di
Letteratura patristica, diretto da A. Di Berardino, G. Fedalto e M. Simonetti,
Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2007, pp. 628687. 15
Donum libertatis
C I
APITOLO
L
A RELAZIONE INAFFERRABILE
Afferma Agostino nell’Enchiridion (25,98) che tutta la Scrittura rivela,
a chi riceve in dono occhi per scrutarla, un unico volto, quello del mistero
della grazia di Dio, nel quale si risolve l’intera rivelazione cristiana. In
effetti, sin dalle lettere paoline, la grazia (cavriò) viene proclamata come
l’essenza del vangelo di Cristo, manifestazione di quella nuova, escatologica
alleanza del Dio ebraico con tutti gli uomini, che, nel giro di qualche
decennio, si configurerà come nuova religione, alternativa alla propria
stessa matrice. D’altra parte, pur fondando l’identità religiosa del
cristianesimo, la dottrina della giustificazione (della relazione tra grazia e
libertà umana nell’ottenimento della giustizia al cospetto di Dio) verrà
sistematizzata e dogmaticamente, pure se ambiguamente!, fissata non prima
del V secolo. E ciò perché, proprio per il suo carattere di nucleo profondo
della rivelazione cristiana, essa investe la totalità della ricerca teologica,
bisognosa di secoli per dispiegarsi: si pensi alla fondante connessione tra
teologia della grazia e cristologia, all’operazione e all’identità dello Spirito
Santo, quindi al rapporto tra grazia e Trinità (nel suo progressivo definirsi
storico); alla dipendenza della dottrina del libero arbitrio dalla tormentata
formazione di un’antropologia e di un’etica cattoliche (nel loro transitare
dai modelli giudaici a quelli ellenistici, in particolare platonici) e dalla
controversa valutazione, in esse, del peso del peccato originale; alla
connessione tra operazione interiore dello Spirito, dinamismo del desiderio e
fruizione mistica; all’affinarsi della definizione ontologica di Dio,
all’esigenza di pensare rigorosamente il rapporto tra necessità e contingenza
creata e la relazione della libertà con esse, quindi alla definizione teologica
di provvidenza, predestinazione, prescienza, in relazione alla questione della
“teodicea” e al definirsi della tensione tra misericordia e giudizio, con il suo
riverberarsi sull’escatologia; alle diverse prospettive ecclesiologiche e
sacramentali, soltanto tardivamente fissatesi, ad esempio all’epocale svolta
I – La relazione inafferrabile
costantiniana, che trasforma il cristianesimo in religione civile e la chiesa in
struttura politicoreligiosa, o alla progressiva, sempre più ampia tolleranza
nei confronti dei peccati postbattesimali, cui corrisponde il lento imporsi
della prassi del battesimo dei bambini. Inoltre, questo processo di definizione
della teologia cristiana della giustificazione non ubbidisce affatto ad uno
sviluppo lineare e continuo, bensì ad un processo tortuoso e persino
contraddittorio, scandito, per secoli, da violente controversie, all’interno
delle quali le “eresie” segnalano linee, radicalità, resistenze perdenti.
L’unica risposta metodologicamente attendibile alla questione del rapporto
grazia/libertà in età patristica è, allora, lo sforzo di dare ragione della
pluralità delle prospettive, ove il destino storico del loro divergere e
contraddirsi finirà per rivelare, forse, la verità più profonda della questione
della grazia e del libero arbitrio: la sua paradossalità, quindi la sua
indominabilità razionale, appunto testimoniata da una definizione dogmatica
così incerta, oscillante, irriducibilmente ambigua.
I,1 – Radice semitica e cultura grecoromana
Come per ogni aspetto della teologia cristiana, decisivo risulterà nella
valutazione di questo processo di definizione il rapporto del kerygma con i
modelli culturali nei quali si incorpora e che lo trasmettono, trasformandolo:
elemento semitico (le varie tradizioni teologiche giudaiche,
veterotestamentarie ed apocalittiche, esse stesse comunque già sempre più
“contaminate” dalle influenze ellenistiche, come hanno dimostrato, ad
esempio, i lavori di Hengel o Garbini) ed elemento classicoellenistico (le
varie prospettive filosofiche, retoriche, politiche greche e romane) al tempo
stesso si integrano e confliggono, sicché, se da una parte essi paiono
sovrapporsi perfettamente, dall’altra molte metamorfosi (alcune delle quali
paiono davvero snaturare la matrice giudaica originaria) si rivelano
piuttosto come pseudomorfosi, nelle quali la radice semitica resiste
irriducibile al nuovo linguaggio culturale, che pure la media. Sarà, quindi,
indispensabile valutare la traduzione nelle categorie della paideiva classica
del vangelo delle origini, precocemente reinterpretato come rivelazione della
dottrina e della retorica divine: ellenizzandosi, il kerygma sarà restituito
come cultura dell’anima, persino come cura sui, educazione, formazione,
conversione della libertà intellettualmente consapevole e moralmente
17
Donum libertatis
responsabile di sé; il Verbo e il suo Spirito saranno interpretati come
Maestro di verità e Potenza di conversione; la fede come assenso al tempo
stesso libero e persuaso alla rivelazione di verità e di amore di Dio. Ove le
stesse tensioni interne alla cultura classica tra filosofia e retorica, parola di
verità e parola di potenza, argomentazione razionale e carisma trascinante,
libertà dell’assenso e evidenza irresistibile della rappresentazione, non
potranno non riattivarsi nelle varie prospettive teologiche patristiche.
In un importante passo delle Antichità giudaiche (XIII,9,171173), già
Giuseppe Flavio cercava di nobilitare la riflessione teologica di Israele,
restituendola nei termini delle controversie filosofiche greche sul fato
(eiJmarmevnh) e il libero arbitrio: la teologia degli esseni veniva così fatta
corrispondere a quella degli stoici («Gli esseni affermano che il fato è
signore di tutto e nulla succede all’uomo che non sia per determinazione di
questo»), mentre farisei (che distinguono ciò che dipende dal fato e «ciò che
dipende da noi») e sadducei (del tutto contrari alla nozione di eiJmarmevnh)
erano implicitamente riportati alle prospettive, comunque tendenzialmente
convergenti, di accademici, peripatetici, epicurei, scettici, tutti preoccupati
di negare o quanto meno di limitare l’ambito del fato (persino tramite la
rischiosa nozione di caso!), comunque per conservare alla libertà umana uno
spazio ontologico all’interno del quale esercitare una – più o meno ampia –
causalità non necessitata. Evidenti risultano, in questa ricostruzione, forzate
semplificazioni: ad esempio, limitandoci alla filosofia stoica e alla sua stessa
evoluzione storica – comunque irriducibile a qualsiasi configurazione
teologica del Dio biblico –, si pensi alla complessità della tensione tra
impersonale necessità del fato e libertà, l’atto grazie al quale il soggetto si
appropria autarchicamente di sé, della propria profonda identità razionale,
divenendo così affine a Dio, la cui assolutezza è comunque assicurata dal
suo non pensare ad altro che a se stesso, sicché egli assicura il suo stesso
governo cosmologico nel perfetto, totale, circolare ripegarsi di sé su se
stesso, essendo Dio la cura sui assoluta. Il bilancio di Flavio Giuseppe
risulta comunque paradigmatico rispetto al cristianesimo patristico, che
analogamente tenderà a ripensare (positivamente o anche polemicamente) il
rapporto tra grazia e libertà proprio tramite queste stesse categorie
filosofiche greche, ripercorrendo l’intero, ampio spettro delle opposte
soluzioni razionali tentate dal pensiero classico – dall’apologia
dell’autonomia della libertà umana, al determinismo fatalistico –.
I – La relazione inafferrabile
D’altra parte e al tempo stesso, nell’evoluzione del pensiero patristico
emergerà, proprio attraverso questo tentativo di ricomprensione sapiente del
kerygma, la resistente irriducibilità delle tradizioni teologiche religiose
giudaiche, quindi dello stesso vangelo cristiano, alla cultura filosofica greca,
dominata dalla nozione di regolare, necessario, naturale ordine teocosmico.
Questa non conosce la nozione di un Dio personale, dotato di volontà e di
potenza assolute, che crea dal nulla, domina e governa il mondo (che può
distruggere come bene contingente transitorio) e l’uomo che giudica ed
elegge; le è ignota, quindi, la grazia di Dio, il suo mutare cuore e giudizio,
compensando le insufficienze della propria creatura; come le è ignota
un’interiorità libera, che si costituisce soltanto come immagine al cospetto di
questo Dio di potenza, confessandosi insieme responsabile del suo destino e
sottomessa alla volontà assoluta che la governa, la cui provvidenza non è
identificabile con un immutabile e razionale ordine necessario, ma con un
misterioso, “gratuito” (mai dato, mai oggettivo, mai razionalmente
prevedibile) piano di elezione liberamente voluto. Rivelativa sarà, in
proposito, la costante polemica cristiana contro la nozione di caso, zattera
per i filosofi greci non rassegnati ad una nozione di necessità
onnideterminante, spiraglio per una libertà che cerca un qualche spazio
all’interno del divino ordine cosmico, ma trappola per i pensatori cristiani,
perché nozione del tutto incompatibile con quella di amorevole, onnipotente,
onnipresente provvidenza di Dio. D’altra parte, altrettanto rivelativa è la
costante, spesso banale polemica antriastrologica degli autori cristiani,
nell’orizzonte dei quali astri, armonia fisica, movimento, tempo sono docili
strumenti della volontà di Dio: il personale domina il naturale, il volontario
domina l’involontario, sicché le stesse modalità – prescienza e
predestinazione – di pensare il rapporto tra eternità creatrice di Dio e
contingenza della creazione non potranno coincidere con la nozione pagana
di fato, di necessità semplice, riportabile ad una concatenazione ontologica,
ad un movimento cosmico impersonale e naturalistico.
Sarà quindi inevitabile che quanto più il pensiero cristiano si raffinerà,
confrontandosi con la filosofia greca, tanto più emergerà il fondamentale
paradosso metafisico della questione della grazia, che complicherà
infinitamente lo stessa dilemma fato/libertà(caso) ereditato dal modello
classico. Se l’assoluto diviene il Dio biblico, la suprema necessità (ajnavgkh)
diviene libertà onnipotente e volontà creatrice, logicamente pensabile
soltanto come inseparabile dalla contingenza (ciò che può essere come può
19
Donum libertatis
non essere), da ciò che non è necessario, eppure non è in alcun modo
casuale, ma dipende da un libero atto di elezione. Pertanto, le due soluzioni
opposte ed estreme – attraverso le quali il pensiero greco ha pensato il
rapporto tra necessità divina e libertà umana –, pur rappresentando un
riferimento concettuale attrattivo o repulsivo per le soluzioni teologiche
cristiane, non potranno in effetti mai coincidere con esse: l’accusa di cripto
panteistico determinismo stoico (il divino è immanente in ogni aspetto della
realtà, compresa la volontà dell’uomo, e ne determina infallibilmente
l’inserimento nell’ordine cosmico) e quella di criptoateismo aristotelico
epicureo (il divino è assente dalle vicende mondane, quindi non opera in
alcun modo sulla volontà “libera” dell’uomo, autonoma, anche se più o
meno casualmente condizionata), che pure le teologie cristiane in lotta si
scaglieranno con notevole frequenza, si riveleranno soltanto
approssimazioni polemiche. Non soltanto perché entrambe le soluzioni
filosofiche, teologizzate, sono inevitabilmente “personalizzate” (nel senso
che la necessità divina diviene il Dio biblico e la libertà umana diviene
quella di una creatura immagine, che ha in sé inscritto il Volto di Dio), ma
soprattutto perché le estreme opzioni teologiche dovranno riconoscere, pure
se relativamente, anche l’elemento opposto, comunque accolto, pure se
nettamente subordinato, sicché chi opterà per la prospettiva dell’onnipotenza
determinante di Dio (gli gnostici o l’altro Agostino, pure secondo modalità
del tutto diverse) dovrà riconoscere anche un ruolo relativo della libertà
umana (del darsi di un irriducibile elemento di contingenza e di resistenza
creaturale) e, viceversa, chi opterà per la prospettiva del libero determinarsi
della creatura (l’unanime tradizione cattolica, compreso il primo Agostino)
dovrà riconoscere anche un ruolo relativo (eppure indispensabile, dunque
“necessario”!) della grazia di Dio.
I,2 – Libertà del dono e dono della libertà
Infatti, le nozioni bibliche di creazione, rivelazione, giustificazione,
qualsiasi sia la peculiare modalità teologica che le interpreta,
presuppongono una relazione tra due libertà, asimmetricamente e
diacronicamente connesse: l’una creata, chiamata, provata, redenta,
graziata dall’altra, che sempre la precede e la governa, ma che pure è
paradossalmente determinata da quella, capace di obbligarla ad un divenire
“storico”, al punto che il rapporto tra grazia e libertà può essere
I – La relazione inafferrabile
rappresentato come l’abbraccio di lotta che stringe Giacobbe con l’angelo di
Dio. Da una parte, infatti, la libertà creata – già con il suo solo esistere, a
maggior ragione con il suo peccare – fende la creazione divina, costringe la
libertà creatrice ad intervenire nuovamente, tramite la rivelazione della
Legge o, dopo ed oltre questa, della grazia, per correggere il disegno della
creazione alterato dalla creatura; dall’altra, la libertà creaturale sussiste
unicamente a partire dall’apertura del dono divino (creativo, rivelativo o
redentivo che sia). Dimensione paradossale, logicamente aporetica, questa
del dono (nome privilegiato, dirà Agostino, che la Bibbia attribuisce allo
Spirito Santo!), che è tale soltanto se incondizionato, indebito, assoluto, dato
gratis, senza ragione cogente o richiesta di contraccambio (merces, debitum:
cf. Agostino, De gestis Pelagii 14,3314,36), ma che d’altra parte si rivolge
ad una libertà che lo accolga e lo riconosca, ad una risposta consapevole,
spontanea, grata, non costretta, eppure dovuta. La paradossale,
incomprensibile logica del dono è, quindi, la logica dell’amore: tanto più
autentica, quanto più impazzita, illogica, nel suo rovesciare gerarchie e
priorità, nel suo svuotare doveri e proprietà, nel suo sospendere ragioni e
debiti. Le divergenti, talvolta inconciliabili soluzioni patristiche al dilemma
del rapporto tra grazia e libero arbitrio saranno quindi costrette a farsi
carico delle questioni paradossali che si accumulano all’interno dell’aporia
del dono: il dono divino è condizionato dalla creatura che libera o è
incondizionato, capace di ricreare ex nihilo la libertà cui si comunica? O
forse esistono modalità e gradi diversi di dono di Dio? D’altra parte, quella
radicalmente donata, chiamata a riconoscere un debito incolmabile proprio
perché gratuitamente originato, rimane libertà? Eppure, come può darsi fede
e amore senza desiderio appassionato di tutto se stesso, abbandono di sé
senza libera intenzione di affidarsi alla grazia dell’Altro? La razionalmente
irrisolubile paradossalità del dono si riflette, quindi, nella stessa nozione di
libertà, radicata, per la teologia giudaicocristiana, nell’idea dell’uomo
creato ad immagine e somiglianza di Dio: anch’essa non può che essere
aporetica, in quanto presuppone che l’immagine sia al tempo stesso libera,
potente e creativa, come il suo Modello, ma che riceva tutto (se stessa, in
primo luogo!) in rapporto di assoluta dipendenza dall’onnipotente libertà e
grazia di Dio. Inoltre, evangelicamente, una libertà creata, che si riconosca
come atto autonomo, responsabile della sua fede (libero assenso alla
necessaria rivelazione salvifica di grazia) e delle sue opere, è davvero
conciliabile con l’amore incondizionato di Dio, che perdona, salva e
21
Donum libertatis
giustifica il peccatore, l’impuro, chi non può vantare alcun merito al suo
cospetto? In effetti, il concetto di redenzione condizionata (Dio dona la
grazia a chi vuole accoglierla, meritando la salvezza) pare limitare, se non
correggere il concetto di Creatore assoluto e onnipotente, che comunque si
rivelerebbe più misericordioso (donando l’essere alla creatura, volendola e
amandola incondizionatamente) del Dio redentore, dietro al quale
continuerebbe a nascondersi un Dio giudice (che amerebbe la creatura
condizionatamente, chiamandola alla prova della fede e dell’ubbidienza).
Insomma, la relazione giudaicocristiana tra libertà di grazia del Creatore e
libertà di conversione della creatura non può – più o meno radicalmente e
consapevolmente – non relativizzare l’assolutezza della libertà di uno dei
due soggetti: o in direzione umanistica, per la quale la libertà/volontà di Dio
creatore si limita (rinuncia alla sua assolutezza, consegnandosi alla
contingenza della risposta della creatura), perché la libertà/volontà della
creatura abbia autonomia; o in direzione teistica, per la quale la
libertà/volontà creata e relativa non è che l’effetto del dono gratuito e
indebito della libertà/volontà assoluta. Evidentemente, le molteplici,
divergenti soluzioni patristiche al dilemma del rapporto grazia/libertà non
rappresenteranno affatto più o meno bizarri accidenti storici, ma
ubbidiranno alla necessità dell’oggetto, costrette a rendere alternativamente
ragione del mistero della paradossale relazione d’amore tra libertà assoluta
e libertà creata (filosoficamente, potremmo dire che la stessa libertà finita è
simul assoluta e “creata”, autonoma ed eteronoma, donata perché
infinitamente responsabile dell’altro che la pone, riconoscendola comunque
sempre eccedente, già altrove nella sua imprevedibile, irriducibile
singolarità).
Non è un caso, allora, che – è opportuno ribadirlo – la storia della
teologia della grazia in età patristica sia caratterizzata da violente
oscillazioni, bruschi rovesciamenti tra queste due direzioni estreme, ai quali
il pensiero cristiano è costretto nell’esigenza di rendere conto di quel
groviglio di paradossi che ne costituisce l’oggetto. Paolo affermerà la sua
dottrina carismatica della grazia contro un’interpretazione legalistica e
meramente etica del vangelo; il protocattolicesimo tenterà un precario
tentativo di equilibrio tra tradizioni giudeocristiane (che interpretavano il
vangelo in sostanziale continuità con la Legge, quindi ancora
sostanzialmente legato a determinate norme di osservanza) e novità paolina,
comunque tendenzialmente subordinata, se non rimossa, al punto che
I – La relazione inafferrabile
davvero Paolo può essere definito, per citare Dassmann, la spina nella carne
della tradizione ecclesiastica protocattolica; mentre gnosticismo e
marcionismo affermeranno la violenta opposizione tra vangelo di grazia e
Legge giudaica, irrigidendo il dualismo economico e spirituale paolino e
giovanneo in dualismo teologico, l’apologetica cercherà di adattare il
vangelo di grazia alla cultura umanistica greca, restituendo il cristianesimo
come vera religione, quindi come etica razionale rivolta al libero arbitrio di
ogni uomo; a partire dalla seconda metà del II secolo, la tradizione
cattolica, combattendo il dualismo teologicoeconomico eretico e il suo
determinismo della grazia, intensificherà la legalizzazione ecclesiastica del
kerygma delle origini; sulla scia della gnosi cattolica alessandrina, la
teologia cattolica greca e latina dalla metà del III sino alla fine del IV secolo
sistematizzeranno, in funzione antieretica, l’ottimistica difesa della giustizia
dell’unico Dio di Cristo e l’affermazione della piena libertà dell’uomo,
perfezionando la restituzione della teologia della grazia nelle categorie della
filosofia, dell’etica e della retorica classiche; proponendo una
reinterpetazione dialettica dell’intera tradizione teologica cattolica,
l’Agostino maturo elaborerà una rivoluzionaria teologia della predestinata
grazia indebita e del servo arbitrio, al tempo stesso antipelagiana (ovvero
antiorigeniana) e antimanichea, interpretandola come fedele recezione del
fondamento paolino e giovanneo della rivelazione cristiana, radicalmente
opposta non soltanto all’intera cultura pagana, ma a qualsiasi
normalizzazione umanistica e legalistica del vangelo di grazia; il
pelagianesimo accuserà la teologia di Agostino di novità teologica, quindi di
innovazione eretica determinista e criptomanichea; il cattolicesimo
occidentale postagostiniano esorcizzerà la tragica teologia cattolicopaolina
dell’Ipponate, ripiegando su uno pseudoagostiniano, eppure cattolicamente
tradizionale concordismo tra grazia divina e libertà umana, assunto come
via media tra un fantomatico predestinazionismo antiagostiniano e l’eresia
pelagiana, respinta più nella forma che nella sostanza; dallo PseudoDionigi
a Massimo il Confessore, l’origenismo affinerà misticamente la sua
ontologizzazione platonizzante della grazia; Isacco di Ninive, pur nella sua
marginalità storica e geografica, proporrà un’originalissima, radicale
reinterpretazione dell’assolutezza della grazia di Dio, ove tradizione
origeniana (mediata da Evagrio) e tradizione antiochena (in particolare
Diodoro e Teodoro) finiranno per convergere, fuse nello sguardo di carità
del mistico. 23
Donum libertatis
Preliminarmente, occorre comunque scomporre la generica nozione di
dottrina giudaicocristiana della grazia e della libertà, ripensandola a
partire da alcune particolari angolature o prospettive (storicamente
connesse in maniera inestricabile), gran parte delle quali del tutto assenti
nell’orizzonte filosofico greco, la settima capace di connettere la nozione
giudaica di popolo eletto con l’ideologia di Roma sacra civitas universale: 1)
l’indissolubile relazione tra peccato e salvezza e la tensione tra creazione e
redenzione, natura e grazia; 2) la dialettica tra Legge e grazia, etica e
carisma, riconducibile a quella giudaica tra patto e promessa; 3) la grazia
come atto escatologico, che implica la sospensione e la fine del tempo; 4) la
grazia come carisma proceduto da una persona divina: Cristo e/o il suo
Spirito; 5) la questione dell’ermeneutica del soggetto e delle metamorfosi
della nozione di identità personale dal Nuovo Testamento alla definizione
delle maggiori teologie patristiche; 6) la questione della teodicea; 7) la
questione teologicopolitica dell’ejxousiva, della potestas, del rapporto tra
potenza e potere nella dialettica che la rivelazione instaura tra grazia di Dio
e libertà creaturale, quindi il ruolo del Messia spiritualizzato, Imperatore
carismatico, e della chiesa – civitas o popolo di Dio, in conflitto con il
popolo di questo mondo –, cioè della società carismatica all’interno della
quale quella dialettica si dispiega e il potere salvifico opera; 8) il rapporto
tra grazia e mistica.
I,3 – Peccato e salvezza, creazione e redenzione, natura e grazia
La dialettica biblica tra libertà umana e “necessità” (o, meglio,
onnipotenza) divina, a differenza di quella greca che potremmo definire
“naturalistica”, è inseparabile dalla e subordinata alla dialettica
“volontaristica” o “personalistica” tra peccato e salvezza, che presuppone
quella – rivelativa del progresso economico di Dio – tra creazione e
redenzione, quindi tra natura e grazia. La nozione di redenzione, celebrando
l’assolutezza salvifica della volontà di Dio, afferma la negazione della piena
autonomia del soggetto redento (sia esso il popolo o il singolo eletto), anzi
manifesta la sua impotenza, la sua pervicace negatività, la sua necessaria
eteronomia: si redime soltanto chi è prigioniero (storicamente, politicamente
o spiritualmente) del male, della schiavitù, del peccato, sicché male e bene,
peccato e perdono, schiavitù e libertà (siano essi dimensioni del popolo
eletto, dell’umanità intera o della singola creatura, a seconda
I – La relazione inafferrabile
dell’evoluzione storica delle dottrine della giustificazione) appaiono, ancora
una volta, come inestricabilmente connessi, ma non a partire dalla libertà
astratta del soggetto, ma sempre all’interno di una paradossale relazione di
donazione e di (ri)appello alla libertà, insperatamente ottenuta solo in
seguito al suo smarrimento. Ma se la creatura è stata capace di peccare,
cosa le dona la redenzione? Insomma, la questione decisiva – che attraversa
e specifica le diverse interpretazioni cristiane della grazia e della libertà – è
se la redenzione sia reintegrazione nella perfezione originaria, perduta dalla
creatura lapsa, o piuttosto dono di un’eccedenza carismatica nei confronti
dello stesso dono originario; detto altrimenti, se il dono della redenzione
ecceda o si identifichi con il dono della creazione, quindi se creazione e
redenzione coincidano come modalità rivelativa di Dio. Ad esempio, nelle
tradizioni giudeocristiane (dallo strato più antico affiorante nella
letteratura Pseudoclementina ai due Teodoto), la rivelazione di Cristo è la
stesse Legge rivelata al perfetto Uomo ad immagine, il Vero Profeta,
l’impeccabile Adamo unto nell’Eden e disceso, come Cristo (creato!)
dall’alto, su Gesù nel Giordano; così, nella gnosi cattolica alessandrina
(influente sulla stessa antropologia del Nisseno), la redenzione portata da
Cristo restituisce l’uomo all’intellettuale perfezione originaria, ricevuta con
la prima, immateriale creazione. Invece, in Paolo e Giovanni (come, pure
secondo modalità teologiche del tutto diverse, in gnostici, marcioniti e in
Agostino), la rivelazione redentiva eccede il dono della creazione. A
differenza dei sinottici, per Paolo l’evangelo di Cristo redentore è
teologicamente inseparabile dalla memoria del suo antitipo, Adamo (cf., ad
es., Rm 5; 1Cor 15,4553), l’oggetto della prima creazione, il “naturale”
(ilicopsichico) uomo del peccato, creato mortale e corruttibile. Infatti, la
rivelazione della grazia, del regno di Dio misericordioso, della carismatica,
pneumatica identità con Cristo redentore è un novum straordinario rispetto
alla (vecchia!) creazione (cui, non a caso Paolo, e più in generale il Nuovo
Testamento, non dedicano grande attenzione), caduta prigioniera di un
peccato ormai umanamente insuperabile. Nella relazione antitipica tra primo
e ultimo Adamo, o – in termini giovannei – tra il mondo e Cristo, è implicita
una relazione antitipica (più o meno radicalizzata, lungo la storia della
teologia patristica) tra natura e grazia, carne/anima e Spirito, tenebra e
luce, figli del (Principe del) mondo e figli di Dio, quindi – più in profondità –
tra due modalità rivelative di Dio, connesse eppure irriducibili l’una
all’altra (anche se condizionate – almeno in Paolo – dalla diversa risposta
25
Donum libertatis
che la libertà di Adamo e quella di Gesù hanno dato al dono della filialità,
dell’immagine perfetta di Dio). Mentre nei confronti di Adamo e del mondo,
Dio si rivela come creatore e giudice del peccato (la prima modalità della
relazione di Dio con la libertà dell’uomo è infatti quella del comando, della
prescrizione, del giudizio, quindi della punizione), in Gesù, Dio si rivela
come redentore, come Spirito di grazia. Nella sua evoluzione storica, la
dottrina della giustificazione cristiana è, quindi, governata da un gioco di
polarità: quanto più la grazia come “nuovo” atto carismatico è assoluta
protagonista della giustificazione, tanto più il peccato si manifesta come
corruzione che mina, sino ad annullarla, la libertà di scelta e la sua capacità
di orientarsi verso il bene (“Più si è santi, più si è colpevoli”, si potrebbe
dire incrociando Dostoevskij con Levinas). Quindi, quanto più il peccato
grava e corrompe l’uomo, pure creato ad immagine, tanto più l’ambito della
creazione è svilito (al punto da essere riconosciuto come asservito al
«Principe di questo mondo») rispetto a quello della redenzione. Ove evidente
risulta l’influenza del dualismo apocalittico, che considera il mondo, pure
creato da Dio, caduto prigioniero di una potenza angelica decaduta, sicché
lo stesso destino individuale è segnato da un peccato d’origine di
conseguenze disastrose, che determina al male tutte le creature.
Misconoscere questa tensione paolina e giovannea tra creazione e
redenzione, natura e grazia, carne e Spirito, Legge e carisma, soggezione e
intimità, dovere e amore, quindi tra male e bene, peccato e salvezza, mondo e
filialità eletta, significa precludersi la comprensione dello staordinario
sforzo di riflessione che l’età patristica, arrovellandosi su questi scritti, ha
operato nel tentativo di rendere ragione della verità (quindi del rapporto di
fondante continuità con la tradizione giudaica) e della radicale novità della
rivelazione cristiana. Quanto più l’annuncio del nuovo divarica natura
creata e grazia di redenzione, tanto più lacerante si porrà l’alternativa tra a)
una radicalizzazione di questa tensione rivelativa, sino alla dissociazione
dualistica economica e, nei casi dell’eresia, persino teologica, con la
conseguente accentuazione degli effetti deleteri del peccato di Adamo sulla
natura creata; e b) un’esigenza, monoteisticamente ispirata e cattolicamente
dominante, di riduzione della differenza tra natura e grazia, creazione e
redenzione, vecchio e nuovo, quindi ad un’attenuazione della
negazione/messa in crisi, operata dal potentissimo peccato di Adamo, della
bontà e della positività della creazione. Insomma, le diverse polarità che
scandiscono il dogma della giustificazione – creazione/redenzione,
I – La relazione inafferrabile
natura/grazia, ilicopsichico/pneumatico, rivelazione della Legge/rivelazione
dello Spirito, vecchio/nuovo, libertà/Dono, dottrinaevento, ragione/Spirito,
culturamiracolo, ontologico/escatologicoapocalittico, etico/carismatico,
etc. – (raffigurabili come due assi cartesiani, uno delle ascisse, l’altro delle
ordinate) sono gli estremi di una tensione dialettica, che prevede una serie
variabile di mediazioni (le varie dottrine cattoliche storicamente
succedutesi); la sconnessione tra i due assi è invece operata dai sistemi
teologici dualistici (gnostici, marcioniti), che spingono sino alla
dissociazione la tensione cattolica monoteisticamente risolta, seppure con
variabili gradi di tensione/equilibrio interni nella storica, variabile struttura
del dogma della giustificazione, la cui stabile identità è soltanto postulata,
approssimativamente attingibile soltanto attraverso persistenti ambiguità,
chiarendo le quali la storia della verità cattolica su grazia e libertà si
dispiegherebbe come inquieta, dinamica ricerca di sempre diverse, instabili,
paradossali congetture.
I,4 – Legge e grazia, etica e carisma, educazione e perdono
La salvezza del vangelo è rivelazione/dono di verità, Legge etico
religiosa dell’amore (che rinnova, compie, perfeziona quella della Legge
mosaica), cui la libertà è chiamata ad adeguarsi, o è rivelazione/dono di
grazia, che rende lo Spirito di Dio immanente nell’uomo, ricreandone la
libertà? Detto altrimenti, il cristianesimo è messaggio (quindi cultura)
spirituale, chiamata/sequela (quindi dottrina) eticoreligiosa o esperienza
carismatica, rivelazione di una nuova identità costituita dall’effusione dello
Spirito? Quest’alternativa – appunto componibile secondo diverse possibilità
di mediazione dialettica – già attraversa e struttura l’Antico Testamento,
interpretabile, con Sacchi, a partire dalle due grandi coordinate della
teologia del patto, compiutosi nella rivelazione del monte Sinai, e della
teologia della promessa, incessantemente proclamata dai profeti. In esse
emergono le grandi questioni del ruolo della libertà dell’uomo chiamato a
mettere in pratica la Legge salvifica (comunque rivelata come dono
d’elezione, quindi dipendente dalla volontà misericordiosa di Dio), della sua
capacità o incapacità a mantenersi fedele ad un determinato codice etico
religioso, dell’azione libera di Dio, che condanna il peccato e l’infedeltà del
suo popolo, ma misericordiosamente promette di superare la stessa Legge
rivelata, quindi di scrivere una nuova allenza spirituale, irrompendo
27
Donum libertatis
escatologicamente come grazia incondizionata e imprevedibile, che dona
interiormente quella fede che una religiosità puramente ritualistica e
moralistica si mostra incapace di accendere (cf., ad es., Geremia 31,3134 ed
Ezechiele 11,1421; 36,2238; 37,114, testi chiave per Paolo in 2Cor 3,4
5,17 e, probabilmente, già per Stefano, come suggeriscono, pure se
indirettamente, Atti degli apostoli 6,1314; torneremo più in là sulla decisiva
questione del rapporto di Gesù con queste prospettive profetiche). Dietro la
questione del libero arbitrio sta, appunto, l’identificazione della rivelazione
con la Legge (più o meno minacciosa o amorevole), della fede e della
responsabilità individuale come ascolto e risposta pratica alla chiamata di
Dio; dietro la questione della grazia sta, invece, l’identificazione della
rivelazione come evento carismatico, della fede come dono, della fruizione
dello Spirito come estatico entusiasmo spirituale, dello stesso Messia come
giudice, che ha però potenza di sospensione dell’orizzonte della Legge e del
debito. Al modello etico corrisponde quello educativo, culturale (quindi già
aperto all’influenza della paideia grecoromana), in quanto soltanto il
progresso nell’apprendimento forma, rende la libertà, che si applica e si
mette alla prova, capace di conoscere la verità, di crescere moralmente; al
modello carismatico (più specificatamente semitico e difficilmente
compatibile con le categorie culturali grecoromane) corrisponde l’evento
culturalmente “infondato” – quindi sempre imprevisto e indebito – del
perdono, che avviene uno ictu, senza alcuna educazione (preparazione,
formazione, abilitazione, applicazione, prova, pratica, tirocinio, mira,
progresso, merito). Queste due distinte modalità di costituzione della
giustizia al cospetto di Dio (che sempre è l’autore di questa stessa giustizia,
o come provvidenziale educatore o come gratuito liberatore) rappresentano,
quindi, sin dai testi dell’Antico Testamento e dell’apocalittica giudaica, due
polarità dialettiche che governano la comprensione della rivelazione
salvifica secondo tensioni ed equilibri variabili, al punto che le oscillazioni,
le ambiguità, i compromessi o i conflitti che segneranno il travaglio
teologico cristiano intorno al mistero del rapporto tra grazia e libertà (con,
agli estremi, i riduzionismi legalistici ed antinomistici) non faranno che
riattivare potenti energie, antiche aporie e precarie soluzioni.
I,5 –La grazia, il tempo e l’eschaton
I – La relazione inafferrabile
Proprio perché sempre dipendente da un atto eccezionale e
misericordioso di Dio (del tutto irriducibile all’atto divino aristotelico, che
con la sua assoluta perfezione ontologica immobilizza la realtà nell’assoluta
regolarità cosmica; cf. Metafisica XII,1072a,810: «Ci furono sempre le
medesime cose o ciclicamente o in qualche altro modo, se veramente l’atto è
anteriore alla potenza. Ora, se la realtà è sempre la stessa, è necessario che
qualcosa permanga costantemente e agisca sempre allo stesso modo»), la
grazia che libera determina una nozione spezzata di temporalità: la libertà
succede alla prigionia, la giustificazione al peccato, l’amore al giudizio, il
nuovo al vecchio. Ciò comporta due nozioni del tutto assurde per un
pensatore grecoromano (qualsiasi fosse la sua prospettiva filosofica),
significativamente sempre sospettoso e timoroso dinanzi all’evento futuro,
accidente ancora inesistente e proprio per questo sempre casuale, estraneo,
perturbante e minaccioso, anzi mortifero rispetto all’identità del sé
autarchico, che si costituisce a) riappropriandosi di sé e conservandosi nella
memoria (si pensi, certo nella loro profonda differenza in proposito, alla
tradizione platonica e a quella stoica) o nel ricordo del godimento passato,
capace persino di attenuare i dolori presenti (si pensi agli epicurei); e b)
equipaggiandosi, acquisendo l’indifferenza nei confronti di un futuro
previsto come il peggiore ipotizzabile, eppure proprio per questo
addomesticato dalla virtù (si pensi alla tesi cirenaica dell’afflizione come
relativa soltanto a ciò che è imprevisto, o all’esercizio stoico della
praemeditatio malorum e mortis) e persino neutralizzato come
predeterminato, necessariamente fissato, quindi razionalizzato, proprio in
quanto risolto in un “nulla di nuovo” che sarà presente (prima di divenire
passato tesaurizzato dalla memoria), rientrando quindi nell’ambito reale di
azione, di identificazione e di governo della libertà.
Dal punto di vista della temporalità e del rapporto che con essa
intrattiene la libertà dell’uomo, la rivelazione cristiana risulta per il pensiero
grecoromano duplicemente distruttiva, affermando: 1) La nozione assurda
per la quale Dio è potenza extraordinaria, che segna la fine della natura
come ordine regolare e prevedibile; 2) la nozione assurda e del tutto nova
(violentamente sovvertitrice) di temporalità come vicenda progressivamente
segnata dagli eventi ed avventi rivelativi di Dio, vicenda che corre verso un
punto ultimo di approdo e di significazione (sicché è sempre nell’avvenire la
pienezza di un senso atteso, persino congetturabile, eppure comunque
indisponibile), che è la fine della natura e del tempo stesso, ove la morte del
29
Donum libertatis
tempo è la sua stessa salvezza, il suo essere tolto da Dio in una dimensione
assolutamente trascendente e ricreativa. Il tempo, infatti, dipende da una
volontà che lo pone, lo governa, lo può sospendere, annullare, ricreare.
Pertanto, la grazia, proprio in quanto connessa all’esperienza e alla
comprensione di ciò che irrompe come inatteso, indebito, anarchico, illegale
persino (capace, cioè, di interrompere qualsiasi Legge, di sospenderne
l’ordine: cf. l’enigmatica parabola dell’intendente disonesto in Lc 16,112),
è necessariamente escatologica. L’ultimo tempo, quello dello stato
d’eccezione decisivo e salvifico dell’abbandono alla misericordia di Dio, ha
fatto irruzione; la salvezza inattesa distrugge il mondo del peccato – cioè
tutto il mondo presente! – e ricrea una realtà, o megli un evento di libertà
assolutamente nuovo, sorprendente, non dovuto. Il gratuito è, in effetti, la
manifestazione dell’imprevedibile, di ciò che, nell’orizzonte preesistente del
peccato, non ha ragione d’essere, non esiste affatto. Un evento indisponibile
di misericordia ricostituisce altrimenti la realtà, il cosmo, il tempo, il popolo
di Dio, l’interiorità e la libertà dell’uomo.
Proprio perché sospensione escatologica, radicalmente ultima
dell’ordine naturale, temporale, legale, religioso, tradizionale, la nozione di
grazia non può che essere eversiva rispetto ad un sistema della necessità
oggettiva, naturale, impersonale: la grazia è la manifestazione
eminentemente storica dell’extaordinario, di ciò che sorprende la ragione
dominante e calcolante, di una volontà che libera dal dovuto, dal noto,
dall’economico, l’avvento della possibilità impossibile, la realizzazione della
speranza disperata. Insomma, si dà autentica libertà unicamente a partire
dalla rivelazione personale di chi è, con la sua volontà, eccedente qualsiasi
necessità, regolarità, ripetitivo, prevedibile meccanismo dell’identico. La
grazia è escatologica proprio perché sospende il tempo o prende
controtempo, destabilizza, disordina, altera. Essa dona libertà, la quale vive
un escatologico abbandono, l’estatico essere posseduti dallo Spirito, che
dona un’identità del tutto nuova, ricreata, felicemente alienata. E,
comunque, tra libertà e grazia (comunque essa venga pensata) si dà una
relazione temporale sempre diacronica: la prima è preceduta e fondata dalla
seconda. Il tempo della libertà graziata è un tempo nuovo, indebito, sospeso
al kairovò dell’irruzione del tempo dell’Altro (dell’eternità, per tutta la
tradizione cattolica), dell’intimità – cristologica, spirituale – che esso
inaugura: un tempo rubato a se stesso (cf. Matteo 24,4244; 1Tessalonicesi
5,12; Apocalise di Giovanni 3,3), sospeso, che si fa breve (cf. 1Corinzi 7,25)
I – La relazione inafferrabile
e piccolo (cf. ApGv 10,6), accartocciandosi e come svanendo, un tempo
senza più tempo, perché tempo esposto all’Altro, espropriato dall’Altro.
Questa radicale relativizzazione e storicizzazione personalistica del
tempo si riflette, ovviamente, sulla stessa nozione di Dio: l’Incondizionato si
temporalizza, la sua assolutezza risulta paradossalmente condizionata dalla
creatura che chiama all’essere e con la quale e per la quale diviene,
ricreandone il tempo. Come l’eschaton è l’irruzione apocalittica (e, non
dimentichiamolo, naturalmente nichilistica!) del “tempo” dell’Altro nel
tempo ripetitivo e vano dell’uomo e del mondo, così esso è l’irruzione del
tempo della creatura nel “tempo” di Dio. Se, poi, la rivelazione di grazia
irrompe come novità straordinaria rispetto alla vecchia alleanza o
rivelazione di Legge, la storicizzazione del Dio biblico si approfondisce.
Persino le interpretazioni più “tradizionaliste” del kerygma cristiano, letto
in profonda continuità con la Legge mosaica, non possono rimuovere questa
portata escatologica della nozione di grazia, anche se, quanto più radicale
sarà l’opzione paolina (marcioniti, gnostici, Agostino), tanto più profonda
sarà la crisi teologica, cosmica ed antropologica che l’annuncio della grazia
come evento inaudito comporta. La realtà, teologicamente temporalizzata, si
esistenzializza: l’essere è ormai singolarità storicizzata, escatologica,
visitata e scandita dall’evento indisponibile dell’Altro.
I,6 – La grazia, Cristo e lo Spirito
La fondamentale peculiarità dell’annuncio cristiano è, chiaramente, la
connessione inscindibile tra irruzione della grazia, novità della libertà che
essa inaugura e manifestazione di una persona storica, Gesù di Nazareth.
Questi si identifica con la grazia stessa, apre l’età dello Spirito e della
libertà, compie, ma al tempo stesso sovverte l’attesa (soprattutto storico
politica) della tradizione. La grazia è, cioè, tale solo in quanto è messianica,
dipendente dalla rivelazione personale di Dio tramite un uomo eletto; quanto
più radicale sarà la riflessione sulla novità eccezionale di questa grazia,
sulla sua personalizzazione in Gesù – capace di sostituirsi, con l’effusione
del suo Spirito, alla stessa Legge mosaica come manifestazione della gloria
(dovxa) salvifica di Dio –, tanto più il processo di divinizzazione del Messia
(cf. Giovanni, Epistola ai Colossesi, Epistola agli Ebrei) si approfondirà, con
il progressivo affermarsi di un Cristo Logos creatore, rispetto al quale la
paradossale dimensione kenotica di Gesù Messia è tolta, simul rimossa (la
31
Donum libertatis
carne che muore è il Dio eterno e impassibile) e assolutizzata (il Dio eterno e
impassibile è la carne che muore). Non è casuale, in tal senso, che questa si
affermi proprio a partire da quelle prospettive (Paolo, Giovanni) che
identificano nella morte di Gesù in croce, interpretata come decisivo
sacrificio espiatorio, l’atto decisivo della giustificazione divina.
Analogamente, quanto più la novità della grazia strutturerà la nuova
identità religiosa messianica, tanto più il dono di Dio, lo Spirito del Messia
che ed escatologicamente rende presente la salvezza, costituendo la nuova
identità escatologica e carismatica dell’eletto, dovrà – nel corso dei secoli –
personalizzarsi: la grazia è la rivelazione della stessa persona di Dio,
l’evento è l’Evento personale dell’amore.
I,7 – Ermeneutica del soggetto: metamorfosi dell’identità
Ovviamente, qualsiasi prospettiva relativa alla relazione tra grazia e
libertà presuppone una ben precisa nozione di soggetto, di identità
personale: soltanto un’ermeneutica del soggetto (che Foucault ha soltanto
marginalmente indagata nella sua declinazione giudaicocristiana) può
rendere conto in profondità della dialettica della giustificazione e delle sue
metamorfosi. Metamorfosi da interpretare: 1) In senso storico, come
evoluzione da una prospettiva neotestamentaria del soggetto creato come
carne – ambiguamente intesa a) come corpo indigente, esposto, fragile, come
natura impotente, mortale, temporalmente e storicamente esistente; e b)
come peccato e negazione perversa dell’alterità di Dio – ad una nozione
platonizzante (che già a partire dall’inizio del II secolo comincia ad
affermarsi) del soggetto creato come anima, atto intelligente, essenza
immateriale, per natura immortale e libera; ove, nella varietà delle
prospettive antropologiche proposte, comunque l’ibrido soggetto cristiano
che, a partire dal III secolo, risulterà costituito si presenterà come un’anima
carnale, cioè una forma ontologica ellenistica, in particolare platonica,
riconfigurata a partire dalle nozioni semitiche di esposizione, passività,
storicità, temporalità, peccaminosità. 2) Nella prospettiva di una teologia
della conversione (persistente attraverso la sua evoluzione da Paolo sino ai
più complessi sistemi teologici patristici), come metamorfosi del rapporto
dell’identità con se stessa, che si rivela soltanto alterandosi, passando da
una dimensione naturale ed autistica di negatività, mortalità, peccaminosità,
I – La relazione inafferrabile
ad una dimensione relazionale, soprannaturale e carismatica di vivificante
intimità con Dio e con il prossimo.
In questo processo, insomma, l’anima è convertita da un’originaria
prospettiva (naturale e peccaminosa) di autonomia, ad una nuova
prospettiva di eteronomia (più o meno radicale). Se il soggetto naturale,
autonomo è padrone e signore del suo sguardo, il soggetto graziato,
eteronomo, è sguardo che si scopre oggetto dello sguardo di Dio (del «Padre
tuo che vede nel segreto (oJ blevpwn ejn tw=/ krufaivw/)»: Mt 6,4; 6; 18),
che ne scruta ogni profondità. L’interiorità del soggetto diviene così il luogo
di una paradossale asimmetria, è l’immagine di Dio, la creatura nella quale
Dio creatore si guarda come amato Amore redentivo: luogo assolutamente
utopico di un’assoluta alterazione, di un farsi altro dell’Altro. Proprio
perché incontro asimmetrico di sguardi, l’interiorità cristiana si rivela come
mistero, ma soltanto perché il suo costituirsi dipende necessariamente da un
evento: l’io diviene soggetto autentico soltanto se, nella propria vicenda
biografica, un altro Soggetto irrompe ad assoggettarlo, liberandolo:
paradosso della colpa imputata e perdonata, della soggezione all’Amore che
si toglie, che è soltanto nel suo togliersi, sottrarsi, nascondersi, della libertà
che è generata soltanto dal suo totale, teologico asservimento all’indebito, al
gratuito, all’incomprensibile, al contingente.
In tal senso, la conversione cristiana non è mai soltanto un convertirsi a
se stessi (alla propria interiorità spirituale) in se stessi (nell’intimo della
propria stessa natura), ma un essere prima di tutto convertiti dall’Altro, che
irrompe, sorprende, chiama, rovescia, sempre inaudito e sgradito,
nell’intimità stessa dell’io: l’attività si converte in passività, proprio perché
si scopre operata da un altro atto che vuole visitarla, che storicamente la
altera e le fa necessariamente violenza (Paolo, il cavaliere disarcionato
dalla sua signoria). Da questo punto di vista, la grazia di Dio (l’eteronomia)
diviene per il soggetto (e la sua autonomia) forza di identificazione o di
alterazione? E’ donata perché il soggetto si salvi, ma autoidentificandosi
(nello stupore di essere donato a se stesso) o donandosi sino alla kenosi della
dispersione (nell’espropriazione infinita del sacrificio di sé)? Come vedremo,
le risposte cristiane rappresentano una pluralità di prospettive (che si
dispongono tra gli assi cartesiani dell’autonomia e dell’eteronomia,
dell’essenza e dell’esistenza, dell’eterno e del tempo, della mente e della
carne, della verità e dell’amore), che si connettono soltanto nella loro
reciproca, centrifuga tensione. 33
Donum libertatis
Comunque, tornando alla dimensione storica della metamorfosi del
soggetto cristiano, è opportuno ribadrire le tappe fondamentali che la
scandiscono: le metamorfosi storiche patristiche dell’identità cristiana
determinano un progressivo filosoficizzarsi del soggetto (ripensato a partire
da un’ontologia, da una cosmologia, da una psicologia sostanzialmente
assenti negli scritti neotestamentari, se non per elementi tutt’al più
embrionali e marginali), sino alla riduzione ontologica dello stesso Spirito –
donde, programmaticamente a partire da Origene, lo pneu=ma come divino
atto vivificante diviene lo spirituale come platonica realtà intelligibile,
immateriale, essenza trascendente –. Se, quindi, il soggetto neotestamentario
è esistenziale e non essenziale, storico e non ontologico, carnale e non
intelligente o mentale (tant’è che manca, in tutti gli scritti del Nuovo
Testamento, una nozione di anima intelligente, immateriale, immortale per
natura), il soggetto cattolico diviene sempre più essenziale, naturale, mentale
e sempre meno esistenziale, storico, carnale, sempre più ontologico e sempre
meno carismatico, pur non riuscendo a liberarsi mai della propria matrice
semitica escatologicocarismatica. Per Paolo (cf. 1Cor 15,4453), Dio crea
una natura morta (che vive per esperire la propria stessa mortalità), il primo
Adamo, l’Adamo terreno, psichico, per risuscitarlo in Cristo, l’ultimo,
escatologico Adamo, celeste perché Messia carismatico, datore di vita nello
Spirito: l’ontologia (l’essere naturale della creatura) è pensabile soltanto
come dialetticamente subordinata e funzionale alla soteriologia carismatica,
come negativo della luce cristologica ed escatologica. Al contrario, nella
progressiva ellenizzazione cattolica del messaggio (si pensi, in particolare,
agli gnostici e, pur se in direzione ben diversa, a Clemente e Origene),
l’Adamo celeste (l’ultimo, cristologico Adamo) diviene il divino Adamo
archetipico, ontologico, l’Immagine (non escatologica, ma protologica) a
partire dalla quale tutte le intelligenze immateriali sono create. Se il soggetto
del primo Agostino (con la sua dottrina della mens imago e del Maestro
interiore che vi rivela l’evidenza delle verità eterne) rappresenta il punto di
approdo di questo processo di ontologizzazione platonicocattolica dell’io, il
secondo Agostino (a partire dalla Confessiones) inaugura una conversione
radicale ad una risemitizzazione carismatica (ripaolinizzazione) del soggetto
cattolicoplatonico, che pur rimanendo anima, mente, sostanza o essentia
immateriale e intelligente, comunque si riconfigura soprattutto come
soggetto carismatico, apocalittico, costituito dall’irruzione dell’evento del
Dono, della grazia che storicamente visita il soggetto vivificandolo nello
I – La relazione inafferrabile
Spirito, ma al tempo stesso rivelandone l’assoluta impotenza, vanità,
mortalità, peccaminosità, insomma carnalità (nel suo senso ambiguo)
naturale. Insomma, la storia del soggetto cattolico è caratterizzata dal
variare della predominanza dell’elemento ellenisticoplatonizzante,
ontologico, rispetto a quello semitico, messianicoescatologicocarismatico,
originariamente dominante negli scritti del Nuovo Testamento, quindi
sempre più subordinato, infine potentemente riattivato e sovraordinato
rispetto al suo polo dialettico ellenistico nella teologia dell’altro Agostino,
ma – come vedremo – anche in alcune teologie mistiche orientali
postorigeniane.
Sarebbe opportuno, in proposito, dedicarsi ad un confronto serrato con le
tesi di Foucault sul soggetto cristiano, proposte in particolare ne
L’herméneutique du sujet, oltre che nell’Histoire de la sexualité. Contro
Foucault – che nel seminario dedicato al soggetto tratta dell’io cristiano
soltanto in negativo, all’interno di una restituzione della cura sui come arte
della vita ellenisticoromana –, si deve affermare che il cuore della questione
del soggetto cristiano non è affatto la rinuncia a sé come approdo dell’ascesi
(non è pertanto casuale che Foucault restituisca come tipica della
prospettiva cristiana sul soggetto o autori e testi monastici patristici, o
contesti cattolici controriformistici), né la confessione come prassi di
censura, controllo, dominio, repressione di sé, ma la rinuncia a sé per sé,
nell’attingere la propria identità come donata (e in effetti non è forse la
carità il culmine della stessa ascesi monastica?): appunto l’identificazione di
sé come soggetto confessante, oggetto dell’Altro e soggetto per l’Altro, che
ha anche il volto del prossimo, e non solo quello della coattiva struttura
sociale. Il discernimento, l’esegesi infinita della soggettività di cui parla
Foucault è, allora, non un ossessivo lavoro di discernimento (inevitabilmente
repressivo) tra moti perversi (“diaboliche” fantasie) e moti spirituali, bensì
la distinzione tra il peccato/concupiscenza/errore che attiene all’io in sé in sé
e per sé e la grazia, che ricostituisce il sé in Altro/altro e per Altro/altro.
L’autodecifrazione infinita che Foucault identifica come specifica del
soggetto cristiano non è, allora, affatto un mero esercizio di alienante
sospetto, scissione interiore, disprezzo di sé, che conduce ad una rinuncia
nietzscheanamente nichilistica e perversa di sé, ma la confessione
inesarubile di sé (all’interno della quale il peccato profondamente inteso è
ritardo e inadeguatezza rispetto all’Altro), che rivela il debito infinito del
soggetto come immagine, esposizione e risposta all’evento del Dono, che
35
Donum libertatis
solo costituisce l’inesauribilità e la trascendenza della sua stessa
soggettività, sicché Dio giudica soltanto in quanto si prende cura del sé,
dunque ama e giustifica un io incapace di un senso autonomo. Che poi la
confessione del soggetto cristiano, nella sua evoluzione storica, sia sempre
più declinata a partire da una grammatica ellenisticoplatonizzante,
ontologizzante, essenzializzante, dogmatizzante, divenendo sempre più
alienante e intollerante proprio perché sempre più oggettiva, “naturale” e
“vera”, religiosamente, politicamente e metafisicamente potente,
incontrovertibile, violenta, non impedisce che, paradossalmente, la dialettica
esistenziale, perché storica, della indebita, anarchica, singolarissima
soggezione all’evento di grazia non resista come l’indisponibile, liberante,
precaria, kenotica, sempre futura e inesauribile, mai posseduta utopia del
soggetto occidentale.
I,8 – Grazia, sacramenti e dogma ecclesiastico
In tutta la traduzione teologica cattolica, la sempre più netta
affermazione dell’identità ontologica dell’anima e della sua libertà,
dell’autonomia del soggetto spirituale, essenza intelligente e platonicamente
immateriale, viene comunque strutturalmente bilanciata dal riconoscimento
eteronomo della dipendenza di questa natura spirituale e libera dalla
mediazione salvifica del carisma istituzionalizzato, sacramentalizzato,
ecclesialmente fruito. La grazia, il carisma escatologico, l’antica matrice
apocalittica, che paiono sempre più regredire, abbandonando il soggetto
intelligente alla sua libera autonomia, comunque resistono nella forma
sociale e politica della mediazione ecclesiastica. Decisiva, in proposito,
l’originaria centalità del sacramento, in particolare del battesimo;
inizialmente, esso è annunciato e somministrato come salvifica effusione
dello Spirito messianicoescatologico, come elettiva incorporazione al
carismatico popolo di Dio; quindi, all’interno della stessa incipiente
ellenizzazione delle categorie protocristiane, sempre più esso viene
interpretato come interiore illuminazione di grazia, che sola – in Ignazio
come negli stessi gnostici, in Clemente e Origene come nella tradizione
cattolica africana – consente alla creatura la restituzione della sua
proprietà: l’integra purezza protologica, la sua natura di immagine
intelligente gradita a Dio. Quest’ibrida mescolanza tra matrice carismatico
escatologica e componente ontologicoprotologica, tra dimensione elettiva,
I – La relazione inafferrabile
sociale, “caritatevole” del popolo di Dio e dimensione mistica, privata,
intellettuale, esclusiva del sacramento battesimale, comunque finisce per
ridurre a rito identitario, a prassi religiosa, a meritorio possesso privato
quell’evento rivelativo originariamente vissuto come gratuita esperienza
rivoluzionaria del regno di Dio che irrompe nella storia, accogliendo gli
ultimi e rompendo in Cristo e nel suo Spirito i confini di qualsiasi proprietà,
razziale, sociale, sessuale, culturale (cf. Galati 3,2629; 1Cor 12,1214).
Come se l’espropriante e inclusivo evento anarchico di grazia fosse divenuto
una seconda natura, appunto un’esclusiva proprietà individuale e sociale.
Insomma, proprio la trasformazione (comunque inevitabile) della
comunità escatologica delle origini in chiesa come struttura sociale e storica
di mediazione comporta un’indubbia istituzionalizzazione, quindi
inevitabilmente una sclerotizzazione dell’evento di grazia, con una
conseguente dogmatizzazione esclusivista e discriminante, che, comunque,
continua a modulare la categoria giudaica dell’elezione del popolo eletto,
socialmente identificato a partire da un codice normativo legale e veritativo.
La traccia del Dono (il sacramento come liberante fruizione dello Spirito e
incorporazione in Cristo) rischia così di divenire possesso del Dono, anche
se possesso eccedente il potere del soggetto, in quanto comunque
socialmente mediato nel nuovo popolo eletto, attraverso materia, corpo,
tempo, mediatore carismatici. Donde la perenne tensione e al tempo stesso
l’inestricabile relazione tra evento di grazia e dogma di legge, che
costituiscono l’identità dialettica della storia delle teologie e delle chiese
cristiane.
I,9 – Grazia e teologia politica
Il progressivo scemare dell’entusiasmo escatologico, sempre più evidente
a partire dall’inizio del II secolo, viene quindi colmato dall’affermazione
della chiesa cattolica come nuovo, escatologico popolo di Dio, chiamato a
diffondersi universalmente (cf. Luca e la sua decisione di affiancare al
Vangelo gli Atti), a darsi quindi strutture di potere gerarchico (si pensi allo
pseudopaolinismo delle Pastorali). A maggior ragione, dopo la svolta
costantiniana, che salda con il potere politico la nuova religione, questa
davvero conquista il mondo e la storia: la stessa pretesa imperialistica
romana finisce per essere annessa, pure se spiritualizzata e accordata con la
profezia israelitica del messianico, universale popolo di Dio. Il trasformarsi
della chiesa cattolica in religione universalmente trionfante coinciderà,
37
Donum libertatis
pertanto, con la sempre più sistematica istituzionalizzazione del carisma e la
sua traduzione in etica religiosa, favorite dalla precoce interpretazione dei
sacramenti come visibili veicoli di grazia, sicché lo Spirito di Dio, l’evento
salvifico verrano sempre più confessati come operanti soltanto all’interno
della struttura di mediazione della chiesa cattolica, che chiama alla fede
nella retta dottrina e all’ubbidienza alla prassi salvifica. La questione della
grazia, soprattutto in ambito occidentale, verrà quindi ad intrecciarsi
inseparabilmente con la dimensione teologicopolitica: non si trascuri,
d’altra parte, come nell’Antico Testamento prospettiva teologicopolitica (la
storia di Israele come regno storicopolitico) e prospettiva morale
individuale (soprattutto nei profeti e nei Salmi) rappresentino due registri
intrecciati, pure se non coincidenti, al punto che la nozione di elezione tende
a modificarsi, interiorizzandosi, divenendo da economica categoria storico
politica a categoria spiritualeindividuale, sicché Dio, che ha eletto il popolo
di Israele, può, per alcuni testi e tradizioni (cf. gli scritti di Qumran e lo
stesso corpus giovanneo), eleggere un gruppo ristretto di eletti, i soli capaci
– per merito o per grazia – di rimanere fedeli alla chiamata di Dio.
Si pensi, poi, alla sistematica spiritualizzazione del messianismo
giudaico, destinato a determinare intimamente la dottrina della grazia
cristiana: il Messia è il nuovo re spirituale, la potenza liberatrice non più
della terra di Israele, ma della libertà e dell’interiorità delle coscienze, colui
nel quale si concentra la volontà d’elezione di Dio, la fondazione del popolo
trionfante. La giustificazione cristiana tratta, appunto, dell’esse in potestate,
dell’auctoritas che governa l’atto di fede, quindi del legittimo, regale
detentore dell’autentica libertà. Lo stesso termine filosofico greco designante
il libero arbitrio, toV aujtexouvsion (ben presto prepotentemente
acclimatatosi nell’ambito teologico cristiano), presuppone che l’identità
della libertà riposi sulla sua capacità di autogoverno, di dominio e di
disponibilità di sé. L’avere pieno potere su di sé, l’essere potente signore di
se stesso, l’ideale “imperiale” dell’autarchia, del possesso, della
conoscenza, della cultura di sé, dell’amor sui (da cui dedurre la stessa
possibilità di amare il prossimo), che a partire dalla fine del II secolo
domineranno la teologia della grazia cattolica, sono, in profondità,
dimensioni teologicopolitiche. D’altra parte, lo stesso Agostino maturo
penserà la grazia come carisma, potere irresistibile dell’Imperator divino,
capace persino di santa violenza per costituire, salvare e governare il suo
popolo. I – La relazione inafferrabile
Dunque, la relazione tra grazia e volontà umana è questione di potere
(più o meno spiritualizzato), di controversia di libertà, autorità e carisma;
quindi causa di assalto, di assedio, di violenza, di espropriazione, di guerra,
di pericolo di morte (e/o di vita eterna) che si scontra con causa di difesa, di
fortificazione, di assicurazione di incolumità, di pace e, nel frattempo,
persino di ipotesi di compromesso e di tregua. Per questo, in ambito
cristiano, l’imperativo morale e filosofico della cura sui (ejpimevleia
eJautou=) viene sottoposto non soltanto ad un recupero asceticoteologico
(come ha dimostrato Foucault), ma ad una singolarissima sublimazione, sì
che l’ermeneutica del soggetto (con tutte le pratiche di cura, costituzione,
tecnologia del sé, all’interno delle quali rientra la Legge stessa) è
inseparabile, in ambito cristiano, da una vera e propria decostruzione del
soggetto, il quale si riprende soltanto abbandonandosi, riconoscendosi
esposto all’evento indisponibile, inappropriabile, centrifugo, quindi
spossessante della grazia. E ciononostante, lo stesso amor Dei apparirà
inseparabile dall’affermazione (più o meno innocente) dell’amor sui (di cui
l’amore del prossimo dovrebbe essere paradossale figura), attraverso
oscillazioni storiche nelle quali il possesso di sé viene più o meno affermato
o negato, testimoniando l’intima, irriducibile tensione tra desiderio di
dominio – di accentramento sul sé – e radicale (e sempre ambiguo, perché
almeno potenzialmente curvato ancora sul sé, come Nietzsche ha
definitivamente indovinato) desiderio di alterità, di assoggettamento
all’altro, talvolta spinto sino all’iperbole dell’alienazione. Nell’ambito di
questa conflitto di poteri (che operano tra la polarità della tecnica, più o
meno efficace e autoreferenziale, dell’affermazione del sé e quella, più o
meno gratuita, distruttiva e/o ricreativa, della soggezione all’Altro), non è un
caso allora che, tramite la sistematica spiritualizzazione della teologia
politica giudaica, la lotta tra grazia e peccato per la conquista dell’uomo
sarà restituita come vera e propria guerra – intollerante e spietata! – tra
potenze, militiae e civitates.
I,10 – Questioni di teodicea
Non può non ricorrere con prepotenza, all’interno delle tradizioni
religiose giudaiche e cristiane (da Giobbe e dal Qohelet alle tradizioni
apocalittiche, da Qumran a Paolo e Giovanni, dagli apologisti ad Ireneo e
Origene, dai marcioniti ad Agostino), la questione della teodicea,
dell’apologia della giustizia di un Dio buono e onnipotente, che pure dà
39
Donum libertatis
origine ad una creazione che si rivela imperfetta, all’interno della quale
emerge scandalosa l’evidenza del male, di cui deve farsi carico la libertà
della creatura, ormai indissolubilmente legata all’intimo dinamismo della
volontà assoluta. Se Dio è il vasaio onnipotente che plasma gli uomini e le
loro libertà come creta (cf. Isaia 29,16; 45,911; 64,7; Geremia 18,16;
Siracide 33,1013; Rom 9,2021), perché mai vasi creati si rivelano
imperfetti, capaci di peccato? E, di nuovo, se Dio vuole creare vasi liberi e
capaci anche di male, per provarli e giudicarli (argomentazione teologica
cui precocemente si salda la stessa argomentazione filosofica pagana, in
particolare stoica, della presenza del male nel mondo provvidenzialmente
voluta e ordinata da Dio per provare e temprare la volontà dell’uomo
virtuoso), la sua onnipotenza di creatore buono non ne risulta tragicamente
limitata, se non negata? Insomma, unde malum? La personalizzazione
dell’Assoluto, Volontà amorevole, provvidente, onnipotente, non può più
accontentarsi di interpretare, con il pensiero grecoromano, il male come
elemento naturale (più o meno tragicamente patito) nel divino ordine
cosmico.
Certo, rispetto alle stesse terribili obiezioni teologiche di un Epicuro (si
pensi alla radicalità dell’alternativa del Dio onnisciente come invidioso o
impotente, che emerge dalla constatazione della presenza del dolore e del
male nel mondo: ci torneremo in riferimento a Lattanzio), di un Plutarco (si
pensi all’Adversus Stoicos e alla sua polemica contro l’onnipotente
provvidenza di Giove; o al De Iside et Osiride e alla sua postulazione
dualistica dell’esistenza di un principio divino negativo, che solo spiega la
presenza del male e dell’imperfezione nel mondo), di un Cicerone (si pensi al
De natura deorum o allo stesso De fato) contro la nozione di un Dio
onnisciente, onnipotente e provvidente, chiaramente, il drammatico
accrescersi dello scandalo del male all’interno della confessione giudaico
cristiana di un Dio creatore e misericordioso redentore non potrà non
originare soluzioni razionalmente paradossali (e tanto più paradossali
quanto meno “eticamente” centrate sulla responsabilità della libertà
umana), acuendo il senso di enigma doloroso dell’esistenza umana, nel
momento stesso in cui annuncia la fede e la responsabilità del Dono come
unica soluzione di quest’enigma.
I,11 – Grazia e mistica I – La relazione inafferrabile
Con l’attenuarsi della tensione escatologica, dell’urgenza e del rischio di
testimoniare la fede (eppure si pensi già al misticismo martiriale di Ignazio
di Antiochia e prima ancora al misticismo dell’unione spirituale tra Dio,
l’Unigenito e i suoi nel Vangelo di Giovanni), corrispondente alla
progressiva conversione del mondo, dell’impero e della cultura al
cristianesimo, un’altra questione è destinata ad emergere con sempre
maggiore forza – dal (dualistico!) misticismo dell’identità pneumatica nello
gnosticismo, all’ontologico, apocatastatico misticismo platonizzante di
Clemente e Origene, culminante nella grande tradizione mistica orientale, da
Gregorio di Nissa ed Evagrio allo PseudoDionigi e ad Isacco di Ninive, che
a questi si richiamano –: se il fedele diviene sempre meno soggetto
escatologico e martire, sempre più filosofo ellenizzato culturalmente
egemone e cittadino di questo mondo (anzi a partire dal IV secolo uomo pio
ligio alla religione pubblica), come esperire la propria appartenenza a Gesù
Messia, rivelatore paradossale di un’identità antropologica e spirituale
apocalitticamente irriducibile alla natura, al mondo, alla storia dei poteri
trionfanti? Come ripensare la dialettica cristologia (eminentemente paolina)
tra morte e resurrezione, differenza rispetto alla natura/al mondo/al peccato
e nuova identità graziata/spirituale, abbandono e rivivificazione della
vecchia creazione? L’opzione mistica (che non a caso si innesterà, ad un
certo momento, su quell’opzione monastica, che pure parrebbe
originariamente avversaria di qualsiasi compromesso con la cultura di
questo mondo), nel suo stesso essere sempre più filosoficamente nutrita, può
essere interpretata come fedeltà ambigua al kerygma originario,
escatologico e apocalitticamente orientato. Nell’atto mistico, sempre più
speculativo, la libertà della creatura al tempo stesso fugge dal mondo e
abbandona se stessa nell’esperienza fusionale con la grazia di Dio (sempre
più ontologicamente reinterpretata), comunque compiendo un dinamismo
naturale che spinge il soggetto a riappropriasi del suo fondo divino, a
riattingere la sua identità ontologica più profonda.
La dialettica tra 1) morte e 2) resurrezione diviene, pertanto, dialettica
tra 1) congedo da sé, abbandono all’esperienza radicalmente espropriante
dell’Altro e 2) ritrovamento e memoria della propria identità profonda
(sempre più pensata a partire dalla nozione platonica di anima e di
intelletto), che si rivela come Dio stesso che è il fondo trascendente del sé.
La sospensione della capacità di dominio dell’anima, la kenosi della libertà
nell’esperienza della tenebra della sua potenza si rovescia, quindi,
41
Donum libertatis
nell’innalzamento della creatura all’intimità spirituale e talvolta persino
ontologica con il Creatore, nell’esperienza di una potenza spirituale
assoluta, che pare introdurre il soggetto all’interno dello stesso eterno
divenire trinitario di Dio. Detto altrimenti: Paolo certo già propone una
mistica cristologia che radica, con il battesimo nello Spirito, l’identità
spirituale della nuova creatura in Cristo, il Messia morto/risorto datore di
vita, l’Immagine di Dio che opera la metamorfosi del suo corpo mistico; ma
mentre in Paolo questo misticismo era al tempo stesso escatologico e
carismatico, la nuova, ellenistica mistica cristologica tende sempre più a
deescatologizzare, quindi ad ontologizzare la relazione tra Capo e corpo,
Immagine e immagini.
In tal senso, la grazia sempre meno viene riconosciuta come dono
escatologico, come potenza straordinaria che restituisce alla libertà un
dinamismo naturalmente inaccessibile, e sempre più diviene una proprietà
della natura creata, per attivare la quale è sufficiente la decisione di sé per
sé, la memoria della propria dipendenza creaturale da Dio, che comunque
sorregge un processo spirituale/intellettuale di riconversione al principio,
capace di culminare nell’estasi e nell’enosi con l’Uno, ove la natura derivata
si ricongiunge con il suo assoluto fondamento naturale. E questo
naturalmente, malgrado la mediazione illuminante e insieme imperativa
della grazia! Ove la dimensione soprannaturale rivendicata dall’atto mistico
pare essere più l’indicazione dell’intimità ontologica e originaria con il
principio, che il riconoscimento dell’origine carismatica dell’unione. La
relazione di intimità, persino di identità spirituale tra uomo e Dio in Cristo
diviene, così, la memoria del radicamento ontologico della creatura nel
Creatore, quindi la presa di coscienza della propria libertà come detentrice
di una proprietà di natura originariamente, inalienabilmente graziata, che la
rivelazione di Cristo si limita a rivelare, ad indicare e non più a costituire
come inaudita novità escatologica (al contrario, la “mistica” teologia della
grazia dell’Agostino maturo rappresenterà una potentissima eccezione, con
il suo riattivare radicali tensioni apocalitticoescatologiche,
progressivamente attenuatesi nell’evoluzione del cattolicesimo patristico).
Da questo punto di vista, la persistente dottrina ecclesiastica della
mediazione carismatica sacramentale come grazia necessaria a ricostituire
l’integrità della natura e della libertà, che la rivelazione di Cristo indica
come ferite, se non del tutto perdute, rappresenta un costante, decisivo
contrappeso alla progressiva, sistematica reinterpretazione ontoteologica del
I – La relazione inafferrabile
kerygma, quindi alla stessa evoluzione platonizzante della storia della
mistica cristiana.
Comprehensio incomprehensibilis:
I,12 – la ragione del gratuito
Dinanzi a questo moltiplicarsi e complicarsi di prospettive, si è costretti
ad affinare e relativizzare, riconoscendola come irriducibilmente polimorfa,
la nozione di grazia, tenendo presente che ogni interpretazione della
rivelazione giudaicocristiana è confessata come dipendente dall’avvento di
un’economia di grazia. Con Bernanos – comunque nello scomporre con
assoluto rigore storico nelle sue componenti singolari, originali, persino
irriducibili la traiettoria del pensiero cristiano primitivo e patristico –,
dobbiamo arrenderci all’evidenza che tutto è grazia! Grazia è la creazione,
l’archetipo della donazione gratuita, quindi incondizionata, che caratterizza
la volontà di Dio nei confronti delle sue creature; grazia è la Legge mosaica,
impegnativo dono salvifico che Dio concede al popolo che ha eletto; grazia è
l’Evangelo, che libera universalmente gli uomini dal peccato, dilatando a
tutte le genti l’economia di salvezza. Analogamente, l’atto di fede, di
conversione, di pentimento, di invocazione di perdono, di preghiera, di lode,
di carità, di annuncio, di proselitismo, di esortazione al prossimo, di esegesi
della parola salvifica, di riflessione teologica, di profezia, di insegnamento
delle verità rivelate, lo spontaneo assenso interiore alla grazia, sono tutti atti
di libertà, che agisce sempre illuminata e stimolata dalla grazia, operante
attraverso i sacramenti che, precocemente, la vincente chiesa cattolica, come
le sette rapidamente marginalizzate e condannate come eretiche, confessano
come scaturigine di carisma salvifico.
Dunque, parrebbe impossibile specificare una dottrina patristica della
grazia e del libero arbitrio, proprio perché essa finisce per ricapitolare
l’intero kerigma e la totalità della riflessione storica che nei primi secoli
cristiani esso ha generata. Si limiterà quindi l’indagine alle trattazioni
patristiche del rapporto tra grazia e libero arbitrio come tensione tra due
forze, la cui cooperazione nel processo di giustificazione si presenta come
consapevolmente problematica, proprio in quanto relazione tra due potenze
egualmente libere, eppure asimmetriche. Ma, soprattutto, è la stessa natura
dell’intimo oggetto della nostra indagine – l’evento della grazia e la libertà
come evento, quindi non come mero potere naturale del soggetto – ad essere
assolutamente problematico: si potrebbe dire che l’evento del gratuito è
43
Donum libertatis
l’unico vero atto mistico, del quale non vi è mai reale comprensione, né
dottrina. Il gratuito e il libero, lo stesso amore cristiano che ne rappresenta
la sintesi paradossale, sono ciò che non è dovuto, ciò che non ha perché, ma
che si rivela senza alcuna ragione capace di determinarlo: il Dono è senza
ragione, non si sa perché si dà. E questo non sul piano di una mistica
astratta, ma sul piano di quella che potremmo definire una mistica storico
esistenziale. L’inadeguatezza di tutte le dottrine protocristiane e patristiche
relative alla grazia e al libero arbitrio rivela, insomma, l’intima, inesauribile
verità del loro oggetto. C II
APITOLO
G N T
AZIA E LIBERTÀ NEL UOVO ESTAMENTO
Esiste una coerente, univoca dottrina della giustificazione nel Nuovo
Testamento? La risposta non può che essere negativa, in quanto in esso,
com’è noto, coesistono diverse prospettive ed esigenze teologiche, mentre è
ovviamente assente l’esigenza della loro reciproca composizione, essendo il
Nuovo Testamento cattolico una più tarda raccolta (databile, in una sua
forma per altro ancora parziale, non prima dell’avanzata seconda metà del
II secolo) selettiva di scritti (databili tra il sesto decennio del I secolo e il
secondo decennio del II secolo) ideologicamente almeno in parte compatibili,
ma niente affatto coincidenti. Trattiamo, quindi, in un capitolo a sé i testi
neotestamentari – appunto di diversa, talvolta divergente prospettiva
teologica – soltanto per comodità di esposizione, ribadendo che essi non
presentano affatto un profilo ideologico unitario (ad esempio, condivido la
tesi che la cristologia del Vangelo di Giovanni, che afferma l’identità divina
di Cristo come Figlio Unigenito, Logos preesistente e creatore, operi una
rivoluzione teologica radicalmente innovativa rispetto alle prospettive dei
sinottici e dello stesso Paolo).
Si impone, comunque, una precisazione: non soltanto nel Nuovo
Testamento troviamo gli scritti cristiani più antichi (le lettere di Paolo), ma
anche gli scritti (i vangeli sinottici, almeno a livello di documentazione – si
pensi alla questione dell’assolutamente problematica identificazione degli
ipsissima verba Jesu –, se non a quello di prospettiva ideologica) che ci
consentano, assai meglio di altri (ad esempio dei vangeli apocrifi, compreso
quello di Tommaso), di avvicinarci al Gesù storico (al di sotto del Cristo
della fede, che pure da quello è stato storicamente generato e nutrito), per
quanto comunque ipoteticamente e del tutto frammentariamente. Ma sia
chiaro che la differenza qui indicata tra gli scritti canonici e gli scritti
apocrifi non è affatto di tipo qualitativo (tanto meno teologicamente fondato,
ad esempio con l’argomento confessionale, storicamente nullo,
dell’ispirazione divina), quanto unicamente di tipo quantitativo: ad esempio,
i vangeli sinottici ci consegnano una massa imponente di attendibili
materiali storici (risalenti al Gesù storico), la quale invece risulta già più
ridotta nel Vangelo di Giovanni e ancora minore nel Vangelo di Tommaso,
infine ormai evanescente (e comunque con tutta evidenza dipendente dagli
stessi testi canonici) nei vangeli apocrifi ancora più tardi, quali gli gnostici
Apocrifo di Giovanni o Vangelo di Filippo. Ma, si badi: questa prospettiva si
sforza di non essere in alcun modo condizionata da prospettive o resistenze
confessionali, che possono più o meno consapevolmente essere operanti
anche a livello storicocritico. Ritengo, ad esempio, che il materiale
documentario relativo al Gesù storico, fornitoci dai sinottici, possa per
alcuni aspetti essere letto in maggiore continuità con alcune linee
interpretative giudeocristiane (“adozioniste” o comunque di “cristologia
bassa”, alcune delle quali ancora riaffioranti all’interno del corpus pseudo
clementino), piuttosto che con quelle giovannee (di cristologia “alta”).
Riguardo al tema di questo volume, insomma, ritengo si possa azzardare
(a partire soprattutto dai sinottici, che pure sono reinterpretazioni
ideologiche di materiali storici) di ipotizzare qualche frammento di risposta
relativamente all’idea di grazia di Gesù, al suo rapporto con la Legge, alla
sua idea di libertà e responsabilità individuale, di fede nell’escatologico
regno di Dio che viene come evento carismatico, alla sua interpretazione del
ProfetaMessia incaricato del suo annuncio. Ovviamente, né il tema
affrontato, né le competenze di chi scrive consentiranno, in proposito, di
andare più in profondità di qualche superficiale indicazione, che almeno si
spera possa essere non del tutto infondata.
II,1 – Povertà ontologica delle nozioni neotestamentarie di grazia e
libertà
Si noti che, significativamente, il termine cavriò è pochissimo attestato
nei Vangeli (cf. Lc 1,30; 2,40 e 52; 4,22; 6,32; Gv 1,14 e 1617), mentre è
assolutamente centrale soltanto in Paolo (il termine ricorre ben 109 volte, di
cui 24 soltanto in Rm), pur ricorrendo, oltre che nelle epistole
deuteropaoline, in altri testi di influenza paolina, dagli Atti degli apostoli
alla 1Pietro (oltre che in Ap 1,4 e 22,21). Addirittura, il termine cavrisma
non ricorre mai al di fuori delle lettere paoline o deuteropaoline (e in 1Pieto
4,10). Analogamente, il termine ejleuqeriva non ricorre mai nei Vangeli,
47
Donum libertatis
soltanto sei volte nell’epistole paoline e tre volte in quelle cattoliche;
l’aggettivo ejleuvqeroò è attestato una sola volta in Mt (17,26) e in Gv (8,33;
ma cf. l’intero contesto 8,3136), una decina di volte nell’epistolario paolino
(Rm 6,20; 7,3; 1Cor 7,2122; 9,1; 12,13; Gal 3,28; 4,2223; 26), due volte
nelle lettere deuteropaoline (Ef 6,8; Col 3,11); il termine eJkouvsioò ricorre
unicamente in Filem 14 e, in forma avverbiale, in Ebrei 10,16 e 1Pietro 5,2;
addirittura, il termine greco che designa l’autodeterminarsi del libero
arbitrio, toV aujtexouvsion (cf. ad es. Plotino, Enneadi VI,8,27), non ricorre
mai nel Nuovo Testamento (ma per il termine ejxousiva e composti, cf. Gv
1,12; 17,2; 1Cor 6,12; 7,4 e soprattutto 7,37; 8,9); tanto meno sono presenti
le circonlocuzioni tecniche in ambito filosofico toV ejf*hJmi=n o toV
ajf*eJautou=; così come del tutto assente risulta il termine proaivresiò.
Come mai i testi riuniti nel Nuovo Testamento sembrano risultare
persino teologicamente poco interessati e, comunque, tecnicamente non
rigorosi in riferimento al tema del rapporto tra grazia e libero arbitrio? In
primo luogo, l’originario kerygma di Gesù si presenta come messaggio di
conversione religiosa e morale, che si rivolge ad un soggetto semiticamente
concepito come carne, sangue, mano, volto, occhio, cuore, il cui dinamismo
salvifico è tutto affidato – più che alla docile volontà che pure egli è capace
di attirare, accendere, attivare – alla carismatica azione del Figlio di Dio, la
cui potenza è una forza quasi materiale, magnetica, che converte l’uomo
tutt’intero, accende la sua fede appassionata, non ancora consapevolmente
interpretata come adesione ponderata della sua libertà interiore. Le
categorie di grazia e di libertà appaiono, in proposito, anacronistiche: la
definizione più compiuta del rapporto tra grazia e libero arbitrio presuppone
infatti un grado estremamente raffinato di astrazione e di riflessione
sull’identità interiore del soggetto, presente soltanto potenzialmente – con la
decisiva, seppure parziale eccezione dell’epistolario paolino – negli scritti
neotestamentari. Analogamente, l’escatologico annuncio di salvezza in
Cristo poco si prestava all’elucubrazione teologica, che invece tende ad
approfondirsi proprio quando la tensione escatologica comincia a scemare:
nel kairovò, in cui l’avvento del regno di Dio è sentito precipitare e la grazia
è avvertita come salvifica potenza incombente, indisponibile ed eversiva (cf.
Rom 3,2426), difficilmente essa può prestarsi ad essere l’oggetto di analisi
razionali, filosoficamente nutrite, relative ai rapporti di forza tra le due
libertà in gioco. Nel kairovò, in realtà, non c’è più tempo, si esperisce la fine
del tempo, sicché una riflessione sulla dialettica tra grazia e libertà è tolta,
48 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
prima ancora di nascere. Paradossalmente, questo vale persino per Paolo,
che, pure facendo dell’evento straordinario della grazia escatologica
universalmente rivelata in Cristo il centro del suo annuncio, non ne presenta
mai una riflessione davvero sistematica, coerente e articolata, sì che la
stessa libertà dell’uomo si manifesta soltanto nel momento in cui la grazia la
costituisce (lo Spirito rende liberi), eclissandola carismaticamente,
nell’entusiasmo ultimo della fede (è lo Spirito che agisce in noi).
Soprattutto, negli scritti neotestamentari, con l’eccezione comunque
relativa del Vangelo di Giovanni, manca non soltanto un’ontoteologia, cioè
una dottrina di Dio come Essere assoluto e della realtà creata come essere
partecipato, ma persino un’articolata speculazione cosmologica sulla
creazione e sulla natura delle cose (oltre al Prologo giovanneo, le uniche
altre eccezione davvero considerevoli sono quelle dell’Inno cristologico della
deuteropaolina Epistola ai Colossesi e di 2Pietro 3,57, che comunque
prelude all’affermazione dell’imminente fine del mondo; cf., inoltre, Epistola
agli Ebrei, 1,13, ove il Figlio, «impronta dell’ipostasi del Padre», è
proclamato creatore del mondo e sostegno del tutto). Parrebbe essere una
significativa eccezione un enigmatico versetto paolino: «Per noi c’è un solo
Dio, il Padre, dal quale tutto (ejx o£ taV pavnta) e noi a lui (hJmei=ò eijò
aujtovn); e un solo Signore Gesù Cristo, attraverso il quale tutto (di*o£ taV
pavnta) e noi attraverso di lui (hJmei=ò di*aujtou=)» (1Cor 8,6).
L’interpretazione dominante è quella che attribuisce al Padre la decisione e
al Figlio quella dell’operazione dell’identico atto creativo, sicché tutto
deriva attraverso il Figlio e noi stessi siamo costituiti attraverso il Figlio; si
tratterebbe, quindi, di uno dei pochissimi versetti paolini che attesterebbe la
preesistenza creatrice e divina del Figlio. Ma si badi che qui Paolo definisce
Cristo soltanto Signore, differenziandolo nettamente dal Padre, unico Dio;
inoltre, il versetto si spiega molto meglio attribuendo al Padre l’intero atto
creativo (tutto deriva da lui e noi torniamo a lui), riferendo invece al Figlio
(nel quale il tutto della creazione è finalizzato, nel quale tutto si compie)
l’atto redentivo, capace di redimere tutto (cf. Rom 8,1923: tutta la creazione
geme e attende la redenzione escatologica) e in particolare quel “noi”, che
contraddistingue coloro che hanno fede in lui. Insomma, il centro
dell’interesse cristologico paolino è, anche in questo caso, esclusivamente
soteriologico, niente affatto cosmologico, niente affatto ontoteologico.
In effetti, agli scritti neotestamentari urge annunciare l’apocalittico
regno di Dio che viene, mentre passa la scena di questo mondo (1Cor 7,31):
49
Donum libertatis
ricordo che il termine fuvsiò ricorre in tutto il Nuovo Testamento assai
raramente (14 volte), mai nei Vangeli e quasi esclusivamente (11 volte) nel
corpus paolino, ove comunque – con l’eccezione di Efesini 2,3: «eravamo
per natura figli dell’ira» – ha quasi sempre accezione generica di
nascita/razza e mai significato ontologico o cosmologico. Così, nel Nuovo
Testamento mai ricorre la nozione di oujsiva, se non in Luca 15,12, ma con il
significato di ricchezza peccaminosamente rivendicata dal figliol prodigo; il
termine uJpovstasiò, invece, ha due sole ricorrenze davvero significative,
entrambe ancora nell’Epistola agli Ebrei: una cristologica (in 1,3), destinata
ad una straordinaria fortuna storica; l’altra – ci torneremo subito – relativa
alla nozione di fede (cf. 11,1). Che ricaduta ha tutto questo dal punto di vista
della nozione di libero arbitrio?
Nel tentativo di articolare una risposta plausibile, serviamoci di alcune
definizioni aristoteliche, qui meramente accumulate, per avere un termine
utile di paragone: «Il volontario è quello il cui principio sta in colui stesso
che agisce, conoscendo le circostanze particolari in cui si attua l’azione…
Sembra che la scelta (proaivresiò) riguardi solo le cose che dipendano da
noi… E questa non sarà forse quel volontario che è preceduto da una
deliberazione? Infatti la scelta è accompagnata da ragione, cioè da
pensiero… La scelta sarà un desiderio deliberato di cose che dipendono da
noi» (Etica Nicomachea III,1,1111a; 2,1111b1112a; 3,113a). Sicché, «la
scelta è intelletto che desidera o desiderio che ragiona, e tale principio è
l’uomo» (VI,2,1139b). «Ogni intelletto sceglie ciò che per lui è la cosa
migliore e l’uomo virtuoso ubbedisce al suo intelletto» (IX,8,1169a).
Insomma, l’etica greca rimane fondata sulla capacità di determinare la
propria azione a partire da una deliberazione, quindi da un desiderio
razionale. E’ quindi la stessa natura razionale dell’uomo, il suo intelletto, ad
avere la proprietà di assicurare una deliberazione, quindi una scelta e un
desiderio eticamente adeguati, ovvero la capacità di virtù (ajrethV), la
potenza che l’uomo ha di divenire se stesso, di attuare la sua stessa
razionalità. Da questo punto di vista, «l’uomo buono deve essere egoista»
(IX,8,1169a): il che non vuol dire affatto, come precisa Aristotele, che egli
non debba preoccuparsi degli altri, ma al contrario che soltanto amando
autenticamente se stesso, ovvero la parte migliore di se stesso che è la
propria ragione, può essere davvero di aiuto agli altri. La virtù è, quindi,
adeguare ed accordare la propria volontà alla propria natura razionale, da
realizzare compiutamente. Può essere interessante, in proposito, chiamare in
50 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
causa un noto passo di Epitteto, che specifica l’irriducibilità della
prospettiva ellenistica rispetto a quella neotestamentaria: «Tra le cose che
esistono, le une dipendono da noi (taV ejf*hJmi=n), le altre non dipendono
da noi (taV oujk ejf*hJmi=n). Dipendono da noi: giudizio di valore
(uJpovlhyiò), impulso ad agire (oJrmhv), desiderio (ojvrexiò), avversione e,
in una parola, tutti quelli che sono nostri atti (ejvrga). Non dipendono da noi
il corpo, la nostra proprietà (hJ kth=siò), le opinioni altrui (dovxai), le
cariche (ajrcaiv) e in una parola tutti quelli che non sono nostri atti. Le cose
che dipendono da noi sono per natura libere (ejleuvqera), senza
impedimenti, senza ostacoli. Le cose che non dipendono da noi sono in uno
stato di impotenza, di schiavitù, di impedimento e ci sono estranee… Se pensi
che sia tuo solo quel che è tuo e che ciò che ti è estraneo – come in effetti è –
ti sia estraneo, nessuno potrà più ostacolarti, non muoverai più rimproveri a
nessuno, non accuserai più nessuno, non farai più nulla contro la tua
volontà, nessuno ti danneggerà, non avrai più nemici, perché non subirai più
alcun danno» (Epitteto, Manuale 1,13). Risulta evidente, al di sotto di una
limitata e meramente superficiale assonanza, la radicale antitesi che questo
passo rappresenta rispetto alla prospettiva evangelica: l’affermazione
dell’autonomia, della potenza del sé, si traduce in indifferenza, anzi
cancellazione di ciò che è “altro”; la stessa tolleranza e persino il rifiuto
dell’inimicizia non sono affermati a partire dall’assunzione dell’altro
nell’intimità più profonda dell’io, ma al contrario a partire dalla
nullificazione della relazione con l’altro. Il sé assolutizzato, cioè identificato
come signore di sé, indipendentemente da qualsiasi relazione di dipendenza,
di indigenza, di dono, di riconoscimento autentico dell’altro, finisce però per
essere un sé autistico, morto (non a caso privo di corpo, di carne,
abbandonati ad un’esteriorità alienata dal sé!), irrigidito nella sua
autonomia e potenza, che ha perduto, con la sua fragilità, lo stupore del
vivente per il vivente.
Al contrario, le nozioni neotestamentarie di grazia, di dono, di perdono,
come quelle di fede (cf. 2Cor 5,7; Ebrei 11,1), di libertà, di speranza (cf.
Rom 8,2425: si spera soltanto ciò che non si vede, che è indisponibile) e di
amore che quelle dischiudono, sono al tempo stesso ontologicamente deboli
(non si riferiscono ad enti dati prevedibili e conoscibili, non dipendono dal
sé e dalla sua ordinata proprietà) ed escatologicamente “innaturali” (dicono
eventi storici imprevedibili e indisponibili, la visitazione ultima e critica
dell’altro, che soggioga). Esse, cioè, espongono il desiderio dell’uomo al
51
Donum libertatis
rischio dell’evento, all’alterazione irriducibile dell’avvento del prossimo
(l’altro che mi opprime, l’altro che sempre arriva in me, spossessandomi);
esse non presuppongono alcuna proprietà ontologica dell’uomo, non
concepiscono la salvezza a partire dallo sforzo per il compimento della
propria natura (il divenire come traduzione della potenza nell’atto, come
naturale identificarsi con sé), né chiamano mai in causa la dignità della
creatura di Dio come originaria, piena abilitazione all’esercizio dell’atto
virtuoso. Come proclamava duramente Lutero contro Aristotele nella XXV
tesi della Disputa di Heidelberg, la natura non può mai amare ciò che è altro
da sé (che cerca soltanto per possedere e per compiere se stessa), il che è
proprio soltanto di Dio, che crea dal nulla, gratuitamente l’oggetto sempre
nuovo e indebito del suo amore. O come affermerà Pascal, in una sua
celebre Pensée, la carità è sovrannaturale, non appartiene – cioè –
all’ordine ontologico della natura, sensibile o razionale che sia, ma soltanto
all’ordine carismatico della grazia, del miracolo.
L’evento della donazione, come atto “ricreativo” di Dio e proprio per
questo assolutamente gratuito e incondizionato, dilata la creatura aldilà
della sua stessa natura; la rivelazione, pertanto, svela qualcosa di
assolutamente nuovo e imprevedibile, che sfugge del tutto alla presa
ontologica dell’identità, proprio consegnando, esponendo ad un’alterità
sempre a sé irriducibile. Dello sguardo inquietante e misericordioso
dell’Altro non ci si libera e non ci si appropria: per dirla con Levinas,
soltanto il biblico eccomi (l’accusativo che dice il soggetto come risposta e
soggezione all’altro; cf. la chiamata di Samuele in 1Samuele 3,119) – nel
quale il soggetto si rivela come oggetto di accusa e di perdono, quindi di
chiamata e di elezione, insomma di esposizione e di dono – dice la verità
profonda della libertà della creatura, che si costituisce soltanto (come non
chiamare in causa Kierkegaard e, con lui, Derrida) nel segreto paradossale
della singolarità, che è la dipendenza assoluta rispetto al Dono che al tempo
stesso la espropria (sino all’incomprensibile sacrificio della propria stessa
vita: il sacrificio “contronatura” di Abramo chiamato a sacrificare suo
figlio Isacco, cioè la sua più intima identità), quindi soltanto nella
confessione che l’intera propria esistenza, riassunta nel peccato che la
consuma, è indebitamente tolta nella grazia dell’Altro che si rivela.
Tornando al kerygma protocristiano, nell’annuncio escatologico del
regno che viene già è detta la liberante esposizione all’infinita intimità dello
sguardo di Dio: «Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta,
52 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto (oJ
blevpwn ejn tw=/ kruptw=/), ti ricompenserà» (Mt 6,6; cf. 6,1618). La
libertà dall’esteriorità della prestazione religiosa ed etica è assoggettamento
inesauribile all’interiorità infinita dello sguardo di Dio, che – nel chiamare
ad essere figlio – impone un compito paradossale, al tempo stesso
inassumibile e vincolante: il segreto inaccessibile, nel quale il soggetto si
ritira, è soggezione assoluta all’Altro, il suo atto è preghiera incerta e cieca
(segreta, appunto!), invocazione arrischiata e gratuita (escatologica!),
perché l’Altro avvenga, attesa di una risposta indisponibile, proprio per
questo esperienza di assoluta libertà, che è autentica soltanto in quanto è
libertà non dall’altro, ma dal chiuso e potente possesso di sé, paradossale
infinita responsabilità nella intrascendibile minorità. La libertà cristiana,
come vedremo in Paolo, non è affatto la grecoromana capacità di attingere
la propria forma razionale, di realizzare circolarmente l’identità del sé, di
appropriarsi della propria natura (sia essa quella platonica dell’identità
divina dell’anima immortale, di cui ci si riappropria tramite l’anamnesi
razionalmente guidata; sia essa quella ellenistica dell’identità razionale
dell’anima, capace di divenire simile a Dio, nel dominio pratico di sé e nella
liberante conoscenza della vanità delle passioni). Al contrario, la libertà che,
tremite l’irruzione del Dono, costituisce il soggetto cristiano è una
paradossale scoperta dell’infinito, dell’indominabile, del gratuito, del
sempre eccedente che avviene nella storia del mondo e nella stessa
interiorità della coscienza, squilibrandoli ed aprendoli ad altro. La libertà
cristiana è attesa responsabile e grata dell’inesauribilità sempre avenire del
Dono. Cosicché, se il Nuovo Testamento pare presupporre una natura
buona, perché creata da Dio, che fa piovere su buoni e cattivi (cf. Matteo
5,4348), è per forzare la natura oltre se stessa, per dischiuderle
un’eccedenza assolutamente insospettata: l’essere tutti figli, l’essere tutti
amati, l’essere tutti destinatari, “soggetti” e proprio per questo capaci di atti
gratuiti, infondati, paradossali (l’amore del nemico e del malvagio come
amore innaturale, come amore da nulla, gratuito e infondato, del nulla, del
vuoto di senso, di bene, di essere). Si pensi alle frequenti formule gesuane:
anche i pagani lo fanno, ma voi…; oppure, dal punto di vista della tradizione
religiosa ed etica giudaica, è scritto, ma io vi dico…; la libertà della fede
cristiana è sempre sollecitata ad un eccesso, ad una violazione del confine
della natura e della norma – siano esse razziali, siano esse religiose –, nella
53
Donum libertatis
direzione dell’assunzione di una perfezione ulteriore, anarchica, nuova,
possibile soltanto in quanto rivelata dalla gratuita misericordia di Dio.
Proprio perché chiamato dal Figlio ad una filialità assolutamente nuova
e liberante, l’identità del fedele “neotestamentario” riproduce in sé il
paradossale, folle movimento kenotico di Gesù Messia: si è figli autentici
soltanto se disposti a prendere la croce, a perdersi, a rinunciare a qualsiasi
identità o luogo o proprietà (il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo:
cf. Matteo 8,20). Ci si ritrova, cioè, soltanto non realizzando se stessi: come
il Servo sofferente del DeuteroIsaia (cf. Isaia 52,1353,12), così decisivo per
la stessa autocomprensione di Gesù, il figlio del Padre è colui che è disposto
a non avere forma, né bellezza, a venire sfigurato nel proprio stesso volto e
nella propria natura, a patire maledizione, insulto, martirio, morte (cf.
Filippesi 2,511; 2Cor 8,9), ove la paradossale estetica del brutto, cui
Auerbach e Taubes hanno dedicato pagine profonde, dice l’innaturalità,
l’alterante disarmonia, persino la sgraziata nullità dell’esperienza di libertà
(la paradossale identità cristiana) cui la grazia chiama. Da questo punto di
vista, diviene comprensibile la profonda restituzione bultmanniana
dell’escatologia neotestamentaria come annuncio di grazia, niente affatto
interpretabile come vacuo residuo demitologizzato, ma come affermazione
della dimensione autenticamente originaria della parola – in Gv divenuta
Logos, Verbo personalmente divinizzato – che irrompe nel mondo, che svuota
di senso la sua realtà e che salva dischiudendo alla trascendenza del Dono.
La fede – che, come sottolinea Bultmann in riferimento a Paolo, non è
mai meccanicamente interpretata come oggetto magicamente prodotto dallo
Spirito, ma sempre come responsabile, radicale decisione esistenziale che si
apre alla grazia di Dio – è l’unico atto che costituisce la libertà, dal quale la
libertà dipende radicalmente nel suo essere assoluta esposizione all’evento
espropriante dell’Altro. La libertà della fede, infatti, non è proaivresiò,
desiderio razionalmente fondato in relazione ad un fine deliberato, bensì la
fede è donata («A voi è stata concessa la grazia (ejcarivsqh) non soltanto di
credere (pisteuvein) in Cristo, ma anche di soffrire per lui»: Filippesi 1,29),
dunque un atto che presuppone una costituiva passività originaria, una
fiduciosa rinuncia della capacità di presa del soggetto sull’evento. La libertà
che crede, quindi, è necessariamente una libertà condizionata, graziata,
costituita dalla libertà dell’Altro cui si affida, si abbandona.
Paradossalmente, quindi, il Nuovo Testamento è davvero un testo, forse il
testo capitale per la storia della libertà occidentale: proprio assoggettando
54 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
all’espropriazione infinita della fede e dell’amore, il kerygma chiama
all’interiorità cosciente del proprio assenso, alla decisione e all’esercizio
infinito, inesauribile della responsabilità (cf., ad es., Mt 7,21 e 24,27; Lc
6,4649), che svincola la libertà da qualsiasi condizionamento e
appagamento dato, naturale, esteriore, razziale, rituale, persino religioso. In
tal senso, la fede non riposa affatto su una struttura ontologica che la
garantisca e la verifichi: «La fede è sostanza delle cose che si sperano
(ejlpizomevnwn uJpovstasiò) e prova di quelle che non si vedono
(pragmavtwn ejvlegcoò ouj blepomevnwn)» (Ebrei 11,1). La sostanza della
fede sta nel non essere ancora della speranza, nella sporgenza escatologica
verso un eccesso che libera e fonda, anzi rifonda inesauribilmente,
infinitamente la libertà del soggetto, assoggettato all’emoraggia del Dono,
dell’ajgavph. L’unico essere cristiano è quello dell’eucarestia, del dono
ultimo di sé, nell’esposizione infinita all’evento che viene: «Ogni volta infatti
che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la
morte del Signore finché egli venga» (1Cor 11,26).
II,2 – I Vangeli sinottici: attività e passività della fede al cospetto del
Dono escatologico
I sinottici, nel loro mediare e ristrutturare testimonianze provenienti da
diverse tradizioni e comunità di seguaci, restituiscono il messaggio di Gesù,
certo carismaticamente interpretato, comunque come nuova Legge spirituale,
che chiama l’uomo all’esercizio di una radicale, paradossale libertà. Gesù, il
Profeta messo a morte da Israele, è confessato come il Messia, il Figlio di
Dio sul quale è disceso lo Spirito Santo, inaugurando l’età escatologica. La
proclamazione dell’irruzione del regno di Dio e l’entusiasmo liberante che
egli accende si traducono in un messaggio di riscatto degli ultimi, degli
emarginati, dei disperati, comunque in un invito al perdono reciproco tra i
fratelli. La fede nel Messia si concretizza, così, nella messa in pratica dei
comandamenti divini dell’amore di Dio e del prossimo, nella sequela
radicale del Figlio di Dio – spinta sino al rifiuto di qualsiasi ricchezza,
possesso, famiglia e residenza –, modello perfetto di uomo gradito al Padre,
rivelatore di sapienza e persino maestro della Legge. La stessa passione di
Gesù, pure centrale nella strategia dell’intero evangelo, è ancora
interpretata a partire dalla morte ingiusta del Giusto di Dio misconosciuto
ed ucciso da Israele, come già nel caso di molti profeti; fa eccezione il
55
Donum libertatis
racconto dell’ultima cena (cf. Mc 14,2225; Mt 26,2629; Lc 22,1520), nel
quale affiora l’interpretazione (cf. 1Cor 11,2325 e Gv) – probabilmente già
gesuana – della morte di Gesù come sacrificio di remissione dei peccati,
quindi come decisivo evento salvificoescatologico (assai significativa, in tal
senso, l’interpretazione paolina del battesimo come incorporazione nel
Cristo morto e risorto: cf. Rom 6,311), che nega qualsiasi altro codice
vigente di giustificazione.
Proviamo a riferire ai sinottici quanto abbiamo sopra evidenziato in
relazione all’intero Nuovo Testamento: l’assenza di una riflessione
neotestamentaria sulla natura della libertà, cui comunque corrisponde la
sistematica postulazione di una fede caritatevole, che chiama l’uomo
all’esercizio incondizionato della libertà da qualsiasi vincolo (di peccato,
impurità, minorità). Possiamo risolvere quest’apparente contraddizione
affermando che la nozione neotestamentaria di fede (pivstiò), di credere
(pisteuvein), genera la nozione di libertà che implicitamente presuppone. Ma
questa presupposta, eppure liberata libertà neotestamentaria è proprio il
libero arbitrio, dotato di potere, di autonomia di decisione? O non, piuttosto,
un essere esposti e abbandonati all’evento del dono di Dio, che in Gesù
irrompe nel mondo? Se, infatti, consideriamo il termine toV aujtexouvsion,
che a partire dal II secolo designerà la libertà come potere proprio, come
atto di autonomia e capacità di autodeterminazione, sarebbe assai difficile
rintracciare qualcosa di più remoto rispetto a quella pur implicita nozione di
libertà che parrebbe presupposta nel keryma sinottico. Anzi, l’atto di fede nel
regno di Dio che viene – atto che ogni creatura è chiamata da Gesù Messia
ad esercitare, divenendo così libera dal peccato, dalla malattia e dalla morte
– pare “capacità” esclusiva di chi è incapace di qualsiasi potere e di
qualsiasi pretesa di autonomia, dell’escluso da qualsiasi proprietà, dignità e
diritto, al punto che l’autentica libertà pare essere privilegio paradossale di
chi non ne ha alcuna nell’orizzonte religioso, sociopolitico, etico del
giudaismo all’interno del quale Gesù opera.
Sembra davvero capace di fede soltanto colui che proprio la Legge
condanna come impuro, escluso, reietto: il lebbroso (cf., in riferimento a
Levitico 13, Mc 3,16; Mt 8,14; Lc 5,1216; 6,611); il pagano (cf. Mt 8,5
13) o il samaritano (cf. Mt 8,513; Mc 8,2430; Lc 10,2937; 13,2230;
17,1119); l’indemoniato (cf. Mc 5,120; 9,1429), colui che è moralmente
indegno, punito da Dio e per questo socialmente emarginato, dunque la
prostituta (cf. Mt 21,3132; Lc 7,3650); il pubblicano (cf. Mt 21,3132; Lc
56 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
18,914; Zaccheo in Lc 19,110); l’handicappato (cf. Mc 2,112; 10,4652;
Mt 9,18; Lc 4,24; 7,3650); il povero (cf., ad esempio, Lc 14,1214);
qualsiasi peccatore (cf. Mc 2,1517; Mt 9,1013; Lc 19,19); persino il
bambino, che nella società antica neanche poteva essere considerato un
soggetto dotato di volontà e di responsabilità, ma che al contrario viene
additato, per la sua stessa disarmata e disarmante minorità, come cittadino
esemplare del regno dei cieli (cf. Mc 10,1316; Mt 19,1315; Lc 9,4648;
18,1517).
Il Figlio dell’Uomo, il Messia escatologico che opera grazie allo Spirito
(l’impersonale potenza operativa, taumaturgica, santificante di Dio),
ricevuto in pienezza al momento del battesimo (cf. Mc 1,911), è il liberatore
di coloro che sono prigionieri di una condizione di alienazione religiosa ed
esistenziale, il cui nudo atto di fede nella salvezza che Gesù “incorpora”
rimane l’unica, estrema, eppure nuova, inattesa speranza di riconoscimento
della propria umanità. La fede nella misericordia di Dio – accesa
dall’annuncio e dall’apparizione in Gesù, il Figlio prediletto che rivela Dio
come Padre, che rimette i debiti di coloro che non hanno più alcuna dignità,
alcuna proprietà, alcun merito (cf. la preghiera di Gesù in Lc 11,24; Matteo
6,913; e le beatitudini in Matteo 5,312, che già spiritualizzano quelle più
radicalmente sociali di Luca 6,2023, che esaltano i poveri, coloro che
hanno fame di cibo e che piangono) – è quel liberante sporgersi del desiderio
della creatura oltre la disperata alienazione della propria esistenza. Il
paradosso della fede è quello dell’intoccabile che tocca il corpo
misericordioso di Dio (il Messia come evidenza della potenza salvifica di
Dio), quello del reietto dalla Legge – dalla religione e dalla società
giudaiche – che viene miracolosamente accolto nel regno che viene.
Esemplare il caso dell’emorroissa (cf. Mc 5,2534): colei che per la Legge è
impura, immonda e intoccabile, perché contaminante (cf. Lev 15,1930),
tocca il lembo del mantello di Gesù e viene non solo guarita, ma lodata per
la sua fede, l’atto semplice e assolutamente singolare che la salva. La fede,
speranza dei disperati (cf. Rom 4,18: «Egli ebbe fede sperando contro ogni
speranza»), libera la libertà che la afferra; speranza in ogni caso dipendente
dall’amore di Dio, dallo Spirito che si riversa nei cuori dei credenti (cf. Rom
5,5).
Comunque, l’atto della fede, proprio perché abbandono appassionato
dell’impotente, presuppone una passività insuperabile: l’aggrapparsi della
fede – unico, ultimo atto della creatura priva di qualsiasi dignità e proprietà,
57
Donum libertatis
sul margine dell’abisso della morte, del peccato, dell’emarginazione – è
appeso alla mano che tenta di afferrare, quindi non è moto né assolutamente
libero, né necessitato, ma grato, spontaneo, urgente, ansioso assenso
magneticamente attratto dalla manifestazione del Dono messianico in Gesù.
La straordinaria, paradossale formula di Mc 9,24 – «Credo, aiutami nella
mia incredulità (pisteuvw, bohvqei mou th=/ ajpistiva/)» – rivela come la
fede sia il singolare, soggettivo atto salvifico, che pure non può fondarsi su
alcunché di proprio, ma soltanto sull’abbandono all’Altro, sull’affidarsi
all’aiuto, al perdono, all’accoglimento del Dono.
In effetti, tutte le formulazioni dell’autentica sequela di Gesù, del Figlio
prediletto del Padre, insistono sull’assoluta paradossalità nella quale la fede
introduce. La fede svuota – sino alla stessa assunzione del martirio, della
croce – qualsiasi identità soggettiva, qualsiasi possibile proprietà di natura o
economia del soggetto, al punto che lo stesso atto di culto religioso (cf. Mt
5,2324) è subordinato alla vertigine assolutamente centrifuga di un perdono
assoluto, spinto sino al paradosso dell’amore non soltanto del prossimo, ma
del nemico (cf. Mt 5,4348), di chi continua ad odiarmi, a percuotere la mia
guancia (cf. 5,3940), a rubare tutto ciò che mi è proprio (sarebbe
interessante leggere questi passi evangelici in relazione a Cicerone,
Tusculanae disputationes III,29,7273, ove si afferma che un amore dell’altro
superiore all’amore di se stessi determinerebbe l’impossibilità di qualsiasi
relazione sociale, lo sconvolgimento dell’intera esistenza – perturbatio vitae
– e la rovinosità per qualsiasi officium). Il prossimo, personale nemico
(formula eminentemente paradossale), il proprio stesso persecutore
dev’essere perdonato incessantemente (cf. Lc 17,34), «fino a settanta volte
sette» (Mt 19,22), quindi infinitamente, senza requie, “a vuoto”, come
un’idiota, quindi senza alcuna possibilità di ritorno o di riappropriazione
dialettica dell’amore, fino all’espropriazione ultima (martiriale!) di sé, che è
l’unica paradossale, kenotica pienezza dell’amore stesso. Questo significa,
appunto, porgere l’altra guancia: perdonare e amare follemente, a vuoto
(ignobilmente, indegnamente, non più umanamente) colui che offende, sicché
l’atto supremo di libertà è un atto di paradossale abbandono ad una
passività grata, all’essere offerta vivente, ostaggio del prossimo. Soltanto da
questa “folle” rinuncia alla dignità e libertà e a qualsiasi personale
rivendicazione del proprio, il “nemico” può essere liberato, liberando colui
che lo libera dalla violenza della sua estraneità ferita, quindi dalla stessa
identità giudicante della propria innocenza, ragione, giustizia, dignità
58 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
misconosciute (solo nel perdono la vittima è liberata dalla violenza che
ingiustamente subisce).
Ecco, dunque, l’impossibile (nietzscheanamente nichilistica?) buona (?!)
novella: follia kenotica, sacralizzazione della fede come esposizione ad una
perdita infinita di proprietà e di sostanza, abbandono di qualsiasi pretesa
economica o identitaria, desiderio di alienazione infinita, fino alla rinuncia
di sé, all’assunzione della croce, della morte come autentica sequela del
Figlio dell’Uomo (cf. Lc 9,2326). Di fronte alla radicalità, alla
paradossalità, persino all’inaccettabilità umana di queste “ignobili”,
“inumane” rivendicazioni del dovere di essere figli del Padre, si comprende
perché l’irruzione improvvisa e imprevedibile del regno escatologico (cf. Lc
17,2021; 24; Vangelo di Tommaso 13) possa essere paragonata alla
violenta effrazione di un ladro di notte, ove l’attesa vigile dell’Altro è tale
soltanto nella disponibilità ad una radicale espropriazione, quindi
nell’abbandono apocalittico di tutto ciò che è proprietà, ricchezza,
disponibilità (cf. Mt 24,3651; Lc 12,3548; 1Tess 5,26; ApGv 3,3).
Il regno che viene – di cui il Gesù sistematicamente cristologizzato dei
sinottici rimane l’escatologico, “divino” profeta – è l’avvento apocalittico
del Dio che rovescia il mondo e tutte le sue grandezze, disordinandole a
partire dall’eversiva, nuova logica del Dono. Soltanto gli atti assolutamente
gratuiti possono scorgerlo, “abitarlo” e testimoniarlo. Si consideri quanto si
Legge in Mt 6,34, ove l’elemosina è prescritta come dono assolutamente
perfetto, che è quello che non si conosce («non sappia la tua sinistra quello
che fa la tua destra»), essendo del tutto estraneo rispetto alla logica
comunque economica della gratificazione, nella quale l’interesse del
donatore strumentalizza e nega l’oblatività del dono. Il regno del Padre che
viene, come questa carità del tutto idiota che è paradossalmente comandata,
dichiarata come impossibilmente possibile, condividono la dimensione
dell’incalcolabile, del gratuito come sospensione di qualsiasi potere di
determinazione, come esposizione all’evento della grazia, che solo ricrea
senso, dona nuova vita, libera. L’amore radicale del prossimo, anzi dello
stesso nemico, non è pertanto inquadrabile in alcun modo all’interno delle
prescrizioni legali e nell’ambito della tradizionale prassi eticoreligiosa
(malgrado questo non significhi affatto abolizione della Legge; cf. Mt 5,17
19; e Lc 16,17): non pertiene all’eticoreligioso, ma al carismatico. Il
comandamento dell’amore assolutamente paradossale del prossimo ha,
quindi, una radicale portata teologica; è la rivelazione della più profonda
59
Donum libertatis
natura di Dio, quella dell’amore gratuito proprio perché del tutto non dovuto
nei confronti di una creatura indegna e peccatrice: «Siate figli del Padre
vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa
piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,45).
Ma la rivelazione della paternità misericordiosa di Dio può essere
autenticamente annunciata soltanto dal Messia, da colui che parla con
autorità maggiore della Legge mosaica e degli stessi profeti precedenti: «vi è
stato detto, ma io vi dico…» (cf., ad esempio, il suo ricorrere in Mt 5),
espressione incalcolabile, quasi blasfema, che può essere pronunciata
soltanto dal Messia, dotato di autorità perché ripieno di Spirito (ricevuto,
come Eliseo, nel Giordano, “luogo carismatico” dell’ascensione di Elia e
della dispensazione del Dono profetico: cf. 2Re 2,115), dal perfetto,
definitivo, Vero Profeta – grande come Mosè (cf. Deuteronomio 18,1518;
Atti 3,2223 e 7,37), anzi più grande di lui –.
Gesù, figlio prediletto di Dio, è il Messia che manifesta, operandolo, lo
Spirito, il Dono escatologico di Dio (cf. Marco 1,915), la nuova alleanza
promessa dai profeti come superamento dell’antica alleanza della Legge
(che verrà scritta direttamente nei cuori degli uomini), cui corrisponde la
dilatazione universale del culto del Signore, spiritualizzazione del sogno del
trionfo politico di Israele (cf. Isaia; Geremia; Ezechiele; Zaccaria).
L’effusione messianica di Spirito fa saltare la giustificazione fondata sulla
dicotomia, legalmente determinata, tra puro/impuro, in direzione di una
giustificazione che, misericordiosamente, prescinde dai divieti e dalle
condanne della Legge, dal vuoto ritualismo sadduceo e dall’ipocrita (nella
polemica protocristiana) osservanza farisaica, per guardare unicamente al
desiderio del cuore, alla qualità dell’intenzione (cf. il decisivo Mc 7,123).
La libera religione del cuore – già prefigurata, oltre che nei profeti, in alcuni
dei Salmi; cf., ad esempio, il De profundis, Salmo 129,15 e 78 –diviene
carismaticamente ed escatologicamente presente. Come l’attività dell’amore
è accesa dall’originaria, passiva recezione del Dono, così il libero e
interiore desiderio di Dio, ultima condizione di ogni autentica prestazione
religiosa, la stessa libertà dal peccato, sono dichiarate operanti dal Messia
che annuncia e realizza tangibilmente (con i miracoli, l’insegnamento,
l’amore degli ultimi) la misericordia di Dio. Tramite il suo Messia, Dio fa
irrompere il regno escatologico, la novità dello Spirito, della fede interiore,
invisibile e folle, del gratuito, della libertà dal peccato, dalla condanna,
dall’ingiustizia. Novità anarchica, eversiva, escatologica, che la Legge non è
60 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
in grado né di prefigurare, né, ormai, di contenere: «Nessuno cuce una toppa
di panno grezzo su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo squarcia
il vecchio e si forma uno strappo peggiore. E nessuno versa vino nuovo in
otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono vino e otri, ma
vino nuovo in otri nuovi» (2,2122; cf. Mt 9,1617; Lc 5,3639).
II,3 – Paolo: la grazia messianica come potenza kenotica
Proprio tenendo presente questa paradossale sospensione della Legge,
del sacro codice religioso e morale giudaico, ad opera della manifestazione
escatologica della potenza misericordiosa dello Spirito di Dio riversatosi su
Gesù, Messia crocifisso, la distanza tra i vangeli sinottici e le complesse
strutture teologiche e già “dogmatiche” di Paolo e Giovanni – senza le quali
è semplicemente impossibile valutare le successive dottrine patristiche della
giustificazione – pare ridursi.
In Paolo, del tutto fondante e sistematica è l’affermazione della salvezza
come dono di grazia (cf. Rm 9; 1Cor 15,1011), dipendente dalla
predestinazione (storicoeconomica, prima ancora che singolare) e
dall’azione divina (cf. Rm 8,2830; 9,1924; 11,510; 1Cor 2,7; Gal 1,15; Fil
2,13; Ef 1,5 e 11) e non dalle opere della volontà dell’uomo (cf. Rm 9,1618;
11,59; 1Cor 15,810; 17,31; 2Cor 4,7; 12,911; Gal 6,3). Infatti, il peccato,
che in Adamo rivela esemplarmente l’universale perversione di ogni uomo
(cf. in part. Rm 5,1221; 15,2122 e 4250), intacca radicalmente la volontà e
la libertà dell’uomo naturale, appunto prigioniero di una carnale forza di
peccato: «Giudei e Greci, tutti, sono sotto il dominio del peccato» (Rm 3,9;
cf. 1,1832). In tal senso, «tutti hanno peccato e sono privi della gloria di
Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della
redenzione realizzata in Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come
strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di
manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati,
nel tempo della divina pazienza… Dove sta dunque il vanto? Esso è stato
escluso! Da quale Legge? Da quella delle opere? No, ma dalla Legge della
fede. Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede
indipendentemente dalle opere della Legge. Forse Dio è Dio soltanto dei
giudei? Non lo è anche dei pagani? Certo, anche dei pagani! Perché non c’è
che un solo Dio, il quale giustificherà per la fede i circoncisi e per mezzo
della fede anche i non circoncisi» (Rom 3,2330). Soltanto il dono dello
61
Donum libertatis
Spirito Santo, la nuova identità carismatica accolta in Cristo (cf. Rm 4,16
17; 5,5) accende la fede nel credente (cf. 1Cor 12,3: «Nessuno può dire:
“Gesù è il Signore”, se non sotto l’azione dello Spirito Santo»; Fil 3,3) e lo
abilita alle buone opere (cf. Rm 7,6; 8,117; 1Cor 1214; Gal 5,2225),
consente la vittoria sul peccato e il divenire nuova creatura (cf. 2Cor 5,17;
Gal 6,15; Rm 8,1827), capace dell’autentica libertà dei figli di Dio (cf. Rm
8,13; 8,1417; 1Cor 3,17; Gal 5), conformati a Cristo immagine perfetta del
Padre (cf. Rm 8,29; 1Cor 6,1120; 12,1227; 15,49; 2Cor 3,18; 4,46; Gal
1,1920; 3,2729). La nozione di ajgavph – basti 1Cor 13,113; torneremo su
1Gv 4 – è in tal senso riassuntiva di questa paradossale, nuova “economia”
(o meglio “paroikonomia”: sul vivere come pavroikoò, peregrinus, ospite
straniero, cf. Gen 23,4, sec. LXX; 1Pietro 2,11; A Diogneto 5,5): l’amore è
l’esito della recezione di una grazia kenotica, assolutamente gratuita;
soltanto l’amore che tutto copre, sopporta, dona è l’autentica virtù e libertà
(assoggettate all’altro!), capace di rivelare l’evento operante della grazia
divina che tutto dona, copre e sopporta in Cristo.
Eppure particolarmente significative, e per alcuni aspetti divergenti con
questa prospettiva, paiono – in 1Cor 7,4, all’interno di una serie di
indicazioni di etica sessuale; cf. anche 1Cor 6,12; 7,4; 8,9 – alcune
affermazioni paoline, che rivelano una certa dimestichezza con il dibattito
filosofico relativo al rapporto tra necessità e libero arbitrio: «Chi invece è
fermamente deciso in cor suo (ejn th/= kardiva/ aujtou= eJdrai=oò), non
subendo nessuna necessità (ajnavgkhn), ma detiene il potere della propria
volontà (ejxousivan deV ejvcei periV tou= ijdivou qelhvmatoò), ed ha
deliberato in cuor suo (kevkriken ejn th=/ ijdiva/ kardiva/)… ». Espressione
analoga ricorre in Filem 14, ove libertà e necessità sono contrapposte come
alternative inconciliabili: «… perché il bene che farai non dipendesse da una
necessità (mhV wjò kataV ajnavgkhn), ma fosse libero (ajllaV kataV
eJkouvsion)». In questa prospettiva, è opportuno ricordare quanto Bultmann
sottolineava in riferimento alla nozione di fede in Paolo: essa non verrebbe
mai fatta dipendere da un’operazione dello Spirito, proprio in quanto atto
della decisione, con la quale la libertà di un’esistenza risponde alla crisi
salvifica della chiamata della rivelazione. Omettendo in proposito una
complessa discussione sulla precomprensione esistenzialistica
dell’interpretazione bultmanniana, ci si può limitare ad indicare come
effettivamente mai Paolo ha inteso deresponsabilizzare l’uomo e il suo libero
atto di fede, mai ha concepito “agostinianamente” l’azione dello Spirito
62 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
come irresistibile ricreazione ex nihilo della libertà della creatura.
L’accoglimento del dono escatologico, l’essere accesi dalla sua universale
esplosione salvifica, rimangono atti liberi, tali proprio perché assolutamente
gratuiti, risposta fedele alla novità di grazia che soltanto Cristo e il suo
Spirito donano. Dunque, la fede è un atto umanamente inappropriabile come
propria opera, come virtù meritoria, perché soltanto escatologicamente,
cristologicamente, carismaticamente acceso; eppure, soltanto con il libero
desiderio del cuore graziato è possibile conformarsi, nel battesimo, a Cristo
e ricevere il suo Spirito, sforzandosi di rimanere loro fedeli.
Si pensi anche alle raccomandazioni morali e spirituali che Paolo rivolge
ai suoi discepoli in 1Tess 4,112 e 5,122, ove l’apostolo richiama alle norme
(paraggelivai; praecepta sec. Vulg) da lui stesso prescritte per i credenti,
insistendo sull’amore reciproco, sulle opere di carità, sul mantenimento
della purezza e la santificazione, sullo sforzo etico, come obbligo per i
credenti in Cristo, concludendo comunque: «Il Dio della pace vi santifichi
fino alla perfezione e tutto quello che è vostro, Spirito, anima e corpo, si
conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Colui
che vi chiama è fedele e farà tutto questo»: ove il doveroso operare nella
fede, nella speranza, nell’amore si rivela comunque suscitato e persino
compiuto da Dio, da Cristo e dallo Spirito che egli dona ad ogni fedele, come
componente nuova e ormai inalienabile della propria identità. La dottrina
dell’elezione gratuita non deresponsabilizza: anzi, chiama ad una vigilanza e
ad un sforzo continuo (cf. Fil 3,,1217) di collaborazione con la grazia, che
pare formare la libertà tramite una dialettica tra tentazione e dono, che al
tempo stesso rivela il ruolo della libertà della creatura e la sua strutturale
eteronomia: «Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere. Nessuna
tentazione vi ha sorpreso se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà
che siate tentati oltre la vostra forza, ma con la tentazione vi darà anche la
via d’uscita e la forza per sopportarla» (1Cor 10,1213).
Se quindi ricorre con una certa frequenza e pregnanza, in Paolo, la
nozione di ejleuqeriva/ejleuvqeroò, essa non ricorre mai in senso astratto o
filosofico (come specificazione di una proprietà ontologica ed etica
dell’uomo), ma sempre ad indicare l’essere liberato dalla morte, dal peccato,
dalla Legge, ad opera di Cristo, dello Spirito, della grazia. I credenti, infatti,
sono chiamati a divenire, in Cristo, da schiavi, liberi e figli (cf. Gal 4,310 e
21,31): «Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida:
Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo (dou=loò), ma figlio (uiJovò)…
63
Donum libertatis
Non siamo figli di una schiava, ma di una donna libera (th=ò ejleuqevraò)»
(Gal 4,67 e 31). Si è liberi perché si è divenuti figli nello Spirito del Figlio:
è questa la nuova, interiore alleanza dello Spirito attesa dai profeti, che
rivela il superamento radicale della logica della Legge (cf. Rom 8,217). E’
questa l’ormai vecchia alleanza della lettera che, prescrivendo, uccide (cf.
Rom 7,6; 2Cor 3,6), rivela cioè l’alienazione insuperabile dell’uomo da Dio,
quindi la schiavitù del peccato e l’impotenza della carne (cf. Rom 7,713),
cioè della natura umana e del suo desiderio. Il battesimo, invece,
incorporando al sacrificio, alla morte e alla resurrezione del Figlio, libera
l’uomo dalla vecchia alleanza, dalla Legge che uccide, dalla carne e dal
peccato: «Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo
stati battezzati nella sua morte?... Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio
è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato e noi non
fossimo più schiavi del peccato. Infatti, chi è morto è ormai giustificato dal
peccato. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo anche che vivremo con lui,
sapendo che Cristo resuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più
potere su di lui (oujkevti kurieuvei)… Rendiamo grazie a Dio, poiché voi
eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore (uJphkouvsate ejk
kardivaò) a quell’insegnamento che vi è stato trasmesso e così, liberati dal
peccato (ejleuqerwqevnteò), siete diventati servi (eJdoulwvqhte) della
giustizia» (Rom 6,3; 69; 1718). La libertà non è affatto l’esercizio di
un’attività autonoma, ma nasce dall’abbandono alla morte,
dall’incorporazione, nel battesimo, al sacrificio di Cristo.
Seppure questo abbandonarsi al dono della grazia passa per
l’obbedienza del cuore, comunque esso non può mai tradursi in esperienza di
potenza, di autonomia, né di anarchica violazione della Legge, ma al
contrario, paradossalmente, impone un nuovo, liberante asservimento alla
giustizia, che è quello della carità: «Cristo ci ha liberati a questa libertà
(th/= ejleuqeriva/ hJma=ò CristoVò hjleuqevrwsen); state dunque saldi e
non lasciatevi di nuovo imporre il giogo della schiavitù… Voi fratelli, infatti,
siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto
per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni
degli altri» (Gal 5,1 e 13; cf. 2,4). La libertà del cristiano è, quindi, la
liberazione per grazia dalla Legge e il responsabile abbandono alla carità,
carismatico, cristologico sacrificio di sé, libero spossessamento nel quale si
risolve la paradossale identità della nuova creatura.
64 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
Si pensi, in proposito, al nono capitolo della 1Cor: esso si apre con una
domanda retorica di Paolo: «Non sono forse libero io? (oujk eijmiV
ejleuvqeroò;)» (1Cor 9,1); dopo aver elencato meriti, prerogative di autorità,
diritti del suo apostolato, derivanti appunto dal possesso di un’autorevolezza
derivatagli da Cristo stesso («Non sono un apostolo? Non ho veduto Gesù,
Signore nostro?»: 1Cor 9,1), Paolo rovescia però cristologicamente, cioè
kenoticamente la logica identitaria e di potere che parrebbe radicarsi nella
sua libertà e nel suo primato, pure gratuitamente eletti da Dio: «Infatti, pur
essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti (ejleuvqeroò wjVn ejk
pantwn pa=sin ejmautoVn edouvlwsa) per guadagnare il maggior numero.
Mi sono fatto Giudeo per i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che
sono sotto la Legge, mi sono fatto come uno che è sotto la Legge, pur non
essendo sotto la Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la
Legge Con coloro che non hanno la Legge, sono diventato come uno che è
senza la Legge (toi=ò ajnovmoiò wJò ajvnomoò), pur non essendo senza la
Legge di Dio, anzi essendo nella Legge di Cristo, per guadagnare coloro che
sono senza la Legge. Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i
deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (9,19
22). La libertà del cristiano (si pensi all’omonimo trattato di Lutero) è
assolutamente paradossale, così come la paradossale identità del Messia
gesuano: libera per asservire nella carità, costituisce un’identità
strutturalmente sacrificale, alienata, dispersa, disseminata, inappropriabile,
proprio perché governata da un inesausto movimento kenotico, da un’estasi
di carità, da una vera e propria sacrificale emorragia dell’io.
E, si badi, qui il discorso paolino non è affato confinabile nell’ambito di
una mistica astratta, ma si carica di un’evidente, pure se paradossale, carica
sociale e politica (come dimostra quello straordinario documento che è la
lettera a Filemone, ove il carisma di grazia simul fa già saltare e eppure
ancora trattiene l’ormai vecchia, svuotata gerarchia mondana): la libertà –
naturalmente generatrice di diritto, di facoltà, di proprietà (cf. il termine
ejxousiva, in 1Cor 9,4; 12; 18) – diviene, se donata da Cristo, principio di
espropriazione, assolutizzazione del dono, sino alla assunzione sacrificale
della morte: «Noi però non abbiamo voluto avvalerci di questo diritto (th=/
ejxousiva tauvth//), ma tutto sopportiamo (pavnta stevgomen)… Ma io non mi
sono avvalso di questi diritti, né ve ne scrivo perché ci si regoli in questo
modo con me. Preferirei piuttosto morire (ajpoqanei=n)» (1Cor 9,12 e 15).
La libertà donata non origina diritti, né doveri liberamente esercitati, assolti,
65
Donum libertatis
quindi in ultima analisi potentemente dominati e liquidati, ma inchioda ad un
asservimento all’altro identitariamente irrecuperabile, cristologicamente
“patologico”, dunque infinitamente, insolubilmente debitorio (si pensi a
1Cor 10,2233, ove sono simul affermate la definitiva, assoluta libertà dalle
norme legali relative agli idolotiti e la raccomandazione di non dare
scandalo, rispettandole comunque nel caso che fedeli ancora deboli
erroneamente le ritenessero vincolanti; sicché, schiavo dell’amore
messianico, il libero dalla Legge può anche tornare ad essere schiavo della
Legge, rimanendo comunque, proprio perché lo diviene soltanto per amore,
ormai definitivamente libero da essa).
Paolo, insomma, è un soggetto assolutamente paradossale, cristologico
appunto: libero non libero, libero asservito, libero schiavo, libero kenotico,
libero donato, quindi libero annullato, nel senso della kenosi e della sua
inevitabile risonanza nichilistica. Significativo, in proposito, il dilemma di
Paolo, lacerato tra desiderio di morte ed urgenza insopprimibile di carità:
«Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno (kevrdoò). Ma se il vivere
nel corpo significa lavorare con frutto non so davvero che cosa debba
scegliere. Sono infatti messo alle strette da queste due cose: da una parte il
desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe
assai meglio; d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella
carne. Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò ad essere
d’aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede» (Fil 1,2125).
Radicato in Cristo, sua unica ricchezza, Paolo può considerare qualsiasi
grandezza e proprietà come una perdita (cf. 3,710); eppure, la pulsione
kenotica della carità lo mantiene legato al suo corpo sofferente,
all’esposizione della carne, alla passione per amore del prossimo, alla
coscienza “esaltata” del suo decisivo ruolo cristiforme nella testimonianza,
nella redenzione dei fratelli, nell’ultima inevitabile passione. Sicché questa
radicale alienazione di ejxousiva, di potere, di libertà, questa che potremmo
definire un’eJterexousiva, innalza Paolo ed ogni credente ad un’ebbrezza di
onnipotenza, ad un’esperienza di forza sovraumana generata dallo stesso
entusiasmo carismatico, cioè dalla fede nell’essere vivificato dallo stesso
Spirito di Dio: «Tutto posso in colui che mi dà la forza (pavnta ijscuvw ejn
tw=/ ejndunamou=nti me)» (Fil 4,13).
Come non chiamare in causa Nietzsche, il suo sospettare della natura
strutturalmente perversa e risentita di questa logica kenotica, di questa
dialettica tra libertà e potere, tra nascosta volontà di potenza e nichilismo
66 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
sacrificale? Come non ricordare il suo odiare – al tempo stesso invidiandola
e amandola sino a soccombervi – la croce di Cristo annunciata da Paolo?
Inoltre, come non individuare già in Paolo la paradossale dialettica cattolica
ed ecclesiastica di assolute libertà e potenza graziate, originate dalla
debolezza infinita della kenosi? Ambiguamente, il supplizio della croce,
morte che innalza a Dio, è esperienza di annullamento per amore e simul
esaltazione potente (cf. 2Cor 8,9: «Conoscete infatti la grazia del Signore
nostro Gesù Cristo: da ricco che era si è fatto povero per voi, perché voi
diventaste ricchi per mezzo della sua povertà»), persino politica (cf. l’inno
cristologico in Fil 2,611), destinata ad assoggettare non soltanto le potenze
cosmiche e politiche, ma definitivamente la storia e la cultura dell’occidente.
Cosicché, se il segreto della dottrina paolina della giustificazione è
chiaramente cristologico, proprio per questo essa non soltanto opera un
rovesciamento epocale della valenza sacrale della Legge e una rivoluzione
delle attese politiche giudaiche, ma anche un loro paradossale, kenotico,
imprevedibile inveramento. Il Messia kenotico (cf. Fil 2,68), misconosciuto
ed ucciso come maledetto dalla Legge (cf. Gal 3,13), ne denuncia la vanità,
libera dalla sua maledizione, sostituendosi ad essa come rivelazione della
Gloria salvifica di Dio (cf. 2Cor 3,1718; 4,46), Gloria crocifissa (cf. 1Cor
2,6). Cristologicamente, se la potenza di Dio si nasconde nella morte, con la
quale la stessa Legge di Dio, pure buona e santa, viene svuotata di qualsiasi
portata salvifica, allora la salvezza di Dio opera rivelando il nulla di ciò che,
agli occhi degli uomini, esiste, ha senso, razionalità, potenza, è giusto e
degno di considerazione, onore, rispetto, desiderio. Ogni realtà, dignità,
potere umani sono, quindi, radicalmente annullati e svuotati al cospetto
dell’onnipotenza di Dio. Certo, Paolo può anche, in Rom 13,17 richiedere ai
fedeli la sottomissione all’ejxousiva degli arconti di questo mondo,
dichiarandola stabilita da Dio (così come ribadirà assai più lealisticamente
1Pietro 2,1320, affermando che il cristiano proprio nella sottomissione al re
e alle autorità di questo mondo trova la prova della sua libertà): eppure il
precetto della sottomissione all’ordine mondano coincide con la
potentissima denuncia della sua radicale vanità, contingenza, precarietà,
anzi insussistenza.
Il Dio di Cristo, infatti, rimane insuperabilmente anarchico ed eversivo
nei confronti dei poteri di questo mondo, che pure vuole siano costituiti,
proprio per svuotarli escatologicamente (l’universale sottomissione di ogni
potere a Cristo, la sua ultima, radicale kenosi dinanzi al Rivelatore
67
Donum libertatis
kenotico). Egli, «che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che non
esistono» (Rm 4,17), «ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i
sapienti, ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, ciò che nel
mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose
che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1,27
29). La resurrezione di Cristo, l’immane potenza di Dio che riporta il nulla
all’essere, è la rivelazione della paradossale rivoluzione escatologica
dell’ontologico e di ogni struttura umana che naturalmente vi aderisce,
rivoluzione che lo Spirito fa irrompere nella storia mondana.
Ovviamente, qualsiasi apologia umanistica, quindi qualsiasi difesa
dell’intelligenza, della cultura, dei valori eticopolitici, del libero arbitrio
dell’uomo, della sua potenza e capacità di acquisire un qualsiasi merito al
cospetto di Dio sono radicalmente vanificati da quest’impressionante
dispositivo kenotico, che abbiamo già potuto definire ontologicamente
nichilistico e simul escatologicamente donativo/innovativo/ricreativo. Non vi
è più alcuna reale consistenza naturale, ontologica, politica, tanto meno
psicologica; ormai, l’unica realtà è quella carismaticamente ricreata in
Cristo (cf. 1Cor 3,2123), tant’è che l’intera creazione esperisce il nulla (cf.
Rm 8,1923), anzi in sé è nulla (tanto che Dio vuole annullare le cose che
apparentemente “sono”: cf. 1Cor 1,28). Pertanto, eccezion fatta per la
grazia di Dio, nulla può pretendere di giustificare, ma tutto uccide (a partire
dalla Legge stessa e dalle opere meritorie che, suo tramite, la libertà umana
si illude di compiere). La fede in Cristo crocifisso è, quindi, del tutto
destabilizzante nei confronti della pretesa umana di ottenere la giustizia
tramite gli sforzi della propria identità psicologica (la propria libertà), etica
(il proprio agire), culturale (la sapienza naturale), religiosa e razziale
(l’appartenenza al popolo eletto). La salvezza non è mai costruzione
dell’uomo, ma soltanto dono di grazia («hJ dwreaV ejn cavriti»: Rm 5,15).
Si pensi alla grande trattazione – in Rom 7,1425 –, della strutturale,
perversa impotenza morale dell’uomo, che pur conoscendo la Legge, persino
volendola mettere in pratica, sceglie comunque di operare il male che non
vuole, in quanto del tutto dominato dall’intima potenza del peccato (hJ
oijkou=sa ejn ejmoiV aJmartiva), quell’altra Legge (ejvteroò novmoò)
antidivina che è irresistibile legge di scissione interiore, di perversione
strutturale dell’identità morale, della volontà, dell’atto libero: «C’è in me il
desiderio (toV qevlein) del bene, ma non la capacità di attuarlo (toV
katergavzesqai). Infatti, io non compio il bene che voglio, ma il male che non
68 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
voglio… Infatti acconsento secondo l’uomo interiore alla Legge di Dio, ma
nelle mie membra vedo un’altra Legge, che muove guerra alla Legge della
mia mente (ajntistrateuovmenon tw=/ novmw/ tou= noovò mou) e mi rende
schiavo della Legge del peccato che è nelle mie membra» (Rom 7,1819 e 22
23). Basterebbe tornare ai primi cinque capitoli del III libro dell’Etica
nicomachea di Aristotele, per mostrare l’assoluta incompatibilità di questa
prospettiva con quella dell’etica classica, che lì trova una delle sue più
compiute espressioni, ove tra l’altro si Legge: «Ogni uomo malvagio ignora
quel che deve fare e ciò da cui si deve astenere ed è per quest’errore che si
diventa ingiusti e, in generale, viziosi» (III,1,1110b). La conoscenza propria
del nou=ò non garantisce affatto, per Paolo, l’ancoraggio della volontà alla
verità che salva imponendosi con tutta evidenza; il peccato, infatti, non
dipende più da un errore di conoscenza, dall’ignoranza, quindi
dall’incapacità di riportare la scelta (proaivresiò) alla deliberazione fondata
sulla conoscenza del fine che è il vero bene, in quanto sempre, per Aristotele,
«in senso assoluto e secondo verità oggetto di volontà è il bene, ma per
ciascuno in particolare è ciò che appare tale» (III,4,1113a).
E se la virtù (ajrethv), l’atto volontario con il quale si sceglie di
orientarsi con perseveranza verso il fine del vero bene e di vivere secondo
ragione, rappresentava per Aristotele l’essenza della vita morale, per Paolo
non può esistere alcuna virtù: non a caso, il termine è del tutto assente nel
corpus autentico paolino (con l’eccezione comunque generica di Fil 4,8) e
praticamente assente nell’intero NT (le uniche altre due ricorrenze sono in
1Pietro 2,9 e 2Pietro 1,3). Per Paolo, infatti, il desiderio dell’uomo è
perversamente mosso a violare la stessa perfezione della rivelazione divina,
del vero Bene che pure conosce e che persino vuole. L’uomo
schizofrenicamente vuole e non vuole, desidera e non desidera, schiavo nella
sua stessa libertà di una potenza di alienazione e di perversione. La denuncia
dell’impotenza peccaminosa del libero arbitrio non poteva essere più netta:
la Legge, il sacro codice giudaico della rivelazione di Dio, che pure è buona
e giusta nel comandare il bene come unico dovere religioso dell’uomo (cf.
Rom 7,7; 12; 14; 16), ha in effetti, per Paolo, una finalità punitiva e niente
affatto propriamente salvifica, al punto da generare negazioni antidivine
quali morte e peccato. Essa è infatti rivelata da Dio non per sollecitare il
libero arbitrio a fare il bene, ma per manifestare il suo rapporto inseparabile
con il male, per denunciare la colpevolezza universale dell’uomo
(vietandola, aumenta la concupiscenza della volontà: cf. Rm 7,58), la sua
69
Donum libertatis
radicale mortalità (cf. Rm 5,20; 7,724), rappresentata da Adamo (cf. Rm
5,1215), il primo uomo creato, puramente naturale. Questi, «tratto dalla
terra» (1Cor 15,47), è simbolo dell’intera umanità peccatrice, eppure anche
paradossale «tipo di colui che doveva venire» (Rm 5,14), cioè antitipo del
Redentore, il primo uomo di grazia, celeste e pneumatico, nel quale e per il
quale tutti i credenti partecipano dello Spirito (cf. Rm 5,1521; 1Cor 15,45).
Grazie alla morte in croce e alla resurrezione di Cristo (cf. Rm 5,8; 6,211;
1Cor 15,3; Gal 1,4; 1Tess 5,10), cui ci si incorpora tramite il battesimo,
nella radicale negatività del primo Adamo già si nasconde la futura potenza
di grazia del secondo Adamo, per il quale l’universale esperienza di peccato
e di morte rivelata dalla Legge è tolta nella resurrezione della nuova
creazione operata dallo Spirito di Dio (cf. 1Cor 15,2023). La natura
(Adamo), la sapienza pagana, la Legge, si rivelano come sfigurate e
impotenti attese della grazia (Cristo), come possibilità create e rivelate che
soltanto Cristo, l’escatologico e carismatico oggetto dell’amore assoluto di
Dio, è capace di rinnovare, traendole dalla loro vanità e donando loro
l’unica vera realtà che esiste agli occhi di Dio: quella del dono gratuito,
indebito, imprevisto, ultimo. Sicché, in Cristo, l’atto escatologico rivela la
paradossale natura di Dio, che nella rivelazione del suo Dono eccede e
rinnova se stesso, la sua stessa creazione, la sua stessa storica elezione di
Israele. Se l’ultimo Adamo trascende il primo Adamo, e la grazia eccede la
natura e la Legge, quello di Cristo è l’identico, ultimo Dio che trascende se
stesso, il Dio del Vangelo che trascende il Dio della Genesi e dell’Esodo. Un
Dio che, per grazia, si toglie e si sorprende, o meglio si vuole rivelare
all’uomo come altro e nuovo rispetto a se stesso: datore di Spirito e non più
di natura, datore di Dono e non più di Legge, datore di elezione universale
(quella delle genti insieme con Israele) e non più di elezione particolare
(quella del solo Israele).
Proprio questa totale ricapitolazione e conversione della creata natura
mortale e della stessa rivelazione della Legge nell’escatologica potenza
spirituale di Cristo aiuta a comprendere la complessa nozione di
predestinazione, che ripetutamente riaffiora nelle pagine di Paolo: «Coloro
che amano Dio sono stati chiamati secondo il suo disegno (kataV provqesin;
Vulgata: secundum propositum). Poiché quelli che Egli da sempre ha
conosciuto li ha anche predestinati (prowvrisen) ad essere conformi
all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli;
quelli poi che ha predestinati, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati, li
70 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
ha anche giustificati; quelli che ha giustificati, li ha anche glorificati» (Rom
8,2830). Risulta chiaro come soltanto la predestinazione (che appunto è
identificata con l’eterna conoscenza salvifica di Dio) determini la
conoscenza, il credere, l’amore di Dio, il volere e l’operare giustificante
nell’uomo, che Dio stesso inizia e porta a compimento (cf. Fil 1,6): «Ora che
avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti» (Gal 4,9); «Chi ama
Dio è da lui conosciuto» (1Cor 8,3); «Non però da noi stessi siamo capaci di
pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità
(iJkanovthò) viene da Dio» (2Cor 3,5); «E’ Dio infatti ad operare (oJ
ejnergw=n) in voi il volere (toV qevlein) e l’operare (toV ejnergei=n)
secondo il suo beneplacito (uJpeVr th=ò eujdokivaò)» (Fil 2,13);
«Ringraziamo Dio continuamente perché, avendo ricevuto da noi la parola
divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola di uomini, ma,
com’è veramente, quale parola di Dio (lovgon qeou=), il quale opera in voi
che credete (oJvò kaiV ejnergei=tai ejn uJmi=n toi=ò pisteuvousin)» (1Tess
2,13). La trattazione più sistematica, profonda e ardua della predestinazione
ricorre in Rom 9,624, ove la distinzione tra figli della carne e figli della
promessa è riportata alla distinzione tra Giacobbe eletto ed Esaù reietto
senza alcuna ragione manifesta, cioè secondo una ragione del tutto indebita,
gratuita, che ha come suo unico fine (circolarmente!) l’esaltazione della
assoluta, incondizionata potenza divina di elezione e reiezione: «Quindi non
dipende né dall’uomo che vuole (tou= qevlontoò), né dall’uomo che corre
(tou= trevcontoò), ma da Dio che usa misericordia (tou= ejlew=ntoò qeou=)
… Dio quindi usa misericordia (ejleei=) con chi vuole e indurisce
(sklhruvnei) chi vuole» (Rm 9,16 e 18). L’immagine profetica di Dio vasaio –
che è libero di creare vasi di ira distinti da vasi di misericordia da un unico
impasto inerte, quindi in sé privo di qualsiasi qualità (cf. 9,2024) – serve ad
esaltare l’assoluta, incondizionata, creativa libertà di mutare oggetto della
sua elezione, quindi di sostituire un popolo pagano al popolo eletto giudaico,
ovvero di rendere eletto il reietto e reietto l’eletto. Ma questo prova come,
paradossalmente, attraverso la nozione di predestinazione – che a prima
vista parrebbe finalizzata a rivelare la parzialità del popolo eletto, il numero
ristretto di vasi per uso nobile rispetto alla massa inerte dei vasi di uso
volgare –, in realtà Paolo intenda proclamare proprio l’universalità della
redenzione (cf. 1Cor 15,2128), sì che l’esegesi apocatastatica origeniana
pare intuire l’intenzione ultima dell’apostolo più acutamente di quella
71
Donum libertatis
dualistica di Agostino (d’altra parte esegeta paolino assai più profondo e
radicale).
Paolo, cioè, utilizza la dottrina giudaica della predestinazione (si pensi a
Qumran) non per opporre la comunità degli eletti al mondo dei reietti, ma
per disancorare l’annuncio salvifico da qualsiasi identità umana, sia essa
l’appartenenza razziale, sia essa la pretesa di giustificarsi tramite i propri
sforzi (in sé, naturalmente, privo della grazia di Dio, ogni vaso è volgare!).
Nessuno può vantarsi al cospetto di Dio, che decide la salvezza prima di
tutto ciò che è umano, che tutto annulla e abbatte per tutto ricreare ed
esaltare. La stessa ira di Dio è, cioè, temporanea, finalizzata alla
manifestazione della sua universale misericordia: «Dio ha rinchiuso tutti
nella disobbedienza per usare a tutti misericordia» (Rm 11,32; cf. Gal 3,22).
Così come è temporaneo il doloroso mistero della resistenza di Israele alla
fede nel Messia crocifisso, tolta nel vortice escatologico della liberazione di
tutta la realtà in Cristo. Nulla di ciò che è umano, infatti, può resistere
all’onnipotente volontà salvifica di Dio. La proclamazione dell’imminente,
finale conversione di Israele (divenuto simbolo paradossale di chi resiste
alla fede in Cristo) è quindi segno dell’universalità della conversione
dell’umanità e della resurrezione dei morti (cf. Rm 11,1136).
L’interpretazione paolina della predestinazione è, quindi, essenzialmente
storicoeconomica: non celebra la misteriosa, eterna volontà di Dio di
eleggere indebitamente singoli uomini, ma descrive la catastrofe liberante
dell’intera storia umana (giudaica e pagana), svuotata di senso
(universalmente reietta) e riempita della grazia (universalmente eletta). Le
stesse vicende di singoli predestinati (i vasi di elezione; Paolo stesso) sono in
tal senso segno dell’universale, misterioso, paradossale disegno salvifico di
Dio.
Forse proprio l’affievolirsi della tensione escatologica potrebbe, invece,
spiegare il significativo mutamento attestato dalla lettere deuteropaoline, che
tanto avanzano nella riflessione sull’identità divina preesistente di Cristo,
esaltato non solo come redentore e capo della chiesa, ma anche come
creatore del mondo (cf. Col 1,1517): la nozione di predestinazione gratuita
(cf. Ef 1,414; 2,110; 3,411) e quella di eterna elezione dei redenti (cf. Col
1,1314; 1,2627) paiono irrigidirsi e restringersi, con un movimento
analogo a quello riscontrabile nel Vangelo di Giovanni. Discorso ben
diverso meritano le pseudopaoline Pastorali, dominate dalla riduzione del
carisma ad ufficio gerarchico (Timoteo è l’unico soggetto di cui si afferma il
72 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
carisma!), dall’ossessione della retta dottrina tradizionalmente garantita
dall’autorità ecclesiastica, dalla restituzione moralistica del kerygma,
degradato a prassi salvifica e ideologia socialmente conservatrice (cf.
1Timoteo 3,14,16; 5,176,2; 2Tim 2,1426; Tito 1,52,15).
II,4 – Il vangelo di Giovanni: divinizzazione e mistica della grazia
Il quarto vangelo (qui valutato indipendentemente dalle più recenti
letture stratigrafiche, che intendono leggervi una comunitaria cristologia in
divenire da originarie forme giudeocristiane sino all’approdo ormai
ellenistico di teologia alta) pare attestare, pure se limitatamente al Prologo
(si noti che solo in esso ricorre il termine cavriò), la conoscenza delle linee
fondamentali della dottrina della giustificazione paolina (ma cf. 6,63 – «E’ lo
Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla. Le mie parole sono Spirito
e vita» –, che pare dipendente da 1Cor 15,45 e 2Cor 3,6). Nel Prologo, la
grazia di Cristo, della cui pienezza (plhvrwma) tutti i credenti fruiscono, è
proclamata come Verità divina (cf. Gv 1,14 e 17; 14,6) eccedente la Legge di
Mosè (cf. 1,14 e 16) e si identifica con l’eterno mistero di Dio. La grazia,
infatti, non soltanto è fatta dipendere dalla manifestazione della Gloria
(dovxa) del Padre identificata con Gesù (cf. 1,14; 2,11; 5,44; 11,40; 17,5 e
24), ma – procedendo oltre Paolo stesso – è identificata con la stessa
conoscenza dell’Unigenito di Dio (1,14 e 18; 3,16 e 18; 1Gv 4,9), del Logos
creatore che è «Dio (qeovò)» (Gv 1,1), dell’eterno «Principio» (hJ ajrchv:
8,25), del Logos che è Verità (cf. 17,17), dell’«Io sono (ejgwV eijmi)» (cf.
4,26; 8,24; 8,28 e 58; 13,19; 18,56 e 8), di colui che è il personale Nome
assoluto (toV ojvnoma) di Dio (cf. 3,18; 12,28; 17,6 e 26), il solo capace di
rivelare – in quanto «Signore e Dio» (20,28) – il Padre, il Dio (oJ qeovò:
1,12) supremo e del tutto invisibile (cf. 1,18; 17,23).
Davvero la nozione protocristiana di grazia vive qui una svolta epocale:
essa viene ipostaticamente teologizzata nell’identità del Figlio divino (si noti,
in 5,18, l’accusa di blasfema identificazione con Dio rivolta dai “Giudei”
contro Gesù). La grazia, in tal senso, diviene il dono e il principio
epistemologico di quell’identità teologica nascosta, la personale Verità
eterna paradossalmente rivelata dall’uomo Gesù, che distacca
definitivamente questa rivoluzionaria cristologia dai messianismi
protocristiani, tutti ancora compatibili con il rigido monoteismo del
giudaismo del I secolo della nostra era. Corrispondente a questa sapienziale
73
Donum libertatis
ontoteologizzazione dell’evento di grazia si assiste, in Gv (discorso del tutto
diverso è ovviamente quello relativo all’ApGv) ad un’indubbia regressione
della tensione escatologica: la conoscenza della Verità assoluta, l’intimità
d’amore con l’Unigenito del Padre, l’autoidentificazione con il discepolo
amato/i discepoli amati realizza un’elettiva pienezza di dono che quasi non
richiede ulteriori perfezionamenti: la fine del mondo e l’avvento del regno
sono già consumati nell’atto di fede e di amore nel Dio incarnatosi, morto e
risorto.
Comunque, Giovanni condivide con Paolo e le comunità dei primi
discepoli una potentissima tensione carismatica. Massiccia è l’insistenza del
IV Vangelo sullo Spirito Santo come potenza vivificatrice donata da Cristo (e
opposta alla carne, cioè alla realtà umana naturale: cf. 3,58; 3,34; 4,10;
4,24; 6,63; 7,3839; 14,1617). Il Paracleto (cf. 14,16 e 26) è capace di
dischiudere ai credenti non soltanto tutta la verità (cf. 14,26; 15,26; 16,13),
che si identifica con l’intimità di amore con il Figlio (cf. 16,1415), ma, in lui
che è uno con il Padre (cf. 10,30; 10,38; 14,911), la stessa unità con Dio
Padre (cf. 14,20; 15,710; 17,11; 17,2023). Così, in analogia con Paolo, è
del tutto centrale in Giovanni la portata salvifica della morte sacrificale di
Cristo (cf. 19; 1Gv 2,2; su questa linea, cf. Ebrei 9,110,18), «l’agnello di
Dio» (Gv 1,29 e 36), fonte dell’effusione carismatica (cf. Gv 1,33; 3,34;
19,34; 20,22), fondamento della giustificazione ormai alternativo a quello
dei «giudei» (cf. 8,37; 16,24), sì che il «Tutto è compiuto» (19,30) assurge
davvero a consumazione definitiva del ruolo della Legge, ridotta a mera
profezia dell’unico autentico evento salvifico.
Colpisce, inoltre, la radicalità con la quale viene affermato un dualismo
spirituale che oppone diavolo/principe di questo mondo e Cristo (cf. 4,4344;
12,3132; 14,30; 16,11; 16,33), tenebra e luce (cf. 1,45; 3,19; 8,12; 12,35
36; 12,46), morte e vita (cf. 5,24; 12,25), mondo (creato dal Logos, eppure
peccatore e apostata: cf. 1,10) ed eletti in Cristo (cf. 8,23; 15,1819; 17,9;
17,1416) – che «sono da Dio» (cf. 8,47; 9,33), «sin dal principio» (15,27)
prescelti e attratti da Dio in Cristo (cf. 1,1213; 6,4345; 6,65; 10,2628;
15,16), come mondo redento (cf. 12,47) –, morte opere del mondo/mancanza
di fede e fede in Cristo (cf. 6,2829; 6,40; 6,6465; 7,7; 8,24; 11,2527). La
dualistica tensione apocalittica – già spasmodica nei discorsi escatologici
sinottici (cf. Mc 13,137; Mt 24,151; Lc 21,536) e nella stessa
spiritualizzazione che ne aveva operato la teologia della nuova alleanza
74 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
paolina – raggiunge in questi passi il grado di massima intensità cristiana,
condiviso soltanto con l’Apocalisse di Giovanni.
Eppure, cristologia alta (il Figlio confessato come Dio preesistente
presso il Padre e creatore del mondo), tensione dualistica apocalittica e
affiorare di una vera e propria dottrina dell’elezione per predestinazione
rispondono apparentemente ad un unico movimento dialettico proprio di una
comunità al tempo stesso marginalizzata e persino assediata dal giudaismo
dominante, anzi divisa al suo interno, forse minacciata dallo stesso
impetuoso diffondersi della missione paolina, eppure consapevole della
radicale profondità, della portata teologica assoluta della sua
interpretazione del kerygma primitivo. L’amore, rivelato da Gesù confessato
come il Figlio divino, diviene il dono esclusivo dei pochi capaci di resistere
al mondo, di mantenersi fedeli ad una rivelazione abissale, al tempo stesso
inaccessibile al mondo e rivelata al mondo, perché questo si converta e
creda; con una significativa oscillazione tra prospettiva settaria e
prospettiva universalistica.
Soltanto l’essere da Dio permette, infatti, di ricevere «l’amore di Dio (hJ
ajgavph tou= qeou=)» (Gv 5,42; cf. 15,9; 17,26; 1Gv 2,5 e 15; 3,1; 4,79;
4,12) e di adempiere nello Spirito il comandamento nuovo dell’amore tra
fratelli (cf. Gv 13,3435; 14,15; 15,1217; 1Gv), di esercitare la libertà dei
figli di Dio nell’essere fatti liberi dal Figlio, nella sua fede (cf. Gv 8,36).
«Nessuno può venire a me, se non lo attira (eJlkuvsh/) il Padre che mi ha
mandato… E’ scritto nei Profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio.
Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me» (6,4446; cf.
65; 8,47); «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto (ejxelexavmhn) voi»
(15,16). Come interpretare questi passi? Non paiono forse in linea con i testi
più duramente predestinazionistici di Qumran? Agostino, nei suoi Tractatus
in Iohannis Evangelium, non ne ha forse offerto l’interpretazione –
rigidamente predestinazionistica – più profonda ed autentica? Cosa diviene,
in Gv, quell’atto di fede che i sinottici interpretavano come totale abbandono
alla potenza salvifica di Dio? In effetti, pare affacciarsi, in questa concezione
dell’insegnamento del Padre, qualcosa di affine alla pretesa gnostica, ove
appunto l’atto di fede non è più interpretato come psichico, disperato
affidarsi di un corpo/cuore malato, di un emarginato alienato ad un
Salvatore tangibile e socialmente liberante tramite il miracoloso carisma di
Dio, bensì come capacità profonda di vedere senza trattenere/toccare (cf.
20,17 e 2429) l’eterno mistero della rivelazione, l’identità divina del
75
Donum libertatis
Salvatore nascosta al di sotto della carne visibile. Infatti, le prospettive
antidocetiste sono evidentemente presenti nel corpus giovanneo (cf. ad es.
19; 1Gv 4,23), finalizzate ad evidenziare – certo contro avversari interni
generati dalla stessa teologia alta della tradizione giovannea, come
testimonia 1Gv – come Gesù Cristo sia la grazia apparsa nella carne (cf. Gv
1,14; 6,51), la verità assoluta del Figlio di Dio che patisce nel corpo
sofferente di un uomo. Pertanto, la conoscenza della grazia diviene capacità
di attingere nella carne immolata dell’uomo Gesù l’eterno mistero
cristologico, la conoscenza della verità, su cui Gv continuamente ribatte (cf.
17,3; 17,1719 e 2526). Il divenire figli dipende dalla capacità di
riconoscere la preesistente divinità di Gesù, al punto che quest’iperbolico
atto di fede dischiude alla filialità una mistica identità spirituale con Dio (il
divenire unum, eJvn: cf. i fondamentali versetti 17,2123), che – pure se
ancora del tutto aliena da qualsiasi platonizzante ontologizzazione
dell’anima – già colloca nell’ambito della verità interiore e della sua
invisibile trascendenza il regno rivelato dal Messia di Dio (cf. 18,3638).
La grazia, l’amore di Dio è, insomma, la stessa conoscenza del
paradosso cristologico, del Figlio di Dio che, venuto dal Padre nella carne,
ritorna al Padre: «Il Padre stesso vi ama, poiché voi mi avete amato e avete
creduto che io sono venuto da Dio. Sono uscito dal Padre e sono venuto nel
mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre» (16,27; cf. 3,36). In
tal senso, la fede nel paradosso cristologico del Logos fatto carne può essere
definita un’opera, anzi l’unica vera opera salvifica: «Gli dissero allora:
“Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?”. Gesù rispose:
“Questa è l’opera di Dio (toV ejvrgon tou= qeou=): che voi crediate
(pisteuvhte) in colui che egli ha mandato”» (6,2829). Così, solo la
conoscenza della verità, del segreto cristologico che il Figlio rivela a coloro
che vengono dal Padre, libera: «Conoscete la verità e la Verità vi farà liberi
(hJ ajlhvqeia ejleuqerwvsei uJma=ò)… Se dunque il Figlio vi farà liberi,
sarete liberi davvero» (8,32 e 36). La libertà, insomma, non è tanto libertà
dalla morte o dal peccato, quanto libertà dall’errore e dall’ignoranza, fede
in una grazia che è Verità teologica.
Insomma, se la fede è l’unica opera salvifica capace di donare la libertà
della verità, la grazia è sua origine e suo oggetto: la fede è conoscere la
grazia dell’amore di Dio, che è – nell’Unigenito che da sempre è presso il
Padre amato dal Padre – la rivelazione dell’umanità in Dio, dell’alterità
della carne in Dio, del divenire altro da Dio e tornare in Dio del Figlio.
76 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
Grazia è essere introdotti in questo divino movimento di processione e
ritorno, che già abbozza una arditissima dialettica teologicospeculativa (che
storicamente potrà dispiegarsi anche come vera e propria mistica
speculativa), secondo la quale nel Figlio divino divenuto uomo, eppure uno
con il Padre, si radica salvificamente la stessa umanità liberata, divenuta
filialità divinizzata: «Quelli che credono nel suo Nome…, da Dio sono stati
generati» (1,1213; cf. 10,30 e 3334); anzi, essi sono stati con il Figlio «sin
dal principio» (15,27). «Chiunque è nato da Dio non commette peccato,
perché un seme (spevrma) divino dimora in lui e non può peccare perché è
nato da Dio (oJVti ejk tou= qeou= gegevnnhtai)» (1Gv 3,910). La fede è,
quindi, un potere del Figlio, che discende da Dio stesso e che è comunicato –
sin dal principio, predestinato nel principio stesso ove il Logos è da sempre
presso il Padre – a coloro che credono nel Figlio: «A quanti però lo [= il
Logos che è la luce che viene nel mondo] hanno accolto, ha dato potere
(ejxousivan) di diventare figli di Dio» (1,12); «Tu gli hai dato potere
(ejxousivan) sopra ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tuti
coloro che gli hai dato» (17,2). Sì che, nello stesso confronto con Pilato,
Gesù rivela come il mistero della redenzione operi attraverso una nascosta
gerarchia di poteri (cf. 18,11), quindi di elezione, reiezione, subordinazione.
Si pensi allo stupendo passo della 1Gv, certo uno dei vertici della
teologia e dell’etica neotestamentarie: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri,
poiché l’amore è da Dio. Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio.
Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è
manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo Figlio unigenito
nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non
siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo
Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha
amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri» (1Gv 4,79; cf. 3,1624;
Gv 13,3435, sul comandamento nuovo dell’amore reciproco; 14,1524;
15,917). Ma l’ajgavph di Dio, così splendidamente celebrata come dono
indebito spinto sino al sacrificio dello stesso Figlio divino, dono che soltanto
il dono di sé all’altro può riconoscere e confessare, è con tutta evidenza
contraddittoriamente autoreferenziale, limitata ad operare all’interno della
comunità di coloro che credono nel Figlio Unigenito, Gloria divina ormai
ipostatizzata venuta nella carne. La presenza di autentica ajgavph è
subordinata ad un’esclusiva verità cristologica, teologica, già
dogmaticamente vincolante: appunto al possesso della rivelazione, dal quale
77
Donum libertatis
il mondo è escluso (cf. 1Gv 5,1819; e Gv 17,9, ove Gesù si rifiuta di pregare
per il mondo!). Sì che (contro Erasmo e Lessing!) non è vero che chiunque
ami sia capace di conoscere Dio, ma soltanto chi conosce Dio nel Figlio
uomo ama realmente e riceve la vita divina in lui. La fede da umile e grata
esperienza del dono è divenuta possesso elettivo di una verità dialettica (Dio
nella carne), paradossale e discriminante, dunque già dogmaticamente
identificata. E gli stessi fratelli che non sono in grado di confessare questa
determinata verità, sono condannati come peccatori (ove il peccato
principale ed esiziale è ormai l’errore dogmatico!), figli di Satana, del
mondo malvagio, Anticristi, esclusi dalla comunità degli eletti come nemici
diabolici (cf. 1Gv 2,1823; 3,710; 4,16; 2Gv 711)! Ma non prescriveva il
vangelo di Gesù proprio l’accoglienza degli esclusi, degli impuri, degli empi,
culminando nell’amore dei nemici e nella richiesta di perdono di chi,
inconsapevole, crocifigge il Figlio di Dio?
In effetti, nel passaggio da Paolo a Giovanni, pure mediato dalla
condivisa centralità del paradosso del Messia crocifisso, ciò che colpisce è il
passaggio da una grazia kenotica (che avviene liberando da qualsiasi
possesso e identità, che si manifesta nella debolezza e nell’impotenza stupita
e grata di chi, credendo, la accoglie), universalmente offerta (capace di
riconciliare nel Dono escatologico le genti ed Israele), ad una grazia
potente, riservata agli eletti (un nuovo, esclusivo Israele spirituale), che
vedono e posseggono quella Verità che la maggior parte degli uomini (gli
ebrei, i giudeocristiani, i pagani) è incapace di scorgere. La grazia
giovannea è potere assoluto, divinizzante, che discende dalla Verità
intradivina, concedendo la libertà di figli come dono esclusivo proprio di
pochi discepoli capaci di credere, di opporsi al mondo e al suo principe
maligno, quindi di “divinizzarsi” nello Spirito. All’esperienza stupita e grata
dell’irruzione della misericordia di Dio – che, per Paolo, salva
indebitamente e comunque mantiene drammaticamente il credente nel
conflitto paradossale tra Spirito e carne, grazia e peccato, Potenza liberante
di Dio e impotenza della creatura: cf. Rom 78 –, pare sostituirsi
l’orgogliosa e intollerante rivendicazione della visione dell’intimo segreto
divino, che tende a presuppore persino il possesso elettivo di un impeccabile
(cf. 1Gv 3,69; 2,5 e 14; 4,1218) seme divino (cf. 1Gv 3,910).
Massimamente significativa, in tal senso, l’identificazione – destinata ad una
straordinaria fortuna storica – dello stesso Spirito (il carisma
escatologicamente effuso) con l’eterna Verità rivelata da Dio (cf. Gv 4,23
78 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
24; 14,17 e 26; 16,13; 1Gv 5,6), ovvero la gnoseologizzazione del
carismatico, la logicizzazione della grazia (non a caso il rivelatore è definito
Logos assoluto, parola di salvezza divenuta Verità, che lo Spirito dischiude e
nella quale, in effetti, si risolve). L’evento del dono profeticoescatologico
diviene conoscenza del mistero, sapere teologicodogmatico, possesso e
partecipazione dell’individuo eletto (ed è innegabile, rispetto al pensiero
teologicopolitico paolino, la svolta individualistica giovannea), nella fede
nell’incarnazione di Dio, alla stessa eterna Verità intradivina (l’eterna
unione d’amore tra Padre e Figlio).
Proprio per la vertiginosa, rivoluzionaria radicalità con la quale il
mistero dell’elezione della filialità è radicato nell’abisso dell’eterna vita
intradivina, sarà questo il Vangelo prediletto dagli gnostici (si ricordi che il
primo commentario neotestamentario a noi noto è quello al Vangelo di
Giovanni dello gnostico valentiniano Eracleone), da Origene e dai mistici
speculativi, dallo stesso Agostino predestinazionista! Non a caso, malgrado i
tentativi cattolici di metabolizzarlo e di normalizzarlo, sempre Gv indicherà,
ai suoi eletti lettori, vie impervie, spesso temerarie.
Il vangelo di Tommaso:
II,5 – l’apocrifo dell’interiorità
Se la cristologia giovannea, confessando antidocetisticamente che
l’Unigenito si rivela nella realtà della carne, continua ad ancorare alla
tradizione sinottica del Messia uomo (pure straordinariamente concepito
secondo Mt e Lc) la sua rivoluzionaria teologizzazione del Messia Figlio di
Dio, con il Vangelo di Tommaso (opera stratificata, difficilmente databile
prima della metà del II secolo, pure se contenente tradizioni orali più
antiche, comunque sottoposte ad un complesso lavoro di riscrittura e
integrazione) la speculazione sapienziale sul Salvatore divino e sull’identità
spirituale degli eletti, che sono uno con lui, prende ormai il largo, al punto
da anticipare temi e prospettive dello gnosticismo, cui pure non può essere
propriamente ricondotto. Ciò malgrado siano conservati frammenti del
kerygma originario, persino logia quasi certamente autentici del Gesù
storico, alcuni dei quali indipendenti dalla stessa mediazione sinottica e
meno rielaborati rispetto ad essa.
Comunque, in continuità con Gv, la fede è ormai risolta in conoscenza
del mistero divino, segreto, che soltanto pochi – gli eletti (cf. 23; 4950; 61;
75), rappresentati da Tommaso che confessa l’identità assolutamente
79
Donum libertatis
trascendente e ineffabile di Cristo, rivelandosi divino come lo stesso
Rivelatore, che dichiara di non essere ormai suo maestro (cf. 13) – sono
capaci di comprendere (cf. 1; 8; 21; 24; 6263; 65; 96). L’annuncio di grazia
è divenuto gnosi, conoscenza eletta, persino identità di origine e di destino
(cf. 4950; 61; 106; 108; 111): il regno di Dio, la grazia che viene è nella
stessa interiorità spirituale del discepolo (cf. 3), ove il logion di Gesù (cf. Lc
17,21) viene ad essere ontologizzato e deescatologizzato, in quanto esso non
descrive più la dimensione umile e kenoticamente prossima del regno, ma la
sua natura occulta, misteriosa, trascendente, ontologicamente potente,
assoluta (cf. 17; 19).
80 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
C III – R , ,
APITOLO IDUZIONE ETICA ONTOLOGICA ECCLESIASTICA DEL
:
CARISMATICO DAL GIUDEO CRISTIANESIMO AGLI APOLOGISTI
Se gli scritti neotestamentari si rivelano caratterizzati dall’assoluta
centralità dell’esperienza carismatica e della frenesia escatologica,
prospettiva diversa rivelano i testi superstiti della cosiddetta tradizione
giudeocristiana e soprattutto quelli che, a partire dal II secolo, cominciano
a mediare il kerygma in ambito ellenistico. Sia in ambito semitico, che in
ambito greco, assisistiamo cioè, pure se a partire da prospettive assai
diverse, ad una riduzione etica, legalistica ed ontologica del carismatico e
dell’escatologico (pure ancora fortemente attestati, soprattutto all’interno di
quella tradizione giudeocristiana per la quale essi non potevano che essere
elementi irrinunciabili di autoidentificazione). L’annuncio del dono
pneumatico del Messia escatologico viene ricompreso o in sostanziale
continuità con la Legge e la tradizione religiosa giudaica, minimizzandone la
pretesa di radicale, ultima novità, o a partire da una riconfigurazione
culturale che lo renda sempre più adeguato alle categorie e alle attese del
mondo pagano, nel quale rapidamente si diffonde. Si avvia, cioè, un processo
di almeno parziale riduzione e adattamento del nuovo all’antico, dell’evento
escatologico alle tradizioni culturali presistenti e dominanti, della profezia
all’autorità che la interpreta e la ordina, del dono di grazia alla legge, alla
verità, alle strutture ontologiche, cosmologiche, psicologiche proprie del
mondo che lo accoglie. La grazia comincia ad essere interpretata come
illuminazione dell’ordine bello, vero, buono dell’essere, piuttosto che essere
paradossale, apocalittica esperienza di un regno assolutamente nuovo.
III,1 Tradizioni giudeocristiane radicali: il corpus pseudoclementino,
elchasaiti, ebioniti
Le prospettive rivoluzionarie di Paolo e Giovanni non sono certo
condivise da quella che, con una certa approssimazione, possiamo definire
tradizione giudeocristiana osservante, storicamente più arcaica, legata
all’insegnamento di Pietro e di Giacomo, il fratello del Signore (dunque
presumibilmente prossima allo storico insegnamento di Gesù), e comunque
essa stessa plurale, ideologicamente variegata, pure se accomunata dalla
81
Donum libertatis
convinzione che il riconoscimento della messianicità di Gesù e della
escatologica effusione carismatica da questi inaugurata non sia in alcun
modo in contraddizione con la sacrale funzione salvifica del Tempio e/o della
Legge. In una formula, la grazia di Dio rivelata in Gesù, confessato come
Messia e Vero Profeta atteso da Israele (cf. Atti 3,25), chiama ad una
comunque rigorosa, seppure selettiva osservanza del culto e della Legge
salvifici, unica via di salvezza disponibile alla libertà e agli sforzi del
credente, pure animato e fortificato dal carisma promanante dal Cristo.
Nelle fonti giudeocristiane, la cristologia è decisamente intrecciata con la
dottrina della grazia: Gesù diviene il Messia grazie ai suoi meriti, alla sua
capacità di mettere in pratica la Legge (cf., ad esempio, le parole dell’ebreo
Trifone in Giustino, Dialogo con Trifone, 67,2), che Dio premia attraverso la
concessione del suo Spirito di potenza. La grazia è lo Spirito, la forza o la
potenza operativa di Dio, che elegge un uomo meritevole. Esemplari, in
proposito, i discorsi di Pietro a Gerusalemme riportatici dagli Atti (cf. 2,14
36; 3,1126), ove cristologia bassa, insistenza sull’effusione messianica di
Spirito, assenza dell’interpretazione della morte di Gesù come decisivo e
irripetibile sacrificio di espiazione che rimette i peccati, invito alla fede e
alle buone opere (della Legge), si saldano con la fedeltà alla tradizione
giudaica (il messaggio è rivolto unicamente alla casa di Israele) e al culto
del tempio (cf. Atti 2,46; 5,25 e 42). Del tutto coerenti, così come emergono
dagli Atti e da Gal, le resistenze della comunità di Gerusalemme (gravitante
soprattutto intorno a Giacomo, fratello del Signore) al messaggio di Paolo,
sentito come religiosamente (giudaicamente) eversivo. I vari tentativi di
compromesso, relativamente all’obbligo della circoncisione e ai divieti
alimentari tradizionali, testimoniano comunque della continuità ideologica
della comunità degli apostoli, quindi di una dottrina della giustificazione che
ancora interpreta il suo insegnamento a partire dalla pietà giudaica
dominante.
Testimone di aperti conflitti proto cristiani relativi alla definizione di una
dottrina della giustificazione è il cosiddetto documento giudeocristiano
contenuto nelle Recognitiones (I,2771) del Corpo pseudo clementino
(raccolta di opere, dalla complessa stratificazione, trasmesse in greco o
nella tarda traduzione latina di Rufino), ove viene significativamente fuso,
tra l’altro, con passi di una presistente Apologia giudaica: antifatalistica,
antistoica nell’esaltazione del libero arbitrio (cf. Omelie pseudoclementine
XI,8; II,15; Recogn IX,4; 68; 12) ed antiepicurea nella celebrazione della
82 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
provvidenza divina (cf. Om II,36). Dalla Legge, che rimane l’unica
rivelazione dell’eterna provvidente sapienza di Dio, sono espulse tutta una
serie di false pericopi che attestano nell’AT un Dio non perfettamente buono
e giusto, pericopi attribuite all’empia azione del Demonio sulla tradizione
degli anziani che trasmettono i puri comandamenti di Mosè (cf. Om II,3544;
III,5). La Legge mosaica può quindi essere riportata alla sua originaria,
edenica purezza – tramite l’eliminazione dei sacrifici cruenti, sostituiti dal
battesimo (cf. Om XI,26; Recogn I,48 e 54) –, sicché essa non viene affatto
messa in discussione da Gesù, il Vero Profeta atteso (cf. Dt 18,15 e 19;
Recogn I,16; 3637; 4041; 4448; 69; V,1011; Om I,1819; II,611; III,11
28 e 53).
Cristo, il Vero Profeta è, infatti, l’unico rivelatore creato dell’unico Dio
creatore (sul rigido monoteismo già polemico nei confronti della
divinizzazione del Figlio, cf. Om X,19; XVI,67 e 15; II,50), disceso
nell’uomo primordiale creato ad immagine di Dio (cf. Om III,2021;
VIII,10), cui tutta la sapienza è stata originariamente rivelata, sicché nella
sua provgnwsiò tutto è già immediatamente attinto, quindi carismaticamente
rivelato a coloro ai quali è concesso lo spirito di profezia/preconoscenza (cf.
Om III,17). Cristo è insomma divenuto lo stesso Adamo impeccabile (cf. Om
II,52; III,17; 2021), unto per grazia con l’olio dell’albero edenico della vita,
cioè della Legge, e carismaticamente vivificato dallo stesso Spirito o soffio
divino (cf. Recogn I,4547; Om III,1415 e 1821). Cristo è quindi un identico
soggetto soterico redivivo (cf. il fondamentale excursus di Om III,1920), che
corre salvificamente attraverso tutta la storia di Israele (cf. Recogn I,2938 e
52, II,22; Om 9,3: il Vero Profeta appare e illumina Noè, Abramo, Mosè; cf.
inoltre le diverse nascite di CristoAdamo, unica creatura “esoterica”, per
l’alcasaita Alcibiade in PseudoIppolito, Elenchos IX,14; e per gli ebioniti di
Epifanio, Panarion XXX,3,36; LIII,1,89), che raggiunge la sua meta,
l’ultima pienezza rivelativa in Gesù (cf., malgrado la radicale differenza di
prospettiva cristologica, l’interpretazione del riposo dello Spirito disceso al
battesimo sul Logos preesistente incarnato, in Giustino, Dialogo con Trifone,
87,25). Reinterpretato in una prospettiva più universalistica, allargata
anche ai pagani di buona volontà, il vero Profeta può quindi essere
presentato anche come nascosto illuminatore di ogni coscienza, che voglia
dischiudersi alla verità e al bene: «Egli risiede all’interno dell’anima di
ciascuno di noi, ma in coloro che non hanno alcun desiderio di conoscere
Dio e la sua giustizia, egli resta inattivo, mentre in quelli che cercano ciò che
83
Donum libertatis
è bene per la loro anima, egli agisce e accende la fiamma della conoscenza»
(Recogn VIII,59).
Contratto all’interno della tradizionale rivelazione legalesapienziale, il
messaggio di Gesù – culmine di questa catena ininterrotta di dottrina, divina
illuminazione che da Adamo arriva sino a Cristo – completa e non abroga
l’opera di Mosè (ma cf. Mt 5,1720): Gesù, infatti, non è affatto salvifica
vittima sacrificale, bensì onnisciente (cf. Om II,56; III,11; 13) maestro e
perfezionatore della Legge, della dottrina salvifica, della (prov)gnw=siò che
è «la chiave del regno» (Om III,18; cf. 26; II,611; III,1128): «Il Profeta ci
ha comandato di dirvi a cosa voi dovete pensare e cosa dovete fare» (Om
X,4); «E’ impossibile, senza il suo insegnamento, pervenire alla verità che
salva… Conosceva la verità della Legge» (Om III,54; cf. II,56; 12); sicché
l’insegnamento salvifico è identificato con «l’interpretazione più segreta
della Legge scritta» (Recogn I,74).
Quanto invece venga considerato come tenebra e mortale pericolo eretico
l’eversivo annuncio di grazia paolino (cf. Om II,1718; XVII,18; XX,19) è
testimoniato dall’identificazione di Saulo/Paolo con “il nemico”, cui
addossare persino il tentativo di uccidere Giacomo il Giusto (cioè scrupoloso
osservante della Legge), fratello del Signore, “vescovo” della comunità di
Gerusalemme e assiduo frequentatore del Tempio (cf. Recogn I,70; 71; 73;
Om XVII,19); al punto che dietro la maschera della perversa dottrina di
Simon Mago (nel corpo pseudo clementino, come negli Atti di Pietro, il
grande nemico di Pietro e del suo Vero Profeta, dunque già trasformato in
archetipo del falso profeta e del falso Cristo, quindi dell’eretico), che
annuncia la creazione “magica” di «un uomo nuovo…, non tratto dalla
terra, ma a partire dall’aria» (cf. Om II,26), perfettamente riconoscibili sono
non soltanto il dualismo teologico di Marcione (cf., ad es., Om XVIII,1;
Recogn II,3839) e degli gnostici (cf. Om XVII,45), ma persino il profilo
teologico di Paolo, l’empio dissacratore della Legge, che contrappone
inverificabili visioni alla dottrina e alla pratica tradizionali, sante e
salvifiche, garantite dal legittimo insegnamento di Pietro e degli apostoli
diretti (cf. Om XVII,1319; Recogn I,7073; Epistola di Pietro a Giacomo 2
3). Di straordinario interesse, in proposito, un passo delle Om II,17, ove la
peculiare dottrina pseudoclementina della storia come governata da sizigie o
coppie (si pensi a quella archetipica EvaAdamo) antitetiche (il cui primo
elemento è “femminile”, diabolicamente ispirato, il secondo “maschile”,
divinamente ispirato) è applicata sulla coppia Simone (dietro al quale è del
84 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
tutto riconoscibile Paolo)Pietro: «Colui che si trova tra coloro che sono
nati da donne è venuto per primo, invece colui che appartiene ai figli degli
uomini è venuto per secondo. Seguendo quest’ordine di successione, era
possibile comprendere da chi dipende Simone, che, prima di me, era venuto
per primo alle genti, e da chi dipendo io, che sono venuto dopo di lui,
succedendogli come la luce alle tenebre, la conoscenza all’ignoranza, la
guarigione alla malattia. Così, come ci aveva detto il Vero Profeta, bisogna
che prima giunga un falso vangelo prediacato da un ingannatore; soltanto
successivamente, dopo la distruzione del Luogo santo, il vero vangelo
dev’essere trasmesso in segreto per correggere le eresie che verranno».
L’estrema fedeltà alla violata tradizione giudaica si traduce in una vera e
propria demonizzazione dell’apostolo delle genti; per Pietro, infatti,
l’ammissione dei pagani al vangelo salvifico deve comunque passare per la
fedeltà a quella Legge (cf., in Om II,1920, il riferimento a “Giusta”, la
sirofenicia guarita da Gesù, che da pagana, si converte «sottomettendosi al
regime proprio dei figli del regno… Mostrava apertamente il suo
attaccamento alla Legge»), che il kerygma paolino aveva completamente
svuotato di valore salvifico, degradandola ad ombra e strumento della grazia
(cf. in Om II,22, l’accusa rivolta contro Simone, «che interpreta
allegoricamente i precetti della Legge»).
Altro testimone di tradizioni giudeocristiane antipaoline, residuali e
resistenti lungo tutto il II secolo, è Il libro della rivelazione di Elchasai,
(databile alla prima metà del II secolo), probabilmente influente su alcuni
strati dello stesso corpus pseudoclementino e a noi noto soltanto per brevi
frammenti pervenutici tramite l’autore dell’Elenchos (che attribuisce la
diffusione a Roma del libro di Elchasai al discepolo Alcibiade, all’inizio del
III secolo), Origene ed Epifanio di Salamina. Esso affermava l’obbligatorietà
della Legge giudaica, del rispetto del sabato e della stessa circoncisione (cf.
IX,14,1; 16,3; Epifanio, Panarion XIX,5,1); la centralità del battesimo
interpretato come rito purificatore rinnovabile (cf. IX,13,4; 15,1; 3; 6;
Epifanio, Panarion XIX,3,7; LIII,1,7); la negazione della divinità di Cristo,
redentore redivivo (cf. Elench IX,14,1; X,29,2: dopo varie peregrinazioni
attraverso vari corpi, il Cristo/Adamo trascendente è «riversato
(metaggizovmenoò)» in Gesù); il rifiuto totale dell’autorità di Paolo (cf.
Origene, Omelia sul Salmo 38, frammento citato in Eusebio, Storia
ecclesiastica VI,38). In gran parte coerente con questo quadro, risultano la
notizia sulla setta degli ebioniti di Ireneo (cf. Adversus Haereses V,1,3; cf.
85
Donum libertatis
I,26,2) e quelle di Eusebio di Cesarea (Storia ecclesiastica III,27,14) e di
Epifanio (Panarion XXX,3,16).
Non affrontiamo qui la connessa, complessa questione
dell’identificazione e della ricostruzione delle linee dottrinale dei cosiddetti
Vangeli giudeocristiani (Vangelo degli Ebrei, Vangelo dei Nazarei, Vangelo
degli Ebioniti), conosciuti frammentariamente tramite Ireneo, Clemente,
Origene, Eusebio, Epifanio, Girolamo. Questa ristretta, eppure fondamentale
congerie di frammenti “apocrifi”, che ben poco ci testimonia della dottrina
della giustificazione dei loro ignoti autori, comunque andrebbe
sistematicamente riconnessa ai sinottici canonici, consentendo di attingere
strati arcaici comuni, che potrebbero far trapelare datti illuminanti sulle
convinzioni cristologiche e pneumatologiche dei primi discepoli di Gesù.
Penso, ad esempio, al logion del Vangelo degli Ebrei citato da Origene,
Commentario al Vangelo di Giovanni, II,87 e Omelie su Geremia XV,14: «Il
Salvatore stesso dice: “Poco fa mia madre, lo Spirito Santo, mi ha preso per
uno dei miei capelli e mi ha trasportato sul grande monte Tabor”; esso
potrebbe risultare illuminante nei confronti a) della notizia marciana sul
battesimo di Gesù e il suo essere trascinato dallo Spirito nel deserto per
essere tentato, in Marco 1,913 (sulla caratterizzazione adamitica
dell’episodio, cf. Giustino, Dialogo con Trifone 103,6); e b) nei confronti del
controverso episodio sull’accusa di ossessione diabolica e sul
misconoscimento di Maria e dei suoi fratelli da parte di Gesù, in Mc. 3.20
35; in entrambi i casi, Gesù sarebbe presentato come l’uomo (per alcune
tradizioni giudeocristiane, nato da Maria e Giuseppe) divenuto (con il
battesimo) “ossesso dello Spirito di Dio”, che chiama i suoi discepoli alla
condivisione di un’”altra” maternità o identità familiare, non carnale, ma
spirituale, carismatica, escatologica.
III,2 – Tradizioni giudeocristiane moderate e persistenze giudeo
L’epistola di Giacomo, Seconda lettera di Pietro, Didaché
cristiane: la la e
di Barnaba.
l’Epistola
Rispetto a queste variegate tradizioni giudeocristiane (non affronto qui
la complessa questione relativa alla definizione di giudeo cristianesimo e ai
tentativi di datazione della nascita del vero e proprio cristianesimo, come
religione ormai autonoma rispetto alla sua matrice giudaica), che potremmo
definire approssimativamente “ebionitiche” (ove sempre aperta rimane la
86 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
questione del loro rapporto di continuità con la tradizione di Pietro e di
Giacomo, troppo disinvoltamente negato da Daniélou, forse
confessionalmente condizionato), sempre più marginalizzate già dall’inizio
del II secolo (come attesta il Dialogo con Trifone di Giustino), ben altra
strategia è riscontrabile nell’Epistola di Giacomo, quella che Lutero definirà
«lettera di paglia», ipotizzando persino una sua estromissione dal canone.
Evidente risulta il tentativo, proprio di un giudeocristianesimo moderato, di
resistere ad un’assolutizzazione della prospettiva paolina, comunque
riconosciuta come ormai non più emarginabile, anzi chiaramente prevalente
all’interno del sempre più imponente movimento gesuano. Proprio perché
espressione di una comunità che non può ormai opporsi radicalmente a
Paolo e al crescente, inarrestabile successo delle chiese da lui fondate, la
strategia della lettera risulta essere quella compromissoria di una correzione
del radicalismo paolino: la sua rivoluzionaria dottrina della giustificazione
viene attenuata, normalizzata tramite l’insistenza sulla centralità della
dimensione pratica (ancora inseparabile dall’orizzonte normativo della
Legge), capace di dare contenuto e possibilità di verifica ad una fede in Gesù
Cristo altrimenti vuota e anarchica. Pertanto, la rivendicazione
dell’obbligatorietà della Legge – «la Legge perfetta, la Legge della libertà
(novmoò tevleioò oJ th=ò ejleuqerivaò)» (1,25; cf. 2,8 e 12; 3,13) – non
viene contrapposta apertamente alla fede paolina, ma affiancata ad essa,
come necessaria alla salvezza; ove la Legge comunque viene ormai
spiritualizzata, in quanto slegata dal complesso degli obblighi normativi
tradizionali e reinterpretata come Legge della carità, delle opere buone:
«Anche la fede, se non ha le opere, è morta in se stessa» (2,17). Ove la
radicalità dell’annuncio paolino viene chiaramente rimossa, proprio perché
la fede risulta essere non il decisivo abbandono salvifico all’evento del dono
escatologico, non l’accoglimento della nuova, cristica, carismatica identità
spirituale, capace di produrre le buone opere come frutto spontaneo, ma
perché la fede – si badi non in Cristo e nel suo messaggio di misericordia,
ma in Dio Padre – viene ridotta ad elemento essenziale, ma comunque
parziale e per di più meramente iniziale di un dovere eticoreligioso, di cui la
libertà del credente deve farsi carico e che soltanto le opere compiono nella
sua integralità (cf. 1,1927; 3,13).
Significativa, in proposito, la correzione della prospettiva di Rom 4,125:
in Giac 2,1426, si insiste come Abramo fosse stato giustificato non soltanto
dalla fede, ma anche dalle sue opere, come testimonia l’episodio del
87
Donum libertatis
sacrificio di Isacco, prova di obbedienza chiamata a verificare l’autenticità
della fede di Abramo e a perfezionarla. Se quindi «ogni buon regalo ed ogni
dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce» (1,17), se pure
«la misericordia ha sempre la meglio sul giudizio», comunque dono e
misericordia divini sono interpretati come condizionati, corrispondenti alla
capacità di dono e misericordia dei fratelli, chiamati a divenire puri e ad
agire in conformità con la Legge dell’amore divino: «Sottomettetevi dunque
a Dio, resistete al diavolo ed egli fuggirà da voi. Avvicinatevi a Dio ed egli si
avvicinerà a voi. Purificate le vostre mani, o peccatori, e santificate i vostri
cuori, o irresoluti… Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà» (4,7
10). La «grazia più grande (meivzwn cavriò)» (4,6) è quindi il premio di uno
sforzo, umile, sottomesso e paziente, che esalterà nel prossimo giudizio
escatologico (cf. 5,711) il fratello che ubbidisce al comandamento di Dio.
Che Paolo e il suo messaggio provocassero serie difficoltà a gran parte
delle altre tradizioni gesuane primitive è confermato non soltanto, com’è
noto, dall’incidente di Antiochia (cf. Gal 2,1114) e dalla connessa,
controversa questione del decreto apostolico emanato dal cosiddetto concilio
di Gerusalemme (cf. Atti 15,135; Gal 2,110), ma anche dall’ApGv (cf., in
2,1829 la lettera di Giovanni a Tiatira, ove si polemizza violentemente
contro una comunità che non rispetta rigorosamente i divieti alimentari
giudaici) e dalla più tarda, pseudoepigrafa 2Pietro, ove – in analogia con la
prospettiva di Giac – l’autorità di Paolo è al tempo stesso apertamente
riconosciuta, eppure sottoposta ad implicita, radicale censura e
normalizzazione: «La magnanimità del Signore nostro giudicatela come
salvezza, come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo
la sapienza che gli è stata data. Così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta di
queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli
ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre scritture, per loro
propria rovina» (2Pietro 3,1516). Non casuale appare, in tal senso,
l’opposizione tra l’autoritativa testimonianza diretta propria dei «testimoni
oculari», che “Pietro” può vantare di possedere, contrapposta alle «favole
artificiosamente inventate» proprie di chi fa appello all’inverificabile dono
della profezia operato dallo Spirito (cf. 1,1621); così, probabilmente rivolta
contro esponenti di comunità paoline è la violenta condanna di coloro che
«promettono libertà (ejleuqerivan), ma essi stessi sono schiavi della
corruzione» (2,19). Sicché l’affermazione (corrispondente all’intera
prospettiva di Giac) di dover «aggiungere (ejpicorhghvsate)» alla fede una
88 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
lunga serie di virtù, pure culminanti nella carità, senza le quali il credente
rimane «cieco e miope» (cf. 2Pietro 1,510), testimonia dell’evidente disagio
nei confronti della “difficile” dottrina della grazia paolina, per la quale,
liberato dalla Legge nella libertà dello Spirito (cf. Rom 7,6), «l’uomo è
giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della Legge» (Rom
3,28), nella confessione del «disegno divino fondato sull’elezione non in base
alle opere, ma alla volontà di colui che chiama» (Rom 9,11).
Al contrario, uno scritto arcaico, quale la Didaché. Dottrina degli
apostoli, non soltanto continua a vietare la consumazione delle carni
consacrate agli idoli (cf. 6,23, che pare collocare il testo sulla linea del
giudeocristianesimo moderato riferibile al cosiddetto decreto apostolico di
Atti 15,29), ma soprattutto continua a concepire l’annuncio cristiano a
partire dal modello eticoteologico giudaico delle due vie (quella della vita e
quella delle tenebre: cf. Deuteronomio 30,1520), non cogliendo alcuna
frattura tra la Legge e il Vangelo di CristoServo (si noti la formula arcaica
di cristologia davidica in 9,2), perfetta realizzazione dell’etica religiosa
giudaica. La rivelazione salvifica è appunto dottrina etica, che culmina nel
duplice comandamento gesuano dell’amore di Dio e del prossimo, ove i
comandamenti giudaici e i nuovi precetti di Gesù si compongono
armonicamente (già in senso antipaolino?). Significativa, in 6,2,
l’indicazione eminentemente giudeocristiana della via di perfezione con la
disponibilità ad «accollarsi il giogo del Signore» (sulla Legge identificata
con il «giogo», cf. Atti 15,10), identificato con la stessa Legge mosaica
(come testimonia il riferimento, in 6,3, all’obbligo di non mangiare gli
idolotiti), ove risulta presumibile un’intenzione antipaolina.
La Didaché, comunque, riesce ad accogliere l’aspetto più paradossale e
sovversivo dell’insegnamento di Gesù, il convertirsi dell’amore del prossimo
nell’iperbole folle dell’amore del nemico: «Benedite coloro che vi
maledicono, pregate per i vostri nemici, digiunate per coloro che vi
perseguitano. Che merito avete, infatti, se amate coloro che vi amano? Non
fanno lo stesso anche i pagani? Voi, piuttosto, comportatevi amorevolmente
con coloro che vi odiano e non avrete nemico» (1,3; cf. 1,46). Insieme con la
radicalità del comandamento dell’amore del nemico, sono evidenti nella
Diadaché sia la persistente identità carismatica della comunità, come prova
il rispetto per il profeta che parla ripieno di Spirito (cf. 11,712, ove
comunque si precisa, in 11,8, che il vero profeta si riconosce soltanto «dal
comportamento», probabilmente ancora “regolato” sulla sua integrale
89
Donum libertatis
fedeltà alla Legge), sia la fedeltà alla spasmodica attesa escatologica
primitiva: infatti, la grande preghiera, attestata in 1Cor 16,22 e Ap 22,20,
torna anche in questo importante testo giudeocristiano: «Maranatha. Amen»
(10,6; cf. 16,18).
Certo è fuorviante costringere anche la Lettera di Barnaba all’interno di
quegli scritti che possiamo definire giudeocristiani moderati; essa, infatti,
radicalizzando la prospettiva paolina, opera una radicale polemica
antigiudaica (cf. 4,79 e 14,16: l’alleanza ricevuta con Mosè è ormai
sottratta ad Israele) e sottopone l’Antico Testamento ad una sistematica
lettura tipologica (in particolare, in 6,915, ricorre la dottrina
dell’escatologica ricreazione spirituale di Adamo in Cristo). Eppure, il
nostro testo non soltanto polemizza contro una nozione deresponsabilizzante
di elezione (cf. 4,1013; in particolare, 10: «Detestiamo definitivamente le
opere della via cattiva. Non isolatevi ripiegandovi in voi stessi come già foste
giustificati»), ma soprattutto continua a pensare la salvezza come rivelazione
di una dottrina etica (cf., in 9,89, l’identificazione della grazia di Cristo con
«il dono della sua dottrina»), via di luce dei precetti del Signore, che la
libertà del credente è chiamata a percorrere, allontanandosi dalla via delle
tenebre (cf. 18,120,2, ove l’autore – che presenta affinità tematiche anche
con il tema psuedoclementino della storia governata da sizigie antitetiche: cf.
18,12 – attinge ad uno scritto giudaico sulle due vie, utilizzato anche dalla
Didaché; cf. anche Lettera degli apostoli 39). Il paolinismo del nostro scritto
risulta, insomma, ricompreso in termini legalistici, etici e dottrinali: «Ancora
vi chiedo: siate buoni legislatori di voi stessi… Dio che domina tutto
l’universo vi conceda sapienza, intelligenza, scienza, conoscenza dei suoi
precetti, costanza» (21,46). Insomma, in questo scritto appropriatamente
attribuito a Barnaba, compagno “a mezzo servizio” di Paolo, pure se
liberata dal giogo della Legge, del tempio, della circoncisione materiali, il
kerygma di grazia è ormai divenuto legge spirituale.
la prima lettera di Clemente
III,3 – La prospettiva romana: e il
Pastore di Erma
Questa traduzione principalmente etica e persino legalistica del vangelo
è dunque influente persino in testi che, pur avendo superato l’obbligatorietà
dell’osservanza tradizionale, testimoniano comunque un tentativo di
compromesso tra etica giudaica, sempre più evidenti infiltrazioni di
90 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
prospettive ellenistiche e radicale novità del messaggio paolino, insieme
carismaticoescatologico (nutrito da quella tradizione profetica ed
apocalittica, tendenzialmente alternativa alla Legge e agli assetti dominanti
della religione giudaica) ed universalistico (dunque inevitabilmente aperto
all’influenza delle categorie culturali pagane: cf., ad es., la composizione
lucana del “paolino” discorso sull’Areopago di Atene, in Atti 17,1634).
Pertanto, se il kerygma paolino risulta ormai presupposto irrinunciabile
della nuova identità cristiana in fieri, perché annuncio vincente nella
missione ai pagani, esso viene comunque al tempo stesso normalizzato, in
quanto avvertito come almeno potenzialmente pericoloso e responsabile di
una deriva religiosamente ed eticamente anarchica dell’annuncio di grazia.
Se, infatti, il nuovo assetto delle comunità cristiane è sempre più quello della
costituzione di una nuova religione (e si rifletta sull’assoluta paradossalità,
persino contraddittorietà dell’impresa), l’originalissima fisionomia di questo
immane processo storico di riassetto globale della civiltà occidentale non
potrà che restituire la complessa tensione dialettica tra esigenza di
fondazione e di eversione, di costruzione e di decostruzione, di definizione
del senso e di allegoria rispetto a qualsiasi pretesa di sua fissazione, di
chiusura su un’identità istituzionale, dogmatica, sociale e di apertura su
quell’eccedenza fondativa che tutto relativizza. In questa prospettiva, è di
grande interesse ricostruire le prime testimonianze a noi pervenute sulla
dottrina della fede della comunità romana – nella gerarchia della quale,
addirittura fino al III secolo, rimarranno dominanti prospettive teologiche
giudaizzanti –, nella quale sia Pietro che Paolo avevano predicato il loro
non del tutto concorde vangelo.
Paradigmatico è il caso della Prima lettera ai Corinzi di Clemente di Roma
(databile intorno al 90), che insiste fortemente sulla continuità tra la storia di
Israele e quella degli eletti in Cristo. Evidente risulta l’influenza paolina
nell’esaltazione della grazia (cf. 30,3) e della provvidente potenza di Dio (cf.
20,1212; 27,128,4; 59,161,3), confessata come suprema condizione della fede
dei credenti, quelli della vecchia come della nuova alleanza: «Tutti dunque sono
stati glorificati ed esaltati non da loro stessi, o dalle loro opere, o per la giustizia
delle azioni che hanno compiuto, ma per il suo volere. Anche noi, dunque, che
per suo volere siamo stati chiamati in Cristo Gesù, non siamo giustificati da noi
stessi né per la nostra sapienza o intelligenza o pietà o azioni che abbiamo
compiuto in purezza di cuore, ma mediante la fede, per la quale Dio onnipotente
91
Donum libertatis
ha giustificato tutti dalle origini in poi» (32,34). Eppure, malgrado la carità
venga celebrata come dono supremo di Dio e condizione di tutte le opere buone
(cf. 50,13), la prospettiva paolina è sempre ricompresa all’interno di un
processo di edificazione morale: l’apologia (nutrita di motivi stoici) della
provvidenza creatrice di Dio e della bellezza del cosmo (cf. 20,112; 27,47;
60,1) culmina nell’esortazione a bene operare (cf. 33,134,4), sì che gli uomini
divengano imitatori di Dio nell’opera di giustizia (cf. 33,8) e padroni di se stessi
(cf. 30,3), ove evidente risulta l’influsso ellenistico, già precocemente capace di
oscurare l’originaria esposizione della creatura impotente all’evento della
grazia. Insomma, la costante prospettiva moralistica e legalistica (cf. l’insistenza
sui comandamenti e sui precetti divini in 1,13,1; 13,3; 21,123,2; 30,18; 35,4
12; 58,259,1; quella sul pentimento identificato con la rivelazione della grazia
in 7,19,1; 51,152,4) finisce per imporsi: Cristo stesso è essenzialmente – in
veterotestamentari dei profeti, di Giobbe, di Davide
continuità con gli esempi
(cf. 17,118,17), di Mosè (cf. 43,1; 53,25) – il supremo esempio di virtù (cf.
36,1), di umiltà e di pazienza, spinto sino all’accettazione della morte, e non
la scaturigine della paolina giustificazione per grazia (cf. 16,117).
Al punto che, in 40,141,4, la lettera arriva a proporre come modello
perfetto di comunità credente quello del Tempio di Gerusalemme, quindi il
rigoroso rispetto dei precetti del culto giudaico, raccomandando «le offerte e
i sacri servizi… da compiere non a caso o disordinatamente, ma in tempi e
momenti determinati… Dunque quelli che presentano le loro offerte nei
tempi stabiliti sono ben accetti e felici: perché seguendo i precetti del
Padrone, non sbagliano. Infatti al sommo sacerdote sono conferiti
particolari servizi liturgici, ai sacerdoti è assegnato il proprio posto e ai
leviti sono imposti servizi particolari: l'uomo laico è legato ai precetti dei
laici. Ciascuno di noi, fratelli, possa essere gradito a Dio nel proprio posto,
con coscienza retta, senza trasgredire la regola stabilita per il suo servizio e
con dignità. Non dappertutto, fratelli, si offrono sacrifici continui o votivi, o
per i peccati o le negligenze, ma solo a Gerusalemme: e anche lì, non in un
posto qualsiasi ma davanti al tempio, sull'altare» (40,2 e 45; 41,12).
L’annuncio paolino è, quindi, imbrigliato all’interno di una struttura
gerarchica e cultuale, che, prendendo come modello quella del Tempio di
92 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
Gerusalemme, “riduce” l’evento libero della grazia a prassi salvifica
garantita dall’ordine ecclesiastico, scandita in regole morali ed istituzionali
da rispettare rigorosamente (donde il messaggio paternalistico e
conservatore inviato alla comunità di Corinto), insomma normalizzando
l’eversiva novità dell’amore ultimo rivelato da Cristo nelle categorie della
religione tradizionale, non a caso ontologicamente “rivelata” dall’ordine
stesso della creazione (cf. 19,120,11; 60,1; e, in 23,426,1, le prove
“fisiche” chiamate in causa per provare la resurrezione futura). Il regno sta
divenendo chiesa, il cristianesimo nascente già si struttura come religione
universale, tradizionalmente organizzata, garante dell’ordine provvidenziale
del cosmo, accessibile alla stessa ragione naturale.
Anche nel Pastore di Erma, scritto romano databile alla metà del II
secolo, di forte influenza giudeocristiana, la restituzione del vangelo rimane
essenzialmente di tipo legalenormativo, al punto che l’atto divino di grazia
viene subordinato alla prescienza dei meriti degli uomini (cf. Similitudine
VIII,72,16) e si riduce concretamente o al battesimo come remissione dei
peccati (cf. Visione III,3,5; Precetto IV,3,13; 4,4) o alla predicazione di un
secondo, straordinario perdono postbattesimale, che si concretizza nella
(ri)consegna dei precetti, ai quali la volontà dei giusti è chiamata ad
adeguarsi: «Fatti coraggio per i precetti che sto per darti. Infatti, fui
mandato per mostrarti nuovamente tutte le cose…, le principali che sono per
voi utili… Se voi, dopo averli sentiti, li osserverete e, camminando nella loro
via, li metterete in pratica con cuore puro, conseguirete dal Signore quanto
vi ha promesso. Se, invece, dopo averli sentiti non vi pentirete, tornando ai
vostri peccati, riceverete dal Signore il contrario» (Vis V,25,67; cf. II,2,48;
Prec IXII,26,149,5; Simil IX,26,6). Risulta evidente che il battesimo – come
l’eccezionale indulgenza postbattesimale che ne replica l’operazione
salvifica – non costituisce affatto l’evento escatologico del dono di una
nuova identità carismatica, ma soltanto l’occasione offerta di inaugurare
una vita integralmente virtuosa. La salvezza, insomma, dipende dalla
meritoria capacità del fedele di mantenersi puro, di attenersi alla regola
rivelata, di essere virtuoso, ubbidendo alla Legge: «Ciò che ti salva è il fatto
che tu non ti separi dal Dio vivo; ciò che ti salva è la tua purezza e la tua
93
Donum libertatis
grande sobrietà e continenza. Esse ti hanno già salvato, posto che tu vi
perseveri, e salvano tutti coloro che conducono una vita innocente e pura»
(Vis II,3,2). Erma, insomma, riconduce l’annuncio escatologico di grazia
all’interno di un consueto moralismo legalistico («Tu cammina nei miei
precetti e vivrai in Dio. E vivrà in Dio chiunque cammina in essi e agirà
rettamente»: Sim VIII,77,4), sicché la sua stessa ecclesiologia (cf.
l’immagine della torre in Vis III,9,118,10) risulta sostanzialmente
dipendente da modelli apocalittici giudaici (in part. 4Esra) relativi a
Gerusalemme e al tempio, quindi non cristologicamente fondata.
Decisiva, in proposito, l’VIII similitudine (cf. Sim VIII,67,177,5), ove
l’apocalittico albero «che ama la vita (filovzwon)» (68,7) è – con evidenti
assonanze con la cristologia adamitica del corpus pseudo clementino – non
soltanto identificato con l’albero edenico della vita che è la stessa Legge di
Dio, ma soprattutto questa è identificata con il Figlio di Dio, cioè con Cristo,
che opera la dilatazione della rivelazione della Legge a tutta l’umanità:
«Ascolta, questo grande albero che copre piani e monti e tutta la terra è la
Legge di Dio data a tutto il mondo. Questa Legge è il Figlio di Dio che fu
annunziato sino ai confini della terra. I popoli che sono sotto l’ombra sono
quelli che hanno ascoltato la predicazione e creduto in lui» (Sim VIII,69,2
3). Il vangelo è quindi interpretato come la Legge rivelata a tutte le genti e
niente affatto come un’escatologica irruzione della grazia di Dio, con la
quale l’intera creazione è liberata e ricreata nello Spirito, ove solo il Dono è
condizione efficace dell’amore del prossimo e della messa in pratica della
Legge. Sicché, se anche il Pastore condivide – come tutti gli scritti
giudeocristiani – l’affermazione dell’esistenza di un carisma profetico, la cui
autenticità rimane di difficile interpretazione in quanto sempre esposta al
rischio della pseudoprofezia (cf. Precetto XI,43,118), comunque soltanto
«dalla vita» (7 e 16), quindi dalla fedeltà ai precetti e dal suo umile rispetto
dell’ordine ecclesiastico, dell’«assemblea piena di giusti» (9; 1314), può
davvero distinguersi «l’uomo che ha lo Spirito di Dio» (7), che «ha la
potenza (duvnamin) della divinità… è dall’alto, dalla potenza dello Spirito
divino» (5). Davvero, torna qui in mente il giudizio di Bultmann: soltanto la
confessione della recezione della salvifica grazia escatologica e dello Spirito
94 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
Santo tramite i sacramenti (battesimo ed eucaristia) della chiesa del Signore
pare essere potente contrappeso all’ormai prevalenti moralismo religioso e
strutturazione ecclesiastica, condizionati dall’influenza della tradizione
sinagogale. Non a caso, l’unica possibilità davvero risolutiva del
discernimento dell’autentico carisma profetico sarà quello di attribuirlo
unicamente al vescovo, a colui che, detenendo il legittimo potere istituzionale
di distinguere il vero dal falso credente, può decidere della sua presenza,
finendo per sottometterlo e spegnerlo, magari condannandolo come superba
follia eretica (si pensi alla crociata antimontanista dei vescovi asiatici alla
fine del II secolo).
III,4 – Ignazio di Antiochia e la tradizione asiatica
Martirizzato sotto Traiano, Ignazio di Antiochia (di cui si assume qui
come autentica la redazione media dell’epistolario) è il vero e proprio
archetipo di una protocattolica identità religiosa cristiana – già diffusa
all’inizio del II secolo non solo ad Antiochia, ma anche in area asiatica –,
ormai pienamente consapevole della sua definitiva rottura con la sua matrice
giudaica. Egli, infatti, oltre ad elaborare un’ecclesiologia innovativa
gerarchicamente strutturata, culminante nel vescovo monarchico, produce
una prima, precoce sintesi teologica delle due principali tradizioni cristiane
primitive: teologicamente dipendente dalla tradizione giovannea – centralità
del paradosso del Dio Logos divenuto sarx, della «passione del mio Dio»
(Romani 6,3; cf. Efesini 7,12; 19,13) e polemica antidocetistica (cf. Trall
9,110; Smirn 1,1; 5,2; 7,1) –, al tempo stesso si ispira sistematicamente al
modello martiriale di Paolo (cf. Ef 12,12; Rom 4,13; 9,2; Smirn 4,2) e alla
paolina concentrazione nel sacrificio salvifico di Cristo («la vita autentica
nella morte»: Ef 7,2) della nuova economia di grazia (cf. Ef 18,120,1; cf.
Magnesii 9,1; Tralliani 9,12), che abolisce la Legge (cf. Magn 8,1) e la
vecchia economia giudaica, valida unicamente per la sua portata profetica
(cf. Magn 8,2; 9,2). Ignazio, com’è noto, arriva così a contrapporre al
«giudaismo», la vecchia religione del culto esteriore, il «cristianesimo» (il
sostantivo è qui attestato per la prima volta: cf. Magn 10,12; Filadelfiesi
6,1; 8,12; Rom 3,3), appunto identificato con la nuova religione della fede e
della grazia di Cristo, garantita dalla gerarchia ecclesiastica,
95
Donum libertatis
carismaticamente ispirata (cf., in Filad 7,12 e in Ef 5,13, il ricorso
all’illuminazione dello Spirito per giustificare il primato del vescovo e la
gerarchia ecclesiastica in lui culminante).
La dottrina della giustificazione risulta comunque non molto
approfondita (nulla, ad esempio, si dice del rapporto tra grazia, sforzo
umano e opere), bensì risolta in una mistica cristocentrica appunto di
ispirazione paolina. Così, la sete di martirio, imitazione del sacrificio del
Figlio, è nutrita dalla fede in una metamorfosi di identità spirituale operata
dalla grazia di Dio: «Lasciate che riceva la luce pura: là giunto sarò uomo.
Lasciate che io sia imitatore della passione del mio Dio… Io mi vergogno di
essere annoverato tra i suoi, non ne sono degno perché sono l’ultimo di loro
e un aborto. Ma ho avuto la misericordia di essere qualcuno, se raggiungo
Dio» (Rom 6,23 e 9,2; cf. 4,13; 5,36,1; Smirnesi 4,2).
Di grande rilevanza la peculiare interpretazione ignaziana
dell’escatologia, ormai individualizzata e riferita all’immortalità futura,
trascendente del soggetto (cf. Ef 12,2; 17,1; Magn 14) e non più legata
all’attesa primitiva di quel regno di Dio, che irrompe gratis svuotando
universalmente (e socialmente!) il potere del peccato. La salvezza
dell’individuo spirituale (contrapposto all’individuo carnale o semplicemente
umano: cf. Ef 5,1 Trall 2,1; Rom 8,1) è invece attingibile soltanto attraverso
la partecipazione alla chiesa di grazia e ai suoi sacramenti (cf. Ef 2,20; 13,1;
Filad 4; Smirn 8,19,1 e 7,1, ove nell’eucarestia il fedele attinge l’eJvnwsiò
con il corpo e il sangue di Cristo), dei quali solo il vescovo è legittimo
garante: «Senza il vescovo non è lecito né battezzare, né celebrare l’agape;
quello che egli approva è gradito a Dio, perché tutto ciò che si fa sia
legittimo e sicuro» (Smirn 8,2; cf. Ef 5.23). E come Cristo è sottomesso al
Padre, «il vescovo di tutti» (Magn 3,1), così tutta la chiesa fruisce della
grazia di Cristo soltanto rimanendo sottomessa al vescovo (passim), che è
«al posto di Dio» (Magn 6,1); mentre, significativamente, Cristo è figura dei
diaconi, essendo essi subordinati al vescovo e al sinedrio dei presbiteri,
come Cristo è subordinato al Padre (cf. Trall 3,1; e Magn 13,2)! Sicché,
insieme con il Messia che lo effonde, il dono di grazia risulta evidentemente
subordinato ad una rigida ontoteologicopolitica gerarchia di potere.
L’istituzionalizzazione della grazia nella chiesa e nella sua gerarchia (cf. le
Pastorali pseudo paoline) è non solo apertamente, ossessivamente teorizzata,
ma anche implacabilmente realizzata (ove eminentemente giovannea appare
96 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
l’intollerante ansia dogmatizzante, assai distante dalla “tolleranza”
escatologica e carismatica di Paolo: cf. 1Cor ,1,1013; Fil 1,1418).
Significativa di una recezione cattolica soltanto parziale della dottrina
della giustificazione paolina, concordata con dominanti esigenze legali,
morali, dottrinali, ecclesiastiche, è la prospettiva di un altro autore di area
asiatica, Policarpo di Smirne: riconosciuta l’autorita di maestro «del beato e
glorioso Paolo» (cf. 1Filippesi 3,2) e fatta propria la proclamazione della
salvezza per grazia e non per opere (cf. 2Filippesi 1,3), e ciò grazie alla fede
nel sacrificio espiatorio di Cristo (cf. 1,2), comunque si restituisce la dottrina
«sulla giustizia» (3,1) come «precetto della giustizia» (3,3), Legge di Cristo
(5,1), etica e retta dottrina basate sui comandamenti divini (cf. 2,27,2). Se
quindi frequente è l’utilizzazione di passi paolini, comunque questi appaiono
come sradicati dal contesto carismatico al quale appartenevano e appunto
ricontestualizzati nell’ambito di un’etica ecclesiastica, che più che sul dono
divino insiste sull’obbligo delle virtù (cf. 8,112,3). Evidentemente, il
prestigio di martire e la potenza teologica di Paolo non sono titoli sufficienti
per assolutizzarne il messaggio, che nella sua radicalità viene
sostanzialmente disattivato. Prova delle fortissime resistenze incontrate da
Paolo in Asia, è il sostanziale silenzio che, a partire dal II secolo, gli riserva
gran parte della tradizione asiatica (le cui chiese erano pure, in
maggioranza, di fondazione paolina): si pensi all’Apocalisse di Giovanni
(nelle lettere dedicate alla sette chiese d’Asia, ove riaffiora una resistenza
osservante alla linea paolina), agli Atti di Giovanni, a Papia di Gerapoli (cf.
Eusebio, Storia ecclesiastica III,39) e a Policrate di Efeso, che, alla fine del
II secolo, inserisce l’apostolo Filippo, Giovanni, Policarpo di Smirne e
Melitone di Sardi, ma non Paolo (pure fondatore della chiesa di Efeso!) tra
gli astri della tradizione asiatica (cf. Eusebio, Storia ecclesiastica V,24,2).
Questo silenzio, certo non casuale, testimona una prudente presa di distanza
(si pensi alla stessa identificazione di Paolo con l’intendente disonesto
nell’esegesi di Luca 16,18 di Teofilo di Antiochia, riportataci da Girolamo,
Ep 121), se non una vera e propria censura di Paolo, a favore di una diffusa
identificazione con quella che possiamo definire tradizione giovannea, per
un verso prossima a quella paolina (per la nettezza con la quale la morte di
Cristo, sacrificalmente interpretata, è assunta come frattura rivelativa e
superamento definitivo della religione giudaica dominante), ma d’altra parte
più rivoluzionaria nell’affermazione della preesistenza divina di Cristo (cui
pure la deuteropaolina Col si avvicina notevolmente), meno radicale nella
97
Donum libertatis
svalutazione delle opere della Legge e più prudente nel superamento delle
tradizioni rituali giudaiche.
La lettura tipologica della Pasqua ebraica (prefigurazione della Pasqua
cristiana, interpretata come passione di Cristo), proposta dall’Omelia
pasquale di Melitone di Sardi, come dall’anonima, quartodecimana In
sanctum Pascha, anch’essa di provenienza asiatica, testimoniano (malgrado
il forte animus antigiudaico) della persistente influenza culturale giudeo
cristiana, comunque subordinata ad una tradizione cristologica giovannea
(Cristo è Dio, che è anche vero uomo), capace di assorbire e ristrutturare la
dottrina della grazia paolina. Infatti, la croce di Cristo è l’unico, universale,
salvifico sacrificio di espiazione (cf. Melitone, Sulla Pasqua 506522; 767
800; In sanctum Pascha 4953), preparato da Dio sin dall’inizio della storia,
prefigurato in tutta la rivelazione veterotestamentaria e infine
universalmente operante come fonte di nuova creazione: «E’ invero antico e
nuovo il mistero del Signore, antico secondo il tipo, nuovo secondo la
grazia» (Melitone, Sulla Pasqua 423425); «Egli è tutto, in quanto giudica
Legge, in quanto insegna Logos, in quanto salva Grazia» (2528). La
redenzione realizza, quindi, un vero e proprio rovesciamento ontologico,
rassunto nella dialettica tipologica tra Adamo e Cristo: «Questi è colui che
ci trasse da schiavitù a libertà, da tenebra a luce, da morte a vita, da
tirannide a regalità eterna, che fece di noi un sacerdozio nuovo e un popolo
eletto, eterno» (489495; cf. In sanctum Pascha 61). Colpisce, inoltre, la
forza con la quale è descritta l’eredità della colpa di Adamo, interpretata
come tragica fatalità di perversione e di morte (cf. Melitone, Sulla Pasqua
395410), a causa della quale gli uomini «erano travolti dal peccato
tirannico ed erano trascinati nelle regioni delle passioni, dove erano
sommersi da piaceritt insaziabili… Tutti, chi omicida, chi fratricida, chi
parricida, chi infanticida, sulla terra divennero» (359361; 379381). Alla
negatività assoluta della condizione decaduta, all’orma (ijvcnoò) del peccato
umanamente indelebile da ogni anima (cf. 398) è, quindi, contrapposta la
miracolosa pienezza dell’umanità in Cristo, che diviene partecipe del sigillo
(sragivò) dello Spirito Santo (cf. 479480); sicché, con l’eucarestia, gli stessi
uomini, «reimpastati dal suo Spirito», ricevono « il nuovo impasto della sua
sacra unione» (In sanctum Pascha 39), quella de «l’uomo incorporato a
Dio» (61). In questa capacità di concentrare nel mistero di Cristo Dio e
uomo (cf. 4548) il rovesciamento dialettico che segna la storia dell’intera
umanità, nel suo inarrestabile passaggio dal peccato alla grazia, dalla morte
98 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
alla vita nello Spirito, la liberante frenesia escatologica di Paolo risulta –
pure se ristrutturata a partire da una cristologia di tradizione giovannea,
capace di assorbire un’analoga evoluzione deuteropaolina – felicemente
riattivata.
III,5 – Giustino e gli apologisti: difendere la libertà e giustificare la
grazia
Storicamente strategica – per l’evoluzione della storia della teologia
cristiana, quindi della stessa questione della giustificazione – è la missione
culturale degli apologisti, intenti a mediare (certo, a seconda dei casi, con
maggiore o minore ottimismo) il messaggio di salvezza con la paideiva
pagana, sottoposta ad un complesso lavoro di selezione e di assimilazione,
persino quando risulti formalmente condannata. Certo, il peculiare genere
letterario impone prudenza dinanzi a conclusioni troppo perentorie:
invitando i pagani alla conversione, l’apologia è ovviamente spinta ad
accentuare gli elementi di compatibilità tra i due orizzonti culturali, mentre
impedisce di rivelare apertamente il più profondo mistero della redenzione
cristiana.
Giustino conosce e utilizza Paolo, ma tacitamente, recuperando una
prudenza tipica della tradizione asiatica dalla quale dipende, che comunque
complica notevolmente grazie alle sue conoscenze filosofiche. In lui, infatti,
polemica antieretica e strategia apologetica convergono nell’indicare nel
cristianesimo la suprema cultura razionale e morale (quel logos e quel
nomos che Celso denuncerà assenti nel cristianesimo; cf., in IApol 24,1,
l’affermazione che i cristiani confessano «dottrine analoghe a quelle dei
Greci (taV oJvmoia toi=ò JVEllhsi)»), incentrata sull’affermazione
antidualistica dell’identità tra razionalità (oJ ajlhqhVò lovgoò: IApologia
2,1; 5,3; oJ swvfrwn lovgoò: IApol 2,1), giustizia e amore di Dio e
sull’apologia del libero arbitrio (proaivresiò: cf. IIApol 7,3). Proprio in
quanto dono eccelso di Dio, il potere autonomo di scelta (toV ejf*hJmi=n) è
opposto alla necessità di natura proprio di piante e animali (IApol 43,8):
«Dio nel creare gli angeli e gli uomini dotati di libero arbitrio e di
autonomia ha voluto che ciascuno facesse ciò di cui Egli stesso gliene aveva
dato la capacità, riservandosi di conservarli nell’incorruttibilità e senza
punizione, se avessero scelto ciò che era a lui gradito, e di punire invece
ciascuno a suo giudizio, se avessero fatto il male» (DialTrif 88,5; cf. 58,1;
99
Donum libertatis
102,4; 141,12; I Apol 28,3). Il dossier biblico veterotestamentario chiamato
in causa per dimostrare la verità divina della dottrina del libero arbitrio (cf.
IApol 44,17), e rafforzato con una citazione platonica (cf. Repubblica X,
617e, in 44,8), finendo per oscurare la prospettiva paolina della grazia come
evento escatologico e carismatico. Rivelativa la costante polemica
antideterministica, quindi antistoica (cf. IIApol 7,4 e 9) ed antidualistica:
«Noi diciamo che c’è solo un destino ineluttabile (eiJmarmevnhn
ajparavbaton), che consiste nel fatto che ci sia un meritato premio per chi
sceglie il bene e, analogamente, un giusto castigo per chi sceglie il
contrario» (IApol 43,7; cf. IIApol 7,36).
Conseguentemente, l’irrinunciabile fede cristiana nella profezia deve
essere non soltanto nettamente distinta da un’interpretazione deterministica
della prescienza divina come Fato stoico (cf. IApol 43,144,11; IIApol 7,39),
ma anche neutralizzata nella sua dimensione gratuita. Profezia, infatti, non
significa più promessa/fede di/in un dono indebito e straordinario, ma
soltanto anticipazione/maschera del Logos (cf. IApol 36,12), preconoscenza
di verità (cf. 30,1, ove la profezia degli eventi futuri è filosoficamente
interpretata come «la più grande e più vera dimostrazione (megivsth kaiV
ajlhqestavth ajpovdeixiò)»), prescienza, previsione del futuro determinarsi
della libertà della creatura, oggetto dell’amore provvidente di Dio (cf. IApol
28,4; IIApol 9,12), che le anticipa la conoscenza dell’esito del suo agire:
«Se diciamo che è stato profetizzato il futuro, non vogliamo dire che esso si
compie per necessità del Fato (diaV toV eiJmarmevnhò ajnavgkh/
pravttesqai); invece – dato che Dio preconosce le opere che saranno
compiute da tutti gli uomini e ha posto come suo dogma (dovgmatoò ojvntoò
par*aujtw=/) che ciascuno degli uomini riceverà un premio in base al merito
delle proprie azioni, che corrisponde al valore delle opere medesime –,
tramite lo Spirito profetico annuncia il futuro, portando sempre il genere
umano alla conoscenza e alla reminiscenza e dimostrando che questo è
l’oggetto della sua cura e della sua provvidenza» (IApol 44,11). La profezia,
insomma, rivela la lungimirante capacità divina di educare razionalmente la
creatura, orientandola nell’ordine incontrovertibile e liberamente
riconoscibile della verità: sua scaturigine, suo fine, sua verità non è l’evento
gratuito (che la libertà di Dio dona), ma il dato assoluto (cui la libertà della
creatura è amorevolmente chiamata), non è il dono dello Spirito, ma la
struttura dell’essere ontoteologico.
100 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
Presupponendo la dottrina dell’uomo creato ad immagine di Dio, per
analogia la duvnamiò (cf. IIApol 7,6) del libero arbitrio (rispetto alla quale
la redentiva duvnamiò dello Spirito finisce per essere secondaria e
subordinata) può essere assunta come vero e proprio principio
incondizionato di creatio ex nihilo (!), che avvia quel processo di crescente,
meritoria adesione alla grazia che conduce l’uomo alla partecipazione al
divino: «Come, in principio, Dio ha creato realtà che non esistevano, così
crediamo che chi, nelle libere scelte, avrà preferito ciò che è a Lui gradito,
sarà innalzato a partecipare della Sua immortalità e della Sua vita. Venire
all’esistenza, infatti, non dipende da noi; ma scegliere ciò che a Lui è caro,
liberamente, grazie alle facoltà razionali che ci ha donato (di*®n aujtoVò
ejdwrhvsato logikw=n dunavmewn), ci persuade e ci porta alla fede» (IApol
10,34). Adottata questa prospettiva di restituzione razionalistica
(l’incondizionato è il libero determinarsi della ragione e non il libero atto
divino di grazia) dell’evento carismatico, quindi gratuito della fede, il
filosofo cristiano è chiamato a rispondere all’obiezione di irrazionalità
portata contro una religione della rivelazione storica, che annuncia la
presenza di un evento salvifico che diviede apocalitticamente il tempo in un
passato difettivo e in un futuro di crescente pienezza; la violenta «aporia
(ajporiva)» (IApol 46,1) dei nemici della fede contesta l’arbitraria,
irrazionale, ingiusta ripartizione dell’umanità in due gruppi, il primo del
quale irresponsabilmente privato del libero arbitrio: «ne conseguirebbe che
tutti gli uomini vissuti prima di lui [di Cristo] si dovrebbero ritenere non
responsabili (ajneuvqunoi) delle loro azioni» (IApol 46,1). Per difendersi,
Giustino è costretto a lasciar cadere come irrazionale la dottrina semitica
dell’imperscrutabile elezione divina (in particolare quella paolina della
eccedenza dell’economia dello Spirito rispetto a quella della Legge), per
affermare la sostanziale identità tra cristianesimo e razionalità universale,
grazie alla giovannea identificazione di Cristo (l’uomo che patisce e muore)
con il Logos (cf. DialTrif 38,2, ove la cristologia cristiana è apertamente
definita come paradossale; 55,1, 56,4 e 11, ove il Logos preesistente è
definito «altro Dio» accanto al Padre; 61,13; 62,34; 71,2; IApol 22,15;
23,23; 46,5; 5,4; per una formulazione antimonarchiana della cristologia
del Logos, cf. 63,15; DialTrif 128,3129,1). I martiri della verità sono
pertanto saggi, capaci di attingere la filosofica impassibilità (cf. IApol 58,3;
57,2): «Coloro che hanno vissuto secondo il Logos (metaV lovgou) sono
cristiani, anche se sono stati considerati atei, come tra i greci Socrate ed
101
Donum libertatis
Eraclito, ad altri simili, e tra i barbari Abramo, Anania, Azaria, Misael, Elie
e molti altri ancora… Di conseguenza, coloro che hanno vissuto prima di
Cristo, ma non secondo il Logos, sono stati malvagi, nemici e assassini di
quelli che vivevano secondo il Logos; al contrario, quelli che hanno vissuto e
vivono secondo il Logos sono cristiani, non soggetti a paure e turbamenti»
(IApol 46,34; cf. IIApol 8,12). La dottrina, di origine stoica, dell’universale
immanenza negli esseri razionali dei semi del Logos è quindi cristianizzata
interpretando Gesù come la rivelazione assoluta, totale (toV logikoVn toV
oJvlon: IIApol 10,1; cf. 13,4; Dial Trif 39,5), personale della Verità, che
frammentariamente l’intelligenza dell’uomo e in particolare la filosofia
hanno sempre e ovunque cercato (cf. IIApol 8,13; 10,18; 12,16; 13,36;
IApol 5,34; 20,25; 44,810); il Messia escatologico e carismatico è
divenuto, ormai, il principio ontoteologico (sulla definizione platonica della
filosofia come «scienza dell’essere», quindi di Dio che è l’identica causa
dell’essere di tutte le altre realtà, cf. DialTrif 3,45; 4,1) che sorregge e
illumina l’universale realtà razionale; la grazia messianica è divenuta
natura (cf. IIApol 13,6, ove la cavriò è quella del Logos che, creandole,
concede alle intelligenze metousiva kaiV mivmhsiò), dono ontologico o
meglio “archeologico” (cf. IApol 10,12 e 28,3, ove tutti gli uomini sono
definiti «dotati di ragione, capaci di scegliere liberamente la verità e di
comportarsi bene… sono nati, infatti, razionali e riflessivi (logikoiV kaiV
qewrhtikoiv)»; cf. DialTrif 141,12), chiamato al compito di riconoscersi
liberamente come creatura ad immagine della sua ajrchv, il DioLogos (sulla
sistematica interpretazione medioplatonica del Logos giovanneo, cf. IIApol
6,3 e IApol 13,4; e 2,4, ove è riportata l’accusa di follia, maniva, a causa
della fede nel Figlio dio e uomo crocifisso), che, escatologicamente, «darà a
ciascuno secondo il merito» (DialTrif 39,6; IApol 8,24).
E’ vero che, in DialTrif 95,13, Giustino recupera con straordinaria
radicalità la dottrina paolina del maledetto dalla Legge capace di liberare
l’intera umanità, integralmente maledetta, in quanto incapace di bene e
sottomessa al dominio del peccato, in quanto nessun uomo è capace di
osservare la totalità dei precetti della Legge (cf. Dt 27,26 e Gal 3,10);
d’altra parte, la grazia, che pure illumina la comprensione delle Scritture nel
fedele (cf. DialTrif 78,10; 92,1; 100,2; 119,1; e, in 7,13, l’affermazione
della “filosofia” profetica, ispirata, rispetto a quella greca), riveste un ruolo
sostanzialmente pedagogico, eticodottrinale, tutt’al più suasivo (cf. 116,1;
9,1); mantiene una relativa eccedenza rispetto al dinamismo eticorazionale
102 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
della libertà soltanto in quanto interpretata come dono perfetto di Dio, che
rende possibile il passaggio dalla semplice fede alla sapienza dei misteri
divini (cf. 7,3; 32,5; 78,10), secondo una scansione evidentemente
influenzata dalla gnoseologia di Platone. Anzi, la grazia è identificata con
Cristo stesso, l’archetipo divino dal quale la sapienza universale è tutta, pure
se frammentariamente, derivata (cf. IIApol 13,56; in IApol 23,1 e 59,111,
l’affermazione della dipendenza della sapienza filosofica pagana dalla
rivelazione veterotestamentaria; e, in IIApol 3,17, la confutazione
“filosofica” del filosofo Crescente, imperniata sulla compiuta razionalità ed
eticità della rivelazione cristiana). Proprio questa fede nell’avanzamento
della verità promossa dal Logos divino consente a Giustino di affermare che,
con il battesimo (cf. IApol 61,113), «definito illuminazione perché coloro
che apprendono questa dottrina vengono illuminati nella mente» (61,12), si
avvia un progresso spirituale di meritorio perfezionamento e di conseguente
accrescimento del dono di grazia: «Costoro, illuminati in forza del Nome di
questo Cristo, otterranno doni ciascuno nella misura in cui è degno»
(DialTrif 39,2; cf. 43,2). I cristiani rinascono, così, come «figli della libertà e
abbandonando l’ignoranza e la concupiscenza naturali
della sapienza»,
proprie della prima nascita, concepite come necessità che li inclinavano
verso il peccato (IApol 61,10). Comunque, l’influenza del peccato originale
rimane tutt’al più una dominabile propensione irrazionale, non essendo
ritenuta capace di deformare la naturale bontà ontologica dell’uomo, né di
annullare la sua intellettuale, egemonica capacità di scelta: «Dio, in
principio, ha creato il genere umano dotato di ragione e capace di scegliere
liberamente (aiJrei=sqai) la verità e di agire bene, per cui non c’è alcuna
scusante per tutti gli uomini dinanzi a Dio: sono nati, infatti, razionali
(logikoiv) e contemplativi (qewrhtikoiv)» (28,3); ove evidente e profonda
risulta la ristrutturazione platonizzante e ontologica del kerygma, sicché già
nella natura creata, razionale e teoretica, si dà la pienezza del dono divino,
che abilita pienamente la libertà della mente immateriale (cf. DialTrif 4,12;
IApol I,16; 18 e 44,9, sull’immortalità naturale dell’anima, provata a
partire dall’esigenza razionale di garantire la punizione dei malvagi e il
premio dei buoni; in senso opposto, cf. DialTrif 5,1 e 4; 6,12) a convertirsi a
Dio e alle sue leggi, identificate significativamente con la stessa Verità
assoluta. Se, quindi, in DialTrif 67,711, l’interpretazione polemica della
Legge giudaica la vede distinta in una parte caduca, esteriore, data da Dio
ai giudei per la loro durezza di cuore, e in una parte eterna, coincidente con
103
Donum libertatis
le immutabili prescrizioni della ragione naturale; inevitabilmente, la
razionalizzazione etica della rivelazione cristiana (cf., in 66,1, il pasto
eucaristico è riservato a « chi crede alla verità delle nostre dottrine (ajlhqh=
ei\nai taV dedidagmevna uJf*hJmw=n)») rende coincidenti la dottrina
rivelata da Cristo con la parte pura, eterna, razionale della Legge e delle
leggi umane (cf. IApol 10,6; IIApol 7,78; 9,4; DialTrif 23,1; soprattutto
45,4; 47,2; 122,5, ove il vangelo, la «nuova alleanza», pure identificata con
«una legge eterna e un decreto», è comunque dichiarata superiore alla
Legge giudaica). Nel medio del Logos, antico e nuovo, Legge (bilica e
filosoficonaturale) e grazia sono identificati, come rivelazione concorde
degli «insegnamenti (didavgmata)» (IApol 14,4; 16,8 e 14; 57,2; IIApol 15,3)
della «divina filosofia (filosofiva qeiva)» (IIApol 12,5; cf. Fedro 239b;
DialTrif 2,1; 8,12), dei filosofici «dogmi (dovgmata)» (IApol 26,7)
dell’identica legge della Verità e del Bene eterni (cf. DialTrif 11,2; 116,2).
Se Taziano, allievo di Giustino destinato ad una controversa fortuna, si
dedica ad una violenta polemica contro i filosofi greci (cf. Discorso ai Greci
24), comunque è per contestarne l’imperfetta razionalità: Aristotele, ad
esempio, viene accusato per negare la dipendenza del mondo e dei suoi
eventi dalla provvidenza divina (cf. 2), che al contrario governa il cosmo e le
vicende umane (cf. 4). Taziano fa infatti del Logos, generato dal Padre e
creatore del mondo (cf. 56), il giusto giudice delle scelte delle creature, fatte
a sua immagine e dotate di «libero arbitrio (aujtexouvsion)», capaci di
salvarsi «attraverso la libertà della loro scelta (th/= ejleuqeriva/ th=ò
proairevsewò)» (7): «Da parte sua, la potenza del Logos, avendo in sé la
prescienza (toV prognwstikovn) di quanto sarebbe accaduto in futuro – non
per fatalità (kaq*eiJmarmevnhn), ma per libera decisione (th/=
aujtexousivw/ gnwvmh/) di coloro che vi si sarebbero determinati –,
prospettava le conseguenze degli avvenimenti futuri e mediante le sue
predizioni presentava se stesso come punitore dei malvagi e lodatore di
coloro che si conservano buoni» (7). Ove la prescienza del Logos, che pare
assorbire qualsiasi significato gratuito, carismatico di profezia ed elezione, è
la provvidente garanzia di razionalità e giustizia distributiva nei confronti
della propria creazione. In tal senso è significativa l’identificazione della
necessità cosmica (eiJmarmevnh), determinante il peccato degli uomini, con
l’influenza demoniaca e maligna degli stoicei=a (gli angeli decaduti),
mediata dagli astri, capace di far perdere all’uomo la sua identità spirituale
(l’essere ad immagine e somiglianza) (cf. 78), cioè la parentela originaria
104 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
con Dio e il possesso dello «Spirito più potente», ormai recuperabile soltanto
tramite la fede, il riassimilarsi con lo Spirito Santo, la conoscenza di Dio in
Cristo (cf. 12). Ove l’anima (dei giusti dell’AT e dei cristiani), in sé mortale,
tenebrosa e peccatrice, è divinizzata e salvata dallo Spirito di Dio, che
rimane potenzialmente presente in lei, fino a quando essa non lo riscopra,
riattivandone la presenza illuminatrice, quindi cooperando con lui nella
propria salvezza: «Lo Spirito di Dio non è in tutti, ma è disceso in alcuni che
vivevano da giusti, si è unito alla loro anima… Le anime che hanno obbedito,
hanno attirato su di sé lo Spirito col quale sono apparentate, mentre quelle
che non l’hanno ascoltato ed hanno ripudiato il ministero di Dio che ha
sofferto, si sono mostrate le nemiche di Dio» (13). L’irriducibilità paolina
dello pneumatico allo psichico (corruttibile e mortale) viene dunque
conservata (cf. 1213), ma ontologizzata e interiorizzata (quella spirituale è
«la natura antica»: cf. 911), sicché quello, liberamente abbandonato da
questo (cf. 20), diviene ellenisticamente disponibile al suo sforzo libero (cf.
11), pure liberato soltanto dalla fede nella rivelazione di Cristo.
In Atenagora, è presente un’antropologia evidentemente platonizzante,
che riduce il peccato all’influsso della materia e all’errore della «fantasia»,
che, rinunciando al dominio della ragione, vi cede (cf. Supplica per i
cristiani 27,12), fomentata dall’universale, necessitante potenza tentatrice
dei demòni (cf. 25,4; 27,2). E’ invece prospettata un’escatologica libertà per
l’anima, sì riunita al corpo risorto (cf. 36,23), ma capace di acquisire
finalmente una dimensione del tutto spirituale e incorporea (cf. 31,4).
L’esaltazione della semplicità della fede cristiana, professata anche da
uomini del tutto privi di cultura, quindi incapaci di provare con il logos
l’eccellenza della loro dottrina, culmina nell’affermazione dell’utilità della
loro libera scelta (proaivresiò) e del suo concretizzarsi in quelle buone opere
(pravxeiò ajgaqaiv), capaci di tradurre in atto il dettato evangelico,
culminante nel comandamento dell’amore del prossimo spinto sino all’amore
del nemico (cf. 11,4; 12,13; sul libero arbitrio, cf. anche 24,5; sulla
razionalistica negazione del caso, cf. 25,3). Nulla, invece, è detto della
grazia (se non, in 7,3 e 9,1 il riferimento allo Spirito che ispira e illumina i
profeti, donando loro una conoscenza più profonda di Dio), cui
significativamente si sostituisce la nozione, filosoficamente nutrita, di
Provvidenza, universale potenza divina capace di amministrare il cosmo con
razionalità e giustizia (cf. 7,1; 8,18; 12,1; 13,23; 22,12; 24,3). In tal senso,
lo stesso Spirito Santo è interpretato non soltanto come ispiratore dei profeti
105
Donum libertatis
(cf. 7,2; 9,1; 10,4), ma anche, a partire da suggestioni stoiche, come
conservatore e vivificatore dell’universo (cf. 6,23). Sicché il salvifico
sacrificio dei cristiani, che sostituisce quello cruento e materiale di pagani e
giudei, è niente affatto quello della morte salvifica di Cristo, di cui si tace
prudentemente il mistero, bensì quello della conoscenza spirituale del Dio
creatore (cf. 13,23), quindi della stessa Trinità (mirabilmente descritta in
12,3; cf. 10,5; 24,2). Pur essendo imprudente giudicare di un’intera
impostazione teologica a partire da uno scritto apologetico, risulta
comunque evidente la distanza rispetto alla soteriologia paolina: il Dio di
Atenagora (platonicamente dichiarato come essere immutabile e ingenerato,
irriducibile alla materia e visibile soltanto agli occhi della mente: cf. 4,1;
6,2; 10,1; 16,3; 22,9; 36,3; soprattutto, per una rigorosa definizione
ontoteologica, 19,2 e 23,7) è, appunto, più, con il suo Logos (cf. 4,2; 10,24),
il Dio creatore trascendente di questo mondo (cf. 16,15), la Provvidenza
cosmica, il rivelatore della Legge dell’amore (coincidente con la pura
ragione, pienamente rispettata dai cristiani: cf. 35,6), che il Dio di grazia,
misericordioso superatore della propria stessa Legge, che chiama ad una
nuova creazione spirituale in Cristo.
In Teofilo di Antiochia, la riduzione del cristianesimo a Legge
ecclesiasticamente garantita è netta: la possibilità di salvezza dipende dalla
purezza morale degli occhi dell’anima, alla quale le cataratte del peccato
impediscono di vedere la luce del sole divino. L’anima è chiamata alla
purificazione di se stessa, condizione perché Dio le si possa rivelare (cf. Ad
Autolico I,2,133). Il messaggio cristiano è, quindi, restituito come appello
alla conversione morale, all’ubbidienza «alla Legge e ai santi precetti»
(II,27,18; sulla piena continuità tra precetti giudaici e morale cristiana, cf.
II,34,45), che consentono alla libertà dell’uomo di replicare quella scelta
originariamente posta ad Adamo nell’Eden, riprendendo quel progresso
spirituale, provvidenzialmente ordinato (cf. II,24,27), che il peccato di
Adamo ha soltanto provvisoriamente e certo non irreparabilmente interrotto.
Infatti, Dio creò l’uomo « né mortale né immortale, ma capace dell’una e
dell’altra sorte... Giacché Dio creò l’uomo libero e padrone di se stesso
(ejjleuvqeron kaiV aujtexouvsion)» (II,27,78; 11; cf. II,25; 164). La grazia
pare davvero non avere alcun ruolo nella teologia di Teofilo (se non nella
decisione divina di espellere Adamo dall’Eden e di renderlo mortale per non
eternizzarne il peccato: cf. II,26; 162), così come minimizzata risulta la
portata redentiva del sacrificio di Cristo.
106 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
E’ del massimo interesse, nell’Octavius di Minucio Felice (inizio III
secolo?), l’accusa pagana al cristianesimo di fondarsi su un’irrazionale
elezione deterministica: «Tutto ciò che facciamo l’attribuite a Dio, come altri
al fato. Così alla vostra setta si aderisce, secondo voi, non per propria
iniziativa (non spontaneos), ma perché eletti (electos). Vi immaginate quindi
un giudice iniquo, che punisce negli uomini la sorte (sortem), non la volontà
(non voluntatem)» (11,67). Se certo risulta immediatamente evidente la
polemica restituzione filosofica (stoica) della dottrina della giustificazione
cristiana, certo è significativa l’identificazione del proprium del nuovo
messaggio di salvezza con l’elemento dell’elezione e del dono gratuito (non
razionalmente o meritoriamente fondato, dunque fortuito). La risposta di
Minucio Felice pare ormai del tutto indifferente a salvaguardare il minimo
elemento carismatico, nel suo sforzo di evidenziare l’analogia tra la
concezione classica di virtù e l’eroico, libero sforzo del fedele cristiano,
capace di martirio: «E non pensi qualcuno di ricorrere al destino per
cercare conforto o scusa a ciò che avviene; sia pure questo dovuto alla
fortuna della sorte, la mente (mens) tuttavia è libera e perciò si giudica
l’azione (actus), non la condizione dell’uomo. E, invero, che altro è il destino
se non ciò che Dio ha destinato a ciascuno di noi? Potendo egli prevedere
(praescire) l’indole (materiam) di ciascuno, ne determina anche il destino
(fata) secondi i meriti e le qualità (pro meriti set qualitatibus singulorum).
Così non la nascita (genitura) è colpita in noi, ma è punita la disposizione
morale (ingenii natura)» (36,12). La restituzione della dinamica della
giustificazione nelle categorie dell’etica classica (mens, actus, ingenium,
natura) è davvero impressionante, come destinata a fare epoca questa prima
restituzione dell’elezione come razionale prescienza dei meriti autonomi
delle creature, materia, natura capace di imporre la propria forma, qualitas
virtuosa o peccaminosa, al Vasaio biblico, il cui Fato ormai è eticamente
determinato dall’autonomo determinarsi delle menti (cf. 36,9, ove la
provvidenza divina rivela il suo amore per i credenti provandone,
temprandone, facendone crescere ingenia e voluntates). Risulta insomma
strategica e convinta la messa in ombra dell’identità carismatica e
assolutamente gratuita della nuova religione, a favore di una sistematica
restituzione del cristianesimo come dottrina, vera filosofia rivelata, etica
spirituale rivolta all’intelligenza e alla libertà umane, che nulla ha di
ripugnante per la ragione umana, rispondendo piuttosto alle sue esigenze di
giustizia, ordine, sicurezza. A partire da questi presupposti, risulta naturale,
107
Donum libertatis
oltre che tattica, la convergenza tra questa dottrina spirituale e l’eredità
etica giudaica, sicché non stupisce che unicamente Giustino (cf., ad es., Dial
Trif 24,1, ove si afferma che soltanto il sangue di Cristo salva) e l’A
Diogneto pongano al centro della giustificazione il valore salvifico della
morte di Cristo.
Nell’anonimo A Diogneto – scritto di difficile collocazione e datazione
(fine IIinizio III sec.?), comunque intimamente condizionato da una teologia
economica di impostazione paolina, radicalizzata al punto da avvicinarsi al
radicalismo gnostico e marcionita –, la rivelazione del Figlio è identificata
con l’irruzione nella storia della misericordia di Dio, prima misteriosamente
inoperosa e nascosta, al punto da risultare apparentemente «indifferente
verso di noi,… affinché l’uomo sperimentasse i limiti della sua libertà,
affinché, dopo che in quel primo periodo le nostre stesse opere ci avevano
dimostrati indegni della vita, ora ne fossimo resi degni dalla benevolenza di
Dio e affinché, dopo aver manifestato l’incapacità, da parte nostra, di
entrare nel regno di Dio, ne divenissimo capaci grazie alla potenza di Dio…
O dolce scambio, o impenetrabile opera, o benefici inattesi: che il crimine di
molti si eclissasse in un solo giusto e la giustizia di uno giustificasse molti
criminali!» (8,10; 9,12 e 5). La celebre e stupenda descrizione (cf. 5,16,10)
della paradossalità dell’esistenza dei cristiani – simul cittadini e stranieri,
innocenti perseguitati dal corpo dell’umanità che pure animano – dipende da
questa paolina esperienza di vanità visitata dalla pienezza, di cristologica
impotenza, di kenotica esposizione nelle quali si nasconde, gratuito, il dono
di Dio.
Invece, nei due capitoli conclusivi dell’opera, probabilmente non
originali, piuttosto genericamente la grazia – che dona la capacità di
conoscere i misteri della rivelazione del Logos, di cogliere la profonda unità
che lega la profezia veterotestamentaria al vangelo di Cristo, quindi di
interpretare le Scritture – è identificata con l’azione redentiva che la chiesa
diffonde attraverso la storia (cf. 11,58). Nella carità per il prossimo, nel suo
libero adeguarsi alla misericordia gratuita di Dio, l’uomo – creato ad
immagine di Dio – può attingere la sua perfezione spirituale (cf. Ef 5,13):
«O come amerai colui che così ti ha amato per primo? Ma quando avrai
cominciato ad amarlo, sarai imitatore della sua bontà. Non stupirti che un
uomo possa diventare imitatore di Dio: lo può, se Egli lo vuole… Chiunque
prende su di sé il peso del prossimo, chi spontaneamente vuole beneficare, in
ciò in cui è superiore, un altro meno fortunato, chi, fornendo ai bisognosi
108 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
quei beni che possiede avendoli ricevuti da Dio, diviene un dio per coloro
che li ricevono, questi è imitatore di Dio» (10,34 e 6). L’amore gratuito che
Dio rivela per la propria creatura diviene scaturigine di amore evangelico
nei confronti di Dio e del prossimo; eppure, nell’esperienza del dono
gratuito già è penetrato il tema platonico dell’oJmoivwsiò qew=/, pronto a
curvarsi, se non nell’affermazione dell’autodeificazione, nella tentazione
dell’affermazione spirituale di sé. di Isaia
III,6 – Le resistenze ispirate: l’Ascensione e il montanismo
Rispetto a questa normalizzazione dello Spirito all’interno della
razionalità ontoteologica di matrice greca e dell’istituzionalizzazione
ecclesiastica gerarchicamente ordinata, risultano e contrario grandemente
significativi i fenomeni – sempre più residuali e persino apertamente
osteggiati – di resistenza escatologica e carismatica, quali il profetismo
attestato dall’Ascensione di Isaia e il montanismo.
L’Ascensione di Isaia – scritto giudaico cristianizzato, nel suo ultimo
stadio databile tra la fine del I e l’inizio del II secolo, di area antiochena, di
evidente matrice giudeocristiana ellenista, attestante una cristologia della
preesistenza divina e docetistica – è attribuibile ad ambienti carismatici e
profetici ormai progressivamente emarginazzati dalla rapida
istituzionalizzazione della chiesa promosso dall’episcopato monarchico,
quale quella attestato proprio ad Antiochia da Ignazio. La dottrina della
grazia di quest’opera si identifica con la sua dottrina dello Spirito, elettivo
dono escatologico – patrimonio di pochi leaders: sulla descrizione di un vero
e proprio raptus estaticoprofetico, nel quale lo Spirito Santo innalza
l’intelletto di Isaia (il profeta eletto) alla visione del Diletto, cioè del Cristo
preesistente e della sua kenosi storica redentiva, cf. AscIsaia 6,314 –, da cui
dipende una concezione martiriale (esemplata su quella di Gesù, il Diletto, il
Vero Profeta assassinato da Israele della fonte Q) e ormai settaria dei veri
credenti, emarginati e persino perseguitati da una chiesa (il nuovo Israele!)
sempre più istituzionalizzata, denunciata come ormai mondanizzata, priva di
carisma profetico, di viva fede e di tensione escatologica, paradossale segno
iniquo, quindi, di un’imminente ritorno del Signore: «Molti che crederanno
in lui parleranno nello Spirito Santo e molti segni e miracoli avverranno in
quei giorni. E in seguito, al suo avvicinarsi, i suoi discepoli abbandoneranno
l’insegnamento dei dodici apostoli e la fede e il loro amore e la loro purezza.
109
Donum libertatis
E vi sarà molta discordia alla sua venuta e al suo avvicinarsi e vi saranno
molti che ameranno le cariche, pur essendo vuoti di sapienza, e vi saranno
molti presbiteri iniqui e pastori oppressori delle loro pecore. E saranno
rapaci per il fatto di non avere pastori santi. E molti cambieranno la gloria
delle loro vesti che sono sante nelle vesti di amanti dell’oro e vi sarà molto
rispetto di persone in quei giorni e amanti della gloria di questo mondo. E vi
saranno maldicenti e calunniatori in gran numero e vana gloria
all’avvicinarsi del Signore e lo Spirito Santo si allontanerà da molti. E non vi
saranno in quei giorni molti profeti né coloro che pronunzieranno parole
vigorose, se non uno qui e uno là» (Ascensione di Isaia etiopica 3,1927).
Analogamente, anche se in una situazione storica più tarda (150170
circa) che vede una chiesa “cattolica” ben più strutturata, la «nuova
profezia» montanista (cf. gli oracoli riportati soprattutto in Epifanio,
Panarion XLVIII; e in Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica V,1619) è
annuncio entusiasta, ascetico di una radicalissima metamorfosi spirituale,
proclamazione dell’identità ispirata, quindi divina, della propria eversiva
parola, abbandono del mondo vecchio e morente (e di tutte le sue gerarchie)
e visione estatica dell’avvento del dono escatologico, della fine imminente:
«Ecco, l’uomo è come lira e io lo sorvolo come plettro. L’uomo dorme, io
veglio. Ecco, il Signore è colui che getta fuori il cuore degli uomini e dà il
cuore agli uomini» (Oracolo di Montano, in Epifanio, Panarion XLVIII,4;
cf., in tal senso, Odi di Salomone 6,12; 11,14; 36,13). Per i montanisti,
l’uomo entusiasta diviene lo Spirito, il Figlio, il Padre stesso: «Io sono il
Padre, io sono il Figlio, io il Paracleto»; «Io sono il Signore Dio,
l’Onnipotente che dimora nell’uomo… Né un angelo, né un inviato, ma Io, il
Signore Dio Padre sono venuto» (Oracolo di Montano, in Epifanio,
Panarion XLVIII, 11). La libertà assoluta è fruita come presenza diretta di
Dio, rispetto alla quale la vincente chiesa istituzionalizzata non è che
contraffazione legalistica, corruzione mondana, violento inganno di potere. I
montanisti sono veri e propri “folli di Dio” («Lo spirito diceva beati coloro
che gioivano di lui e ne erano tronfi»: Eusebio, StEccl V,16,9), anarchici
invasati esposti alla venuta del Dono (cf. StEccl V,16,79), capaci di
rinnegare famiglia (cf. StEccl V,18,23), chiesa (cf. StEccl V,16,67; 16,10;
18,5), mondo (nella profezia della prossima discesa della stessa
Gerusalemme celeste; cf. la profezia apocalittica di prossime «guerre e
disordini» in Eusebio, StEccl V,16,18), quindi di scuotere qualsiasi costituito
ordine di identificazione, rassicurazione razionale e sociale; sicché nella
110 III – Dal giudeo cristianesimo agli apologisti
libertà dello Spirito annunciata da Paolo non esiste più né uomo né donna,
ma entrambi possono essere strumento della sua voce di grazia.
Dinanzi a questa radicalissima contestazione di qualsiasi gerarchia
mondana, soltanto lo statuto del martire (cf. StEccl V,16,1213; 16,20; 18,6),
della vittima ingiustamente perseguitata, figura di Cristo, può quindi essere
segno autentico di elezione: «Ci chiamavano anche assassini dei profeti,
dato che non abbiamo accolto i loro profeti chiacchieroni» (Anonimo
antimontanista, citato in Eusebio, StEccl V,16,12); «Sono perseguitata come
un lupo allontanato dalle pecore; ma io non sono un lupo, sono parola,
spirito e potenza (rJh=ma eijmi kaiV neu=ma kaiV duvnamiò)» (Oracolo di
Massimilla, in Eusebio, StEccl V,16,17). «Non desiderate di morire nel
vostro letto o per aborto o per una febbre mortale, ma a causa del martirio,
perché sia glorificato colui che ha patito per voi» (Oracolo montanista
riportato in Tertulliano, De fuga 9,4). La presenza dello Spirito, del dono di
grazia è quindi dipendente dalla sequela kenotica del Cristo morente,
rispetto alla quale la protocattolica chiesa vincente, potente, escludente è
denunciata come perversa, anticristica negazione, ormai svuotata dal regno
di Cristo che viene: «Dopo di me non ci sarà più nessun profeta, ma la fine»
(Oracolo di Massimilla, in Epifanio, Panarion LXVIII,2).
C IV – L ’
APITOLO E TEOLOGIE DUALISTICHE E L ECCEDENZA DELLA
GRAZIA
Le imponenti correnti dualistiche del II secolo, la più grande minaccia
che la chiesa protocattolica dovette affrontare, testimoniano, malgrado le
loro anomale, eversive strutture teologiche e la loro acuta ellenizzazione del
kerygma, un paradossale tentativo di fedeltà ad alcuni elementi originari del
vangelo: l’eccedenza dell’annuncio di grazia rispetto alla Legge, alla natura
creata e all’ordine mondano, la rivelazione di una paradossale intimità
d’amore, spinta sino all’affermazione dell’identità ontologica, tra Dio e
l’eletto, figlio nel Figlio, libertà nello Spirito.
IV,1 – Marcione: l’anarchia della grazia
Proprio per la sua radicale novità rispetto al dominante processo di
normalizzazione di Paolo, un ruolo chiave, nella storia cristiana della
dottrina della giustificazione, assume il “meraviglioso” Marcione, con le sue
Antitesi (ne conosciamo la data di condanna a Roma: il 144): non soltanto
per l’indubbia originalità, la geniale radicalità della sua prospettiva
teologica, filologicoermeneutica, storicoecclesiastica, ma anche per il
ruolo assolutamente negativo che egli assume agli occhi della tradizione
protocattolica, divenendo il vero e proprio capro espiatorio dei paradossi del
paolinismo. Marcione fu il primo radicale riformatore della storia del
cristianesimo: protestando contro quella che giudicava come indebita
giudaizzazione, normalizzazione, empia deformazione del vangelo operata
dalle chiese (protocattoliche) derivate dai dodici apostoli e dal loro
fraintendimento del maestro, egli decise di riattivare l’inaudito messaggio di
grazia rivelato da Gesù e compreso in profondità soltanto da Paolo: la
salvezza come assolutamente nuovo, indebito, miracoloso dono di grazia
gratuita, contrapposto al vano, imperativo e disperante dominio della Legge.
La prima definizione cristiana di un canone neotestamentario, da
contrapporre alla vecchia e cieca Scrittura giudaica, prevede pertanto: a) la
raccolta delle lettere di Paolo: il V libro dell’Adversus Marcionem di
Tertulliano ci trasmette la struttura dell’Apostolikón, cioè la raccolta delle
dieci lettere paoline (comprese Ef, conosciuta come Epistola ai Laodicesi, e
Col, ma significativamente senza le Pastorali) “riviste” da Marcione; b) un
unico vangelo, quello ricostruito a partire dal vangelo che la tradizione
protocattolica attribuiva a Luca (il più “paolino” degli evangelisti), ma che
Marcione considerava direttamente derivato da Cristo stesso, quindi non
attribuibile ad autore umano (cf. Tertulliano, AdvMarc IV,2,33,2);
documenti, comunque, da restituire nella loro originaria purezza, tramite
una complessa opera di riscrittura/reintegrazione di verità lasciate cadere e
di taglio delle indebite glosse apostolicoecclesiastiche (cf. Ireneo, AdvHaer
IV,12,12), finalizzate a rendere omogenea la nuova rivelazione con le
categorie religiose del vecchio, imperfetto Dio giudaico. E’ così evidente
come questa iperbolica riattivazione dell’annuncio paolino sia operata
attraverso una radicale deformazione teologica e una sistematica forzatura
filologica dei testi tradizionali (cf. Tertulliano, AdvMarc I,20,12). Del tutto
arbitrario, rispetto al kerygma delle origini, risulta infatti opporre Vangelo
di grazia e Legge (cf. I,19,45), al punto da farli dipendere da due divinità
nettamente distinte, ellenizzata ontoteologizzazione (influenza di categorie
medio platoniche? Non credo infatti ad un’influenza protognostica, di un
Cerdone o di Valentino, su Marcione) della dialettica economica paolina.
La divinità superiore, assolutamente spirituale, è rivelata da Cristo, a lei
consustanziale (pur se assente risulta qualsiasi influsso della giovannea
cristologia del Logos). Essa è annunciata come «nuova e straniera (nova et
hospita)» (I,2,1) al mondo (Tertulliano definisce il Dio di Marcione «Deus
naturaliter ignotus, inauditus… novus»: I,8,12; cf. V,16,3), anarchica
(«Deus qui est super omnem principatum et initium (ajrchvn) et potestatem»:
in Ireneo, Adversus Haereses III,7,1), assolutamente misericordiosa (di
«esclusiva bontà (solitariae bonitatis)… aliena da ogni sentimento di severità
e di punizione»: Tertulliano, AdvMarc I,26,12; cf. I,2,3: «pura benignitas»;
I,25,2; I,27,16), libera da qualsiasi ruolo di principio fondativo, di causalità
fondativa/creativa dell’ordine ontocosmologico («Deus noster etsi non ab
initio, etsi non per conditionem, sed per semetipsum revelatus etsi in Christo
Iesu»: I,19,1). Proprio per questa sua assoluta libertà, per la sua non
causalità (cf. l’interessantissimo excursus tertullianeo in I,12,13), inutilità o
inoperosità ontoteologica, il Dio straniero marcionita è del tutto
eversivamente liberante («Al nostro Dio è sufficiente questa sola opera
(unicum hoc opus): liberare l’uomo grazie alla sua somma e singolare
113
Donum libertatis
bontà»: I,17,1). Infatti, il suo rivelatore spirituale Gesù (in nessun modo
profetizzato dalla Legge e dai profeti giudaici: cf. V,8,39,1; 15,12; 17,4;
18,57) è il gratuito apparire salvifico del Dio straniero nel mondo inferiore,
di cui non assume materia, sostanza (cf. Ireneo, AdvHaer IV,33,2;
Tertulliano, AdvMarc V,20,35). Egli «non è venuto in realtà proprie, ma in
realtà estranee (non in sua venit, sed in aliena)» (Ireneo, AdvHaer III,11,2),
potendo così rivelare «un regno nuovo e inaudito (novum et inauditum)»
(Tertulliano, AdvMarc IV,24,5): «O meraviglia delle meraviglie, estasi, forza
e stupore che non si possa dire nulla sul vangelo, nemmeno dire qualcosa su
di esso, nemmeno paragonarlo a nulla!». Questo grido di giubilo – citazione
riportataci dal siriaco Maruta, polemista antimarcionita, e con il quale per
von Harnack si aprivano probabilmente le Antitesi di Marcione – sintetizza
perfettamente la natura del tutto gratuita, nuova, anarchica e imprevista
perché razionalmente incomprensibile e infondata, del vangelo.
Contrapposto al Dio trascendente ed ignoto (per quanto ci risulta, non
creato o derivato da lui), il Dio inferiore (evidentemente interpretato come
«il dio di questo eone (oJ qeoVò tou= aijw=noò touvtou)» di 2Cor 4,4: cf.
Tertulliano, AdvMarc V,11,913), creatore, conoscibile e conosciuto come
operante causa ontologica, giusto, ma passionale e violento, incapace di
gratuità, prigioniero di una razionalità implacabile che gli impedisce
l’amore, rivelandosi piuttosto animato da volontà di potenza nei confronti
delle proprie creature angeliche ed umane, psichiche e con lui
consustanziali. «Costoro (i teologi dualisti) stimano che bontà sia il
sentimento per cui si debba voler bene a tutti, anche se è indegno (indignus)
e immeritevole quello a cui si fa del bene (nec bene consequi mereatur)…
Credono che non si faccia del bene a colui cui si infligge alcunché di
doloroso e severo. Giustizia intendono il sentimento per cui si retribuisce
ognuno secondo i propri meriti (unicuique prout meretur retribuat)…
Ritengono infatti che il giusto consista nel far male ai cattivi e bene ai buoni,
sì che, secondo loro, il giusto non può voler bene ai cattivi, ma è trascinato
quasi dall’odio contro di loro (velut odio quodam ferri adversum eos»
(Origene, De principiis II,5,1). Lo stesso fondativo racconto della creazione
di Adamo e delle sue vicende nell’Eden è, per Marcione, prova della non
amorevole giustizia e della cieca volontà di potenza del Creatore, che
proibisce alla sua creatura una liberante conoscenza, senza riuscire a
prevedere, ad evitare, né a perdonare il suo peccato (cf. Tertulliano,
AdvMarc II,5,12; sulla valutazione positiva della trasgressione adamitica,
114 IV – I dualismi teologici e l’eccedenza della grazia
giusta violazione di un comandamento ingiusto, cf. le tesi del marcionita
Apelle riportate da Ambrogio, De paradiso 6,30). L’uomo è comunque
pensato come corruttibile composto psichicoilico, creatura esclusiva del
Demiurgo; la sua dimensione spirituale – non ontologizzata, non
gnosticamente pensata, libera rispetto a qualsiasi identità o proprietà
naturale – è accolta unicamente con la fede in Cristo rivelatore, capace di
donare la trascendente, escatologica intimità con il Dio pneumatico.
Nelle sue Antitesi, l’opera chiamata a dimostrare l’assoluta
incompatibilità tra il vangelo ricostruito da Marcione e l’Antico Testamento
(sempre interpretato rigorosamente alla lettera, come lamenterà Origene!),
Marcione opponeva affermazioni contraddittorie tratte dalla due Scritture,
evidenziandone la loro assoluta incompatibilità rivelativa. Si pensi
all’opposizione tra Giosuè che conquista la terra promessa con violenza e
crudeltà e Cristo che proibisce qualsiasi violenza, predicando la pace e la
mitezza; o Mosè che allarga le braccia per uccidere quanti più nemici
possibile, mentre Gesù sulla croce le allarga per salvare gli uomini; il
precetto veterotestamentario del taglione “occhio per occhio, dente per
dente” è contrapposto all’evangelico porgere l’altra guancia; il Dio dell’AT
dichiara maledetto chi muore appeso ad un albero, mentre Cristo redime
crocifisso; il Dio dell’AT profetizza un Messia guerriero, che liberi e riscatti
il proprio popolo, restaurando un potente regno terreno, mentre Cristo
redime l’intera umanità, donandole un regno eterno; la Legge è
caratterizzata dalla maledizione, il vangelo dalla benedizione; il Dio dell’AT
ordina di donare ai fratelli, Gesù a chiunque lo chieda; il Dio dell’AT
dichiara: “Io faccio il ricco e il povero”, e dona soltanto ai ricchi, mentre
Cristo dichiara beati soltanto i poveri e solo ad essi Dio concede il bene; la
Legge prescrive di amare coloro dai quali si è amati e di odiare il nemico,
mentre il vangelo chiede di amare il nemico e di pregare per chi ci
perseguita; la Legge proibisce di toccare le donne con perdite di sangue,
Cristo tocca e guarisce l’emorroissa; la Legge impone di rispettare il sabato,
Cristo lo supera. Al di là di alcune forzature, è innegabile la capacità
marcionita di identificare i punti di irriducibilità tra Legge e novità del
kerygma gesuano, a partire dal quale Paolo ha dichiarato come del tutto
svuotata di senso la Legge. Il dualismo teologico marcionita non è che il
contraccolpo ontoteologizzato, quindi ellenizzato (medioplatonizzato) di
questo tremendo urto storicoreligioso (chiaramente tutto interno alla
religione giudaica, rispetto alla quale il cristianesimo non è che un esito
115
Donum libertatis
paradossale e imprevedibile, che con molta approssimazione potremmo
definire “eretico”, o comunque storicamente “folle”, aberrante, seppure
capace di assoggettare l’intera civiltà pagana a categorie storicoreligiose
eminentemente giudaiche). Anche se il Dio buono, nel quale Marcione
ontologizza la novità rivelativa del vangelo gesuanopaolino, è comunque
pensato (come abbiamo visto e come meglio vedremo) come una paradossale
disdetta (del tutto incomprensibile e contraddittoria per Tertulliano) della
sua funzione archeoontoteologica.
La netta svalutazione della Legge – del tutto autonoma e vana rispetto
alla rivelazione del Dio straniero, assolutamente nuova, ignota, imprevista –
comporta se non una svalutazione, certo una messa in secondo piano del
libero arbitrio (esaltato, al contrario, dai polemisti cattolici; cf. la polemica
antimarcionitica di Tertulliano, AdvMarc II,4,56; 5,56,8; e di Ireneo,
AdvHaer IV,37,16: pensare l’atto di fede come gratuitamente irriducibile
all’ambito del razionale precetto divino significa sottrarlo all’esercizio del
libero arbitrio, con l’esito inevitabile di affermare «un Dio impotente
(impotentem)» (6), in quanto incapace di operare la fede negli uomini che
non riesce a salvare). Facoltà della quale il Dio giusto, prepotente e
imperfetto ha fornito le sue imperfette creature, la libertà è appunto
connessa ad una dimensione di prova, tentazione, angosciosa sospensione
tra meritoria ubbidienza e colpevole infrazione, insomma alternativa coatta e
minacciosa tra bene e male, finalizzata a conservare, anzi ad accentuare la
sottomissione delle creature al loro Creatore, nella prigione del mondo,
«cellula creatoris» (Tertulliano, AdvMarc I,14,2). Il precetto della Legge,
estrinseco e minaccioso, rinchiude infatti in una dimensione di estraneità
insuperabile rispetto a Dio. Inoltre, come ci testimonia AdvMarc II,9,1, il
peccato della creatura, sempre immanente nell’alternativa attraverso la
quale il suo libero arbitrio è costretto ad agire, non può per Marcione non
dimostrare l’imperfezione del Creatore.
Al contrario, il messaggio di salvezza del Dio di grazia, «nuovo Dio
ignoto e inaudito… antico nel suo stesso essere ignorato (ipsa ignorantia
antiquum)» (AdvMarc I,8,1), assolutamente altro e straniero al mondo, è un
messaggio del tutto incomprensibile: è il dono di una salvezza indebita,
quindi l’esperienza di un’intimità con l’altro Dio del tutto gioiosa e
liberante, proprio perché incondizionata e in quanto tale sottratta al ricatto
della prova, per questo capace di raggiungere, senza volontà di potere o
rivendicazione gelosa e possessiva di creativa causalità, l’estraneo (l’uomo,
116 IV – I dualismi teologici e l’eccedenza della grazia
creatura del Dio inferiore), che nulla detiene in comune con il Dio d’amore,
nei confronti del quale non vi è alcun debito da riconoscere: «Dio è venuto
per la salvezza di un uomo che gli era estraneo (in salutem hominis alieni)…
Proprio questa è la principale e perfetta bontà, quando essa si effonde
volontaria e libera verso gli estranei, non dovuta ad alcun debito di
parentela (sine ullo debito familiari in estraneo volontaria et libera
effundatur); secondo quella bontà, noi dovremmo amare anche i nostri
nemici, i quali proprio per questo motivo ci sono estranei» (I,23,3). L’unica
opera compiuta dal Dio buono è, come sottolinea polemicamente Tertulliano,
quella di liberare l’uomo per pura bontà («summa et praecipua bonitate
sua»: I,17,1), grazie ad una «bonitas sine ratione» (II,6,2), che – opposta
alla giustizia possessiva del Dio creatore – non può che risultare, nella sua
irruzione violenta, anarchicamente sovversiva di qualsiasi ordine razionale e
morale: «Il Dio di Marcione ha fatto irruzione in un mondo che non era il
suo, ha strappato l’uomo al suo Dio, il figlio al padre, il discepolo
all’educatore, per renderlo empio verso Dio, ribelle al Padre, ingrato verso
il suo educatore, malvagio verso il suo Signore» (I,23,8). Sicché, in con una
paradossale analogia, il liberatore dei ladri e dei peccatori non può che
rivelarsi come un «perversissimus Deus» (I,26,1), sinistro (eppure
apocalitticoescatologico!) “ladro di notte”, che sottrae al mondo e al suo
padrone (come alla famiglia, allo stato sociale e culturale) la sua più
preziosa ricchezza.
Significativo che, per Tertulliano, la novità assoluta della grazia, se
sganciata dall’esercizio punitivo e formativo della giustizia e da un progetto
educativo di progresso nella razionalità, riveli un Dio tanto illegale, quanto
inerte e irresponsabile, «in totum inmobilis et stupens» (I,25,3), «otiosus»
(V,4,3), dunque epicureo, improvvido e dimissionario nei confronti del peso
della creazione e della formazione spirituale dell’uomo: «Marcione volle
dare il nome di Cristo a qualche Dio della filosofia di Epicuro, per il quale
quello che è beato e incorruttibile non dà molestia né a sé né agli altri.
Ruminando questa sentenza, Marcione ha allontanato dal suo Dio ogni
energia di severità e di giustizia (severitates et iudiciarias vires)» (I,25,3; cf.
I,25,127,6; e Ireneo, Adversus haereses V,4,1). «L’epicureo Dio di
Marcione prima se ne stava nella sua beata inerzia (retro quietus), poi
improvvisamente» – ma perché così tardi (cf. Tertulliano, AdvMarc I,22,4
7)? – «si scosse (concussibilis fuit) per la salvezza degli uomini» (I,25,4; cf.
Ireneo, AdvHaer V,4,1). Eppure, proprio questa dimensione di irruzione
117
Donum libertatis
imprevista e contingente, di conversione misericordiosa di Dio
razionalmente contraddittoria e teologicamente ripugnante, testimonia con
indubbia potenza la dimensione assolutamente gratuita, indebita, extra
ordinaria della rivelazione cristiana. Appunto l’estraniante novitas di un
amore “innaturale” e “illegale”, che disordina totalmente la nozione
ontoteologica, naturale di possesso, proprietà, ordine. «Se Cristo appartiene
al creatore, ha fatto bene ad amare un uomo che gli apparteneva; se deriva
da un altro Dio, Cristo lo ha amato ancora di più, in quanto ha redento un
uomo che gli era estraneo (Christus magis adamavit nomine, quando
alienum redimit)» (De carne Christi 4,3).
Conseguentemente, il Dio di grazia, che si rivela in Cristo Salvatore, non
pone condizioni, se non l’accoglimento della fede in una salvezza incredibile
e paradossale. Nuda fede razionalmente infondata, gratuito atto di
abbandono privo di calcolo e di prova, possibile soltanto per coloro che non
possono confidare nella forza e nei meriti del loro libero arbitrio. Rivelativa,
in proposito, la notizia marcionita sul Descensus ad inferos di Cristo, in
Ireneo, AdvHaer IV,27,2: soltanto Caino, i sodomiti, gli egiziani (l’infinito
numero di pagani dannati dal Dio inferiore; cf. Tertulliano, AdvMarc V,11,3:
«Liberavit genus humanum») possono credere alla inaudita novità di un
vangelo eversivo dell’ordine giusto e implacabile del Creatore; vangelo nei
confronti del quale i giusti veterotestamentari non possono che rimanere
sordi, imprigionati nella loro disciplina meritoria e servile (cf. la
marcionitica esclusione dalla salvezza di Abramo contestata da Ireneo,
AdvHaer IV,8,1). Insomma, l’annuncio di salvezza di Cristo, pure
universalmente indirizzato, è accolto “dostoevskijanamente” soltanto dagli
ultimi di ogni codice morale, sociale, religioso (cf., in Tertulliano, AdvMarc
IV,14,1, il riferimento marcionita alle beatitudini gesuane come «proprietas
doctrinae suae»), cioè dai miserabili, dai perseguitati, dai disperati, quindi
dai peccatori e dai dannati. La stessa morte in croce del celeste Cristo
pneumatico (niente affatto negata da Marcione, malgrado il suo docetismo:
cf. IV,42,4), supplizio indegno per il Dio della Legge (cf. III,18,1; V,3,10),
rivela la sovramondana, liberante gratuità di una bontà assoluta, appunto
indebita: «La morte del Buono (oJ qavnatoò tou= ajgaqou=) divenne la
salvezza degli uomini» (Ps.Adamanzio, Dialogo sulla retta fede in Dio II,9;
cf. Tertulliano, AdvMarc V,15,12). Con il sangue del suo corpo celeste, il
Cristo marcionita riscatta dal Demiurgo l’intera umanità (che pure non
potrà tutta salvare, in quanto la maggioranza degli uomini non saranno in
118 IV – I dualismi teologici e l’eccedenza della grazia
grado di avere questa fede così paradossale), separando l’anima dei
credenti, resa capace di risalire, angelicata (cf. III,9,4), al novus Dio, dalla
loro carne, abbandonata alla vanità del Creatore.
E a questa incondizionatezza d’amore il Gesù marcionitico chiama,
invitando a donare non soltanto ai fratelli, ma a tutti coloro che chiedono,
compresi i nemici, e di perdonare innumerevoli volte coloro che peccano (cf.
IV,16,10), al punto che Tertulliano si sentirà in dovere di canzonare come
insensato promotore di peccato un Dio che, del tutto privo di giustizia e
potenza punitiva, prescrive l’abbandono di sé all’arbitrio del peccatore e del
nemico: «Sed hoc est Dei optimi et tantum boni, patientiae iniuriam facere,
violentiae ianuam pandere, probos non defendere, improbos non coercere»
(IV,16,7; cf. V,4,14: «derideri potest Deus Marcionis, qui nec irasci novit
nec ulcisci»). Per Marcione, in effetti, persino escatologicamente il Dio
buono rinuncerà a castigare i tanti che non hanno avuto fede nella sua
utopica bontà (cf. I,24,2; Ireneo, AdvHaer IV,33,2; Clemente Alessandrino,
Stromati III,10,69): essi non saranno puniti, ma soltanto lasciati in disparte
(cf. Tertulliano, AdvMarc I,27,128,1); sarà il Demiurgo, ossessionato dalla
sua stessa limitata giustizia, ad annientarli (cf. I,27,628,1), annientando se
stesso, sprofondando nella vanità del suo potere e dell’ordineprigione che
ha creato (come afferma Harnack, accettando la testimonianza di Eznik di
Kolb, Distruzione delle false dottrine IV).
Nel suo Cristo, invece, il marcionita vive di un’assoluta libertà dal
potere, dalla forza, dal mondo e dalla materia, libertà della fede che
trascende l’esercizio timoroso, agonico e soggiogante del libero arbitrio.
Questa fede, infatti, non è oggetto di scelta, possesso di una mimetica, quindi
invidiosa autonomia (cf. II,6,13), ma fruizione del dono della miracolosa
bontà di Dio: «Il malvagio è temuto, il buono invece è amato (Malus
timebitur, bonus autem diligetur)» (Tertulliano, AdvMarc I,27,3; cf. IV,8,7).
Di grande interesse una violenta invettiva tertullianea contro il Dio
marcionitico: «O Deum usquequaque perversum, ubique inrationalem, in
omnibus vanum, atque ita neminem! Cuius non statum, non condicionem,
non naturam, non ullum ordinem video consistere, iam nec ipsum fidei eius
sacramentum» (I,28,12). La grazia di Marcione strappa a tutto ciò che è
ontologico, all’ordine cosmologico e gerarchico, alla Legge, alla sapienza di
questo mondo, alla ragione, al potere e al suo ruolo di mediazione, alle
opere e alla quantificazione della giustizia, alla natura creata a alla materia
che imprigiona e corrompe l’anima. In questa prospettiva, qualsiasi
119
Donum libertatis
determinazione di superiorità ontologica, di supremazia gerarchica, finisce
per essere violenta, quindi temuta, inevitabilmente malvagia, proprio perché
minacciosamente imperativa, prescrittiva, punitiva. Il «Deus irrationaliter
bonus» (II,6,1) dell’amore sconosciuto, gratuito, “folle” e inaudito proprio
perché extraordinario, con il dono incondizionato della sua bontà disarma
qualsiasi pretesa “umana, troppo umana” di cattura di sé e della
trascendenza. Appunto, proprio perché rivelazione di un evento privo di un
fondamento ontologico e razionale determinabile, la grazia si rivela come
estranea, “non esistente”, ontologicamente del tutto kenotica, inattingibile,
se non grazie ad una fede del tutto paradossale ed anarchica, inoperante (nel
senso che non è affatto un’opera dell’uomo) proprio perché del tutto
abbandonata (ad una salvezza assolutamente gratuita, quindi
incomprensibile).
IV,2 – Gli gnostici: la filialità come intimità ontologica con Dio
Malgrado la deformazione al tempo stesso mitizzante e speculativa cui
sottopone il kerigma, l’intero movimento gnostico è da interpretarsi in
paradossale continuità con l’annuncio di grazia paolino e giovanneo, quindi
dipendente dai testi fondativi cristiani piuttosto che influente su di essi. Il
mito speculativo gnostico traduce infatti in eoni – pleromatici, decaduti,
rivelati – e in nature – derivate dalle passioni peccaminose del personaggio
divino alienato – la dottrina della giustificazione paolina, dualisticamente
radicalizzata, fusa con una cristologia alta di derivazione giovannea. In tal
senso, le affinità con la protesta marcionitica sono indubbiamente profonde,
malgrado fondamentali, irriducibili siano le differenze, riassumibili in queste
due peculiarità gnostiche: 1) l’esigenza filosofica di riportare l’intera realtà
ad un unico principio, sicché il Dio veterotestamentario, il Demiurgo
dev’essere (almeno in gran parte delle varianti gnostiche: in particolare
nelle due principali, quella barbelognostica o sethiana e quella
valentiniana) riportato al Dio trascendente, interpretato come prodotto
imperfetto, abortivo, comunque dipendente dall’unico principio e ciò tramite
la medizione di un peccato intradivino, del tutto assente nello schema
marcionitico. Ciò significa che, comunque, il Demiurgo (soprattutto nella
tradizione valentiniana) è nella sua stessa imperfezione un’immagine
paradossale (perché ontologicamente degradata) del Dio trascendente. 2) Il
destinatario della gnosi la può accogliere soltanto perché ontologicamente
120 IV – I dualismi teologici e l’eccedenza della grazia
spirituale, derivato dal pleroma trascendente, e non con la fede (che,
quando non è svalutata, comunque presuppone per gli gnostici il perfetto
possesso del seme divino da parte del “credente”), che per Marcione è
invece puro abbandono di una creatura altra e inferiore all’anarchia
dell’amore trascendente che si rivela.
Pertanto, la dottrina gnostica delle nature è l’esito del tentativo non
soltanto di ontoteologizzare le due economie rivelative (in analogia con
Marcione), ma anche di razionalizzare l’enigma dell’elezione (che invece in
Marcione rimaneva razionalmente del tutto infondato, gratuito), a partire
dall’annuncio della divinizzazione dell’umanità in Cristo Figlio di Dio. Non
a caso, per i valentiniani Grazia diviene uno dei nomi della compagna di
sizigia del Padre, SilenzioEnnoia (cf., ad es., Vangelo di verità 37,114; la
grande notizia valentiniana in Ireneo, AdvHaer I,1,1; Tolomeo in Ireneo,
AdvHaer I,8,6; la Lettera dogmatica dei valentiniani in Epifanio, Panarion
XXXI,5,4). In una paradossale ontologizzazione del gratuito, che finisce per
trasformare l’evento in eterno, speculativo processo teogonico
(ambiguamente sospeso tra la necessità del farsi di Dio e la libertà dei suoi
eterni atti rivelativi), Cavriò è colei che è sprofondata nella custodia
contemplante dell'Abisso paterno, ma che pure già è radice della processione
della filialità, del volersi comunicare di un Dio non monoteistico,
trinitariamente articolato in quanto mosso dal suo aprirsi al Figlio e ai figli
consustanziali nei quali questi si compie. Figlio e filialità (=Spirito) sono
generati come intimo oggetto d'amore (cf. il lungo excursus del Trattato
tripartito 56,174,17, sul Figlio come principio dello sbocciare della filialità
dal Padre per pura grazia). Pertanto, le innumerevoli, fantastiche varianti
del mito gnostico rappresentano, ipostatizzandoli, i diversi stadi della
rivelazione cristologica, proponendo una paradossale cristologia in figure: il
pleroma e i suoi eoni rappresentano il Figlio in Dio, che diviene principio di
una filiazione spirituale (quella degli gnostici, decaduti e redenti); Sophia
(=Spirito o in generale l’eone decaduto) rappresenta il Figlio nella sua
componente “incarnata”, umana, quindi instabile, defettiva, eppure assunta
e graziata; il Redentore compie la mediazione, ricongiungendo il Figlio
divino con il Figlio umano, l’Adamo celeste con l’Eva decaduta, il Dio di
grazia con l’uomo, peccatore eppure eletto, redento e salvato dall’inganno
del mondo. L’evangelico regno di Dio, che la grazia fa irrompere nel mondo,
è lo stesso amore che eternamente unisce Padre e Figlio (cf. Vangelo di
Filippo 74,2224), quindi la rivelazione della natura ambigua (cristologica!)
121
Donum libertatis
del Deus patiens. Nel Figlio crocifisso, il peccato, l’alienazione, la morte
propri dell’uomo vengono rivelati come il segreto dello stesso Dio
trascendente di grazia: conoscere il peccato di Dio significa vivere la
giustificazione del proprio stesso peccato, superato nell'unione con il Deus
patiens redentore. Il mito gnostico è la rivelazione che nulla di ciò che è
umano è estraneo al Dio che ama, al Dio che genera il Figlio, lo dona e in
lui chiama gli uomini ad una libertà assoluta, all'intimità con la pienezza del
Dio di grazia che, nella gnosi, lo libera dall'inganno mondano (cf. EvFil
52,25; 75,414) e dall'attrazione del peccato, proprio perché, con Dio, tutto
è donato all'uomo divinizzato, il quale, come il Padre, diviene capace di
donare tutto: «Chi possiede la gnosi della verità è libero. Chi è libero non
pecca… L’amore non sottrae nulla. E come potrebbe sottrarre qualcosa,
quando tutto è suo? Esso non dice: “Questo è mio” o “quello è mio”, ma
semplicemente: “E’ tuo”» (EvFil 77,1535).
Da un punto di vista antropologico, la tradizione valentiniana – la
variante gnostica più imponente e profonda – fa derivare dal dualismo
teologico un’antropologia divisiva, che traduce nell’irriducibile distinzione
di tre nature (cf. Excerpta ex Theodoto 5057) la netta opposizione paolina
tra l’identità metamorfica propria dell’uomo pervaso dallo Spirito e
l’identità psicosomatica dell’uomo naturale; la natura pneumatica si
identifica con «il seme eletto» (cf., ad es., ExcTh 12), l’elemento diffusivo,
instabile, del divino, quindi la nascosta, eppure inalienabile identità
ontologica dello gnostico con il Dio di grazia, che diviene quindi il
fondamento assoluto di un possesso ontologico, sicché la creatura è
innalzata alla stessa filialità generata: «La grazia e il dono del nostro
Salvatore non possono essere tolti e non vengono meno, né si corrompono in
colui che vi partecipa» (Eracleone, in Origene, ComGv XIII,10). Se, per
Valentino, l’anima spirituale è «natura salvata (fuvsiò sw/zomevnh)»
(Clemente, Stromateis II,20,115), comunque essa accoglie la propria
salvezza come evento di grazia, è cioè predestinata ad essere redenta e
visitata dall’illuminazione salvifica di Dio: «Il cuore, finché non incontra [un
atto di] provvidenza, resta impuro, in quanto abitacolo di molti demoni. Ma
quando gli rivolge lo sguardo il Padre, unico Buono, è santificato e risplende
di luce. Così è stimato beato chi ha tale cuore, perché vedrà Dio» (Valentino,
in Clemente, Strom II,20,114). La grazia paolina è quindi divenuta possesso
ontologico, che comunque sorprende l’uomo con l’annuncio inaudito della
gnosi rivelata, che lo risveglia ad un’intimità nascosta con il Dio
122 IV – I dualismi teologici e l’eccedenza della grazia
trascendente e non monoteistico rivelato da Cristo: «Quelli che riceveranno
l’insegnamento sono i vivi iscritti nel libro della vita…. Egli li ha registrati
innanzi tempo, dopo averli preparati per unirli a quelli usciti da lui. Quelli di
cui prima conobbe il nome, alla fine sono stati chiamati. Conoscente è
pertanto colui il cui nome è stato pronunciato dal Padre. Quegli, il cui nome
non è stato proferito, è ignorante. Infatti, come può uno ascoltare, se il suo
nome non è stato chiamato? Quegli che resta ignorante fino alla fine è una
finzione dell’oblio e sarà distrutto con lo stesso. Diversamente, perché questi
miserabili non ricevono alcun nome, non sentono l’appello? Dunque, uno in
possesso della conoscenza è un essere dall’alto. Se lo si chiama, ascolta,
risponde e si rivolge verso chi lo chiama per risalire da lui. Egli sa come lo
si chiama. Possedendo la conoscenza, esegue il volere di chi lo ha chiamato,
desidera compiere il suo piacere e si riposa… Tutti gli esseri emanati dal
Padre sono pienezza e in tutte le sue emanazioni la loro radice è in Colui che
le ha fatte sorgere tutte da sé. Egli fissò i loro destini» (EvVer 21,35; 23
22,12; 41,1520). La salvezza (l’ascoltare, il conoscere, il desiderare la
volontà del Padre) è ontologicamente predestinata, posseduta
indipendentemente dalla fenomenica osservanza dei precetti morali, che
ancora si muovono sul piano esteriore e demiurgico del comando e
dell’ubbidienza, del bene e del male: «A parer loro o avrebbero licenza
anche di peccare a causa della [loro supposta] perfezione, o comunque
sarebbero salvati in ogni modo naturalmente, anche se al presente peccano,
perché a priori prescelti» (Basilide in Clemente, Strom III,1,3). Mentre la
natura ilica rappresenta l’identità materiale, corporea, mortale dell’uomo
come creatura demiurgica, la natura psichica è identificata con la più
elevata proprietà naturale di questa stessa creatura, ambiguamente sospesa,
nello stesso esercizio della propria libertà, tra il nulla dell’ilico e
l’irraggiungibile trascendenza dell’identità spirituale: «L’elemento spirituale
è per natura destinato alla salvezza; quello psichico, che è dotato di libero
arbitrio (aujtexouvsion), ha attitudine alla fede e all’incorruttibilità e
all’infedeltà e alla corruzione, secondo la propria scelta (aiJvresin);
l’elemento ilico per natura va alla distruzione» (ExcTh 56). Il libero arbitrio
è degradato a forza mediana, possibilità incerta, desiderio esteriore,
pulsione psichica dipendente da un comandamento coattivo, nel quale si
rivela la passionale economia del Dio imperfetto e derivato, creatore e
legislatore, potente detentore di un ordine gerarchico che, sorretto dalla
minaccia e dalla punizione, aliena e imprigiona la sua creatura come
123
Donum libertatis
schiava, sempre esposta al rischio del peccato, proprio in quanto incapace
dell’intimità ontologica con Dio. Privo di grazia, il Dio veterotestamentario
è incapace di rivelare le proprie creature come figli, intime articolazioni del
suo stesso eterno amore. Il corpo, l’anima, le passioni, la fede stessa
rimangono rinchiusi nell’ambito della relazione imperfetta, che è appunto
una relazione “religiosa”, ancora legalisticamente alienante. Si noti come,
nella notizia basilidiana riportataci dallo pseudoIppolito, al desiderio
alienante di una trascendenza irraggiungibile è preferito l'oblio, la grande
ignoranza, compassionevolmente concessa alle creature, incapaci di
ricongiungersi alla filialità redenta (Elenchos VII,27,14). Così, nell'
Apocrifo di Giovanni l’Eden è una trappola del Demiurgo, un paradiso
puramente animale (psichico, appunto), dal quale il Redentore gnostico
libera, ispirando come serpente la disubbidienza e l'anarchia rispetto
all'ordine gerarchico, donando la rivelazione della trascendenza, che
scatena la vendetta invidiosa del Demiurgo (cf. II,21,1722,18). Per molti
testi gnostici, la fede stessa – filosoficamente restituita come
approssimazione imperfetta alla verità della gnosi – è atto eminentemente
psichico, certo (imperfettamente, extrapleromaticamente) salvifico, eppure
ancora alienante, in quanto la fede cerca il Dio di grazia, senza essere
capace di identificare con lui, di conoscere l’origine abissale dell’uomo
come origine eternamente cristologica, filiale: «I Valentiniani lasciano la
fede a noi, ai semplici, ma pretendono d’avere essi in sé la gnosi, perché essi
sarebbero salvi per natura, conforme alla superiore qualità della loro
semenza distinta; essi sostengono che la gnosi è di gran lunga separata dalla
fede, come ciò che è spirituale da ciò che è psichico» (Clemente, Strom
II,3,10). Ciò che è oggetto di fede ancora rimane separato, estraneo, cercato,
indovinato, ma non pienamente trovato. Al contrario, la gnosi è la grazia
stessa, la cui pienezza è appunto la partecipazione ontologica alla realtà di
Dio. L'autentica libertà è quella dell'anarchia, del trascendimento di ogni
ordine e gerarchia cosmica, della scoperta salvifica dell'identità con un Dio
non geloso, ma generoso, proprio perché generatore di figli che si conoscono
liberi da qualsiasi necessità, al di là del bene e del male, del limite del
divieto e dell'ubbidienza, della prova e del merito, capaci della protesta
contro la trappola della creaturalità, interpretata come alienazione,
subordinazione, impossibilità dell’intimità con Dio, appunto negazione della
filialità, quindi del vangelo stesso: «Lo schiavo cerca solo di essere libero,
non cerca la sostanza del suo padrone. Il figlio non solo cerca la libertà per
124 IV – I dualismi teologici e l’eccedenza della grazia
il fatto che è figlio, ma anche rivendica l’eredità del Padre» (EvFil 52,25).
Alla necessità (eiJmarmevnh) del mondo inferiore è contrapposta la
provvidenza (provnoia) rivelata da Cristo, «l'Astro straniero e nuovo che
traccia vie nuove e salutari» (ExcTh 74), liberando dalla sottomissione agli
astri, simbolo di ogni ordine che rinchiude l'uomo in un meccanismo
naturale impersonale, coattivo, alienante, regolare (cf. ApocrGv II,28,8
30,11; Pistis Sophia III,132,26133,4; in I,15,121,6, la stessa ascensione di
Cristo sconvolge l’ordine necessitante delle potenze astrali, rendendo ormai
impossibile la divinazione astrologica). Il cristiano uscito dal battesimo
sorride superiore a tutto, capace di disprezzare il mondo, libero perché
ormai riunito a quel pleroma di grazia, che ontologicamente gli appartiene
(cf. EvFil 74,2536). Illuminante il mito chiave – perché decisivo per
l’articolazione intimamente cristiana dei più importanti sistemi gnostici –
della teofania sulle acque dell’Immagine luminosa del Figlio dell’Uomo
pleromatico, sistematicamente attestata, pur se con varianti, dai testi di
tradizione sethiana, a partire dall’ApocrGv, ma a mio parere presupposto da
testi gnostici di altra tradizione, quale la Predica dei Naasseni e, soprattutto,
il frammento di Valentino, riportato in Clemente, Stromati II,8,36 (ma cf.
anche il frammento attribuito a Taziano, da Clemente Alessandrino, Ecloghe
profetiche 38, ove il Fiat lux genesiaco viene interpretato come preghiera del
Demiurgo nei confronti del Dio trascendente, perché riveli la teofania di
Luce). Il mito è funzionale a connettere la creazione di Adamo alla
rivelazione salvifica, battesimale (Sophia extrapleromatica viene appunto
convertita, battezzata, unta, redenta) del Figlio di Dio trascendente nel
kenoma: alla bestemmia monoteistica dell’Arconte, esaltatosi nel
proclamarsi unico Dio creatore, il pleroma o la stessa Sophia reagiscono
facendo discendere il nome binatario di Dio – “Esiste l’Uomo e il Figlio
dell’Uomo” –, dunque rivelando il FiglioUomo come intimo segreto del
Padre, riversando lo Spirito su Sophia, proiettando sulle acque cosmiche
(simbolicamente identificabili con gli stessi arconti) l’Immagine di Luce del
Redentore. Questa teofania avvia l’invidiosa reazione degli arconti, che
pretendono di replicare quell’immagine inaudita nel prodotto del loro atto
creativo, il quale però si rivela imperfetto, incapace di ergersi, costretto a
strisciare come un verme. Soltanto il soffio pneumatico – materialmente
operato dallo stesso Demiurgo, in realtà ispirato da Sophia – consente
all’Adamo ilicopsichico di attingere la sua identità assolutamente divina,
quindi di ergersi, di riconoscere il Dio trascendente e di confessarlo,
125
Donum libertatis
provocando l’ira del Demiurgo e il dramma del peregrinare sofferente di
Adamo e della sua discendenza lungo la storia. Evidente pare a chi scrive la
dipendenza del mito della teofania sulle acque dai racconti cristiani del
battesimo di Gesù al Giordano, ove il sacramento di conversione predicato
dal Battista diviene occasione della teofania del Messia Redentore, che la
voce di Dio stesso chiama Figlio prediletto, mostrando la stessa redentiva
discesa dello Spirito dal cielo, capace di rendere salvifiche e divinizzanti la
stessa acqua battesimale. Non a caso, la stessa duplice natura dell’Adamo
gnostico – ilicopsichico in quanto vecchia creatura, cioè creatura
demiurgica; pneumatico in quanto nuova “creatura”, che riceve la stessa
disseminata filialità spirituale – mostra inequivocabilmente la sua
dipendenza dall’interpretazione paolina del battesimo, ovvero della
rivelazione di Cristo come «l’ultimo Adamo in Spirito vivificante…
spirituale… il secondo uomo dal cielo» (1Cor 15,45), che dona appunto la
vita spirituale al «primo Adamo in anima vivente… psichico… il primo uomo
dalla terra, coico» (1Cor 15,4548). La peculiarità gnostica sta nel
trapiantare all’interno dello stesso Adamo genesiaco la dialettica storico
economica tra primo e secondo Adamo paolino, ovvero tra il primo uomo
peccatore e mortale e il secondo uomo, Cristo redentore e datore di
immortalità: nella prima creatura demiurgica, nell’Adamo ilicopsichico,
quindi pneumatico, si dà infatti una paradossale dottrina dell’incarnazione,
dell’incorporazione kenotica del divino nell’uomo sofferente e mortale.
Certo, il dualismo gnostico ridivide la componente divina e assoluta da
quella creata e imperfetta, ma il segreto intimo del Dio gnostico è appunto
quello della sua umanità patiens, della kenosi (simul peccaminosa e
redentiva) che ormai scinde cristianamente l’identità perfetta e assoluta del
Dio greco e semitico. La grazia ha alterato la stessa natura assoluta di Dio:
la rivelazione del Figlio come segreto del Padre umanizza Dio, al punto da
mostrare come il suo amore sia la sua stessa debolezza, la sua crisi, la sua
(umanissima!) incapacità di contenersi in se stesso, appunto il suo divenire
radicalmente altro da sé, sino alla morte del peccato.
Insomma, l’evento di grazia è, dagli gnostici, niente affatto
misconosciuto, eppure ontologizzato, dunque ambiguamente proclamato
come fondamento intimo del mistero di Dio e della rivelazione di Cristo, ma
d’altra parte reinterpretato come sostanza, proprietà inalienabile di una
natura spirituale, sì originata dall’atto di grazia del pleroma, eppure
sclerotizzata in oujsiva dotata di proprietà inalienabili, sicché il novum del
126 IV – I dualismi teologici e l’eccedenza della grazia
dono risulta catturato e risolto in natura, in possesso degli eletti, in astratta,
eterna, sovrastorica identità con Dio, quindi in sé profondo da riattingere,
proprietà da riacquisire, tramite un movimento di introflessione solipsistica
(la gnosi, appunto, la conoscenza della propria identità sovrastorica). Certo,
gli gnostici recuperano l’originaria nozione semitica di elezione, come
discriminante e incondizionato atto di amore di Dio, talmente assoluto da
radicare nello stesso mistero di Dio la filialità, sicché – a partire dal
Vangelo di Giovanni – l’unico Dio giudaico diviene movimento teogonico del
Padre che genera un Figlio(figli)Uomo, in quanto tale persino “carnale”
(ricordo che la sostanza spirituale decaduta e redenta è definita, in Excerpta
ex Theodoto 1,1e 26,1, elemento carnale, sarkivon), fragile, peccatore,
mortale; d’altra parte, la nozione protocristiana di carità viene imprigionata
nella nozione di essere separato, quindi consumata all’interno di una
movenza che rimane platonica: l’eversiva gratuità del Dono diviene
memoria, reminiscenza, riscoperta della propria identità nascosta, infine
reificazione dello sguardo inappropriabile dell’Altro in circolare, dialettico
dinamismo ontologico: il Dio che si fa altro da sé, che cade e ritorna in sé e
per sé.
C V – L : ’
APITOLO A RISPOSTA CATTOLICA L ARMONIA TRA NUOVO E
,
ANTICO TRA GRAZIA E LIBERTÀ
V,1 – Ireneo di Lione: la formazione progressiva della creatura
In contrapposizione al delirio di grazia della teologia gnostica e alla sua
opposizione tra il Dio della tradizione ebraica e Gesù Cristo, Redentore
celeste ormai del tutto sradicato dal contesto giudaico che l’aveva generato,
il sobrio pensiero di Ireneo – erede della tradizione teologica asiatica e in
particolare della polemica antieretica di Giustino – si configura come
sistematica riaffermazione dell’universale creaturalità e finitezza dell’uomo,
della sua libertà responsabile, dell’armonia rivelativa tra Legge e grazia,
stadi inseparabilmente connessi e progressivi nella provvidente opera di
redenzione dell’unico Dio Padre di Gesù Cristo (cf. AdvHaer IV,9,116,5).
Dono dell’unico Dio, già la Legge è grazia e questa non è gnosi di
un’identità divina ontologicamente posseduta, ma amorevole, progressiva,
seppure correttiva azione salvifica, che educa la creatura a quell’intimità
spirituale, già offerta ad Adamo e da lui smarrita, infine nuovamente fruita
con la rivelazione di grazia di Cristo. Il peccato di Adamo, «bambino, che
doveva crescere per arrivare allo stato adulto» (Esposizione della
predicazione apostolica 12), è quindi minimizzato come disobbedienza
infantile – «l’uomo aveva accolto la disobbedienza per negligenza e non per
malizia (ajmelw=ò... ajll*ajkavkwò)» (AdvHaer IV,40,3) –, perdonata da Dio
che punisce, ma non maledice la sua creatura, vittima del demonio (cf.
III,23,5) e subito pentita del proprio peccato (cf. III,23,18). In IV,38,1, alla
terribile obiezione dualistica: «Non avrebbe potuto Dio creare l’uomo
perfetto fin dal principio?», si risponde appunto segnalando: 1) l’irriducibile
differenza ontologica tra la perfezione assoluta del Creatore increato e la
perfezione soltanto relativa della creatura, caratterizzata inevitabilmente da
un limite naturale; 2) il carattere progressivo del perfezionamento della
natura: «Gli esseri creati, in quanto hanno avuto in seguito un principio di
esistenza loro proprio, erano necessariamente inferiori a Colui che li ha
fatti. Infatti, non era possibile che fossero increati, essendo stati creati da
poco (newstiv). Ora, non essendo increati, sono al di sotto della perfezione:
essendo venuti all’esistenza da poco, sono infanti (nhvpia) ed essendo
infanti, non sono abituati ed esercitati al comportamento perfetto… Dio
poteva dare all’uomo la perfezione sin dal principio, ma l’uomo non sarebbe
stato capace di riceverla, perché era infante. Per questo anche il nostro
Signore è venuto a noi negli ultimi tempi, per ricapitolare in se stesso tutte le
cose, non come poteva lui, ma come noi potevamo vederlo» (IV,38,1).
Significativamente, la rivelazione escatologica del Messia viene fatta
dipendere dalla progressiva capacità di maturazione della libertà, divenuta
finalmente capace di accogliere la pienezza dell’amorevole disegno creativo
di Dio: «perché alla fine, un giorno, l’uomo diventi perfettamente maturo per
vedere e comprendere Dio» (IV,37,7). Comprendiamo, allora, perché
teologicamente strutturale risulti in Ireneo – che secondo Bousset, nel
decisivo excursus sulla libertà in AdvHaer IV,3739 dipenderebbe da un
preesistente trattato (giudaico?) sul libero arbitrio – la proclamazione dell’
«antica Legge della libertà dell’uomo, perché Dio lo fece libero e in potere
di se stesso (ejleuvqeroò kaiV aujtexouvsioò: cf. PredApost 11 e AdvHaer
IV,4,3), come anche la sua anima, per seguire il consiglio di Dio
volontariamente e senza essere costretto da lui. Perché non c’è costrizione
presso Dio, ma sempre gli è accanto il buon consiglio. Per questo dà a tutti il
buon consiglio, ma ha posto nell’uomo il potere della scelta, come negli
angeli… Essendo gli uomini tutti della stessa natura, capaci di possedere e
fare il bene e capaci anche di rigettarlo e di non farlo, giustamente, sia
presso gli uomini governati da buone leggi, sia ancora più presso Dio, gli
uni sono lodati e ricevono una degna testimonianza per la scelta del bene e
la perseveranza in esso, mentre gli altri sono biasimati e subiscono
un’adeguata pena per il rifiuto del bene» (IV,37,12; cf. 37,6; V,26,228,2).
La libertà dell’uomo non è più l’esaltante, sregolata esperienza di un sé
divino, ma l’esercizio responsabile del proprio desiderio, non la fruizione del
proprio stesso essere, ma il potere donato di crescere spiritualmente,
adeguandosi alla regola di una Legge che diviene sempre più spirituale, di
obbedire al consiglio prima severo, ma sempre più apertamente amorevole di
Dio.
L’accusa di impotenza al Dio creatore e legislatore dipende
dall’incapacità eretica di riconoscere «il tempo della crescita (tempus
augmenti)» (IV,38,4) necessario alla creatura per adeguarsi
progressivamente alla perfezione preordinata da Dio come approdo perfetto
129
Donum libertatis
della creatura e rivelata personalmente in Cristo redentore. Di grande
interesse la distinzione tra immagine e somiglianza: mentre la prima è
interpretata come riferita al corpo e considerata come un dato naturale, la
seconda è interpretata come rivelativa dell’attuazione di quella dimensione
spirituale pienamente eletta dalla libertà umana, che lo Spirito aveva donato
all’uomo soltanto potenzialmente (cf. V,6,1; 1,3; IV,Praef 4; PredApost 11);
ove, significativamente, l’innesto paolino dell’oleastro sull’ulivo,
interpretato come innesto della carne dell’uomo sullo Spirito di grazia, viene
fatto dipendere dal libero arbitrio dell’uomo (che «si trasforma») e non dalla
potenza della grazia di Dio (cf. AdvHaer V,10,12). Dunque, non ci si scopre
figli di Dio, ma si diviene tali faticosamente, esercitando la facoltà e il peso
della libertà, progredendo tramite sforzi meritori, riconoscendosi
liberamente amati, quindi capaci di amare liberamente, corrispondendo al
dono. Ma la condizione autentica del dono è – contro lo gnosticismo – quella
di un’eterogeneità assoluta tra Creatore e creatura, chiamata ad un’intimità
ontologicamente indebita, quindi davvero gratuita. Pertanto, soltanto
l’ubbidienza è la vera libertà, capace di recuperare e conservare il bene
originario come dono che Dio concede universalmente a tutti gli uomini (cf.
V,27,1). Se Dio è il creatore, l’artefice capace di plasmare nel bene il cuore
dell’uomo, comunque il suo atto redentore è evidentemente condizionato dal
libero offrirsi dell’uomo alla sua azione formatrice, che si esercita
compiutamente soltanto al momento opportuno, ovvero quando la creatura si
è disposta a ricevere, a conservare e a perfezionare la forma dell’immagine
divina: «Perché non sei tu che fai Dio, ma è Dio che fa te. Se dunque sei
l’opera di Dio, aspetta la mano del tuo Artefice, che fa tutte le cose al tempo
opportuno – nel tempo opportuno, naturalmente, in riferimento a te che sei
fatto. Presentagli il tuo cuore morbido e malleabile e conserva la forma che
ti ha dato l’Artista, avendo in te l’acqua che viene da lui per non rifiutare,
divenendo duro, l’impronta delle sue dita. Conservando questa
conformazione, salirai alla perfezione… La sua Mano, che ha creato la tua
sostanza, ti rivestirà d’oro puro e d’argento di dentro e di fuori… Fare è
proprio della bontà di Dio, essere fatto è proprio della natura dell’uomo.
Dunque, se gli affiderai ciò che è tuo, cioè la fede in lui e la sottomissione,
riceverai la sua arte e sarai opera perfetta di Dio. Se invece gli disobbedirai
e fuggirai le sue mani, la causa della mancata perfezione risiederà in te che
non hai obbedito e non in lui che ti ha chiamato… Perché né la luce
assoggetta alcuno per forza, né Dio costringe se uno non vuole accettare la
V – La risposta cattolica: l’armonia tra nuovo e antico, tra grazia e libertà
sua arte. Dunque, quelli che si sono allontanati (taV ajpostavnta) dalla luce
del Padre ed hanno trasgredito la legge della libertà, si sono allontanati per
loro colpa, pur essendo stati creati liberi e padroni delle loro decisioni
(ejleuvqera kaiV aujtexouvsia thVn gnwvmhn gegonovta)» (IV,39,23). E’ la
libertà dell’uomo ad essere chiamata a rendere morbido il cuore, a rompere
la sua peccaminosa durezza, ad operare il proprio ubbidiente atto di fede
(che non dipende da un’azione interiore carismatica dello Spirito), a
maturare progressivamente sino all’escatologica fruizione della forma
spirituale; la grazia – che mai è «de violentia cogens» (IV,37,3) – si limita a
chiamare, a sollecitare comunque estrinsecamente, infine a compiere un
processo di formazione che la libertà stessa è chiamata, da protagonista, ad
intraprendere. Del tutto conseguentemente, lo Spirito vivificante (capace di
eternizzare la stessa carne mortale) – che per Paolo era la grazia donata da
Cristo, Adamo escatologico – «è stato dato esclusivamente a quelli che
calpestano i desideri terreni» (V,12,1), è quindi il dono riservato come
premio alla libertà che si converte a Dio; al contrario, il soffio vivificante,
proprio del primo Adamo, anima vivente, viene ad essere interpretato non
come originario dato antropologico della creatura, bensì come mortalità
sopravvenuta, dipendente dal peccato dell’uomo: «Dunque come colui che è
divenuto anima vivente, volgendosi verso il peggio, perse la vita, così
viceversa quello stesso, ritornando verso il meglio e ricevendo lo Spirito
vivificante, troverà la vita» (V,12,2). La dialettica teologica paolina tra
creazione e redenzione, Adamo e Cristo, è moralisticamente ridotta
all’alternativa tra le due vie del bene e del male offerte alla libertà
dell’uomo, sicché lo Spirito finisce per essere niente più che il punto di
approdo della via del bene, di quel processo dell’agnitio Dei, capace di
rinnovare la creatura (cf. V,12,4).
Neutralizzando in prescrittive prassi e conoscenza religiosa la
dimensione carismatica dello Spirito, Ireneo minimizza, fino quasi a
misconoscerlo, lo stesso fondamento carismatico dell’evento della fede, che
viene essa stessa ad essere interpretata come atto libero e razionale
dell’uomo: «E non solo nelle opere, ma anche nella fede il Signore ha
salvaguardato la libertà e il potere dell’uomo (liberum et suae potestatis
arbitrium hominis)…, mostrando che la fede è propria dell’uomo poiché egli
ha una sua propria decisione (propria suam habet sententiam)» (IV,37,5).
Conseguentemente, la grazia dell’elezione illuminatrice, come lo scandalo
dell’accecamento dell’incredulo, dell’ indurimento del cuore del faraone,
131
Donum libertatis
vengono interpretati come mera conseguenza della libera
autodeterminazione della creatura al cospetto di Dio, quindi della presenza o
mancanza di fede e di virtù, quindi come giusto esito di un’infallibile
prescienza divina degli atti e dei meriti della libertà: «Così un solo e
medesimo Signore procura l’accecamento a quelli che non credono e non
fanno alcun conto di lui – come fa il sole, la sua creatura, a quelli che per
una certa debolezza degli occhi non possono guardare la sua luce –, ma a
quelli che credono e lo seguono dà una più piena e più grande illuminazione
della mente… Se dunque anche ora Dio, che conosce prima tutte le cose,
abbandona alla loro incredulità quelli che sa non crederanno e distoglierà lo
sguarda da tali uomini, lasciandoli nelle tenebre che si sono scelti, quale
meraviglia se anche allora abbandonò alla loro incredulità Faraone e i suoi
che non avrebbero creduto?» (IV,29,12).
La piena libertà è rinnovata fedeltà creaturale al dono di Dio,
interpretato come deposito da custodire: «E’ bene obbedire a Dio, credere in
lui e custodire il suo precetto: questa è la vita dell’uomo; come disobbedire a
Dio è male e questa è la sua morte» (IV,39,1). Rispetto all’economia
veterotestamentaria – nel suo progredire dal dono della Legge a quello della
profezia – l’economia neotestamentaria – splendida e perfetta rivelazione del
bene, personalmente identificata con Cristo – è interpretato niente affatto
come eversiva novità carismatica, bensì come rinnovamento dell’identico
divino «buon consiglio», monito amorevole, suasiva chiamata che esorta le
libertà create a riconoscere il bene che le costituisce: «Se non fosse in nostro
potere fare o non fare una determinata cosa, quale ragione avrebbe avuto e
molto prima di lui il Signore stesso di consigliarci di fare alcune cose e di
astenerci da altre? Ma essendo l’uomo libero sin dall’inizio – ed è libero
Dio, ad immagine del quale è stato fatto – , sempre gli si consiglia di
custodire il bene, che deriva dall’obbedienza a Dio. E non solo nelle opere,
ma anche nella fede, il Signore ha salvaguardato la libertà e il potere
dell’uomo, dicendo: “Ti sia fatto secondo la tua fede”, mostrando che la fede
è propria dell’uomo poiché egli ha una sua propria decisione… Né il bene
sarebbe piacevole, né la comunione con Dio preziosa, né sarebbe degno di
considerazione un bene che si conseguisse senza un proprio moto, impegno e
applicazione (suo proprio motu et cura et studio), ma fosse insito in noi
automaticamente e senza sforzo (ultro et otiose), così che i buoni non
avrebbero alcuna superiorità, essendo tali per natura e non per libera scelta
(voluntate) e possedendo il bene automaticamente e non per elezione; e
V – La risposta cattolica: l’armonia tra nuovo e antico, tra grazia e libertà
perciò non comprenderebbero che il bene è eccellente e non ne godrebbero.
Infatti, quale godimento del bene ci potrebbe essere per quelli che non lo
conoscessero? Quale gloria per quelli che non lo avessero esercitato? Quale
fiducia per quelli che non avessero perseverato? Quale corona per quelli che
non l’avessero conseguita attraverso la lotta?» (IV,37,46). Sistematica
risulta l’affermazione antidualistica e specificatamente cattolica
dell’armonia, della concordia, della continuità (sicché la non comprensione
delle «differentiae causae» tra Antico e Nuovo Testamento spinge gli eretici
dualistici a confessare un altro Dio («alter Deus») (cf. III,12,12); peculiarità
cattolica è invece identificare la «causa differentiae… rursum unitas et
consonantia» (III,12,12) tra Vecchio e Nuovo): il nuovo compie l’antico, la
grazia non contraddice affatto, ma compie la Legge (sicché,
significativamente, in III,12,15, si nota come Giacomo e gli apostoli a lui
legati permettevano alle genti convertite di agire libere rispetto alla Legge,
eppure «perseveravano negli antichi riti (in pristinis observationibus)»), il
dono deve perfezionarsi nell’esercizio meritorio della libertà, l’autentica
fede (decisione e scelta, più che dono: cf. IV,37,45; V,27,1) deve dare il
frutto delle opere, così come le profezia e i tipi si realizzano nella rivelazione
della verità (cf. IV,32,2) e la perfezione dell’uomo che progredisce nel suo
sforzo libero si compie nella perfetta, divina immagine di Cristo, archetipo
della creazione e fonte personale del dono dell’immagine. Ma se la
rivelazione è questa continua educazione alla libertà, questa concorde
economia amorevolmente prescrittiva, se la salvezza dipende da una fede
risolta in libera decisione di accettare l’insegnamento divino, diviene
inevitabile precisare in cosa la nuova alleanza di grazia rivelata da Cristo
(giudice che separa il credente dall’incredulo, ovvero la libertà ubbidiente
da quella resistente: cf. V,27,1) si differenzi dall’antica alleanza: «Diremo
dunque a tutti gli eretici… che tutta l’opera, tutta la dottrina e tutta la
Passione del Signore nostro sono state predette nelle profezie… Ma allora il
Signore che cosa è venuto a portarci di nuovo? Sappiate che ha portato ogni
novità portando se stesso, che era stato annunciato» (IV,34,1). La perfezione
del vangelo è, quindi, la manifestazione in Cristo della perfetta realizzazione
della libertà, cui l’uomo è chiamato sin dall’origine; la grazia del Dio fattosi
uomo è la meta trascendente della scuola di libertà, dell’economia
progressiva dell’unico Dio, capace di sollevare la creatura dalla debolezza
dell’infanzia e dall’errore del peccato alla conquista voluta, consapevole di
una piena maturità morale e spirituale, che eternizza l’uomo rendendolo
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Donum libertatis
vera immagine di Dio in Cristo (cf. IV,38,139,1; in V,21,223,2, Cristo
uomo, che ricapitola in sé Adamo, incatena il diavolo e libera per grazia
l’umanità peccatrice da quello imprigionata, riconducendola all’obbedienza
ai comandamenti della Legge trasgrediti da Adamo e da Satana stesso).
Cristo, pertanto, compie la Legge non negandola, ma perfezionandola nella
sua stessa persona, Archetipo di grazia, manifestazione degli eterni premi di
Dio (cf., in V,12,12, l’interpretazione dello Spirito di vita come premio
conseguente agli sforzi meritori della libertà), attingendo i quali la creatura
compie il disegno divino della creazione: il novum è il maturo compimento
dell’attesa inscritta ontologicamente nel vecchio.
Seppure questa prospettiva risulta essere un’indubbia banalizzazione
dello straordinario annuncio di grazia paolino, comunque essa restituisce la
fragilità della creatura, la sua umile bassezza al cospetto di un’azione divina
che comunque la chiama a crescere e a perfezionarsi: l’uomo è corpo, carne,
e non – come per gli gnostici – identità divina, divenuta orgogliosamente
consapevole della sua proprietà ontologica (pure in origine fondata da un
atto rivelativo/perfezionante di grazia). La realtà storica dell’uomo, la sua
concretezza di soggetto indigente e carnale, l’insuperabile dipendenza
dall’Altro e dal suo Dono, la mediazione della chiesa universale (in alcun
modo selettivamente discriminante) come segno visibile dell’intrascendibilità
della creaturalità dell’uomo e dell’inesauribilità del Dono che lo chiama e
progressivamente lo innalza (cf. IV,38,34), rivelano un chiaro rifiuto
dell’astrazione metafisica dall’esistenza, della fuga nello speculativo o in un
mistico puramente astratto, di un delirio che divinizza, identificando Dio e
creatura, misconoscendo l’abisso che li separa e che solo rivela l’assoluta
gratuità del dono. Davvero la potenza redentivi del Dio di Ireneo si rivela
nel dettaglio fragile e carnale, nel corpo della creatura, nella finitezza della
sua stessa capacità spirituale, nella sua dipendenza dalla mediazione
sacramentale ecclesiastica. Sicché la carità – l’amore di Dio per l’umile,
infantile creatura che chiama a crescere e a divinizzarsi: cf., in V,4,1, la
polemica contro il falso amore del «loro falso Padre che finge di vivificare le
cose immortali per natura» – è confessata come superiore ad una gnosi
arrogante (cf. IV,38,34), dimentica della sua origine carnale, creaturale.
V,2 – Tertulliano: disciplina, giustizia e carisma
V – La risposta cattolica: l’armonia tra nuovo e antico, tra grazia e libertà
Anche Tertulliano, sulla scia di Giustino e di Ireneo, ribadisce in senso
antignostico e antimarcionita l’identità tra il Dio giusto datore della Legge e
il Dio buono datore della grazia (cf. Adversus Marcionem, I,19,45; II,13,5;
29,14; V,13,14), ma al punto da risolvere sostanzialmente la bontà nella
giustizia e la novità del Vangelo nella rivelazione di una «disciplina»
salvifica (cf. II,11,34; 13,15; V,14,1114), cioè nella riproposizione alla
libertà decaduta di quella Legge che per grazia di Dio era stata già donata
ad Adamo. In De monogamia 8,1, il vangelo è definito «lex proprie nostra»;
così, in Apologeticum 20,7, si afferma che Cristo, «gratiae disciplinaeque
arbiter et magister», viene per «reformare et inluminare» la Legge, non certo
per abrogarla; e in De oratione 4,13, il “sia fatta la tua volontà” invocato
da Gesù è significativamente identificato con l’ubbidienza alla «disciplina»,
cioè alla Legge del Padre; così, in Apologeticum 21,67, la rivelazione di
Cristo ai pagani è rivolta «ad adoratori più fedeli, su cui riversare una
grazia più abbondante (gratiam pleniorem) in virtù della loro disposizione
ad accogliere una disciplina più elevata (ob disciplinae auctioris
capacitatem)»; ove la grazia della nuova economia (comunque
quantitativamente e non qualitativamente differenziata da quella
veterotestamentaria) viene fatta dipendere dalla maggiore capacità etica,
quindi subordinata allo stesso progresso della disciplina umana. Ma proprio
nella capacità di ubbidire liberamente alla disciplina della Legge, quindi nel
potere di volgersi al bene o al male (cf. AdvMarc II,4,5 e il lungo excursus in
II,5,59,9), determinando la propria natura (cf. De anima 21,34; 6 e 22,6),
consiste il dono supremo che Dio ha concesso alla propria immagine creata,
degna di riflettere lo stesso Potere assoluto di Dio creatore, al punto che la
dignità analogica della creatura pare compiersi nel possesso di una piena
autonomia, in una proprietà capace persino di emanciparsi da Dio, nel
momento stesso in cui il bene diviene spontaneo desiderio della libertà:
«Perché dunque l’uomo possedesse il suo bene, bene suo proprio, liberato
dalla mera sudditanza di Dio (emancipatum sibi a Deo) e perché ci fosse
nell’uomo la proprietà del bene (proprietas boni) e in un certo senso la
natura del bene per creazione, sono stati attribuiti a lui, quasi testimoni di un
bene trasferito a lui da Dio, la libertà e il potere del suo arbitrio. Essi
avrebbero fatto in modo che il bene fosse ormai eseguito dall’uomo come
cosa propria (bonum ut proprium), spontaneamente (sponte), giacché anche
questo esige la razionalità della bontà umana, che essa dovesse essere
praticata volontariamente, in seguito alla libertà dell’arbitrio, che non
DESCRIZIONE DISPENSA
Questa dispensa si riferisce alle lezioni di Storia del cristianesimo e delle chiese , tenute dal Prof. Gaetano Lettieri nell'anno accademico 2010 e contiene delle riflessioni sui concetti di Dono e Libertà così come vengono espressi nel Nuovo Testamento e fino all'VIII Secolo.
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Atreyu di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia del cristianesimo e delle chiese e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università La Sapienza - Uniroma1 o del prof Lettieri Gaetano.
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