Che tipo di potere pubblico è l'Unione Europea? - Cassese
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regioni storiche italiane — a tutte, non solo a quelle sedi di movi-
menti particolaristici, centrifughi e perciò future destinatarie di
autonomie speciali — dovrebbero esser riconosciute libertà e sovra-
nità comparabili a quelle dei cantoni svizzeri, in un quadro di
divisione dei compiti tra stato centrale ed enti locali corrispondenti
a criteri federalisti. “Ognuno dei due — afferma Einaudi — deve
). Nell’articolo La sovranità è
esser sovrano nella propria materia” ( 28
indivisibile?, scrive magistralmente: “Come nessuno stato è piena-
mente sovrano nei rapporti internazionali, ma tutti gli stati debbono
assoggettarsi all’intervento altrui negli affari propri interni; cosı̀
all’interno di ogni cosiddetto stato sovrano non vi è un solo stato; ma
gli stati sono parecchi, forse molti, e nessuno di essi è pienamente
sovrano, perché la sovranità di ognuno si arresta dinnanzi all’uguale
). Einaudi parla
sovranità degli altri e deve con questa convivere” (
29
in proposito di autonomie politiche locali basate sul fondamento di
poteri originari comunali e regionali, che sono da considerare ori-
ginari e non frutto di decentramento politico-amministrativo più o
meno ampio. A differenza del modello federale svizzero o statuni-
tense, dove dagli stati o dai cantoni si procede alla costituzione della
federazione, occorre in Italia seguire la via inversa. Scrive nel 1946
nella relazione sullo statuto della regione siciliana: “Noi dobbiamo
partire da uno stato centralizzato per arrivare a uno stato più sciolto,
). Anticipando di
con funzioni attribuite alle singole regioni” ( 30
cinquant’anni le discussioni attuali sul principio di sussidiarietà,
visto come il criterio dirimente per la distribuzione delle competenze
tra le future regioni e il governo centrale in Italia, Einaudi afferma
che “il principio informatore della legislazione regionale è dunque
che allo stato centrale rimangono attribuite tutte quelle funzioni che
esplicitamente non siano state assegnate alle regioni nell’atto in cui
queste sono costituite. Compiuta questa distribuzione, stato e re-
gione devono risultare sovrani nell’ambito delle proprie competen-
( ) Cfr. la lettera al cattolico democratico valdostano Paul Alphonse Farinet del
28 , A proposito di autonomie, federalismo e separatismo, cit.,
29 maggio 1945 in E INAUDI
p. 562. ) Ivi, p. 565.
( 29 ) Cfr. L. E , Interventi e relazioni parlamentari, a cura di S. M
( 30 INAUDI ARTINOTTI
D , Torino, Fondazione L. Einaudi, 1982, vol. II, p. 226.
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ze” ( ). Una regola “impolitica” per i tempi, che non trova spazio
31 ).
nella costituzione repubblicana (
32
5.2. I federalisti della Federal Union.
La principale visione dell’unificazione europea, coerente coi
presupposti del federalismo di critica alla sovranità nazionale, si
mostra nella corrente di pensiero sviluppatasi in Inghilterra nella
prima metà del Novecento e particolarmente attiva nella presenta-
zione di proprie proposte politiche di federalismo europeo e mon-
diale negli anni Trenta e Quaranta. Gli autori principali — all’in-
terno di un gruppo più vasto di intellettuali fondatori del movimento
denominato Federal Union (1938), il cui lavoro influenza statisti
come Winston Churchill e Clement Attlee nella fase tra le due
guerre mondiali — sono Philip Kerr, poi divenuto Lord Lothian, e
). Da tale indirizzo viene affermato
l’economista Lionel Robbins (
33
complessivamente e con chiarezza che nel federalismo europeo si
devono inverare un aspetto di valore, la ricerca della pace, e il
modello istituzionale dello stato federale. L’originalità del federali-
smo anglosassone è quindi di saper collegare, seguendo le indica-
zioni di Seeley, le tradizioni di pensiero kantiana e del Federalist. In
sostanza, i federalisti inglesi danno concretezza istituzionale al valore
della pace nel modello di stato federale, visto come principio
generale di organizzazione statale all’insegna della pace nelle rela-
zioni internazionali, dapprima a livello europeo, quindi su scala
mondiale. Philip Kerr e Lionel Curtis sono i prosecutori più noti di
tale impostazione con gli scritti, da considerare classici del pensiero
( ) Ibidem.
31 ) Su questi temi rinvio alle considerazioni e ai riferimenti bibliografici conte-
( 32 , Umberto Terracini alla Costituente: la questione delle autonomie
nuti in C. M ALANDRINO
regionali, “Critica Marxista”, 1985, 4, pp. 43-55.
) Sulla scuola federalista inglese ved. F. R , La scuola federalista
( 33 OSSOLILLO ,
inglese, in L’idea dell’unificazione europea tra le due guerre mondiali, a cura di S. P ISTONE
, vol.
Fondazione L. Einaudi, Torino, 1975, pp. 59-76; The Federal Idea, ed. by A. B OSCO
I, The History of Federalism from the Enlightenment to 1945, London-New York,
Lothian Foundation Press, 1991. Sulla partecipazione socialista al movimento federalista
, Una pace da costruire. I socialisti britannici e il federalismo,
britannico cfr. A. C ASTELLI
Angeli, Milano 2002.
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federalista, The Prevention of War, opera di entrambi, e Pacifism is
not enough (nor Patriotism either) che invece viene elaborato dal solo
Lord Lothian, divenuto personaggio centrale dell’indirizzo federa-
). La sua formazione federalista
lista inglese negli anni Trenta ( 34
inizia nel corso dell’elaborazione della nuova costituzione sudafri-
cana (1906), alla scuola del Curtis, e prosegue all’interno del gruppo
riunito intorno alla rivista “The Round Table”, di cui è direttore dal
1910 al 1916. Assertore in un primo momento della creazione della
Società delle Nazioni, se ne dissocia una volta visti i suoi limiti e
preso atto dell’assenza degli Stati Uniti d’America e della Russia, gli
stati più condizionanti sullo scacchiere mondiale. La riflessione sulla
guerra e sulla pace, come già per Seeley, rappresenta anche per Lord
Lothian il banco di prova per la definizione della posizione federa-
lista. Nei saggi che compongono l’opera La prevenzione della guerra,
si passa in rassegna quelle che vengono chiamate le cause “mecca-
niche” e “psicologiche” delle guerre. Le prime concernono l’ogget-
tivo atteggiarsi degli stati moderni nelle loro relazioni internazionali.
In tale ambito, dominato da interessi sovrani, la guerra viene a
qualificarsi come il mezzo supremo di autoaffermazione di ciascuno
stato attraverso la forza. La conseguenza è l’instaurarsi di un regime
di anarchia internazionale. Sul piano della psicologia collettiva,
inoltre, “è il culto dell’egoismo nazionale che spinge gli abitanti di
ogni stato a limitare il proprio lealismo solamente ai propri concit-
tadini, e che impedisce la crescita di un autentico sentimento
cosmopolita, nel dare la precedenza al ’bene comune’ dell’umanità
rispetto agli interessi particolari di una sua parte” ( ). In tale
35
quadro, la pace non può esser che un intervallo tra una guerra e
l’altra, l’attesa che riprenda a scorrere il time-table prebellico. Ma
Lord Lothian non accetta una simile conclusione e ricerca, al
contrario, le condizioni attraverso le quali la pace non sia semplice-
mente “una condizione negativa caratterizzata dalla mancanza di
( ) Ph. K -L. C , The Prevention of War, New haven, Yale University
34 ERR URTIS
, Pacifism is not enough (nor Patriotism either), London, Oxford
Press, 1923; Ph. K
ERR
University Press, 1935. Segretario di Lloyd George e diplomatico, Lord Lothian è
ambasciatore britannico a Washington nella delicata fase seguita al trattato di Monaco
(1938) fino alla morte improvvisa nel ’40. Cfr. la riedizione e trad. it. di vari scritti di
L , Il pacifismo non basta, Il Mulino, Bologna 1986.
L ORD OTHIAN
) Cfr. K -C , The Prevention of War, cit., p. 35.
(
35 ERR URTIS
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guerra”, bensı̀ possa diventare “lo stato della società in cui i conflitti
politici, economici e sociali sono risolti con mezzi costituzionali
sotto il regno della legge, e la violenza o la guerra fra individui,
).
gruppi, partiti o nazioni in contrasto sono proibite e prevenute” (
36
A fondare la pace si rivelano inadeguati sia i movimenti pacifisti sia
quelli internazionalisti di matrice liberaldemocratica o socialista,
poiché non si rendono conto delle radici intime dalle quali nascono
i conflitti tra gli stati moderni. L’unica maniera di realizzare lo scopo
consiste nella creazione di uno stato che sia superiore agli stati
nazionali, ossia una federazione sovranazionale che garantisca l’isti-
tuzionalizzazione dei conflitti interstatali e perciò la loro risoluzione
per via giuridica. Da quanto detto emerge il dato dell’originalità del
federalismo anglosassone di quel periodo, che in sostanza invera
concretamente il valore della pace nel modello di stato federale, che
costituisce il principio generale di organizzazione statale all’insegna
della pace nelle relazioni internazionali, dapprima a livello europeo,
quindi su scala mondiale.
Tali aspetti si evidenziano nella concomitante riflessione econo-
mica di Robbins, direttore della London School of Economics, la cui
opera The Economic Causes of War) è tradotta in italiano da Altiero
),
Spinelli e, come lo stesso Spinelli ricorda nella sua autobiografia (
37
insieme all’altra pubblicistica federalista inglese influenza grande-
mente il sorgere del “federalismo europeo”. In uno scritto prece-
dente, Economic Planning and International Order (1937), Robbins
analizza in chiave federalista i fenomeni congiunti alla “grande crisi”
e alle risposte che a questa vengono date dal riformismo keynesiano
o dalla pianificazione socialista. Pur riconoscendo la necessità di una
qualche forma di programmazione economica (anche per il funzio-
namento del sistema capitalista), di entrambe le soluzioni Robbins
critica i limiti derivanti dalla mancanza di consapevolezza teorica del
loro operare all’interno della cornice degli stati nazionali, della loro
incapacità di cogliere le vere ragioni internazionali della crisi. La
( ) Cfr. L L , Il pacifismo non basta, cit., p. 167.
36 ORD OTHIAN
) Cfr. A. S , Come ho tentato di diventare saggio. I. Io, Ulisse, Il Mulino,
( 37 PINELLI , The Economic Causes of War, J. Cape,
Bologna 1984, pp. 293 e 307. Il volume di R
OBBINS
London 1939, tradotto da Spinelli col titolo Le cause economiche della guerra, esce per
i tipi di Einaudi a Torino nel 1944.
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causa radicale dei conflitti interstatali e delle guerre, scrive Robbins,
è “l’esistenza delle sovranità nazionali indipendenti” che sta alla base
). Il mercato
della “organizzazione politica anarchica del mondo” (
38
non può funzionare nell’anarchia delle relazioni internazionali, ma
neppure la pianificazione (quella democratica più blanda e quella
socialista più rigida) può andar al di là di misure valide in politica
interna. Mentre, al contrario, nei rapporti internazionali, in confor-
mità al principio del primato della politica estera, sono le esigenze
politiche di potenza ad aver l’ultima parola e a imporre decisioni
protezionistiche sovente non corrispondenti alle ragioni dell’econo-
mia, ma perfettamente conformi agli interessi “sezionali” nazionali e
alla ragion di stato che mira alla supremazia militare e, di conse-
guenza, alla preparazione delle guerre. Il pensiero economico liberale
ha, secondo Robbins, sempre eluso questi problemi rimandandone
la discussione a momenti di semplice collaborazione internazionale.
Ma ciò è insufficiente. In conclusione, si rende necessario pensare
all’instaurazione di un genuino sistema federale sovranazionale,
europeo e in lunga prospettiva mondiale, che permetta alle econo-
mie di risolvere le crisi grazie alla creazione di sedi di effettiva
regolazione dei conflitti e di programmazione delle priorità econo-
miche e politiche.
5.3. Le concezioni federaliste ed europeiste tra antifascismo e Resi-
stenza.
Durante la tempesta della seconda guerra mondiale, il dibattito
europeista e federalista riprende nell’ambito dei movimenti di Resi-
stenza contro il nazismo e il fascismo sorti in vari paesi, in particolare
). In
in Gran Bretagna, Francia, Olanda, Belgio, Germania e Italia ( 39
tutte queste realtà, la discussione sfocia in modo generalmente
( ) Cfr. il volume che raggruppa e ripubblica i cit. scritti di L. R , Il
38 OBBINS
, Il Mulino,
federalismo e l’ordine economico internazionale, a cura di G. M
ONTANI
Bologna 1985, p. 180.
) Cfr. per una introduzione tematica e bibliografica W. L (a cura di),
( 39 IPGENS
Documents on the History of European Integration, vol. I, Continental Plans for European
Union 1939-1945, de Gruyter, Berlin-New York, 1985.
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concorde nella critica radicale del carattere monolitico che la sovra-
nità statale ha raggiunto nei modelli totalitari nazifascisti e nella
rivendicazione dell’obiettivo dell’unificazione federale europea
come via d’uscita dalla distruzione del continente.
Con riferimento all’Italia, occorre sottolineare che tale rifles-
sione deve molto all’elaborazione specifica di varie personalità e di
movimenti antifascisti in esilio e, in modo particolare negli anni
Trenta, alla critica dello stato moderno portata avanti in connessione
ai temi dell’autonomia, del federalismo, e dell’obiettivo dell’unità
europea da Giustizia e Libertà e, con grande preveggenza politica,
). In estrema sintesi, nella sua polemica Contro
da Carlo Rosselli (
40
), che cerca di dare un senso unitario al dibattito a più voci
lo stato (
41
svoltosi in Giustizia e Libertà dal 1932 al 1934, Rosselli espone la tesi
che lo stato dittatoriale moderno mostra d’essere l’inevitabile con-
clusione, in determinate condizioni, dello statalismo e che in esso
non vi è posto per un umanesimo libero. Ciò pone una seria ipoteca
), che sembra confluire
sul paradigma costituzionale moderno (
42
nella “statolatria” e, ciò facendo, mostra la corda sia per ciò che
concerne la capacità di accordare il consenso dei cittadini alle forme
liberaldemocratiche statali, sia per quanto attiene alla reale efficacia
nel garantire la pace a livello internazionale. Secondo Rosselli è
questo il senso della critica alla “teoria metafisica dello stato”, anche
dalle indicazion emergenti dalle posizioni di autori quali Leonard T.
). Di conseguenza, abbozza una
Hobhouse e Georges Gurvitch (
43
visione nuova e positiva di una diversa forma e di un diverso
processo creatore di statualità nel corso di una appassionata discus-
( ) Su ciò si rinvia a C. M , Socialismo e libertà. Autonomia, federalismo
40 ALANDRINO
Europa da Rosselli a Silone, Angeli, Milano 1990, pp. 125-150. Cfr. anche Carlo e Nello
, “Quaderni del
Rosselli. Socialismo liberale e cultura europea, a cura di A. L
ANDUYT
Circolo Rosselli”, 1998, n. 11.
) Cfr. l’articolo di pari titolo in “Giustizia e Libertà”, 21 settembre 1934.
( 41 ) Sulla crisi attraversata dal paradigma costituzionale moderno rinvio, oltre che
(
42 , Costituzione,
alla letteratura cit. in premessa, alle considerazioni finali di M. F IORAVANTI
, Costituzione, in La politica ritrovata.
Il Mulino, Bologna 1999; cfr. anche M. D OGLIANI
, Editori Riuniti, Roma 1999, pp. 35-49.
Voci per un dizionario, a cura di C. M
ALANDRINO
) Cfr. L. T. H , The Metaphysical Theory of the State: a Criticism, Allen
(
43 OBHOUSE , L’idée du droit social, Librairie di Récueil Sirey,
and Unwin, London 1918; G. G URVITCH
., Le temps présent et l’idée du droit social, Vrin, Paris 1932.
Paris 1932; I
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sione con l’anarchico Camillo Berneri, scrivendo un vero e proprio
manifesto politico per un federalismo plurimo, istituzionale e so-
ciale, infranazionale e sovranazionale, italiano ed europeo, che va
ben oltre i limiti meschini di un ristretto “federalismo territoriale” o
).
regionale dai contorni micronazionalisti (
44
Tale riflessione, personale e collettiva, influenza i movimenti
antifascisti che si segnalano negli anni Quaranta per le posizioni di
critica alla sovranità statale e di nuove proposte europeiste, verifi-
cabili in un arco di posizioni che va dal Partito d’Azione alla sinistra
socialista. In modo specifico ci si occuperà qui di Silvio Trentin e
degli autori del Manifesto di Ventotene, Altiero Spinelli ed Ernesto
Rossi.
( ) Cfr. C. B -C. R , Discussione sul federalismo e l’autonomia, “Giu-
44 ERNERI OSSELLI
stizia e Libertà”, 27 dicembre 1935. Si riportano di seguito i passi salienti del “manife-
sto” rosselliano: “1) […] Per Giustizia e Libertà il federalismo politico e territoriale è un
aspetto e un’applicazione del più generale concetto di autonomia a cui il nostro
movimento si richiama: cioè di libertà positivamente affermata per i singoli gruppi, in
una concezione pluralistica dell’organizzazione sociale; 2) […] La regione storica, utile
ai fini politici amministrativi, può diventare mortifera a fini economici e culturali, la
regione agricola non coincidendo con la regione storica, la regione industriale variando
da industria a industria, e quasi sempre superando i confini dello stesso stato federale.
Perciò, anche in tema di regioni, pluralismo, elasticità; 3) […] Specie dopo il fascismo,
anziché rivalutare la patria regionale bisognerà sforzarci di superare o allargare la patria
nazionale in cui si asfissia, facendola coincidere con la nozione di patria umana o
umanità, espressione dei valori essenziali a tutti gli uomini indipendentemente dal
sangue, dalla lingua, dal territorio, dalla storia; 4) […] Gli organi vivi dell’autonomia non
sono gli organi burocratici, indiretti, in cui l’elemento coattivo prevale, ma gli organi di
primo grado, diretti, liberi, o con un alto grado di spontaneità, alla vita dei quali
l’individuo partecipa direttamente o che è in grado di controllare […]; 5) […] È
partendo da queste istituzioni nuove o rinnovate, legate fra loro da una complessa serie
di rapporti, e la cui esistenza dovrà esser presidiata dalle più larghe libertà d’associa-
zione, di stampa, di riunione, di lingua, di cultura, che si arriverà a costruire uno stato
federativo orientato nel senso della libertà, cioè di una società socialista federalista
liberale; 6) […] Il concetto di autonomia deve valere non solo per il domani ma anche
per oggi; non solo per la costruzione, ma anche per la lotta che dovrebbe condursi
secondo questi criteri: autonomia alla base, cioè iniziativa dei gruppi locali in Italia e
all’estero e federazione al centro, cioè alleanza rivoluzionaria”. Al problema specifico di
una federazione europea Rosselli dedica numerosi articoli e riflessioni profetiche rimaste
inedite, incentrate sull’esigenza dello sviluppo di un nuovo “patriottismo europeo”, sulle
, Socialismo e libertà, cit.,
quali si rinvia, per economia di discorso, a M ALANDRINO
pp. 143-150. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
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5.3.1. Trentin: una nuova visione pluralista di fronte alla “crisi” del
diritto e dello stato.
Nel contesto sopraddetto, una tra le più originali e compiute
critiche federaliste alla sovranità dello stato è rappresentata dal-
l’opera di Silvio Trentin, la cui elaborazione inizia nei primi anni
Trenta in collegamento con l’analoga riflessione di Giustizia e
Libertà e di Carlo Rosselli sui temi dell’autonomia, del federalismo
e dell’unità europea. Giunge a maturità con il trattato sulla Crise du
droit et de l’État (1935) e culmina nelle opere scritte nel corso della
). In particolare
seconda guerra mondiale e pubblicate postume (
45
mi riferisco al libro Stato-Nazione-Federalismo (redatto all’inizio del
1940, ma pubblicato nel 1945) e a Liberare e federare, edito postumo
). Analizzando e contestando la parabola statalnazionale
nel 1972 (
46
e monocentrica di uno stato moderno provvisto dell’attributo della
sovranità assoluta, configurante più forme di governo, ma sempre
consistente un unico centro di potere decisivo fatalmente autorita-
rio, Trentin contrappone un modello multipolare e pluralista, sia sul
piano istituzionale sia su quello sociale, capace di coniugare libertà
e giustizia senza peraltro escludere il requisito dell’efficacia della sua
azione. Trentin chiama la sua concezione “socialismo federalista” e,
come tale, integrale in senso proudhoniano. Esso costituisce l’ete-
rodosso ed eclettico punto d’arrivo, durante gli anni della seconda
guerra mondiale, di una indagine critica serrata, storica e teorica,
della concezione dello stato nazionale centralista. In tal senso, il libro
Stato-Nazione-Federalismo si può definire, citando Bobbio, “una
storia dello stato moderno, raccontata attraverso le vicende della
monarchia francese, della rivoluzione francese, della formazione
degli stati nazionali durante il secolo XIX, con particolare riguardo
al processo di unificazione della nazione italiana […] Una storia
delle dottrine che ne accompagnano la crescita e ne giustificano la
natura di ente sovrano, cioè dotato di un potere sommo che non
( ) Cfr. S. T , La crise du droit et de l’État, Paris-Bruxelles, L’Eglantine,
45 RENTIN -
1935. Per un’introduzione al pensiero autonomista e federalista di Trentin cfr. M ALAN
, Socialismo e libertà, pp. 151-176.
DRINO ) Cfr. S. T , Stato-Nazione-Federalismo, prefazione di M. D P , La
(
46 RENTIN AL RA ,
Fiaccola, Milano 1945; Liberare e federare, in Scritti inediti, a cura di P. G OBETTI
Guanda, Parma 1972, pp. 187-278.
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riconosce al di sopra di sè nessun altro potere” ( ). È su questa
47
forma di stato che s’appunta la critica di Trentin. Il quale, da
giurista, sente il bisogno di confessare autocriticamente d’esser stato
anch’egli “vittima di una deformazione professionale assai diffusa fra
i giuristi e troppo penetrato ancora dei pregiudizi di un insegna-
mento eccessivamente rispettoso delle forme pure del diritto”, per
cui si è indotti a credere all’esistenza ed all’autorità di una sedicente
legge regolatrice dell’evoluzione degli istituti giuridico-politici dei
popoli moderni, il cui enunciato tenderebbe a dar rilievo al fatto che
“il tipo di stato semplice unitario attua il più perfetto equilibrio
(assicurandone la più razionale coordinazione) fra le forze sociali
coesistenti nel medesimo territorio e costituisce perciò la mèta fatale
verso cui è giocoforza debbano a poco a poco gravitare, nel loro
graduale assestamento, le varie particolari forme di organizzazione
).
adottate nella pratica delle diverse società politiche” (
48
Trentin dà cosı̀ espressione, abbandonandolo, a quel feticismo
delle stato nazionale unitario, sostanzialmente centralista, che defi-
nisce una forma di “statolatria” tipica di molti esponenti democratici
della sua generazione. Da tale presa di coscienza consegue la deci-
sione di colmare la lacuna dimostrata nella prima opposizione
antifascista e di procedere verso una nuova concezione filosofica
dello stato e del diritto. Impresa compiuta grazie agli studi condotti
in Francia a partire dal ricordato contributo di Georges Gurvitch,
nel quadro del pluralismo giuridico e alla luce dell’ispirazione del
pensiero proudhoniano (ma occorre ricordare che i riferimenti di
Trentin sono più vasti e vanno dallo spiritualismo realista e istitu-
zionalista del giurista francese Maurice Hauriou, ai cultori del droit
naturel Francois Geny e Julien Bonnecase senza dimenticare infine il
marxismo più o meno eterodosso di autori come Rosa Luxemburg e
Leone Trockij). Attraverso queste vie Trentin si familiarizza con
l’impostazione pluralista dei problemi dello stato e della politica, in
qualche modo riformulanti lo schema pattizio giusnaturalista e
capaci di dare più ampio respiro ai diritti degli individui unitamente
alla dimensione del gruppo e delle comunità intermedie poste tra
( ) Cfr. l’Introduzione di N. B a T , Federalismo e libertà (1935-1943),
47 OBBIO RENTIN
vol. IV delle Opere scelte, Marsilio, Venezia 1987, p. XXIX.
) Cfr. T , Stato-Nazione-Federalismo, cit., pp. 114-115.
( 48 RENTIN
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l’individuo e lo stato. Da tale acquisizione discende il ripudio della
visione neoassolutizzante del fascismo, che Trentin preveggente-
). A questo proposito occorre sottoli-
mente chiama “totalitaria” (
49
neare che il giurista veneto è da considerare tra i primi critici del
totalitarismo, del quale denuncia il sorgere, le incarnazioni e i tratti
fondamentali riflessi nello stato nazionale ferreamente centralizzato,
unitario, unico creatore della norma positiva e dei valori giuridico-
politici. Di qui anche la ricerca di una diversa e nuova concezione,
intimamente federalista, dello stato e della politica, che traduce in
teoria giuridica un nuovo paradigma costituzionale (il quale, pur
partendo da una critica al fascismo, è inteso come superamento
anche del modello liberaldemocratico tradizionale) al quale non è
stata riservata finora la debita attenzione.
In Stato-Nazione-Federalismo Trentin ripercorre, partendo dal
processo di disgregazione dell’universalismo medievale, le tappe
della formazione e dello sviluppo dello stato nazionale accentrato
moderno, facendo riferimento alla storia di Francia, Germania e
Italia. Egli mette in rilievo il fatto che all’affermazione dello stato
centralizzato fa da contraltare una persistente tensione pluralista e
autonomista. La vittoria va però alla tendenza unitaria e centralista,
dapprima con la forza dell’assolutismo dei prı̀ncipi, in un secondo
momento sotto il vessillo della “nazione” — una nazione intesa da
Trentin nell’accezione di mito aberrante di élites vogliose di auto-
realizzazione — e della “democrazia” giacobina; infine grazie alla
violenza delle dittature fasciste e comuniste. C’è un filo che lega tutte
queste forme di potere statale, pur nella grande differenza di moti-
vazioni. La rivoluzione borghese del 1789 e quella socialista del 1917
consolidano, secondo Trentin, la struttura accentrata dello stato
finendo per soffocare le aspirazioni di ceti, gruppi, classi all’autono-
mia, in contraddizione con le stesse ideologie liberali e socialiste che
ne proclamano il mantenimento. Lo stato monocentrico (contro cui
( ) I passi che si potrebbero citare sono numerosi, a partire dal primo scritto
49
trentiniano dedicato all’analisi critica del fascismo, L’aventure italienne. Légendes et
réalités, Paris, PUF, 1928 (oggi in trad. it. nel vol. V delle Opere scelte, a cura di A.
, 1988, pp. 21-23). Sulla specificità della caratterizzazione neoassolutistica e
V ENTURA
tirannica dello Stato fascista, quintessenza secondo Trentin dello Stato nazionale cen-
, Morale e politica nell’antifascismo e nella
tralista e autoritario, cfr. C. M
ALANDRINO
Resistenza. Silvio Trentin “monarcomaco”?, in “Il Ponte”, settembre 1994, pp. 50-66.
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l’antifascista veneto recupera la tensione morale e politica della
scuola federalista risorgimentale italiana di Cattaneo) passa, quasi in
eredità, dall’assolutismo alle democrazie contemporanee, grazie so-
prattutto al processo di “universalizzazione” e di rafforzamento del
principio dello stato unitario monocentrico, inoculato nel principio
di nazionalità, operato dall’idealismo tedesco e poi fatto proprio dai
maggiori filoni ideologici ottocenteschi, fino alla consacrazione del-
l’unità come legge suprema di organizzazione della vita sociale e di
uno specifico mito unitario nel corso della “grande guerra”. Questo
è il motivo principale per cui, conclude Trentin, nell’intervallo tra le
due guerre mondiali si verifica facilmente il passaggio dalla demo-
crazia liberale alla dittatura in numerosi paesi e, comunque, grazie al
quale le tendenze reazionarie si dilatano in tutta l’Europa. Nello
stato nazionale monocentrico, unitario e autoritario, è infatti riposta
la radice più profonda della tirannide. Lo stato nazista è solo
). Altri-
“l’espressione più estrema del monocentrismo integrale” (
50
menti detto: “È nello stato totalitario che lo stato unitario rinviene la
sua ultima e più compiuta espressione”. Compito della rivoluzione
— tale è per Trentin la Resistenza, rivoluzione morale, politica,
istituzionale e sociale — sarebbe perciò non di eliminare alcuni
regimi dittatoriali e totalitari, ma di estirpare la stessa mala pianta
dello stato nazionale unitario all’insegna della parola d’ordine del-
l’“autonomia”: “Autonomia, cioè: emancipazione brutale da tutte le
superstizioni a lungo intrattenute dalla menzogna nazionalistica:
affrancamento definitivo dalla macchina-simbolo [...]” dello stato-
Leviatano ( ). Questa è la condizione per rompere il ciclo perverso
51
della storia dei singoli paesi europei e dell’Europa vista come
insieme. Del resto, nel trattato sulla Crisi del diritto e dello stato
Trentin chiarisce che ogni forma e livello di società esige un’orga-
nizzazione statale infra- e sovranazionale. Egli chiama “stato parti-
colare” quello corrispondente al piano della società nazionale. Lo
“stato particolare”, ordinatore della “coesistenza delle autonomie”,
è da lui concepito come un gradino verso lo “stato universale”, al
quale incombe l’organizzazione della società universale, cioè mon-
diale. L’integrazione tendenziale dello stato particolare nell’univer-
( ) Cfr. T , Stato-Nazione-Federalismo, cit., p. 153.
50 RENTIN
) Ivi, p. 207.
( 51 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
202 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
sale non pregiudica l’esistenza del primo in quanto “ordine d’inte-
grazione parziale”, non godente però degli attributi d’assolutezza
).
sovrana conferitigli dall’ideologia statal-nazionale (
52
Il fulcro dell’interesse trentiniano in Liberare e federare è riposto
nella delineazione dei caratteri dello stato e della società postrivo-
luzionari, rispetto ai quali Trentin non si limita all’enunciazione di
) costituzionali relativi a Fran-
principi ideali, ma elabora Abbozzi (
53
cia e Italia, che nelle sue intenzioni dovrebbero espletare la loro
efficacia nei dibattiti di una prevedibile futura assemblea costituente.
Il nuovo stato dovrebbe configurarsi come “ordine degli ordini” —
e da questa definizione emerge con evidenza il suo carattere multi-
polare in luogo del monocentrismo. Trentin aggiunge che se esso
volesse realizzare un progresso sul piano dell’affrancamento dell’in-
dividuo e della salvaguardia della dignità della persona, non po-
trebbe esser altro che “federalista, nel senso proudhoniano della
parola”. Ovvero federalismo politico e federalismo sociale “agricolo-
industriale” ( ).
54
Nell’Abbozzo di un piano tendente a delineare la figura costitu-
zionale dell’Italia al termine della rivoluzione federalista in corso di
sviluppo (redatto poco prima di morire nel 1944 e pubblicato
postumo nel 1972) Trentin, pur tra scontate macchinosità e farra-
( ) Importanti ispiratori di Trentin ai fini dell’elaborazione della critica dell’ana-
52
cronismo e dell’illusorietà della sovranità statal-nazionale nella prospettiva dell’unità
federale europea sono due autori, peraltro assai distanti tra loro (il che dimostra la
capacità eclettica di Trentin di servirsi, ai fini della costruzione del suo sistema, delle
fonti più disparate): il giurista italiano Pietro Bonfante, autore durante e dopo la “grande
della Storia della
guerra” di articoli europeisti sulla salveminiana “Unità”, e il T ROCKIJ
rivoluzione russa. Di Bonfante Trentin cita vari scritti, di cui quello più attinente la
problematica della crisi dello stato è Europa, in “Rivista internazionale di filosofia del
diritto”, XIII, 1933, n. 1, pp. 1-4. Sull’influenza di Trockij insiste il maggior biografo di
, S. Trentin dall’interventismo alla resistenza, Milano, Feltrinelli,
Trentin, F. R
OSENGARTEN
1980, passim. Trentin utilizza la traduzione francese della Histoire de la révolution russe,
Paris, Rieder, 1933, di Trockij. Sulla rilevanza di Trockij per l’evoluzione di una linea di
, L’idea
pensiero federale ed europeista nel comunismo internazionalista cfr. M ALANDRINO
dell’unità federale europea e il socialismo marxista (1900-1920), cit., pp. 23-49.
) Cfr. S. T , Ebauche de la figure constitutionnelle de la France à l’issue de
( 53 RENTIN ., Scritti inediti, cit., pp. 279-294 e il
la révolution en cours de développement, in I D
consecutivo Abbozzo di un piano tendente a delineare la figura costituzionale dell’Italia al
termine della rivoluzione federalista in corso di sviluppo, ivi, pp. 295-318.
) Cfr. T , Liberare e federare, cit., pp. 237-238.
( 54 RENTIN
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 203
CORRADO MALANDRINO
ginosità tipiche di un lavoro a tavolino non soggetto a ulteriori
affinamenti, cerca di dare traduzione normativa e istituzionale a tali
indicazioni. Non è qui possibile darne un’illustrazione, ma basti dire
che il primo dei “princı̀pi generali” stabilisce l’identità italiana di
“Repubblica federale” e di “membro fondatore della Repubblica
europea”. Ciò dimostra la convinzione trentiniana di dover porre
l’Italia sul cammino della costruzione dell’unione europea — vista
come coordinamento federale delle realtà nazionali — in luogo della
“balcanizzazione” prodottasi dopo la prima guerra mondiale e
risorgente dalle ceneri dei blocchi postbellici.
In conclusione, nella teoria trentiniana il presupposto sostan-
ziale del carattere multipolare del sistema pluralista intacca il dogma
della sovranità dello stato, che perde gli attributi di astrattezza e di
assolutezza, nonché di monocentrismo, tipici della concezione dello
stato nazionale moderno, per depotenziarsi e diffondersi (ma non
eliminarsi) in varie istanze interne ed esterne. Questo fatto mette il
pensiero di Trentin in sintonia con le correnti più avanzate del
pensiero giuspubblicistico contemporaneo che da tempo raccoman-
).
dano la trasformazione del modello costituzionalistico (
55
( ) Mi pare che su una strada vicina al modello multipolare, autonomista e
55
federalista europeo di Silvio Trentin si pongano alcune considerazioni di filosofia politica
Z al suo denso saggio di diritto costituzionale intitolato
premesse da G USTAVO AGREBELSKY
Il diritto mite, Einaudi, Torino 1992. Delineando il passaggio dallo stato di diritto
ottocentesco allo stato costituzionale contemporaneo, Zagrebelsky sottolinea l’esistenza
di una tendenza che definisce della “mitezza costituzionale” in un sistema caratterizzato
dal pluralismo dei valori e quindi dall’esigenza della loro coesistenza e del loro
compromesso a livello costituzionale. Contrapponendosi alla visione socialdarwinista e/o
schmittiana di una liberisticamente “illimitata competizione” delle merci, delle idee,
della politica, degli uomini, di una “rivalità distruttiva delle piccole identità collettive”,
egli assegna viceversa a una “convivenza mite, costruita sul pluralismo e sulle interdi-
pendenze e nemica di ogni ideale di sopraffazione” il compito di accompagnare
l’umanità nel terzo millennio. A tal fine, il prezzo da pagare è appunto visto, sul piano
dei modelli costituzionali, nella “revisione del concetto classico di sovranità interna ed
esterna [...] nell’integrazione del pluralismo nell’unica unità possibile [che] deriva anche
dall’esigenza di abbandonare quella che si potrebbe dire la sovranità di un principio
politico unico dominante, dal quale si possano deduttivamente trarre tutte le articola-
zioni esecutive concrete alla stregua del principio di esclusione del diverso, secondo una
logica dell’aut-aut, dell’“o dentro o fuori”. La coerenza ’semplice’ del tipo di stato
nazionale monocentrico e sovrano che si otterrebbe in questo modo non potrebbe essere
la legge fondamentale intrinseca del diritto costituzionale dell’epoca presente che è
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
204 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
5.3.2. Il Manifesto di Ventotene: Spinelli e la strategia costituzionale
del “federalismo europeo”.
Il momento cruciale per l’affermazione dell’indirizzo teorico
“federalista europeo” è dato dalla fondazione, su proposta di Altiero
Spinelli ed Ernesto Rossi, del Movimento Federalista Europeo
(MFE) a Milano, nell’agosto 1943, e del suo organo periodico vicino
al Partito d’Azione, “L’Unità Europea”. Spinelli e Rossi, politica-
mente collocatisi nell’alveo liberalsocialista influenzato da GL e da
), debitori del pensiero federalista di Einaudi e
Carlo Rosselli (
56
attraverso lui collegati al federalismo classico di matrice anglosas-
sone della Federal Union, ribadiscono una critica severa e definitiva
al dogma della sovranità assoluta degli stati, tanto più nella forma
esasperata e degenerata dei totalitarismi, punto d’arrivo della “crisi
della civiltà moderna”. Essi distinguono nell’analisi il fatto che la
summa potestas superiorem non recognoscens sorge prima della for-
mazione degli stati nazionali, ma storicamente diviene causa neces-
saria di contrapposizioni irrisolvibili e distruttive solo dopo la sua
fusione con la concezione nazionalista dello stato-potenza: “La
sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di
dominio di ciascuno di essi […] Questa volontà di dominio non
potrebbe acquetarsi che nella egemonia dello stato più forte su tutti
gli altri asserviti […] Gli stati totalitari sono quelli che hanno
realizzato nel modo più coerente l’unificazione di tutte le forze,
attuando il massimo di accentramento e di autarchia, e si sono perciò
dimostrati gli organismi più adatti all’odierno ambiente internazio-
nale” ( ). Eugenio Colorni, curatore della prima edizione del Ma-
57
“piuttosto quella dell’et-et e che contiene perciò delle promesse multiple per il futuro”.
cfr. anche le illuminanti riflessioni nella Presentazione del volume (da lui
Di Z
AGREBELSKY
curato) Il federalismo e la democrazia europea, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994,
pp. 9-23.
) Cfr. in proposito C. M , Il federalismo europeo in Ernesto Rossi, in
( 56 ALANDRINO , Fondazione C. Nivola - Centro
Il federalismo tra filosofia e politica, a cura di U. C
OLLU
per la filosofia italiana, Nuoro-Roma, 1998, pp. 341-366.
) Cfr. A[ ] S[ ] e E[ ] R[ ], Problemi della Federazione
( 57 LTIERO PINELLI RNESTO OSSI
Europea, Roma, Movimento italiano per la federazione europea, 1944, consultabile in
varie edizioni e ora in quella anastatica promossa dal Consiglio Regionale del Piemonte,
-R , Il Manifesto di Ventotene, a cura di S. Pistone, Celid, Torino 2001,
cfr. S
PINELLI OSSI
p. 10. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 205
CORRADO MALANDRINO
nifesto di Ventotene ( ), scrive conseguentemente nell’introduzione
58
che l’idea centrale dell’opera consiste nella consapevolezza che la
“contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre,
delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società” è
“l’esistenza di stati sovrani, geograficamente, economicamente, mi-
litarmente individuati, consideranti gli altri stati come concorrenti e
potenzialmente nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una
situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes”. Di qui l’espo-
sizione del nucleo essenziale del discorso del Manifesto, il cosiddetto
préalable “federalista europeo”, incentrato sulla “definitiva aboli-
). Solo
zione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani” (
59
questo passaggio prioritario consentirebbe l’intrapresa in Europa di
veritiere politiche di progresso sociale, economico, culturale. Se-
condo Spinelli e Rossi, “la linea di divisione fra partiti progressisti e
partiti reazionari cade ormai non lungo la linea formale della mag-
gior o minore democrazia, del maggior o minore socialismo da
istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli
che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè
la conquista del potere politico nazionale — e che faranno, sia pure
involontariamente, il gioco delle forze reazionarie lasciando solidi-
ficare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio
stampo e risorgere le vecchie assurdità — e quelli che vedranno
come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale,
che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche
conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea
). Il nuovo
come strumento per realizzare l’unità internazionale” ( 60
ordinamento federale dovrebbe esser tale da lasciare a ogni singolo
stato “la possibilità di sviluppare la sua vita nazionale” nel modo più
adatto al grado e alla peculiarità della sua civiltà, ma limitandone la
sovranità al fine di sottrarre i mezzi di realizzazione dei particolari-
smi egoistici.
Sulla base di tali princı̀pi Spinelli e il MFE, da lui presieduto e
guidato fino agli inizi degli anni ’60 (tranne una breve parentesi nel
( ) Su ciò cfr. più ampiamente M , Socialismo e libertà, cit., pp.
58 ALANDRINO
177-184.
) Cfr. S -R , Il Manifesto di Ventotene, cit., p. 21.
(
59 PINELLI OSSI
) Ivi, p. 15 e p. 37.
(
60 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
206 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
biennio 1946-47), si impegnano in una lotta dalle alterne fasi e
vicende, il cui dato comune è possibile ritrovare proprio nell’obiet-
tivo di una costituzione federale europea elaborata da un organo
parlamentare costituente e non da una conferenza diplomatica di
stati sovrani, ritenuta capace solo di produrre risultati di tipo
confederale ( ). Da tale decisione la contrapposizione del metodo
61
“costituzionale” del “federalismo europeo” (al cui sostegno si in-
tende mobilitare l’europeismo diffuso a livello popolare con l’inizia-
tiva denominata “Congresso del Popolo Europeo”) ai metodi del
confederalismo e del funzionalismo comunitario ( ), che porta alla
62
sconfitta, dovuta anche a una sottovalutazione delle potenzialità
dell’integrazione sovranazionale avviata con la CEE. Una sottovalu-
tazione ammessa e spiegata negli anni Sessanta dallo stesso Spinelli
e, in modo forse più chiaro, da Mario Albertini ( ).
63
6. La critica federalista nel secondo Novecento: sparizione, obsole-
scenza o trasformazione della sovranità?
Nella seconda metà del Novecento si enucleano posizioni che,
pur rientrando agevolmente nel paradigma definito ai paragrafi 2 e
3 per ciò che riguarda il riferimento alla crisi della sovranità statale,
mettono in luce approcci sempre più diversificati rispetto alla con-
statazione o meno della persistenza di un potere sovrano nello stato
nazionale e/o in quello federale. Ciò accade, in modo particolare,
quando si applichi questo discorso alla realtà europea. Alcuni autori
giungono alla conclusione che la sovranità sia obsoleta, decada o
( ) Su S cfr. E. P , A. Spinelli. Appunti per una biografia, Il Mulino,
61 PINELLI AOLINI , Il
Bologna 1988. Cfr. inoltre gli interventi spinelliani raccolti a cura di M. A
LBERTINI ,
progetto europeo, Il Mulino, Bologna 1985. Cfr. inoltre l’interessante sintesi di A LBERTINI
.,
L’unificazione europea e il potere costituente, “Il Politico”, 1986, ora consultabile in I D
Nazionalismo e federalismo, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 289-306. Sull’attività del
-S. P , Trent’anni di vita del MFE,
movimento dei “federalisti europei” cfr. L. L EVI ISTONE
(a cura di), I movimenti per l’unità europea, vol. I
Angeli, Milano 1973; S. P ISTONE
1945-1954, Jaca Book, Milano 1992; vol. II, 1954-1969, Università di Pavia, Pavia 1996;
- D. P , I movimenti per l’unità europea 1970-1986, 2 voll., Il Mulino,
A. L
ANDUYT REDA
Bologna 2000.
) Su questo punto ved. M , L’idea dell’unità europea, cit., pp. 28-32.
( 62 ALANDRINO
) Cfr. l’introduzione di S. P al testo di S , Una strategia per gli Stati
(
63 ISTONE PINELLI
Uniti d’Europa, Il Mulino, Bologna 1989, pp. 22-23.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 207
CORRADO MALANDRINO
addirittura sparisca nel passaggio allo stato federale. Altri pensano
invece a un affievolimento, a una diminuzione, che tuttavia non
mette in questione l’effettivo permanere di una sovranità condivisa
fra i livelli infranazionale, nazionale e federale sovranazionale.
6.1. Il “federalizing process” di Friedrich: la sovranità impossibile.
Carl Joachim Friedrich rientra nel novero dei maggiori storici e
politologi che hanno indagato tra primo e secondo Novecento il
problema del federalismo, visto non solo come specifica forma
organizzativa e istituzionale dello stato, ma anche in relazione ai
). Non
modi di espressione politica della vita comunitaria e sociale (
64
a caso, tra i suoi primi oggetti di ricerca compare l’analisi della
concezione simbiotico-federativa di Johannes Althusius di cui, nel-
l’introduzione alla riedizione della Politica da lui curata nel 1932, si
).
mette in rilievo il ruolo fondativo per il federalismo moderno (
65
Per Friedrich il federalismo è prima di tutto un fatto di organizza-
zione e di equilibrio degli interessi, di conformazione del potere
politico in una determinata comunità e, di conseguenza, una speci-
fica forma di governo.
Friedrich appartiene alla cerchia di quegli autori che ripensano
criticamente alla parabola dello stato moderno centralizzato e so-
vrano iniziata nel Cinquecento. Egli sottolinea il fatto che la conce-
zione della sovranità assoluta, indivisibile, semplificatrice delle com-
plessità sociali, teorizzata soprattutto da Hobbes, caratterizza il farsi
iniziale di questo tipo di stato che, dopo aver toccato l’apogeo tra il
Seicento e l’Ottocento, ha cominciato a declinare di fronte al
ravvivarsi delle articolazioni del tessuto comunitario interno e al-
l’esplodere distruttivo delle contraddizioni internazionali nel sistema
europeo (poi mondiale) degli stati. Giunto al termine del suo
orizzonte storico, lo stato moderno deve lasciar spazio a un ordina-
( ) Cfr. l’edizione italiana dei più pregnanti passaggi della complessiva opera di
64 , L’uomo, la comunità, l’ordine politico, a cura e con introduzione di S.
C. J. F
RIEDRICH
Ventura, Il Mulino, Bologna 2002.
) J. A , Politica methodice digesta et exemplis sacris et profanis illustrata,
(
65 LTHUSIUS
Herbornae Nassoviorum, Corvinus, 1614, riedita. a cura e con introduzione di C. J.
Friedrich, Cambridge, Harvard University Press, 1932.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
208 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
mento istituzionale più dinamico e libertario delle relazioni tra le
comunità politiche. Queste si collocano a più livelli: locale, regio-
nale, nazionale e sovranazionale, interagendo continuamente tra
loro. È dunque necessario che a una configurazione statica, centra-
lizzata e autoritaria, dei loro rapporti se ne sostituisca una flessibile,
evolutiva, policentrica, cooperativa. Scrive Friedrich: “Il mondo
contemporaneo prende significativamente forma secondo i com-
plessi modelli di interazione tra questi diversi tipi di comunità.
Federalismo, regionalismo e decentralizzazione hanno visto accre-
scere la loro importanza come modi possibili di trattare le questioni
). Friedrich
politiche risultanti da questo processo di interazione” ( 66
ricorda che il federalismo si distingue dal regionalismo o dalla
decentralizzazione — elementi insopprimibili di una formazione
federale che, però, possono anche rappresentare soltanto misure
amministrative destinate a rendere più funzionale il governo di uno
stato non federale —, per la sua capacità di portare in primo piano
i dati politici originari e costitutivi delle relazioni fra le comunità, nel
senso che presuppone sempre “un accordo tra eguali per agire
). Il cri-
unitamente su specifiche questioni di politica generale” (
67
terio che definisce il tratto “federale” di uno stato è pertanto
“l’esistenza di rappresentanti, effettivamente separati, delle diverse
componenti, allo scopo di partecipare al processo di legiferazione e
di dar forma alla politica pubblica”. Il federalismo è perciò definibile
come la formulazione di un processo che si sviluppa nei due sensi,
dissociativo e associativo, rispetto all’operare tradizionale dello stato
moderno: da un lato decentralizzando e federalizzando le sue com-
ponenti all’interno, da un altro lato creando un centro di potere
politico federale tra le comunità sovranazionali: “Il federalismo è
anche, e forse soprattutto, il processo di federalizzazione di una
comunità politica; cioè il processo attraverso il quale un certo
numero di comunità politiche separate entrano in una organizza-
zione comune per raggiungere soluzioni, adottare politiche comuni;
e all’opposto, il federalismo è anche il processo attraverso il quale
( ) Cfr. C. J. F , Trends of Federalism in Theory and Practice, A. Praeger
66 RIEDRICH -L. C , Federalismo.
Publishers, New York 1968 (cit. nella trad. it. di B. C ARUSO EDRONI
Antologia critica, Scuola superiore della Pubblica Amministrazione, Roma 1995, p. 455).
) Ivi, p. 458.
( 67 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 209
CORRADO MALANDRINO
una comunità politica unita si differenzia in un tutto federalmente
organizzato. Le relazioni federali sono per natura relazioni in con-
). È nella logica intrinseca di un siffatto orga-
tinuo mutamento” ( 68
nismo federale, sottoposto a un costante divenire che ridefinisce gli
assetti raggiunti, composto di membri tra loro autonomi, che nes-
suno di essi sia sovrano. E infatti, sostiene Friedrich, “alcun sovrano
può esistere in un sistema federale”. È un errore anche pensare che
possa sussistere una sorta di sovranità residua e limitata delle
componenti, poiché l’idea stessa della sovranità “significa indivisi-
bilità”. Ciò che prende il posto della sovranità — e dunque rappre-
senta l’immagine del potere cui spetta “l’ultima parola” — è da
Friedrich definito “il potere costituente” che realizza l’accordo dei
).
singoli e delle comunità per fondare lo stato federale ( 69
Fanno parte del processo e del modello federalizzanti varie fasi
di sviluppo, da quello confederale della “lega” a quello finale di una
vera e propria federazione statuale. L’esperienza decisiva ai fini
dell’elaborazione del concetto moderno di federalismo è, anche per
Friedrich, quella della formazione della costituzione federale ame-
), che rendono chiaro il
ricana e della stesura del Federalist (
70
passaggio dallo stadio confederale a quello federale, sebbene tale
problema non venisse da parte dei convenzionali di Filadelfia posto
dottrinalmente (come fecero poi autori europei, in particolare tede-
schi e italiani), ma pragmaticamente. Ciò che fa fare il salto di qualità
nel “nuovo” federalismo è l’esistenza di una doppia e contestuale
cittadinanza, ossia “l’idea che in un sistema federale di governo ogni
cittadino appartenga a due comunità, quella del suo stato e quella
della nazione; che questi due livelli di comunità debbano essere
nettamente distinti e che ognuno di essi debba essere provvisto del
proprio governo; e che nella strutturazione del governo della comu-
nità più estesa gli stati componenti debbano giocare un preciso ruolo
). Da ciò conseguono l’organizzazione
nella loro qualità di stati” (
71
delle competenze fiscali, la divisione dei poteri “sovrani” (che invero
( ) Ivi, p. 459.
68 ) Ibidem.
( 69 ) Cfr. F , L’uomo, la comunità, l’ordine politico, cit., p. 278 ss. e
( 70 RIEDRICH
291-300.
) Ivi, p. 297.
(
71 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
210 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
non sono più tali) su un livello duale, ecc. È interessante notare che
Friedrich afferma, discutendo la posizione degli antifederalisti ame-
ricani e quella successiva di J. C. Calhoun, sostenenti il diritto
sovrano degli stati membri nei confronti dell’Unione con l’argo-
mento della “indivisibilità della sovranità”, che l’esperienza della
costituzione americana trascendeva proprio tale “usurata dottrina
). Allo stesso modo, pensa Friedrich, sono peri-
della sovranità” (
72
colose per il federalismo le tendenze centralizzatrici emergenti nelle
esperienze concrete dei paesi federali, dagli USA alla stessa Confe-
derazione Elvetica, perché delineanti un nuovo zoccolo duro di
sovranità centralista.
Da quanto detto, in conclusione, emerge una certa indefinitezza
della sovranità nel nuovo contesto delineato da Friedrich, e più in
generale dei caratteri istituzionali specifici del sistema federale, e ciò
ha attirato critiche sul suo modello. Alcuni, in particolare aderenti al
“federalismo europeo”, pensano infatti che porre l’accento sui pro-
cessi storico-sociali alla base della crisi dello stato moderno è
necessario per riconoscere la ragione profonda della necessità del-
l’avvento di sistemi federali sempre più allargati, ma aggiungono che
ciò nondimeno tale approccio, perseguito fino al punto di sostenere
la tesi della sparizione della stessa idea di sovranità statale, può far
perdere il senso del ruolo delle istituzioni nella storia. In particolare,
come conseguenza della negazione della trasformazione della sovra-
nità, resta sullo sfondo in Friedrich la distinzione qualitativa tra
).
federazione e confederazione acquisita dalla teoria federalista (
73
Ciò può causare omissioni, fraintendimenti, se non errori, nella
prospettiva comparativa dei diversi processi federativi. Un esempio
si può riconoscere nel modo in cui Friedrich considera il caso
europeo. Egli scrive che l’esperimento delle “comunità” economiche
supera le iniziali e sterili diatribe tra federalisti e confederalisti tra gli
anni ’40 e ’50, che si sviluppano a suo parere polemicamente e
dogmaticamente intorno a un impossibile trasporto (Friedrich equi-
para il progetto “costituente” di Spinelli a un “sogno”) ( ) sul piano
74
europeo del modello federale americano. In realtà l’Europa comu-
( ) Ivi, pp. 300-301.
72 ) Cfr. L. L , Il pensiero federalista, Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 110.
( 73 EVI
) Cfr. F , L’uomo, la comunità l’ordine politico, cit., p. 331.
( 74 RIEDRICH
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 211
CORRADO MALANDRINO
nitaria passa, nell’epoca descritta da Friedrich tra gli anni ’50 e ’60,
dalla fase della comunità funzionale con tratti confederali a quella
dell’unione sempre più stretta con vincoli federali. La difficoltà e
lentezza del processo, dimostrata tra l’altro dall’assenza dell’istituto
di una cittadinanza comune, in quel periodo ancora non prevista nei
trattati, non impediscono a Friedrich di affermare: “Il processo in
atto mira alla costruzione di un sistema federale. Sebbene ancora
nelle prime fasi, questo processo sta guadagnando velocità, ed è
divenuto esplicito attraverso la costituzione di diverse comunità con
obiettivi specifici — la Comunità del carbone e dell’acciaio,
l’Euratom, la Comunità economica europea (il Mercato comu-
). In definitiva, Friedrich valuta poco le difficoltà inelimina-
ne)” ( 75
bili del trapasso dalla tappa comunitaria e confederale a quella
federale vera e propria; tende a trascurare il conflitto di interessi e di
opinioni che si genera allorché si pone in Europa il problema del
riconoscimento costituzionale di un assetto statuale, che non si può
produrre spontaneamente, ma solo per consapevole decisione poli-
tica degli stati membri sotto la pressione di forze e circostanze
eccezionali.
6.2. Il federalismo come “grand design”: Elazar e le sovranità diffuse
e condivise.
Daniel Judah Elazar patrocina in molti scritti, tra cui importanti
), una
Exploring federalism e Federalism as a grand design del 1987 ( 76
visione del federalismo fondata sulla sua qualificazione come “rivo-
luzione”, come “piano grandioso” destinato a offrire soluzioni locali,
sovranazionali e mondiali adeguate alle domande politico-istituzio-
nali scaturenti dalla crisi dell’epoca postmoderna. L’epoca moderna
— dispiegatasi dalla metà del Seicento alla metà del Novecento — è
caratterizzata soprattutto dall’operare dei suoi attori principali, “gli
( ) Ivi, p. 263.
75 ) Cfr. D. J. E , Exploring Federalism, The University of Alabama Press,
( 76 LAZAR , Idee e forme del
Tuscaloosa, 1987 (qui cit. nella trad. it. curata da L. M. B ASSANI
., Federalism as a Grand Design.
federalismo, Edizioni di Comunità, Milano 1995); I D , University Press of
Political Philosophers and the Federal Principle, ed. by D. J. E LAZAR
America, Lanham 1987.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
212 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
stati sovrani reificati e centralizzati”, o altrimenti detto, “gli stati
nazionali”, che si sono ridotti ad assomigliare sempre più al mitico
), il ladro ucciso da Teseo famoso per adattare
“letto di Procuste” ( 77
le vittime alle misure del suo letto, tagliando via le parti corporali in
eccesso. Allo stesso modo gli stati nazionali sovrani sacrificano in
questi tre secoli le componenti minoritarie — etniche, linguistiche,
autonomistico-territoriali o d’altro genere — non conformi alla loro
immagine ideale di nazionalità, d’altronde non corrispondente quasi
mai a un rapporto naturale, oggettivo e pacifico, col territorio
occupato. La postmodernità è l’epoca che contrassegna il declino di
questa forma statale di fronte all’incapacità di governare le difficoltà
insorgenti dal risveglio etnico e dalle esigenze autonomiste sul piano
interno, dalle conflittualità interstatali a livello sovranazionale, dai
nuovi problemi ambientali e tecnico-scientifici sul piano mondiale.
Nell’epoca postmoderna, secondo Elazar, si assiste di conseguenza
allo sviluppo di nuovi assetti istituzionali di governo che “si sono
mossi simultaneamente in due direzioni: creare unità politiche sia
più grandi che più piccole per fini differenti, ottenendo cosı̀ vantaggi
economici o strategici, e conservare allo stesso tempo la comunità
originaria, per meglio soddisfare le esigenze di diversità etnica. Tutti
questi assetti presuppongono l’idea di più governi che esercitano il
potere sullo stesso territorio. Questa idea, che costituisce il nucleo
dell’invenzione americana del federalismo, [è] un’eresia per i padri
). In effetti, in questi
europei dello stato nazionale moderno” (
78
termini Elazar ribadisce l’ineluttabilità della critica radicale alla
concezione della sovranità statalnazionale elaborata all’inizio dell’età
moderna da Bodin o da Hobbes. Scrive: “Quindi il principio
federale rappresenta un’alternativa (e un radicale attacco) alla mo-
derna idea di sovranità. Quest’ultima [è] diventata cosı̀ connaturata
al modo di ragionare che perfino le discussioni del federalismo
furono espresse in termini di sovranità, particolarmente nel XIX
secolo, tanto che ne è risultata una inevitabile distorsione del
concetto di federalismo. Nell’epoca postmoderna, tuttavia, la no-
zione di sovranità statuale è diventata obsoleta” ( ). Tale conce-
79
( ) E , Idee e forme del federalismo, cit., p. 184.
77 LAZAR
) Ivi, p. 185.
(
78 ) Ivi, p. 90.
( 79 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 213
CORRADO MALANDRINO
zione della postmodernità, che non implica il ritorno a posizioni
premoderne, privilegia l’interesse verso pensatori e istituzioni sociali
che sono stati emarginati dal trionfo dello stato moderno. Compito
della rivoluzione federalista sarà di portare a termine il grand design,
i cui fondamenti teorici sono concepiti nell’ambito dell’antica teo-
logia federale biblica e, attraverso la sua modernizzazione e secola-
rizzazione, applicati all’epoca postmoderna, nel rispetto però di
quelle esigenze giustificate di centralizzazione e di efficienza del
potere avanzate dalla modernità. In estrema sintesi, la rivoluzione
federalista dovrà realizzare “la concentrazione del potere e dell’au-
torità in grandi e attivi governi generali, diffondendo allo stesso
tempo l’esercizio del potere in modo da dare a molti, se non a tutti
gli strati della società, una quota di governo costituzionalmente
): quindi governo federale, sui piani nazionale e tran-
garantito” (
80
snazionale, e autogoverno locale in un quadro di eguaglianza poli-
tica. Il federalismo, che Elazar definisce con accenti suggestivi come
“il sistema di relazioni politiche capace di comprendere molte cose
(comprehensive), che si misura con la combinazione di autogoverno
e di governo partecipato avente alla base una matrice di poteri
), ha sempre una portata politica che
costituzionalmente diffusi” (
81
supera — pur accettandoli al suo interno — sia la nozione mera-
mente amministrativa del decentramento burocratico, sia i limiti di
una concezione costituzionale e democratica dello stato. In buona
sostanza, s’identifica con una visione generale che plasma l’insieme
delle relazioni umane nella prospettiva della realizzazione di questo
“disegno grandioso”, che altro non è se non l’ordine mondiale
incardinato sulla pietra angolare federale. La “comprensività” ap-
pare tra le caratteristiche fondamentali del federalismo elazariano.
Nel senso che tutti gli aspetti della vita sociale e politica risultano
intimamente contrassegnati dal “patto” federale di natura teologico-
biblica. Non a caso due autori di tale indirizzo, uno all’inizio dell’età
moderna, uno alla fine, il calvinista Althusius il primo, lo scrittore e
filosofo Martin Buber il secondo, sembrano esserne gli emblematici
punti di riferimento. Dell’anarco-federalismo di Buber, Elazar sot-
( ) Ivi, p. 216.
80 ) Cfr. E , Federalism as a Grand Design, cit., p. 1.
( 81 LAZAR © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
214 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
tolinea l’intima connessione con il protofederalismo althusiano,
trasparente in particolare nell’opera Sentieri in Utopia (1950), dove
è rilevabile la relazione di identità stabilita tra il sistema di “comu-
nità autonome” da lui teorizzato come nuovo fondamento della
) cosı̀ simili alle conso-
società e le “consociazioni cooperative” (
82
ciazioni althusiane. Come Althusius è il precursore dell’idea federale
premoderna — sostiene Elazar —, Buber può esser riconosciuto
come l’ultimo pensatore moderno che annuncia il federalismo po-
stmoderno. Su tale appoggio ideale, il progetto federalista intende
creare serie di blocchi o di cellule autogovernantisi ai differenti livelli
statalsociali, dai più bassi e piccoli ai più elevati e grandi, dalle
comunità locali alle federazioni interregionali e sovranazionali, fino
alla repubblica federale mondiale.
Pragmaticamente Elazar concede che in tale processo (cosı̀
come nella più generale matrice federale) possano coesistere forme
). Le forme confederali e
confederali e federali vere e proprie (
83
cooperative ai vari livelli con le quali costruire le istituzioni transna-
zionali e globali possono esser concepite comunque come un passo
in avanti verso il federalismo mondiale, purché si dimostrino in
grado di dare risposte alle tre grandi domande emergenti dalla
globalizzazione in termini di sicurezza, integrazione economica e
protezione dei diritti umani. Ancora una volta, quel che a lui sembra
dirimente, è prender atto dell’apertura dell’epoca postmoderna a
causa della crisi irreversibile della forma dello stato moderno con-
notato come “modello Vestfalia” e godente dell’attributo di sovra-
nità esclusiva. Crisi che non significa sparizione a più o meno breve
termine, bensı̀ il declino di questa forma statale di fronte all’inca-
pacità di governare le difficoltà insorgenti dal risveglio etnico e dalle
esigenze autonomiste sul piano interno, dalle conflittualità intersta-
tali a livello sovranazionale, dai nuovi problemi ambientali e tecnico-
scientifici sul piano mondiale.
Nel mondo postmoderno — conformemente alla parola d’or-
dine “from statism to federalism” e sulla scorta di una tendenza
( ) Cfr. Buber (1967), p. 171-172.
82 ) Cfr. D. J. E , Constitutionalizing Globalization. The Post-modern Revival
( 83 LAZAR
of Confederal Arrangement, Rowman & Littlefield Publishers, Lanham-Boulders-New
York-Oxford 1998, p. 60.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 215
CORRADO MALANDRINO
generalizzata, concreta ed evidente, al confederalismo, di cui Elazar
rintraccia e descrive numerosi esempi — i modelli istituzionali
dovranno andare incontro al modello federale, inteso in un senso
ampio ed elastico, che ammette anche forme confederali, pur re-
stando il suo nucleo teorico fondativo quello derivante dal Federa-
list, che per Elazar si rivela però più adatto a contesti continentali di
maggiore omogeneità culturale e storica. Quel che importa, sostiene
Elazar, è rispettare “la combinazione di scelte costituzionali, di
progetto e di costruzione istituzionale al fine di metter insieme gli
Stati esistenti e le associazioni transnazionali in maniera federalista,
ossia per combinare l’autogoverno con il governo condiviso, in
modo da garantire che il governo condiviso sia confinato solo a
quelle funzioni assolutamente necessarie o chiaramente più utili per
i governi e i popoli coinvolti” ( ). Ciò significa costruire ai livelli
84
sovranazionali, transnazionali e globali, sedi e momenti politici e
istituzionali permanenti di centralizzazione e/o di decentramento
dei poteri che non siano in alternativa, ma coordinati e congruenti a
scopi comuni. Solo cosı̀ sarà possibile, per Elazar, far voltar pagina
alla storia dell’umanità passando dalle dominazioni mondiali orien-
tate al profitto di brutali interessi economici, dalle aggressioni
nazionali e dalle guerre sanguinose, a un ordine globale democratico
basato sulla più larga estensione del principio federale della condi-
visione del governo.
Il caso europeo dimostra per Elazar la fondatezza di queste idee.
Solo dopo l’apertura dell’epoca postmoderna e l’obsolescenza della
concezione della sovranità statale “il mito dello stato nazionale cede
il passo”, e anche in Europa si può avviare il processo di integrazione
che deve esser concepito a suo avviso lungo un asse di sviluppo,
logico e storico, confederale-federale, visto anche come lotta tra le
posizioni politiche a tali termini collegate negli anni ’80 e ’90
culminanti nell’approvazione del Trattato di Maastricht ( ). La
85
formula funzionalistica dell’integrazione comunitaria, che prevale
( ) Ivi, p. 3.
84 ) Ivi, pp. 111-124. Elazar afferma, però, in modo non esatto che l’Unione
( 85
Europea è formalmente una confederazione dal 1994, ossia dopo Maastricht. In realtà,
elementi confederali sussistono già prima nella fase prevalentemente comunitaria, che a
sua volta persiste nell’acquis communautaire anche dopo Maastricht e connota peculiar-
mente il primo pilastro del modello dell’Unione.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
216 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
all’inizio degli anni ’50 dopo la sconfitta del progetto federalista, ha
dunque secondo Elazar lo scopo storico di evitare in origine che
l’unificazione europea sia avvertita come una minaccia per gli stati
membri, di creare una base valida di sempre più intima integrazione
economica e istituzionale, ma ha in definitiva innescato un movi-
mento oggettivo di più lungo respiro e di più alte ambizioni.
Preso atto della concretezza ed elasticità della concezione ela-
zariana sullo specifico problema europeo, occorre però notare che
anche in essa, come in quella di Friedrich, viene trascurato il
problema del passaggio “costituzionale” al vero e proprio momento
federale.
6.3. Hallstein: federalismo sovranazionale comunitario.
Una critica teorica alla concezione della sovranità emerge altresı̀
— contrariamente a quel che in genere si pensa — nell’ambito del
pensiero comunitario, sovranazionale e funzionalista, nel corso della
concreta costruzione dell’Europa unita nella seconda metà del No-
vecento. Tale elaborazione, collegata al pensiero federalista, non è
stata finora sottoposta ad approfonditi studi, per cui è rimasta in
ombra, ma val la pena riprenderne brevemente alcuni lineamenti
attraverso l’opera di Walter Hallstein, primo presidente della Com-
).
missione CEE (
86
Hallstein è tra i principali sostenitori della creazione di un
mercato comune visto come luogo di un’integrazione orizzontale,
cioè globale e non settoriale, delle economie europee. Con questa
idea egli supera la presunta angustia istituzionale dell’iniziale impo-
stazione funzionalista. Tuttavia, è da chiedersi su quali basi teoriche,
prospettive e finalità ultime Hallstein poggi la sua visione generale e,
di conseguenza, la sua strategia di presidente della Commissione
CEE. Per rispondere a questi interrogativi è necessario rifarsi alla
( ) Per un esame della figura e dell’attività di Hallstein si rinvia a C. M ,
86 ALANDRINO
Oltre il compromesso del Lussemburgo. W. Hallstein e la crisi della “sedia vuota”
(1965-66), Working Paper n. 27 del Dipartimento POLIS dell’Università del Piemonte
Orientale, Alessandria, marzo 2002. Per un quadro di riferimento generale sulla storia
, L’Europa difficile. Storia politica dell’integrazione
dell’integrazione europea cfr. B. O
LIVI
europea 1948-2000, Il Mulino, Bologna 2001.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 217
CORRADO MALANDRINO
sua considerazione complessiva del processo d’integrazione europea
), per rilevare preliminar-
e dei compiti storici che le si pongono (
87
mente che le convinzioni del presidente della Commissione non si
fondano su una speciale fede politico-dottrinaria. Da buon giurista
dell’economia internazionale, il cui abito mentale lo porta a consi-
derare le cose dal punto di vista del diritto e della prassi, Hallstein
è incline a un rapporto pragmatico con le teorie politiche. Non è
dunque da ritrovare come punto iniziale del suo pensiero un riferi-
mento esplicito al filone dottrinale federalista europeo di matrice
francese, svizzera, italiana, e neppure alla tradizione tedesca che,
partendo dallo storicismo di Friedrich Meinecke, considerato nella
fase matura di autocritica del nazionalismo germanico, attraverso la
rielaborazione di Ludwig Dehio, prende espressione finale negli
).
innovativi progetti europeisti fatti conoscere da Walter Lipgens ( 88
Se si vuol capire il peculiare convincimento europeista e federalista
di Hallstein, bisogna piuttosto partire dall’intuizione ch’egli ha del
destino della Germania e dell’Europa uscite distrutte dalla seconda
guerra mondiale. Nell’inevitabile orizzonte atlantico, l’amicizia con
gli Stati Uniti e l’integrazione definitiva della nuova Germania
nell’Europa occidentale sono i due paletti attraverso i quali soltanto
può passare, a suo avviso, la prospettiva unificatrice del continente
europeo. Ciò è a maggior ragione vero dopo il piano Marshall e la
fondazione dell’Organizzazione Europea di Cooperazione Econo-
mica (1948, OECE), che costituisce la prima concreta esperienza di
( ) Cfr. W. H , United Europe: Challenge and Opportunity, Harvard
87 ALLSTEIN ., Der unvollendete Bundesstaat.
University Press, Cambridge (Massachusetts), 1962; I D
Europäische Erfahrungen und Erkenntnisse, Econ, Düsseldorf 1969 (trad. ital. Europa
., Europäische Reden, a cura di T.
federazione incompiuta, Rizzoli, Milano 1970); I
D
e J. K , Stuttgart 1979. Di particolare interesse appaiono tre discorsi
O
PPERMAN OHLER
tenuti il 4 dicembre 1964 presso il Royal Institute of International Affairs “Chatam
House”, il 19 febbraio all’Institut für Weltwirtschaft dell’Università di Kiel (cfr. la trad.
ital. intitolata I problemi reali dell’integrazione europea, Istituto di Scienze politiche,
Torino) e il 25 marzo 1965 presso il British Institute of International and Comparative
Law. È stato rilevato con ragione che l’insieme dei tre discorsi forma una sorta di
“credo” dello Hallstein europeista.
) Cfr. L (a cura di), Documents on the History of European Integration,
(
88 IPGENS
, Federico Meinecke e la crisi dello stato nazionale tedesco, Giappichelli,
cit.; S. P
ISTONE ., Ludwig Dehio, Guida, Napoli 1977; I . (a cura di), La Germania e
Torino 1969; I
D D
l’unità europea, Guida, Napoli 1978.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
218 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
decisioni istituzionalmente concordate tra i governi impegnati nella
ricostruzione.
Il problema centrale dell’Europa è, secondo Hallstein, di risol-
vere definitivamente il conflitto franco-tedesco. A tale scopo, l’at-
tuazione del piano Schuman (che peraltro, si noti en passant, è
collimato nel lungo periodo all’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa)
è considerata il primo passo nella giusta direzione dell’unificazione
europea. Tuttavia, negli anni Sessanta, Hallstein tende a differen-
ziarsi sul piano teorico dal funzionalismo monnetiano, accentuando
da un lato l’influenza possibile sul processo europeo dell’autoctona
tradizione federalista tedesca, dall’altro facendo notare la graduale
trasformazione della sfera del “politico”, che il processo di unifica-
zione europea a suo parere necessariamente comporta. In realtà,
Hallstein giunge a considerare l’unità europea come “la sfida e
l’opportunità” politiche a tutto tondo che lo spirito del tempo pone
ai popoli liberi, al fine di trasformare gradualmente in meglio —
ossia in senso modernizzatore e democratico — il vecchio mondo
delle relazioni internazionali tra potenze dotate di sovranità assoluta.
Egli esprime la convinzione che la necessità per gli stati nazionali di
lavorare insieme in modo comunitario produrrà non solo la forma
pacifica di coesistenza e di integrazione economica, ma anche il
nuovo tipo di zoon politikon capace di intendere la dimensione
politica a livello nazionale e sovranazionale. Per argomentare l’avan-
zata delle nazioni europee verso l’unità egli riprende la teorizzazione
fatta da Alexis de Tocqueville ne La democrazia in America, quasi a
unire — in controtendenza rispetto all’arrembante gollismo degli
anni ’60 — la cultura francese con la realtà statunitense. Quattro
temi annunciati da Tocqueville, divenuti altrettanti dati di fatto alla
metà del Novecento, gli sembrano di bruciante attualità: a) la
crescita dell’interdipendenza delle nazioni e l’impossibilità per esse
di restare estranee l’un l’altra a causa del b) progresso tecnico-
industriale e c) dello sviluppo delle comunicazioni; infine, quarto
tratto vieppiù imposto dalla piena realizzazione dei primi tre, d) la
dominazione del mondo da parte di stati-giganti, come l’America e
la Russia. Di fronte a tale evoluzione globale, che mette all’ordine del
giorno l’esigenza di nuove forme di cooperazione interstatale paci-
fica, continua, stabile ed efficiente, l’organizzazione politica del
mondo, e segnatamente dell’Europa, resta purtroppo negativamente
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CORRADO MALANDRINO
ancorata a un sistema di stati sovrani retti sull’anacronistico reticolo
delle tradizionali relazioni internazionali di potenza.
Di qui il valore dell’iniziativa Monnet-Schuman, che supera
nella costruzione comunitaria le finalità confederative mettenti capo
al Consiglio d’Europa del 1949. Il dato realmente innovatore della
Comunità istituita nel 1951, e in generale delle comunità funziona-
liste, è visto da Hallstein nel loro carattere “sopranazionale”. È
questo aspetto delle nuove istituzioni comunitarie che le mette
potenzialmente in grado di superare i loro limiti settoriali, e fa
credere a Hallstein che, necessariamente, dall’integrazione econo-
mica settoriale si passerà gradualmente a una integrazione allargata
orizzontalmente a tutta l’economia dei paesi membri, dall’unità
). Il termine “sopranazionale” — in
economica a quella politica (
89
quanto esponente dell’esigenza di creare un centro di direzione
continentale, democratica, politica ed economica, stabile ed effi-
ciente focalizza correttamente l’attenzione su una delle più impor-
tanti caratteristiche dell’esecutivo della CECA, l’Alta Autorità, e poi
delle Commissioni della CEE e dell’Euratom: “I loro nove membri
— scrive Hallstein — una volta nominati, sono completamente
indipendenti dagli stati, ed è vietato a essi sollecitare o accettare
istruzioni da loro. La loro responsabilità è solo nei confronti della
Comunità vista come un tutto” ( ). Ciò implica, per Hallstein, che
90
una parte del potere decisionale degli stati è sottratto loro e usato da
un’autorità sopranazionale, in embrione di tipo federale ( ), con
91
finalità che superano le singole ottiche e i ristretti interessi nazionali.
In particolare, tale carattere sarebbe rivestito dopo il trattato di
( ) Cfr. H , Europa federazione incompiuta, cit., p. 97: “Discorrendo ci è
89 ALLSTEIN
piaciuto paragonare il complesso della costruzione europea con un razzo a tre stadi:
unione doganale — unione economica — unione politica. Il paragone non era privo di
efficacia retorica, ma era inesatto teoricamente e praticamente. In realtà l’elemento
politico è presente fin dall’inizio (già nell’unione doganale, almeno nella forma della
politica doganale, cioè di una parte importante della politica commerciale), e a maggior
ragione l’unione economica si presenta essenzialmente come una fusione di politiche”. È
evidente che il gradualismo hallsteiniano è inquinato da una venatura meccanicistica di
fondo che, tra l’altro, è all’origine della sconfitta patita nel conflitto con de Gaulle nel
1965. Tale difetto tattico non toglie però valore alla visione complessiva delle esigenze e
delle conseguenze della costruzione di un’Europa federale.
) Cfr. H , United Europe, cit., p. 21.
(
90 ALLSTEIN
) Ivi, p. 64: “Within their limits, they follow a federal pattern”.
( 91 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
220 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
fusione degli esecutivi dell’aprile 1965 (applicato nel 1967) dalla
Commissione CEE, germe di un futuro governo europeo, di cui il
presidente esalta le tre funzioni di “motore”, “custode” e “media-
tore” riconosciutele dal trattato di Roma del 1957. Funzioni che
nulla hanno a che fare con la creazione di una “eurocrazia” non
legittimata dal voto popolare e lontana dai paesi membri. In realtà,
anche per Hallstein, a torto identificato come il capo della nuova
genı̀a di euroburocrati, la logica comunitaria non è finalizzata a
“stabilire una lontana tecnocrazia governante a colpi di ukase da un
), bensı̀ a dare corpo e realtà
qualche Cremlino sopranazionale” (
92
agli obiettivi dei trattati (che secondo Hallstein mettono in essere
) di nuovo tipo) e
una vera e propria normativa “costituzionale” ( 93
alle decisioni politico-legislative prese dal Consiglio dei ministri su
proposta della Commissione stessa. Proprio il monopolio di propo-
sta della Commissione è visto quale tratto qualificante del suo
). In
potere, simbolo del potenziale profilo di ‘governo europeo’ (
94
tale prospettiva è da collocare la battaglia del presidente per dare
maggiore efficienza e fluidità ai processi decisionali europei, allar-
gando gradualmente anche l’area di incidenza del voto a maggio-
ranza nel Consiglio, già previsto dal Trattato CEE per la terza fase
del periodo transitorio, e restringendo fino al minimo l’uso del voto
all’unanimità, ossia della possibilità del veto da parte degli stati
membri, per i soli casi eccezionali in cui venga effettivamente messa
in questione la loro sovranità in materia di vitale importanza. E
questo è uno dei nodi che vengono al pettine nella crisi della “sedia
vuota” del 1965.
In realtà, i paesi che scelgono l’integrazione delle economie
attraverso l’unione doganale, la libertà di movimento delle merci, dei
lavoratori, dei servizi e dei capitali, non decidono soltanto —
secondo Hallstein — di realizzare un mero fatto giuridico-econo-
( ) Ivi, p. 22.
92 ) Cfr. H , I problemi reali dell’integrazione europea, cit., p. 6: “Il
( 93 ALLSTEIN
Trattato di Roma […] è la nostra ‘legge fondamentale’”.
) In questo senso è da interpretare il gesto di far stendere un tappeto rosso
(
94
nella sede di Bruxelles, un segno di distinzione usato per le massime autorità di uno
stato, e quindi da usare anche per onorare il carattere sovranazionale e potenzialmente
S , Europa, forza gentile, Il
statuale del nuovo potere europeo, cfr. T. P ADOA CHIOPPA
Mulino, Bologna 2001, p. 141.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 221
CORRADO MALANDRINO
mico, ma si danno il compito, in modo forse non del tutto consa-
pevole per alcuni dei firmatari (ben chiaro però per Schuman e
Monnet), di dar vita anche a una forma politica nuova capace di
influenzare fortemente la vita degli stati coinvolti e il più vasto
mondo. Sotto il profilo teorico, l’integrazione comunitaria è consi-
derata da Hallstein come una “rivoluzione incessante”, a un tempo,
della scienza economica e della scienza politica. Riprendendo la
teoria dell’economista James Meade a proposito delle unioni econo-
miche interstatali, afferma che quando alcuni stati mettono in
comune delle funzioni economiche, avviene un trapasso di poteri
economico-politici molto più forte da questi all’istanza sopranazio-
). Analogamente, quando nel caso della CEE lo stesso trat-
nale (
95
tato istitutivo prevede elasticamente un certo numero di eventualità
per politiche congiunte nei campi della politica agricola, sociale,
monetaria, finanziaria e fiscale, nella concorrenza, nei trasporti e nel
commercio estero, “la logica dell’integrazione economica non solo
guida all’unità politica attraverso la fusione degli interessi, ma anche
). Non c’è nulla infatti,
implica l’azione politica in se stessa” ( 96
ribadisce Hallstein, di più politico e connesso con la sovranità degli
stati della fissazione dei tassi di cambio e della politica moneta-
ria ( ). Non a caso, fin dall’inizio il processo d’integrazione econo-
97
mica europea fa emergere l’esigenza dell’allargamento alla politica,
fallito per responsabilità francese nel caso della CED e della CEP,
ma dalla stessa Francia gollista riproposto con il “piano Fouchet” in
modo attenuato e coerente con criteri confederali. In proposito,
Hallstein mette in guardia sul fatto che la discussione sulla necessità
di una cooperazione politica “organizzata” (anche nei termini con-
federali di marca gollista) non può sovrapporsi o andar a scapito
dell’integrazione esistente, ovvero delle istituzioni comunitarie, ma
semplicemente risultare un approfondimento federale di quel tipo di
( ) Cfr. J. M , Problems of Economic Union, London 1953, cit. in H ,
95 EADE ALLSTEIN
United Europe, cit., pp. 64-65.
) Ivi, p. 65.
( 96 ) È da notare che lo stesso Mario Albertini riconosce l’acutezza dell’osserva-
( 97
zione di Hallstein che “la Comunità economica [era] un fatto politico, perché ciò che
[era] messo in comune [era] il controllo politico di alcuni aspetti dell’attività economi-
, L’unificazione europea e il potere costituente, in I ., Nazionalismo
ca”, cfr. M. A
LBERTINI D
e federalismo, cit., p. 292.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
222 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
unificazione. La costruzione dell’Europa, in quanto “federazione
incompiuta”, non può pertanto esser prodotto di automatismi eco-
nomico-burocratici, di cui delegare il controllo ad agenti privi di
coscienza politica, ma deve risultare l’opera congiunta di diversi
organi politico-istituzionali legittimati dai trattati a discutere e a
decidere con coraggio sui problemi della graduale unificazione,
tenendo conto delle sfide provenienti dal mondo più vasto della
competizione tra l’oriente comunista e totalitario e l’occidente della
libertà, tra nord sviluppato e sud arretrato.
6.4. L’indirizzo “federalista europeo”. Albertini e il MFE: inadegua-
tezza del confederalismo e del gradualismo nel problema della
“costituzionalizzazione” dell’Unione europea. Una rivalutazione
della sovranità e del “popolo europeo”.
La linea di pensiero sviluppata negli anni ’50 e ’60 in opuscoli e
) ha, sul piano teorico e pratico, uno svol-
interventi da Spinelli (
98
gimento successivo in Mario Albertini. Filosofo della politica nel-
l’Università di Pavia e presidente del MFE fino alla morte avvenuta
nel 1997, Albertini è — dopo Spinelli — la figura di maggior rilievo
del federalismo in Italia. Il suo principale contributo consiste nella
critica della concezione dello stato nazionale, che funge altresı̀ da
premessa per la sistematizzazione data nel libro Il federalismo ( ).
99
Qui il federalismo è connesso strettamente all’aspetto di valore
kantiano, la pace, e a uno di struttura istituzionale, lo stato federale,
visto come superamento dello stato nazionale, sia dal punto di vista
infranazionale sia da quello sovranazionale. Esso è legato infine a un
aspetto storico-sociale, riposante sull’offuscamento degli antagoni-
smi di classe e nazionali nonché allo sviluppo del pluralismo sociale
e istituzionale. In tale visione, l’unione europea è una tappa inter-
( ) Cfr. A. S , La mia battaglia per un’Europa diversa, Lacaita, Manduria
98 PINELLI : A. S , Una strategia per gli
1979; ved. inoltre gli scritti raccolti a cura di S. P ISTONE PINELLI
B , L’idea d’Europa nel pensiero di A. S ,
Stati Uniti d’Europa, cit.; A. C HITI ATELLI PINELLI
(a cura di), A. Spinelli and Federalism in
Lacaita, Manduria-Bari-Roma, 1989; L. L EVI
Europe and in the World, Angeli, Milano 1990.
) Cfr. M. A , Lo Stato nazionale, Il Mulino, Bologna 1960; I ., Il
( 99 LBERTINI D
cfr. F.
federalismo. Antologia e definizione, Il Mulino, Bologna 1979. Su A LBERTINI
, Il pensiero politico di M. Albertini, Giuffrè, Milano 2003.
T ERRANOVA © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 223
CORRADO MALANDRINO
media e necessaria del processo che porterà alla federazione mon-
).
diale (
100
Il punto centrale del programma indicato da Albertini, fin
dall’inizio degli anni Sessanta, si fonda nella implementazione della
trasformazione del processo d’integrazione europea, avviata sulla
scorta dei criteri funzionalisti di Jean Monnet, in quello della
costituzione di una unione politica, che scaturirebbe dalla crisi
necessaria in cui la prima si verrebbe a trovare per la prevedibile
mancanza di volontà dei governi nazionali di rinunciare alle proprie
prerogative sovrane. Il punto di partenza è nel pensiero albertiniano
la critica dell’idea di nazione e del modello dello stato nazionale.
L’idea di nazione, plausibile come fatto culturale (autoidentificazio-
ne linguistica, storico-tradizionale, ecc.), è illusoria e mistificante dal
punto di vista del suo collegamento (a torto ritenuto intrinseco) col
modello dello stato nazionale. Quel che Albertini rifiuta è, oltre a
ciò, che la nazione incapsulata nello stato diventi una sorta di
classificatore e di massimo divisore politico di quell’unità più vasta
che è “l’intero genere umano”. Perché in quanto tale, essa si
trasforma in causa di scontri vieppiù distruttivi. La cultura della
nazione, in questo senso creatrice dei nazionalismi, si oppone alla
cosmopolita “cultura dell’unità del genere umano” che sottende
come orizzonte la visione federalista. L’ideologia nazionale eleva
artificiosamente a dato originario l’appartenenza nazionale e la
categoria dello stato-nazione, rafforzando le tendenze nazionaliste
che corrompono le ideologie tradizionali, liberaldemocratiche, so-
cialiste o comuniste: “La nazione è il criterio con il quale è organiz-
zato politicamente il genere umano, dunque dovrebbe essere la
). Appare necessario ad
prima idea con la quale fare i conti” ( 101
Albertini tale passaggio per arrivare a una chiara visione dei compiti
del presente. È in Europa, “sede storica del modello nazionale”, che
occorre vincere la battaglia cruciale sulla via della federalizzazione
dell’intero pianeta. A tal fine s’impone la preventiva trasformazione
( ) Tutti questi motivi del pensiero albertiniano sono riproposti in due volumi
100
di scritti (pubblicati dagli anni Sessanta in poi) editi nel 1999 dal Mulino (Bologna) a
, intitolati l’uno Nazionalismo e federalismo, l’altro Una rivoluzione
cura di N. M
OSCONI
pacifica. ) Cfr. A , Il federalismo, cit., p. 299.
(
101 LBERTINI
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
224 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
culturale, ovvero il passaggio da una concezione nazionale a una
cosmopolita e federale. In ciò risiede la sostanza dell’aspetto storico-
sociale cui si lega il federalismo. La negazione della ideologia
nazionalista, e l’affermazione in suo luogo di un modo di vedere e di
agire federalista, non rappresenta altro che l’inveramento del valore
kantiano della pace che, in quanto verità di ragione, appartiene già
al patrimonio genetico del federalismo. Il “federalismo europeo”,
come ideologia rivoluzionaria, deve quindi porsi l’obiettivo di mo-
dificare la struttura sulla quale si regge il sistema politico attuale: lo
stato nazionale. Non per negarlo totalmente, ma per superarlo
condizionandone e depotenziandone la sovranità all’interno delle
strutture supernazionali, di cui la federazione europea rappresenta la
tappa decisiva, e la federazione mondiale il risultato finale.
In coerenza con gli insegnamenti di Spinelli e di Albertini, il
movimento dei “federalisti europei”, che operano in modo coordi-
nato in Italia e negli altri paesi del vecchio continente, conduce da
vari decenni battaglie ideologiche e politiche per l’istituzione della
federazione europea attraverso un passaggio costituente e costitu-
zionale ( ). In questa sede, però, non interessa l’aspetto pratico,
102
quanto soprattutto accennare ai tratti teorici più recenti dell’elabo-
razione “federalista europea” in merito alla critica della sovranità
nazionale e alla determinazione dei caratteri costituzionali della
auspicata federazione europea. Su questi temi si impegnano da
decenni studiosi e militanti che danno voce a vari organi di stampa
e a riviste, tra cui “L’Unità Europea”, “Il Federalista”, “Piemonteu-
ropa”, “The Federalist Debate” ( ).
103
Le argomentazioni dei “federalisti europei” si appuntano oggi
( ) Come afferma S. Pistone nell’introduzione alla cit. edizione anastatica di
102
-R , Il Manifesto di Ventotene, p. XI, “il MFE ha in effetti costantemente
S PINELLI OSSI
conseguito con una incrollabile coerenza la creazione di un vero e proprio stato federale
europeo (che avrebbe dovuto comprendere progressivamente l’intera Europa) e la
convocazione di una assemblea costituente europea democraticamente rappresentativa
come metodo insostituibile per giungere effettivamente all’unificazione irreversibile
dell’Europa”.
) Cfr. in particolare: Fine della politica?, “Il Federalista”, XXXVIII, 1996, n.
(
103 , Dall’unione alla federazione: l’Europa e la questione dello
2, pp. 86-90; F. R OSSOLILLO
Stato e della sovranità, “L’Unità Europea”, XXVI, 2000, nn. 321-322, pp. 26-27; S.
, Sovranità europea, “Piemonteuropa”, XXV, 2000, n. 3, pp. 1-3; I ., Dopo
P
ISTONE D
l’introduzione dell’euro, una Costituzione federale europea, ivi, XXVI, 2001, n. 3, pp.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 225
CORRADO MALANDRINO
sul riconoscimento che il metodo “gradualistico” — espressione che
sottintende il richiamo sia alle posizioni funzionalistico-comunitarie
da Jean Monnet in poi, sia a quelle di tipo confederalista —, ha
definitivamente esaurito il proprio compito nei riguardi dello svi-
luppo ulteriore dell’Unione Europea con la realizzazione della mo-
neta unica, ed è divenuto un freno paralizzante nel processo di
unificazione. La tematica della crisi dello stato nazionale, riproposta
sostanzialmente nelle forme teorizzate da Spinelli e Albertini e
attualizzata alla luce dell’aggravamento causato dai processi di glo-
balizzazione, mette in luce la necessità di un salto di qualità che sia
tale da portare, tramite un passaggio costituente, a un vero e proprio
stato federale europeo prima che l’allargamento previsto ai paesi
dell’Est e del Mediterraneo, e le sempre più urgenti esigenze di
governo democratico continentale, non conducano anche alla di-
sgregazione del tessuto comunitario dell’Unione e alla sua degene-
razione in una sorta di mera unione di libero scambio e di imbelle
“società delle nazioni”.
L’erosione della “sovranità nazionale”, pur se accresciuta se-
condo i “federalisti europei” dall’interdipendenza economica e mi-
litare a livello globale, non è accompagnata da un accrescimento di
“sovranità europea”. Sicché la sovranità nazionale non è affatto
“evaporata” in una sorta di “multilevel governance”, ma resta pre-
rogativa degli stati nazionali, i quali cercano di guidare e sfruttare i
processi di progressiva eliminazione delle barriere nazionali ai fini di
un recupero imprevedibile di influenza a livello sovranazionale ( ).
104
I “federalisti europei”, sfumando i toni della condanna a tutto tondo
del dogma della sovranità esclusiva e illimitata dello stato nazionale
precedentemente affermata in un diverso contesto da Spinelli e
Albertini, denunciano piuttosto con preoccupazione il fatto che tale
critica doverosa abbia in taluni autori portato paradossalmente alla
denuncia della scomparsa della sovranità tout court. Con la conse-
10-12; For a Federal European Constitution, “The Federalist Debate”, XIV, 2001, n. 2,
pp. 23-32.
) Conferma questa tesi, almeno dal punto di vista della riappropriazione di
(
104 , Föderative Staaten in einer entgrenzten Welt, in
poteri da parte degli stati, T. B }
O RZEL
e G. L , cit., p. 369; di diverso e opposto avviso
Föderalismus, a cura di A. B ENZ EHMBRUCH
, L’Europa dopo il Leviatano. Tecnica, politica, costituzione, in G.
è G. M
ARRAMAO
(a cura di), Una Costituzione senza stato, cit., pp. 119-144.
B ONACCHI © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
226 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
guenza di far mettere in secondo piano che invece la sovranità — se
correttamente intesa e condivisa — svolge compiti irrinunciabili di
ordinamento, mantenimento e sviluppo sociale e civile. Essa ha pur
sempre la funzione di legittimare i processi decisionali a livello
legislativo e di governo, di escludere cadute nell’anarchia, di fondare
in democrazia la certezza del diritto e della solidarietà tra i cittadi-
). Non alla distruzione della sovranità statale occorre mirare,
ni (
105
ma alla sua diversa dislocazione tra istanze europee e nazionali,
nell’epoca in cui la forma “stato-nazione” manifesta crescenti inca-
pacità di intervento a livello continentale e globale. In tal senso è da
intendere il superamento dello stato-nazione. Viceversa, chi sostenga
l’avvenuta distruzione della sovranità in assoluto, in realtà rischia di
farsi paladino subordinato dell’unico “sovrano” nazionale capace di
interventi globali, ossia degli Stati Uniti d’America. ), il
Lungi pertanto dall’accettare “il declino della statualità” (
106
nodo da sciogliere è ancora sempre quello dell’alternativa tra fede-
): “trasferire la sovranità” dagli stati
razione e confederazione (
107
nazionali alla federazione europea significa accrescere e trasformare
qualitativamente l’embrione federale già presente nel tessuto comu-
nitario dell’Unione Europea, che deve esser dotata di vera sovranità
federale, cosa che prevede la condivisione di questa con gli stati
nazionali. Lo stato federale europeo non dovrà essere un “super-
stato”, perché anzi “esso avrà caratteristiche diverse ed originali
rispetto ai sistemi federali finora realizzati, perché si tratta, per la
prima volta nella storia, di federare stati nazionali storicamente
consolidati e un continente caratterizzato da un pluralismo (che è
una grandissima ricchezza da tutelare e valorizzare) culturale, lin-
guistico, religioso, economico-sociale che non ha eguali nel mon-
( ) Cfr. P , Dopo l’introduzione dell’euro, una Costituzione federale euro-
105 ISTONE
pea, cit., p. 11, “La sovranità, intesa come potere di decidere in ultima istanza (e
implicante il monopolio della forza legittima), è in realtà la condizione della validità e
dell’efficacia del diritto e quindi il presupposto della possibilità stessa di impegnarsi per
il conseguimento del bene comune”.
) Cfr. P , introd. alla cit. edizione anastatica di S -R , Il Mani-
(
106 ISTONE PINELLI OSSI
festo di Ventotene, p. XIX.
) Cfr. P , Dopo l’introduzione dell’euro, una Costituzione federale euro-
( 107 ISTONE
pea, cit., p. 11: “La dicotomia federazione-confederazione mantiene intatta la sua
validità”. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 227
CORRADO MALANDRINO
do” ( ). Pertanto federalismo decentrato e sussidiarietà sono le
108
risposte ai timori di accentramento statalista a livello europeo. Si
tratterebbe in sostanza di fondere taluni aspetti dei modelli duale e
cooperativo del federalismo. Requisiti fondamentali della federa-
zione europea dovranno essere: 1) competenza esclusiva in materia
di moneta, difesa e politica estera; 2) competenza concorrente su
tutte le altre materie in base al principio di sussidiarietà; 3) trasfor-
mazione del Consiglio dei ministri nella camera territoriale degli stati
e sua privazione della competenza legislativa esclusiva; 4) compe-
tenza legislativa piena al Parlamento europeo, che la eserciti su un
piano di parità con la Camera degli stati; 5) trasformazione del
Consiglio europeo nella Presidenza collegiale dell’Unione; 6) tra-
sformazione della Commissione nel governo dell’Unione, nominato
dalla Presidenza collegiale e responsabile di fronte al Parlamento; 7)
estensione del processo decisionale a maggioranza, tranne che in
particolari materie di rilevanza costituzionale; 8) esclusione del
diritto di secessione. Di particolare importanza è, secondo i “fede-
ralisti europei”, la procedura costituente — in luogo di quella
intergovernativa finora seguita — per arrivare a cogliere tale obiet-
tivo. Non è da escludere infine che, di fronte a insuperabili resi-
stenze euroscettiche, si renda necessaria la combinazione di due
momenti successivi: la creazione di un “nucleo federale” ristretto,
convivente con l’Unione Europea più larga, nell’attesa che grazie a
un’adeguata strategia che contemperi iniziative politiche con clau-
sole e formule già sperimentate (opting out, geometrie variabili,
cooperazioni rafforzate ( ) si creino le condizioni per l’ingresso
109
degli altri paesi nella federazione.
I “federalisti europei” si rendono conto che un simile obiettivo
non è realizzabile senza che si crei un presupposto forte di legitti-
mazione finora mancante, ovvero un “potere costituente” che non
può provenire da operazioni di ingegneria costituzionale o da inter-
( ) Cfr. P , introd. alla cit. edizione anastatica di S -R , Il Mani-
108 ISTONE PINELLI OSSI
festo di Ventotene, p. XVIII. Sugli aspetti socio-economici del progetto “federalista
e
europeo” cfr. Federalismo fiscale: una nuova sfida per l’Europa, a cura di A. M AJOCCHI
, Padova 1999; Il governo dell’economia in Europa e in Italia, a cura di G.
D. V
ELO e D. V , Milano 2000.
M ONTANI ELO
) Cfr. L’Europa a geometria variabile: transizione verso l’integrazione, a cura di
( 109 e D. V , L’Harmattan Italia, Torino 1996.
P. M AILLET ELO © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
228 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
venti governativi dall’alto. Occorre invece uno sviluppo inedito di
un’identità collettiva europea che superi il minimo denominatore
comune, culturale o economico, costruito nei secoli e nell’esperienza
comunitaria, e si qualifichi in senso politico e sociale al fine di
determinare un consistente e sufficiente senso di appartenenza.
Insomma, si pone — non da oggi, ma dai tempi di Spinelli e
Albertini — il problema della definizione di un “popolo euro-
). Questo fu ed è compreso dai massimi dirigenti del MFE
peo” ( 110
prevalentemente nel senso sociologico e storico-politico di “una
comunità di cittadini che [sono] gravemente danneggiati nei loro
interessi materiali e nelle loro esigenze ideali dalla crisi storica degli
stati nazionali sovrani (i quali devono essere considerati illegittimi
perché ormai strutturalmente incapaci di perseguire efficacemente i
compiti — benessere economico, sicurezza, libertà — in funzione
dei quali sono stati costruiti) e che [aspirano], sia pure confusa-
mente, al superamento di questa situazione attraverso l’unità euro-
). Non potendosi esprimere tale aspirazione nei limiti strut-
pea” (
111
turali e procedurali nazionali, il compito dei “federalisti europei” è
pertanto “di creare degli strumenti di azione politica sopranazionale
in grado di permettere al popolo europeo di prendere coscienza
della necessità di costruire la federazione europea attraverso il
metodo costituente e di far valere questa volontà al di fuori dei
( ) Albertini, in particolare, ha dedicato, sulla scorta della base teorica di critica
110
allo stato nazionale costruita nei suoi libri più importanti, scritti e iniziative costanti nel
tempo alla chiarificazione del concetto (e al “censimento”) del popolo europeo, cfr. tra
, La nascita del popolo europeo, in “Europa federata”, 25. 1. 1956,
gli altri M. A LBERTINI
., Una rivoluzione pacifica. Dalle nazioni all’Europa, cit., pp. 85-90; L’Europe des
ora in I D
états, l’Europe du marché commun et l’Europe du peuple fédéral européen, “Il Federali-
sta”, IV, 1962, 2, pp. 187-193; Il censimento volontario del popolo federale europeo, “Il
., Una rivoluzione pacifica, cit., pp. 145-152;
Giornale del censimento”, 1966, 3, ora in I
D
L’identità europea, “Il Federalista”, XIX, 1977, 3, pp. 180-183; L’Europa sulla soglia
dell’Unione, ivi, XXVIII, 1986, 1, pp. 25-37; Un progetto di manifesto del federalismo
europeo, ivi, XXXIV, 1992, 1, pp. 71-89; La strategia della lotta per l’Europa, ivi,
XXXVIII, 1996, 1, pp. 55-67. Per la ricostruzione della questione del “popolo europeo”
alla ristampa anastatica del
nell’esperienza del MFE cfr. l’Introduzione di S. P
ISTONE
periodico spinelliano “Popolo Europeo”, 1958-1964, a cura della Consulta Europea del
Consiglio Regionale del Piemonte, Industria grafica ed Editoriale, Torino 2001, pp. 9-25.
) Ivi, p. 15. Cfr. anche P , Una Costituzione federale per l’Europa, “Il
( 111 UBLIUS
Federalista”, XLII, 2000, 3, p. 302.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 229
CORRADO MALANDRINO
condizionamenti prodotti dalle istituzioni politiche nazionali” ( ).
112
Il “popolo europeo”, in tale accezione, è identificabile dunque
potenzialmente con tutti i cittadini europei (europeismo organizza-
bile), a partire però dall’avanguardia dei più consapevoli eurofede-
ralisti che mobilità il corpo grosso di coloro che non hanno “co-
scienza” di esserlo (europeismo organizzato, ovvero, con le parole di
Albertini, “il popolo europeo ha la realtà dell’azione politica dei
). È evidente, da tale impianto, la
federalisti che hanno capito” (
113
connotazione movimentista e ideologica che tradisce sfumature di
una sorta di “leninismo europeista”, nel senso dell’avanguardia
cosciente che dirige e organizza la spontaneità, aspetto che d’altra
parte è connesso con la formazione originaria del primo fondatore
del MFE.
In coerenza con quanto detto si realizza l’impegno a mobilitare,
tramite campagne propagandistiche (a partire dall’iniziativa, poi
fallita, del Congresso del popolo europeo ( ) mirante a ottenere
114
legittimità democratica e peso politico indispensabili per forzare i
governi alla convocazione della costituente europea) e referendarie
negli anni ’60 e ’70. Un movimento che trova nuova motivazione,
anche sul piano ideale, dall’obiettivo dell’elezione diretta del Parla-
mento europeo raggiunto nel 1979, una tappa che conferisce visibi-
lità inedita a una sorta di soggetto politico parzialmente rappresen-
tativo, l’insieme degli elettori europei, che sembra dare maggiore
concretezza al discorso del “popolo europeo” ( ). In conclusione,
115
la concezione “federalista europea” del “popolo europeo” si pone
nei limiti della costruzione di un movimento sempre più vasto e
capace di maturare nel frattempo, grazie alla mobilitazione e al-
l’azione di chiarimento e di propaganda ideologica e politica, “un
vincolo di identità politica, sociale, culturale e il senso di apparte-
nenza e di identificazione con un organismo comune avvertito come
tale e al cui sviluppo si sentano partecipi” ( ). Di qui lo sviluppo
116
( ) Ibidem.
112 ) Cfr. A , La nascita del popolo europeo, cit., p. 90.
( 113 LBERTINI
) Cfr. C. R V , Il Congresso del popolo europeo, in I movimenti
(
114 OGNONI ERCELLI
per l’unità europea 1954-1969, cit., pp. 373-398.
) Cfr. le interessanti considerazioni di G. C , Potere sussidiario. Sussi-
(
115 OTTURRI
diarietà e federalismo in Europa e in Italia, Carocci, Roma 2001, pp. 77-99.
) Cfr. U. M , La Costituzione europea: il modello federalista, in Diritti e
(
116 ORELLI
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
230 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
necessario di un ethos condiviso, la creazione di un demos a partire
dal dato consistente del corpo elettorale europeo da uniformare
tramite l’istituzione di un unico sistema elettorale e dall’estensione
dei diritti di cittadinanza, e di un ethnos che si consolidi grazie al
dialogo interculturale, scambi scolastici, programmi televisivi co-
muni, ecc. Tutto ciò, però, è ritenuto possibile solo a seguito
dell’istituzione di un livello di statualità europea che è conseguenza
dell’approvazione di una costituzione continentale: non esiste un
prima e un dopo, vi è un processo circolare, “stato e popolo nascono
insieme”. Come d’altra parte, si afferma, è avvenuto nel processo di
formazione degli stati nazionali nell’Ottocento.
Da questa ricostruzione, per quanto succinta, si comprende come
sia ben presente (e condivisibile) nella posizione “federalista europea”
la visione progressiva del “popolo europeo” sotto il profilo sociolo-
gico, storico-politico, ideologico e movimentistico. A essa manca,
però, un’impostazione e una soluzione convincente sul piano della
giustificazione filosofico-giuridica e istituzionale, ai fini della legitti-
mazione del soggetto del potere costituente europeo. Tale carenza non
è casuale, ma corrisponde a una più generale aporia caratterizzante il
pensiero federalista (tranne alcune eccezioni, come Trentin) rispetto
alla problematica europea. Ciò si riflette sulle difficoltà, che gli ven-
gono poste in quanto paradigma positivo di superamento effettivo
della sovranità statalnazionale, dall’esistenza di forti identità nazionali
e strutture statali che si oppongono tenacemente a passaggi decisivi
in direzione di un livello solido di federalità europea.
7. L’approdo federale derivante dal “paradigma comunicativo” di
Habermas.
Proprio l’aporia sopraddetta nella posizione eurofederalista a
proposito della fondazione e della definizione teoriche del “popolo
costituzione nell’Unione Europea. La Carta dei diritti nell’ottica del costituzionalismo
, Laterza, Roma/Bari 2002, p. 49. Ringrazio S.
europeo, a cura di G. Z
AGREBELSKY
Dellavalle per avermi dato la possibilità di consultare questa pubblicazione ancora in
, Quali istituzioni per l’Europa? Modelli costituzio-
bozza provvisoria. Cfr. anche L. L
EVI ,
nali a confronto, in L’Unione Europea e le sfide del XXI secolo, a cura di U. M
ORELLI
Celid, Torino 2000, pp. 191-214. Sullo sviluppo storico dell’identità europea cfr. H.
, Europa. Storia di un’idea e di un’identità, Il Mulino, Bologna 2002.
M IKKELI © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 231
CORRADO MALANDRINO
europeo”, e della conseguente lacunosità nel processo teorico di
legittimazione di un “potere costituente” europeo, fa apprezzare il
tentativo di critica alla sovranità dello stato-nazione e di elabora-
zione federaleuropeista proveniente dalla filosofia habermasiana
della comunicazione e dell’approccio discorsivo. Non voglio affer-
mare che Habermas sia inquadrabile nella tradizione di pensiero
federalista. Tuttavia, soprattutto nelle opere dell’ultimo decen-
), il filosofo francofortese chiarendo bene quali limiti incontri
nio (
117
lo stato nazionale — nell’epoca della sua crisi — dalla doppia
contestazione mossagli dal multiculturalismo all’interno e dalla glo-
balizzazione all’esterno, arriva a chiedersi se all’interno di tale forma
politica esista ancora oggi “la possibilità di coniugare “nazione dei
cittadini” e “nazione etnica”, ordine giuridico e cultura popola-
re” ( ). Di qui procede ad affermare la necessità di un non
118
impossibile allargamento della democrazia, oltre i confini dello stato
nazionale, nella federazione europea ( ). Questo approdo certa-
119
mente lo colloca, pur con la sua peculiare argomentazione, in una
posizione convergente con l’europeismo federalista. A mio avviso, il
suo impegno si rivela particolarmente prezioso nel contrastare l’eu-
roscetticismo ricorrente in merito al problema del superamento del
deficit democratico europeo e dell’individuazione di un legittimo e
( ) Cfr. in particolare tra gli scritti più recenti: J. H , Faktizität und
117 ABERMAS
Geltung, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1992 (trad. it. Fatti e norme. Contributi a una teoria
, Guerini, Milano 1996); Die
discorsiva del diritto e della democrazia, a cura di L. C EPPA
Einbeziehung des Anderen, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1996 (trad. it. L’inclusione dell’al-
, Feltrinelli, Milano 1998); Die Postnationale Konstellation,
tro, a cura di L. C EPPA
Suhrkamp, Frankfurt/M. 1998 (trad. it. La costellazione postnazionale, cit.); Si, voglio una
Costituzione per l’Europa federale, 2000, in http://www.caffeeuropa.it/attualita/112
attualitahabermas.hatml; Warum braucht Europa eine Verfassung?, 2001, in
http://www.zeit.de/2001/27/Politik/200127-verfassung-lang-html (trad. it. Perché l’Eu-
ropa ha bisogno di una Costituzione?, in Diritti e costituzione nell’Unione Europea. La
Carta dei diritti nell’ottica del costituzionalismo europeo, cit., pp. 63-79). Sul rapporto tra
,
tale concezione e le dimensioni dell’etica, della morale e del diritto cfr. anche L. C EPPA
Pluralismo etico e universalismo morale in Habermas, “Teoria politica”, 1997, n. 2,
pp. 97-112.
) Cfr. H , L’inclusione dell’altro, cit., p. 130.
( 118 ABERMAS
) Cfr. H , Perché l’Europa ha bisogno di una Costituzione?, cit., p. 63:
(
119 ABERMAS
“In effetti, la sfida non consiste tanto nell’invenzione di qualcosa di nuovo, ma piuttosto
nella conservazione delle grandi conquiste dello stato nazionale europeo anche oltre le
frontiere della nazione e in un altro formato”.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
232 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
coerentemente fondato soggetto costituente europeo, appunto il
“popolo europeo”. Per illustrare tale opinione, vorrei qui utilizzare,
in proposito, l’interessante e originale chiave di lettura del contri-
buto filosofico-politico habermasiano proposta da Sergio Dellavalle
in relazione al problema del superamento del concetto esclusivo di
cittadinanza statalnazionale, in collegamento con la problematica
). Nel libro di Dellavalle si
della “costituzionalizzazione” europea (
120
può seguire l’elaborazione comparata degli elementi concettuali del
“paradigma comunicativo” — che vi si fa sfruttando un ingegnoso
schematismo che contrappone i tre paradigmi fondamentali delle
), “l’individua-
idee di nazione, cittadinanza e popolo: “l’olistico” ( 121
( ) S. D , Una costituzione senza popolo? La costituzione europea alla
120 ELLAVALLE
luce delle concezioni del popolo come “potere costituente”, Giuffrè, Milano 2002.
) Scrive Dellavalle, ivi, che, secondo l’approccio olistico (discusso alle pp.
(
121
94-175), “il popolo nella sua totalità rappresenta un’entità ontologicamente diversa e
assiologicamente superiore rispetto alla somma degli individui che lo compongono” (p.
10). Di conseguenza alla base del modello olistico dev’esserci “una base comunicativa
condivisa” di valori sostantivi tra cui centralità assume la nazionalità, che i suoi
sostenitori “identificano erroneamente in forma esclusiva con la comunità linguistica che
sta alla base della nazione — quale presupposto non neutrale per lo svolgersi corretto dei
processi deliberativi che contraddistinguono la democrazia” (p. 11). Ne consegue
l’opposizione euroscettica, “nostalgica” o “capziosa” (p. 201) a sviluppi europei che
oltrepassino la soglia di una confederazione di nazioni (“Europa delle patrie”) in
direzione di una unità federale. Di qui la contrarietà a che si parli di “potere costituente
(Una costituzione per
europeo”. In merito cfr. anche la discussione tra D. G RIMM
(Una costituzione per l’Europa? Osservazioni su Dieter Grimm)
l’Europa?) e J. H ABERMAS , P. P. P , J. L ,
ne Il futuro della costituzione, a cura di G. Z
AGREBELSKY ORTINARO UTHER
Einaudi, Torino 1996, pp. 339-376.
In realtà, va fatto un appunto alla trattazione riservata da Dellavalle al “paradigma
olistico” nel passo che riguarda la pretesa dell’esistenza di un’effettiva e completa unità
sostanziale identitaria a livello nazionale e della conseguente “comunicazione nazionale”.
Nel senso che Dellavalle concede troppo a tale asserzione. È vero che il fondamento di
questa è più rilevabile, benché con limiti storici visibili, in stati come la Germania o la
Francia. Esso è, però, posto in seria discussione a partire dalla seconda metà del
Novecento in stati come il Belgio e, in misura minore, in Italia o in Spagna, da parte degli
orientamenti ideali e dei movimenti che si rifanno alle minoranze o alle forti identità
regionali, alle cosiddette “nazioni senza stato”. Sul problema dell’identità nazionale
italiana formano, per esempio, un interessante contrappunto le due opere che, con
diversa ottica, metodologia e argomentazione, si pongono fino a oggi come il punto
, L’italiano, Einaudi, Torino 1983; E.
iniziale e finale di tale riflessione: cfr. G. B OLLATI
D L , L’identità italiana, Il Mulino, Bologna 1998. Da più parti si afferma
G
ALLI ELLA OGGIA
la rimessa in questione delle “identità nazionali”, per “decostruirle” nelle componenti
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 233
CORRADO MALANDRINO
listico” ( ) e, appunto, il “comunicativo” —, e delle conseguenze
122
della sua applicazione all’idea della costituzione europea. La tesi di
Dellavalle è che il paradigma habermasiano è in grado di far
superare i limiti sostanziali o formali degli altri due, ed è capace di
rispondere positivamente all’esigenza fondamentale “di individuare
un’arena specificamente europea, la quale soddisfi i criteri di una
comunicazione autenticamente politica, senza per questo dover
ricadere sui contenuti dell’identità culturale degli stati-nazione o
pretendere di creare — o riscoprire — un’improbabile omogeneità
). In sostanza, secondo Dellavalle, il “paradigma comu-
europea” (
123
nicativo” fornisce le basi concettuali per separare in modo coerente
il momento dell’interazione politica da quello dell’identità nazionale,
culturale e religiosa, ovvero la nazionalità dalla cittadinanza, ren-
dendo possibile il processo di creazione di un soggetto, di un’iden-
regionali etnico-storiche e ulteriormente restringerne la portata a fini politici. Su ciò si
sono ampiamente espressi anche pensatori federalisti come Elazar e Albertini. Per
un’informazione introduttiva a questo complesso problema — che non è possibile
, M. D , Nazioni senza stato. I
approfondire in questa sede — si rinvia a: A. M
ELUCCI IANI B , La
movimenti etnico-nazionali in Occidente, Loescher, Torino 1983; A. C HITI ATELLI
dimensione europea delle autonomie e l’Italia, Angeli, Milano 1984; Letture su stato
, Celid, Torino 1995; Nazionalismi e conflitti
nazionale e nazionalismo, a cura di L. L
EVI e G. R , Feltrinelli, Milano 1997 (di
etnici nell’Europa orientale, a cura di M. B
UTTINO UTTO
, Intellettuali e questione nazionale in Germania
cui si segnala il contributo di C. L
IERMANN
oggi, pp. 51-64).
) Scrive D , ivi, che, secondo l’approccio individualistico (discusso
( 122 ELLAVALLE
alle pp. 176-205), “l’insieme socio-politico altro non è che la somma ordinata dei singoli
che lo costituiscono” (p. 10). Secondo tale concezione, che vede nella convivenza
socio-politica una questione di mera opportunità, priva di dimensione assiopoietica, uno
sviluppo istituzionale verso l’unificazione europea, ovvero verso la creazione di un grado
di sovranazionalità europea, reso necessario dallo sfaldamento della statualità tradizio-
nale, “va considerato come positivo nella misura in cui ottimizza le possibilità di
benessere dei singoli” (p. 11). È connaturato a tale approccio, estrinsecantesi nella
formazione di una “teoria della sovranazionalità”, l’insufficiente “riflessione sulle con-
dizioni di legittimità delle istituzioni europee, la quale non può limitarsi alla garanzia del
maggior numero possibile di opzioni per i singoli, bensı̀ deve basarsi sulla consapevole
investitura da parte di una cittadinanza europea chiamata a esercitare il suo potere
sovrano”. Se pur dunque i sostenitori dell’approccio individualistico danno supporto
concettuale alla formazione di un “potere costituente europeo”, ciò avviene “al prezzo
di un grave impoverimento della dimensione normativa della legittimità del potere
politico” (ibidem).
) Ivi, p. 203.
(
123 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
234 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
tità e di una sfera di attività politica finalizzati alla produzione di una
costituzione unitaria europea non confliggente con le esigenze na-
zionali.
In estrema sintesi, il “paradigma comunicativo” afferma che
l’individuo, “visto come inserito in una rete di interazioni le quali si
estendono su tutta la sua sfera esperienziale e nelle quali si realizza
la sintesi tra il momento dell’individualità autoreferenziale e quello
), grazie alla sua razionalità teleologica
dell’appartenenza sociale” ( 124
e alla strategia comunicativa — che gli impone di confrontarsi con
gli altri sui fini e sui contenuti dell’agire attraverso un discorso che,
per realizzarsi positivamente, dev’esser rispettoso, tollerante, pronto
a riconoscere pari dignità e validità agli argomenti altrui — può
raggiungere una verità consensualmente definita attraverso l’uso del
“principio del miglior argomento”. Questa concezione delle rela-
zioni interpersonali, non escludente terzi in nome di chiusure na-
scenti da appartenenze religiose, cultural-linguistiche o d’altro tipo,
né tendente alla massimizzazione del vantaggio individuale (perciò
sfuggente ai limiti intrinseci dei primi due paradigmi), può esser
applicata pragmaticamente nell’ambito della politica, della morale e
dell’etica ottenendo risultati più o meno soddisfacenti. Il punto
cruciale, però, secondo Dellavalle, sta nel fatto che il “paradigma
comunicativo” consente di distinguere chiaramente il “codice” in-
terattivo che presiede ai vari tipi di “comunicazione” pratica, ovvero
politica, morale ed etica. Per cui, sottolinea Dellavalle, “proprio
questa attenzione nel tenere rigorosamente distinti i discorsi che,
seppur storicamente sovrapposti, procedono concettualmente sulla
base di codici diversi, ci permette di applicare con profitto il
paradigma comunicativo alla questione del costituzionalismo euro-
peo e, in particolare, alla tematica dell’articolazione teorica dei
fondamenti di quello che potrebbe esser definito un “potere costi-
tuente europeo”” ( ).
125
Poste tali premesse, nella prospettiva della creazione di una
fonte di legittimità per il soggetto europeo, si rende possibile
svincolare nella sfera dell’etica (che risponde alla domanda generale
“come vogliamo vivere?”) il piano dell’integrazione di determinati
( ) Ivi, p. 206.
124 ) Ivi, p. 210.
( 125 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 235
CORRADO MALANDRINO
gruppi e subculture nazionali e infranazionali da quello dell’astratta
integrazione politica, che riguarda in modo uniforme tutti i cittadini
di un aggregato più vasto. Mentre sul primo piano avviene l’intera-
zione tra i membri di una comunità unita da valori sostantivi (fede
religiosa, tradizioni culturali, appartenenze linguistiche, ecc.), sul
secondo si sviluppa il confronto tra semplici cittadini per determi-
nare consensualmente — pur sempre nel rispetto dei valori predetti
— le forme della convivenza politica, che si traducono nei valori che
presiedono alle formule del diritto a partire dalle norme costituzio-
nali, e nelle istituzioni con queste coerenti. Tale distinzione rende
possibile scindere la specificità dell’aspetto nazionale da quella dello
stato di diritto, l’appartenenza culturale dalla cittadinanza. Rispetto
allo stato nazionale, che storicamente invece ha mescolato inestrica-
bilmente questi due piani, ciò implica un’inversione radicale di
marcia (ma non un suo superamento, se con tale termine si intende
la sua sparizione). In realtà, come afferma Habermas, quel che è
sempre più impellente fare — nella situazione di avanzante multi-
culturalità e in un’Europa che vuole mandar avanti il processo di
unione sempre più intima previsto nei preamboli dei trattati comu-
nitari — è proprio la separazione della miscela perversa di intera-
zione politica e culturale, di identità, di appartenenze nazionali e
cittadinanza politica, al fine di arrivare a definire un “popolo” di
cittadini svincolato da legami prepolitici. Gli individui del “paradig-
ma comunicativo”, impegnati nell’interazione pragmatica sul piano
etico, giungono cosı̀ in ultima istanza a costituire un “insieme di
cittadini di una collettività politica, […] cittadini dello stato demo-
cratico di diritto […], autori delle leggi, nei confronti delle quali, in
).
quanto destinatari delle medesime, sono tenuti all’obbedienza” (
126
Il cemento che unisce un siffatto “insieme popolare” non può
naturalmente essere l’olistico patriottismo nazionale, ma il “patriot-
tismo costituzionale” e, nella fattispecie, un patriottismo costituzio-
). A questo genere di “popolo” appartiene anche
nale europeo (
127
( ) Ivi, p. 216.
126 ) Una lettura critica dell’analisi habermasiana, specie in relazione all’argomen-
( 127 , Se
tazione del concetto di “patriottismo della costituzione” si ha in G.E. R USCONI
cessiamo di essere una nazione, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 126-135. Di Rusconi, il
quale, pur con ricorrenti riflessioni tendenzialmente scettiche, afferma di credere alla
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
236 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
l’identità del “popolo europeo”, da cui può scaturire un nuovo
potere costituente. Scrive Dellavalle: “Grazie alla distinzione con-
cettuale tra la dimensione dell’integrazione politica dei cittadini e
quella dell’appartenenza culturale, etnica e nazionale, diventa cioè
possibile ipotizzare una sfera politica europea, sostenuta dalle isti-
tuzioni di una crescente società civile integrata, il cui codice comu-
nicativo consista nella formulazione e legittimazione delle norme che
). E
già oggi coinvolgono tutti i cittadini europei in quanto tali” (
128
verrebbe, per questa via, sanato il deficit democratico che affligge le
istituzioni create nel corso del processo di costruzione comunitaria
e confederale dell’Unione Europea. In conclusione, l’elaborazione
habermasiana sarebbe l’unica capace di fornire “una base normati-
vamente accettabile all’individuazione di un potere costituente spe-
). In conformità con essa, l’Unione Euro-
cificamente europeo” (
129
pea sarebbe considerata alla stregua di uno stato federale
sovranazionale, dotata di una propria specie di sovranità con proprie
istituzioni democratiche scaturenti dalla legittimazione del “popolo
dei cittadini europei”. In effetti Habermas ha sostenuto e sostiene
con forza l’opzione federale europea all’interno di quella che chiama
la “costellazione postnazionale” nell’epoca della globalizzazione.
8. Un nuovo paradigma “federalista-comunicativo” funzionale al-
l’unità statale europea?
L’interessante punto di vista habermasiano riproposto da Del-
lavalle, nell’indicare l’idoneità del “paradigma comunicativo” in
funzione della “costituzione” europea attraverso il “popolo euro-
), mi pare del tutto condi-
peo” inteso come potere costituente (
130
possibilità del costituirsi di un demos europeo a seguito dell’intensificazione della
comunicazione sovranazionale, cfr.: Patria e repubblica, Il Mulino, Bologna 1997, pp.
, La
84-93; Cittadinanza e costituzione, in Identità culturale europea, a cura di L. P ASSERINI
Nuova Italia, Firenze 1998, pp. 133-153; Appartenenza e cittadinanza tra dimensione
nazionale e dimensione europea. Intervista, in Interviste sull’Europa, a cura di A.
, Carocci, Roma 2001, pp. 121-136.
L
ORETONI
) Ibidem.
(
128 ) Ivi, p. 217.
( 129 ) Già nelle pagine introduttive (p. 11), Dellavalle afferma che “soltanto
( 130
l’apparato concettuale che [il paradigma comunicativo] mette a disposizione permette
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 237
CORRADO MALANDRINO
visibile per i federalisti, soprattutto per le risposte che dà alle
argomentazioni sottostanti ai paradigmi “olistico” e “individualisti-
co”. Spiace però che esso sembri escludere un ruolo concorrente
della critica federalista su problemi sui quali — con differenti
approccio e metodologia — essa si confronta da molto tempo prima
di Habermas. Proprio il fatto che lo scritto di Dellavalle (ma anche
l’opera di Habermas) manchi di un serio confronto con la proble-
matica federalista più tipica e tradizionale, dovrebbe indurre a
riflettere se ciò non avvenga anche per responsabilità del federali-
smo, inteso come movimento intellettuale prima ancora che politico.
In effetti, spesso vengono avanzate al federalismo (specie a quello
“europeo”) obiezioni di varia natura e non sempre giustificate. Per
esempio, si dice che esso si misurerebbe con un paradigma tradi-
zionale e superato della sovranità, con ciò volendosi intendere che la
trasformazione (o la presunta sparizione) in corso delle sovranità
statali avrebbe messo fuori gioco altresı̀ le critiche mosse all’interno
di un apparato categoriale imperniato sulla coppia federazione-
confederazione, che si appunta in modo forte sulla critica della
sovranità unitaria, assoluta ed esclusiva dello stato moderno. Si
avrebbe pertanto un conseguente “spaesamento” per tutta la posi-
zione “federalista europea”. Si dice, poi, che sul “popolo europeo”
questa oscillerebbe in misura eccessiva tra i due poli del “dover
essere” e del movimentismo ideologico. Per usare una terminologia
weberiana, si potrebbe tradurre tale critica affermando che il “fe-
deralismo europeo” si fonderebbe più su un’“etica della convin-
zione” che non su un’“etica della responsabilità”. Tali critiche si
manifestano in modo ancor più marcato allorché si toccano i temi
della costituzione europea intesa in senso forte e pieno. Anche in
questo caso, l’entrata in crisi del paradigma costituente tradizionale
trascinerebbe con sé anche le posizioni che vedono in un modello
federale europeo incentrato sul parlamento e sul governo responsa-
infatti di differenziare sufficientemente i modi d’essere del singolo, spiegandone l’ap-
partenenza non contraddittoria a diverse realtà: alla comunità culturale e/o nazionale,
alla collettività politica e all’insieme di tutti gli esseri umani. Distinguendo tra l’appar-
tenenza culturale e/o nazionale e quella politica, il paradigma comunicativo dischiude la
possibilità di definire con precisione una sfera specificamente europea dell’interazione
politica, la quale va al di là della comunicazione nazionale, senza per questo coincidere
riduttivamente con la mera tutela prepolitica degli interessi del bourgeois”.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
238 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
bile il superamento del deficit democratico dell’Unione. Si tratta di
obiezioni complesse, di cui occorre tener conto, anche se talora
ingenerose e ingiustificate. Si potrebbe rispondere con vari argo-
menti. Per esempio, che in verità oggi si assiste piuttosto a un
inopinato recupero di poteri da parte degli stati nazionali dopo la
lunga fase della divisione del mondo in blocchi contrapposti; che la
perdita di senso del paradigma costituente tradizionale, con tutto
quel che ne consegue, è un fenomeno ben chiaro sia a pensatori
federalisti integrali come Rosselli e Trentin, sia a “federalisti euro-
pei” come Spinelli. E rimandare alla lettura e alla riflessione su
questi autori. Ma sarebbero polemiche sterili che non aiuterebbero
nell’opera di costruzione di un’Europa unita.
Tutto ciò premesso, perciò, ci si dovrebbe domandare se non sia
plausibile e auspicabile una ridefinizione della critica federalista alla
sovranità statalnazionale, ferme restandone le finalità generali, ai fini
dell’implementazione della sua funzionalità rispetto alla tematica
europeista. Penso che ciò si possa produrre a partire dall’elabora-
zione di un nuovo paradigma federalista, più specifico e più coe-
rente, quindi più condivisibile sul piano teorico anche da cerchie più
larghe, che riformuli e sfrutti adeguatamente i motivi ricavabili dalla
letteratura presentata in questo saggio e li rielabori coniugandoli con
il “paradigma comunicativo”, che non appare, tutto sommato, cosı̀
distante. Il paragrafo che segue è perciò dedicato a questo tentativo
teorico, nel presupposto evidente che non vi sia inconciliabilità tra
l’impianto “comunicativo” e quello federalista, come d’altra parte
dimostra l’approdo teorico-politico del pensiero di Habermas.
Parto dalla premessa, enunciata al paragrafo 2., che l’archetipo
federalista sia dato dalla convergenza nell’analisi delle esperienze
qualificanti della modernità — tanto in quella sovrastatale centripeta
del Federalist che in quella del federalismo infranazionale centrifugo
rinvenibile nella vicenda del girondinismo e, per esempio, nelle
teorie anticentraliste di Proudhon e Cattaneo — di diverse correnti
di pensiero che però possono esser ricondotte a una teoria unitaria,
peraltro tentata nell’Ottocento dallo stesso Proudhon nello scritto
Du principe fédératif ( ). Il contesto teorico generale che tutte le
131
ricomprende è quello del contrattualismo giusnaturalista moderno,
( ) Su ciò si rinvia a M , Federalismo, cit., pp. 11-57.
131 ALANDRINO
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 239
CORRADO MALANDRINO
come si può constatare dalle teorie dei padri della costituzione
federale americana, di cui è stata dimostrata in modo convincente la
filiazione dalle concezioni teologico-federali dei primi coloni ameri-
). A mio avviso l’impianto federalista che se ne può desu-
cani (
132
mere è singolarmente vicino a quello “comunicativo”, e ciò può
spiegare la confluenza delle specifiche proposte sul piano europeo.
Vediamo allora come si può configurare tale fondazione federal-
comunicativa.
La radice semantica delle parole “federale” e “federalismo” si
trova nel vocabolo latino “foedus”, che significa alleanza, trattato,
patto, convenzione. Fin dalle origini, constatabili nella cultura latina
e tramandate in quella europea occidentale, il fenomeno federale
s’incardina sul concetto di un rapporto politico convenzionale e
pattizio basato sulla reciproca fiducia (fides) dei contraenti e non
sulla forza. In linea di principio, è la fede liberamente e mutualmente
data che crea un’organizzazione comune e obbliga i membri di tale
alleanza, più o meno durevole, a comunicarsi prestazioni, aiuto,
diritti. Come è visto l’individuo capace di foedus e di fides? È un
individuo-soggetto (persona individuale o gruppo formato da indi-
vidui distinti con interessi comuni) che è identificabile esclusiva-
mente dalla sua propensione e capacità positiva di contrarre e
sottoscrivere un patto di fiducia con altri individui-soggetti. Ciò
esclude che possa esser concepito soltanto come una monade chiusa
in sé o prevalentemente egoista, poiché deve poter entrare in
contatto con altri interlocutori e intrattenere rapporti in cui concede
e riceve fiducia allo scopo di sottoscrivere il patto. A tal fine è
necessario un confronto dialogico nel corso del quale sono portati in
discussione gli argomenti migliori da entrambe le parti e, al termine,
con la sottoscrizione del patto, vi sarà un riconoscimento del risul-
tato su una base di rispetto reciproco: il foedus crea una comunità
politica di eguali godenti pari dignità e riceventi pari soddisfazione
( ) Cfr. C. S. M C , Die Bundestradition in Theologie und politischer Ethik.
132 C OY
Anmerkungen zum Verständnis von Verfassung und Gesellschaft der USA, in Konsens und
, W.
Konsoziation in der politischen Theorie des frühen Föderalismus, a cura di G. D USO
e D. W , Duncker & Humblot, Berlin 1997, pp. 29-46; I . e J. W.
K
RAWIETZ YDUCKEL D
, Fountainhead of Federalism. Heinrich Bullinger and the Covenantal Tradition,
B
AKER , Teologia
Louisville (Kentucky), Westminster/J. Knox Press, 1991; C. M ALANDRINO
federale, “Il Pensiero politico”, XXXII, 1999, n. 3, pp. 427-446.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
240 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
degli interessi. In tal senso è anche una comunità che vive nel segno
della libertà e della giustizia.
Mi pare che la figura teorica cosı̀ delineata possa suffragare una
immedesimazione tra l’individuo-soggetto federativo e quello “co-
municativo”, nel senso almeno che sia possibile affermare che il
primo è necessariamente anche coincidente con il carattere “comu-
nicativo” del secondo, mentre non si può dire altrettanto del se-
condo, che non necessariamente deve predisporsi alla sottoscrizione
di un patto federale per conseguire il suo scopo. Va da sé che
l’individuo-soggetto federativo non è contenibile nell’approccio in-
dividualistico (ed è evidentemente lontanissimo da quello olistico).
Infatti l’individuo “individualistico”, nel suo impianto egoista, può
avere generica propensione a stipulare patti politici, ma non ha
predisposizione determinata al “patto di fiducia” federale e all’in-
gresso in intense e fruttuose relazioni comunitarie, mentre tale
caratteristica è centrale per l’individuo federativo. L’individuo-sog-
getto federativo è teleologico nel suo agire in quanto vuol raggiun-
gere lo scopo di una vita comunitaria e sociale grazie al patto, che
rappresenta il suo strumento di iniziativa strategica. La razionalità
teleologica e strategica dell’individuo-soggetto federativo si attua
dunque attraverso un confronto necessariamente verbale (la comu-
nicazione argomentata di volontà al fine della giustificazione delle
intenzioni e della legittimazione delle forme del patto) ed extraver-
bale (le relazioni personali in senso lato, le procedure del patto
stesso, ecc.). In conclusione: l’individuo-soggetto federativo è neces-
sariamente un soggetto che comunica al modo habermasiano, nel
senso che, come scrive Dellavalle, “mira al raggiungimento di un
accordo condiviso tra tutti i cointeressati, sulla base di un confronto
). Rispetto ai limiti messi
aperto sui fini e sui contenuti dell’agire” ( 133
in mostra dal “paradigma comunicativo” sul piano politico interno
e internazionale ( ), però, quello federalista può forse intervenire
134
con maggiore efficacia sulla prassi politica, grazie alla ricchezza
pragmatica della teoria federalista dello stato (che si traduce anche,
e soprattutto, nella teoria dello stato federale), a partire appunto
dall’esperienza americana fino a quelle ottocentesche e novecente-
( ) Cfr. D , Una costituzione senza popolo?, cit., p. 208.
133 ELLAVALLE
) Ivi, pp. 208-209 e 221-225.
( 134 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 241
CORRADO MALANDRINO
sche, europee e globali. Ciò dimostra la maggiore pertinenza del
punto di vista federalista rispetto ai temi in discussione e la sua
migliore applicabilità. Non a caso è cresciuto enormemente, come
dimostra Elazar, il numero degli stati inquadrabili in maggior o
minor misura nel contesto istituzionale federale. Il patto federale,
infatti, non neutralizza gli interessi diversi, ma al contrario è conce-
pito per unire le diversità rispettandole, trovando un compromesso
elastico, modificabile nello spazio e nel tempo, accettabile da coloro
che intendono partecipare all’unione tra eguali. Il cemento che
unisce i membri del patto federale non può esser altro che un forte
patriottismo repubblicano e costituzionale. Il foedus è la premessa
della “carta” in cui vengono fissati valori e princı̀pi fondamentali,
diritti e doveri, che stanno alla base del patriottismo federativo-
costituzionale.
Gli individui-soggetti federativi esplicano la loro attività nei vari
livelli di esistenza che coincidono con diversi piani di aggregazione
sociale e politica, legandosi ai valori culturali e sostantivi specifici di
ognuno di questi, pur rimanendo capaci di esperienze plurali e di
appartenenze plurali. Dal loro vario e necessario entrare in rapporti
pattizi su ognuno di tali livelli si genera una pluralità di patti federali,
e di popoli federali, dai quali promana nel contempo una pluralità di
poteri costitutivi (o “costituenti”) federali infranazionali, nazionali e
). Di qui scorre la sorgente di legittimazione po-
sovranazionali (
135
( ) D’altra parte una simile considerazione della cittadinanza in relazione al
135
formarsi delle sovranità condivise sta alla base dell’approccio del federalismo moderno
, L’uomo, la comunità, l’ordine poli-
derivante dall’esperienza americana, cfr. F RIEDRICH
tico, cit., p. 297: “[Il concetto nuovo di federalismo] poggia sull’idea che in un sistema
federale di governo ogni cittadino appartenga a due comunità, quella del suo stato e
quella della nazione; che questi due livelli di comunità debbano esser nettamente distinti
e che ognuno di essi debba essere provvisto del proprio governo; e che nella struttura-
zione del governo della comunità più estesa gli stati componenti debbano giocare un
, Idee e forme del federalismo,
preciso ruolo nella loro qualità di stati”. Cfr. anche E LAZAR
cit., pp. 34-35: “In effetti il significato profondo della soluzione federale americana fu
quello di escogitare un modo di eludere il problema della sovranità esclusiva degli stati
[…] Invece di accettare le concezioni europee del XVI secolo dello stato sovrano, gli
americani considerarono che la sovranità appartenesse al popolo. Le varie unità di
governo — federali, statali e locali — potevano esercitare solo poteri delegati. Cosı̀ era
possibile che il popolo sovrano delegasse i suoi poteri al governo generale e a quelli
costitutivi senza incappare, di norma, nel problema di quali di essi possedesse la
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
242 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
litica per ognuna delle forme statuali costituibili, corrispondenti ai
rispettivi livelli di interazione politica. Gli individui-soggetti federa-
tivi sono considerabili pertanto nella sfera individuale-personale e in
relazione ai gruppi di appartenenza già costituiti e legittimati: sono
i “cittadini” presi singolarmente che, unitisi in popolo per una
decisione esclusivamente politica, grazie a un patto “costituzionale”
divengono in determinati periodi e contesti milanesi e parigini;
piemontesi e bavaresi; italiani, francesi e tedeschi, ecc.; infine euro-
pei. Tutto ciò avviene senza che siano privati della genetica capacità
di appartenere identitariamente ai gruppi-soggetti locali, regionali,
nazionali o sovranazionali. Dal loro variegato complesso promana il
“popolo” europeo, ovvero l’insieme di tutti questi individui-soggetti
federativi, che si può concepire come “potere costituente” della
).
futura federazione europea ( 136
Posto che sia accettabile tale impianto teorico, l’obiezione può
riguardare il posto e il ruolo che deve esser comunque detenuto
sovranità, eccetto che nel campo delle relazioni internazionali”. Per popolo Elazar
intende il “popolo federale” formato dall’unione dei cittadini-soggetti federativi. Tale
circostanza è ricordata da Levi nel saggio introduttivo (La federazione: costituzionalismo
e democrazia) alla cit. riedizione del Federalista del 1997, p. 36, laddove ricorda
l’affermazione del deputato James Wilson nella Convenzione della Pennsylvania di
ratifica della Costituzione federale: “Il supremo potere risiede nel popolo come fonte del
governo… Esso può distribuirne una parte… ai governi degli stati e un’altra al governo
degli Stati Uniti”.
) Credo che non sia corretto, per le ragioni dette alla nota 121, contrapporre
(
136
in assoluto la concretezza dei popoli fondati sull’identificazione nazionale all’astrattezza
del “popolo europeo” nella definizione qui enunciata. In realtà, alcuni popoli nazionali
europei (si pensi al Belgio) hanno un carattere di concretezza sostantiva non molto
superiore a quello di un ipotetico popolo europeo. Ma anche altri (pochi) popoli di più
sicure tradizioni e identità nazionali, come quelli francese e tedesco, subiscono negli
ultimi decenni una contestazione crescente da parte delle originarie componenti minori
etnico-culturali e dalle nuove immigrazioni di diversa cultura che chiedono di integrarsi
e di contare politicamente. Per tutti gli stati nazionali vale sempre più in ultima istanza
il ricorso al “plebiscito” soggettivistico di Renan. Ma mi chiedo: che cosa impedisce a un
analogo “plebiscito” pensato in forma prevalentemente politica di applicarsi al caso
europeo (magari in forma di referendum cui sottoporre un’eventuale carta costituzionale
europea)? Quale ostacolo si pone al “popolo europeo” — nel più grande contesto
globale — a concepirsi come costituito su una solidarietà fondata “sul sentimento dei
sacrifici già fatti e di quelli che si è disposti a fare”, sul passato di guerre dalle quali si
vuol fuggire per sempre e sul presente dell’integrazione economica, sul consenso e sul
“desiderio espresso chiaramente di continuare la vita in comune”?
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CORRADO MALANDRINO
dagli stati nazionali, che sono ancor oggi i soggetti aventi il maggior
peso (se non esclusivo) in termini di identità nazionale e poteri
sovrani in Europa. È evidente che non è ammissibile, per la natura
stessa del paradigma appena enunciato, alcuna ipotesi di emargina-
zione o superamento degli stati nazionali, cosı̀ come delle realtà
regionali o locali. È anzi da supporre l’arricchimento dei loro aspetti
etnico-culturali e sociali, nel mantenimento di precisi poteri nazio-
nali di decisione di ultima istanza (penso, per esempio, al potere di
grazia), e di competenze politico-amministrative per tutto ciò che
attiene al territorio e alla popolazione di ognuno secondo un’ampia
realizzazione del principio di sussidiarietà. Credo che il paradigma
federalista-comunicativo testé tracciato possa ammettere agevol-
mente tutto ciò. Ma nel presupposto necessario del venir meno
dell’esclusività e dell’assolutezza della sovranità nazionale, in quanto
il paradigma federalista-comunicativo: a) proclama l’intangibilità dei
valori e degli interessi sostantivi propri di ciascun livello di aggre-
gazione socioculturale, purché naturalmente questi siano posti in
modo da evitare che qualcuno di loro si trovi in conflitto irrimedia-
bile sul piano politico con quelli di qualche altro livello di apparte-
nenza; b) afferma la cittadinanza contestuale e plurale, quindi non
crea subordinazione gerarchica tra le differenti forme in cui essa si
esprime; c) sottolinea l’esigenza di un patriottismo costituzionale sia
al livello nazionale che al livello europeo, lasciando campo libero allo
sviluppo di patriottismi culturali, nel presupposto ammissibile che i
secondi non si pongano in conflittualità con i primi; d) attesta,
attraverso la teoria dello stato federale, che agli stati nazionali sia
dato un ruolo di primo piano sia nella fase di costituzione della
federazione europea con una presenza diretta, sia nella fase di
istituzionalizzazione a regime, attraverso il modello parlamentare
bicamerale e la costituzione di una Camera degli stati dotata di ampi
poteri legislativi e di controllo politico. Del pari, il paradigma
federalista comunicativo non si pone in contrasto irresolubile con le
esigenze rappresentate nelle ipotesi di multilevel systems of govern-
ment, in quanto può contemperare il contributo di partecipazione e
direzione della cosa pubblica proveniente da vari soggetti pubblici e
privati, statali e non, ai vari livelli di governo della statualità federale
infra- e sovranazionale, pur mantenendo i caratteri di maggior
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
244 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
definitezza istituzionale e di bilanciamento e separazione dei poteri
sui piani verticale e orizzontale che gli sono propri ( ).
137
Se il paradigma federalista-comunicativo qui abbozzato può
risultare plausibile, ci si deve domandare in quale relazione si ponga
con la tradizionale critica federalista alla sovranità dello stato nazio-
nale e con la prospettiva di una costituzione federale europea. La
prima risposta è che in entrambi i casi è possibile l’utile integrazione
tra il nuovo e il vecchio paradigma. In effetti, è intrinseca al nuovo
una concezione relativizzante e pluralistica delle sovranità statuali ai
vari livelli, considerato il presupposto dell’esistenza di realtà statuali
infra- e sovranazionali. Rispetto al vecchio, inoltre, il nuovo para-
digma sopra delineato dà maggior concretezza e individualità al
soggetto e al processo costituenti europei con l’indicare precisa-
mente, in accordo col “paradigma comunicativo”, l’identità di un
possibile “popolo europeo” connotato politicamente e non affer-
mato sulla scorta di asserzioni meramente prepolitiche di natura
etnico-culturale, morale, ideologica o movimentistica.
( ) In questo senso mi pare che vadano a vuoto le critiche riprese da G.
137 , L’Europa dopo il Leviatano. Unità e pluralità nel processo di costituzionaliz-
M ARRAMAO
zazione, “Teoria politica”, XVII, n. 2, 15-16 dicembre 2000, pp. 51-52 (sulla scorta, tra
, L’originalità istituzionale dell’Unione Europea, in AA.VV., Un
gli altri, di G. A MATO
passato che passa? Germania e Italia tra memoria e prospettiva, Atti del Seminario
internazionale organizzato dal Comune di Roma in collaborazione con il Goethe Institut
e la Fondazione Basso, Roma novembre 1996, raccolti a cura di G. Preterossi, intr. di G.
Marramao, Roma, pp. 81-91 e 106-109) nei confronti di una pretesa “megasovranità
europea” nell’ipotesi di una trasformazione in senso federale dell’UE. Al contrario, il
modello federale nasce per assicurare, attraverso la condivisione delle sovranità una
certezza istituzionale a livello di governo centrale insieme alla difesa delle diversità e dei
rispettivi poteri dei componenti. Quanto al richiamo che Marramao fa alle analogie tra
fase precedente il “modello Westfalia” e il prossimo futuro possibile della multilevel
governance, vorrei precisare che è proprio questo il punto (risolto però in senso
federalista) già segnalato da molti anni a questa parte da un pensatore come Elazar nel
suo discorso su premodernità e postmodernità (cfr. supra par. 6. 2), ripreso da Th.
Huglin nei suoi scritti althusiani e da ultimo nel libro Early Modern Concepts for a Late
Modern World. Althusius on Community and Federalism, Waterloo (Ontario), W.
Laurier University Press, 1999.
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ENZO CANNIZZARO
IL PLURALISMO DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO
v
EUROPEO E LA QUESTIONE DELLA SOVRANITA
1. Regole di conflitti nell’ordinamento dell’Unione europea. — 2. Pluralismo di ordina-
menti e pluralismo all’interno di un ordinamento. — 3. Il monismo giuridico e la
questione della sovranità. — 4. La trasformazione del concetto di sovranità: la sovranità
istituzionale. — 5. Segue. La separazione dei poteri e la questione della sovranità
normativa. — 6. Sovranità normativa e competenza normativa. — 7. La sovranità
normativa come capacità di produzione giuridica. — 8. La sovranità come norma di
soluzione dei conflitti. — 9. La sovranità normativa come autodeterminazione dell’or-
dinamento giuridico. — 10. La nozione normativa di sovranità in una prospettiva
sistematica. — 11. Considerazioni conclusive.
1. Regole di conflitti nell’ordinamento dell’Unione europea.
Fra le caratteristiche dell’ordinamento europeo nei suoi rapporti
con i preesistenti ordinamenti degli Stati membri, vi è l’assenza di
una regola generalmente accettata di soluzione dei conflitti. Per
meglio dire, questa assenza si nota solo per certi tipi di conflitti,
mentre per altri la dinamica istituzionale ha consentito l’emergere di
norme e pratiche comuni sia all’ordinamento dell’Unione che a
quelli dei suoi Stati membri.
I conflitti fra norme comunitarie dotate di effetto diretto e
norme legislative degli Stati membri sono ad esempio risolti attra-
verso una regola che ammette una soluzione univoca sia nell’ordi-
namento comunitario che in quelli degli Stati membri, ed impone al
giudice l’applicazione delle prime e la disapplicazione delle seconde.
Per la verità, questa conclusione è solo parzialmente corretta, in
quanto si ha piuttosto un effetto identico, che fa però seguito
all’applicazione di diverse regole di conflitto nei vari ordinamenti ( ).
1
( ) Si veda la ricostruzione della regola rispettivamente nella giurisprudenza della
1
Corte di giustizia delle Comunità europee (v. la sentenza Simmenthal, 9 marzo 1978,
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
246 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Agli effetti pratici, tuttavia, quel che emerge è che l’effetto dell’ap-
plicazione di tali diverse regole conduce al medesimo risultato, il che
può dar l’impressione che la regola sia la medesima.
Ma per altri tipi di conflitti, è chiaro non solo che le regole di
soluzione sono diverse, ma che esse possono anche portare ad un
risultato diverso. In questo caso occorre allora rassegnarsi a conclu-
dere che il conflitto non ammette una soluzione valida per qualsiasi
prospettiva giuridica. Quando, ad esempio, le Corti costituzionali
degli Stati membri si riservano il potere di sindacare la legittimità di
atti normativi comunitari alla luce dei valori fondamentali del pro-
prio ordinamento, esse non fanno che applicare una regola di
soluzione dei conflitti che discende dalla propria Costituzione e la
cui applicazione può produrre effetti irrimediabilmente incompati-
bili con quelli prodotti dalla regola di soluzione propria dell’ordi-
). Cosı̀ anche quando il giudice interno
namento comunitario ( 2
rivendichi il proprio potere di negare applicazione ad una norma
dell’Unione, ritenendo che essa sia stata adottata chiaramente al di
fuori della sfera delle competenze attribuite a tale ente, esso non fa
che applicare una regola di soluzione dei conflitti che ha validità solo
). In ambedue i casi
nell’ambito del proprio ordinamento nazionale (
3
la regola di soluzione dei conflitti propria dell’ordinamento del-
l’Unione è ben diversa, sia dal punto di vista procedurale che da
causa 106/77, in Racc., 1978, p. 629 ss.), e nella giurisprudenza delle Corti costituzionali
nazionali (v. la sentenza della Corte costituzionale italiana nella sentenza Granital, 8
giugno 1984, n. 170, e l’ordinanza della Corte costituzionale tedesca del 9 giugno 1971).
) Si vedano le sentenze della Corte costituzionale italiana nei casi Frontini, 27
( 2
dicembre 1973 n. 183, e Fragd, 21 aprile 1989 n. 232, e il celebre Maastrichtsurteil della
Corte costituzionale tedesca del 12 ottobre 1993.
) Questa possibilità è stata prospettata nella sentenza della Corte costituzionale
( 3
tedesca relativa alla legittimità costituzionale del trattato di Maastricht, menzionata
sopra, nonché nella sentenza della Corte suprema danese del 6 aprile 1998, relativa
anch’essa alla costituzionalità del trattato di Maastricht. Essa è stata recentemente
ribadita dalla Corte costituzionale tedesca; v. in particolare la sentenza del 7 giugno 2000
che ha chiuso la complessa controversia relativa alla legittimità costituzionale del
regolamento che aveva stabilito un mercato comune delle banane; controversia che è
sembrata a lungo poter originare un conflitto radicale fra ordinamento costituzionale
tedesco e ordinamento comunitario. La Corte ha peraltro evitato di trarre le conclusioni
di questa regola e pervenire quindi ad una dichiarazione di incostituzionalità del diritto
comunitario. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 247
ENZO CANNIZZARO
quello sostanziale, in quanto questo ordinamento appresta un pro-
prio apparato giurisdizionale al quale è affidato il potere esclusivo di
valutare la validità di atti comunitari nonché un proprio parametro
di norme fondamentali rispetto ai quali tale giudizio va effettuato.
Né mancano altri esempi di conflitti che non ammettono una
soluzione univoca.
In una valutazione di tipo empirico, si potrebbe tracciare una
distinzione fra conflitti del primo e conflitto del secondo tipo. I
primi sono conflitti a basso contenuto valutativo, rispetto ai quali,
generalmente, gli Stati membri ammettono una competenza esclu-
siva dell’ordinamento dell’Unione a dettare le regole di soluzione. I
secondi sono invece conflitti nei quali si riflettono interessi e valori
fondamentali, ovvero nei quali si riflette la capacità espansiva di un
ordinamento a danno dell’altro, per i quali sembra indicata la
formula dei conflitti di sovranità. Rispetto ai secondi, quindi, non
solo gli ordinamenti degli Stati membri rifiutano di riconoscere la
competenza esclusiva dell’Unione a disciplinarne l’esito; essi anzi,
espressamente, si riservano il potere di disciplinarli, eventualmente
in contrasto con le regole dell’Unione. Analizzando le regole di
soluzione dei conflitti, nei loro reciproci rapporti, si può quindi
osservare un fenomeno che emerge invero anche adottando un
diverso punto di osservazione: gli ordinamenti degli Stati membri
assumono, rispetto all’ordinamento dell’Unione, un atteggiamento
che non è ispirato né ad una completa autonomia, né ad una
completa integrazione. Essi cioè ammettono che l’Unione disciplini
i conflitti fra norme dei diversi ordinamenti, ma solo fino ad un certo
livello di intensità; si riservano invece di disciplinare autonoma-
).
mente conflitti ad alto livello valutativo ( 4
( ) Né il rilievo di questa osservazione diminuisce per il fatto che, al di là delle
4
dichiarazioni di principio, un conflitto vero e proprio non si sia mai prodotto in quanto
sia la Corte di giustizia che le Corti nazionali hanno utilizzato strumenti atti ad evitarne
l’insorgere. Questo vuol dire, infatti, che il conflitto si è realmente prodotto, ma non è
stato risolto attraverso regole di carattere giuridico, bensı̀ attraverso regole di carattere
politico. D’altra parte, proprio l’esistenza di diverse regole di soluzione di conflitti, atte
a produrre soluzioni diverse ed incompatibili fra loro, finisce con il connotare il sistema,
per modo che, al fine di evitare di produrre un conflitto dall’esito imprevedibile, i diversi
attori del gioco istituzionale possono essere indotti ad operare comportamenti diversi da
quelli che verrebbero presumibilmente adottati in un sistema di diverso tipo.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
248 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Anche senza entrare nei dettagli tecnici di tale situazione, è
chiaro che essa caratterizza un certo modo d’essere dell’ordina-
mento giuridico dell’integrazione europea. Per esso sembra appro-
priata la definizione di ordinamento pluralista, dato che esso è
connotato dall’esistenza di una pluralità di punti di vista nell’ambito
dei quali un determinato conflitto normativo può trovare soluzione,
e, quindi, dall’assenza di una prospettiva unica, che assicuri una
).
soluzione valida per tutto l’ordinamento (
5
L’ordinamento europeo appare come un ordinamento tenden-
zialmente pluralista in quanto al suo interno vi sono conflitti che
vengono risolti in maniera diversa a seconda che ci si ponga nella
prospettiva dell’ordinamento centrale o degli ordinamenti decen-
trati. Ciò non vuol dire, beninteso, che per ciascun conflitto di
questo tipo vi sarà una paralisi dei meccanismi normativi e istitu-
zionali, ma solo che non vi è una regola giuridica generalmente
ammessa per la soluzione di essi. La soluzione può invece essere
ricercata, e di fatto ciò è quello che avviene, attraverso l’applicazione
di altri tipi di regole: in particolare, quando insorgono conflitti di
questo tipo, essi vengono risolti attraverso dinamiche di tipo politico
e istituzionale.
2. Pluralismo di ordinamenti e pluralismo all’interno di un ordina-
mento.
Il carattere pluralista dell’ordinamento dell’Unione riflette un
particolare modo d’essere di tale ordinamento, insuscettibile di
essere spiegato nell’ambito delle normali dinamiche ordinamentali
dei sistemi di natura statuale. Il fatto è che i rapporti fra gli
ordinamenti degli Stati membri non appaiono essenzialmente di tipo
convenzionale, come accade nelle forme classiche di confederazione,
né, d’altro lato, essi sono completamente spiegabili in uno schema
concettuale di tipo federale, nel quale l’ordinamento centrale abbia
completamente assorbito la sovranità dei suoi Stati membri.
Da un punto di vista storico non vi è dubbio che l’Unione sia un
( ) Ho utilizzato questo termine nello scritto A Pluralist Constitution for a
5
Pluralist Legal Order, in FIDE - XX Congress, vol. I, a cura di Slynn e Andenas, London,
2002, p. 267 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 249
ENZO CANNIZZARO
ordinamento derivato da quello degli Stati membri, i quali infatti
l’hanno istituito mediante un accordo internazionale. Da un lato,
quindi, tale ordinamento svolgerebbe le sue vicende nell’ambito
dell’ordinamento internazionale, e sarebbe soggetto alle regole di
soluzione dei conflitti tipiche di esso; d’altro lato, il trattato istitutivo
è stato reso esecutivo negli ordinamenti degli Stati membri attra-
verso un meccanismo di tipo normativo che costituisce il fonda-
mento giuridico della sua osservanza. In questo ambito, l’ordina-
mento dell’Unione troverebbe quindi limite nelle potenzialità
giuridiche dell’atto che ne assiste l’attuazione.
A queste prospettive, tuttavia se ne aggiunge una ulteriore.
Secondo una visione accolta dalla giurisprudenza della Corte di
giustizia ( ), infatti, l’accordo originario costituirebbe solo il fonda-
6
mento storico di un ordinamento che si sarebbe successivamente
affermato per forza propria, assorbendo cosı̀, in una prospettiva
federalista, gli ordinamenti degli Stati membri. Nei confronti di essi,
quindi, l’ordinamento dell’Unione costituirebbe un ordinamento di
carattere originario, e detterebbe proprie regole di conflitto atte a
sostituire quelle di diritto internazionale o quelle del diritto interno
degli Stati ( ).
7
Ora, il fatto è che ciascuna di tali prospettive è dotata di una sua
validità, e la questione del carattere originario o derivato dell’ordi-
namento dell’Unione sembra quindi una tipica questione priva di
significato giuridico, che cioè non ammette una soluzione univoca.
Peraltro, mentre ciascun ordinamento, quello dell’ordinamento del-
l’Unione e quello degli Stati membri, rivendicano un proprio potere
di determinare autonomamente la soluzione dei conflitti di sovra-
( ) Si veda, fra le prime, la celebre sentenza Van Gend en Loos, 5 febbraio 1963,
6
causa 26/62, in Racc., 1963, p. 1 ss.
) Questa ricostruzione non è peraltro una novità nel panorama del pensiero
( 7
scientifico intorno al carattere originario degli ordinamenti federali. Questi indubbia-
mente, qualora formati a seguito di un processo di aggregazione di Stati in precedenza
sovrani, traggono la propria origine da un accordo fra Stati sovrani, e non costituireb-
bero mai, in senso storico, ordinamenti originari. Di qui l’idea, che si è sviluppata già in
relazione al processo di aggregazione federale degli Stati tedeschi nella metà del XIX
secolo, che l’atto istitutivo costituisce solo in senso storico il fondamento giuridico del
nuovo ordinamento, che si sarebbe da esso sviluppato per forza propria, affrancandosi
, Das Staatsrecht des
quindi dalla volontà dei suoi fondatori. Cfr., ad esempio, Z ORN
deutschen Reiches, Berlin, Guttentag Verlagsbuchhandlung, 1895, p. 72 s.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
250 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
nità, e con ciò affermano quindi la propria originarietà, d’altra parte,
essi si presuppongono reciprocamente ed ammettono anzi un intrec-
cio delle proprie dinamiche normative ed una ricostruzione giuridi-
camente unitaria delle rispettive vicende. Essi non appaiono quindi
né ordinamenti pienamente autonomi né ordinamenti pienamente
integrati. Inoltre, il loro rapporto appare singolarmente rovesciato
rispetto a quello tipico di un ordinamento composto, nel quale i
singoli ordinamenti godono di autonomia nell’ambito di sfere di
competenza predeterminate dall’ente sovrano. Questo afferma la
propria sovranità proprio attraverso il potere di determinare auto-
ritativamente, e di tutelare attraverso propri meccanismi di garanzia,
l’ampiezza delle sfere di competenza di ciascun ente.
La definizione dell’ordinamento dell’Unione europea come or-
dinamento pluralista appare quindi assai singolare nella esperienza
giuridica contemporanea, nell’ambito della quale il concetto di
pluralismo viene solitamente impiegato al fine di definire rapporti
giuridici fra ordinamenti e non già rapporti giuridici all’interno di un
ordinamento.
3. Il monismo giuridico e la questione della sovranità.
Nell’evoluzione del pensiero giuridico, l’idea di un ordinamento
pluralista nel senso delineato sopra sembra assolutamente nuova.
Inutilmente se ne cercherebbe menzione in quella sintesi del pen-
siero pluralista tracciata da Santi Romano nel saggio su “L’ordina-
mento giuridico” ( ), ambiziosamente dedicato a classificare in ma-
8
niera analitica i vari possibili nessi che si possono stabilire fra un
ordinamento generale e i vari ordinamenti parziali che lo compon-
gono.
Il fatto è che, nel pensiero giuridico contemporaneo, il carattere
monista di un ordinamento giuridico assume valore dogmatico. Un
ordinamento è necessariamente monista nel senso che esso definisce
l’unica prospettiva giuridica nella quale trovano soluzione i conflitti
fra le singole norme di esso. E ciò, si badi, vale sia per gli ordina-
menti “semplici”, che, a maggior ragione, per gli ordinamenti “com-
posti”. Anzi, la definizione di ordinamento composto è possibile
a
( ) L’ordinamento giuridico, 2 ed., Firenze, Sansoni, 1946.
8 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 251
ENZO CANNIZZARO
logicamente solo a patto che tutti gli ordinamenti che concorrono
alla sua formazione ammettano una soluzione univoca dei conflitti
interordinamentali, generalmente quella che assicura priorità alle
norme e alle procedure dettate dagli ordinamenti centrali.
Questo concetto sembra espresso nella nozione di sovranità
intesa in senso normativo, come unitarietà concettuale di un ordi-
).
namento (
9
Intesa in questo senso, la nozione di sovranità rischia tuttavia di
smarrire la sua utilità in un ordinamento, quale quello europeo, che
si connota appunto per l’assenza di unitarietà concettuale, e per la
mancanza di un organo dotato del potere di determinare autorita-
tivamente la sfera di competenza di ciascuna istituzione dell’ordina-
mento e, per questa via, di assicurare una soluzione univoca dei
conflitti giuridici.
Questa conclusione induce quindi a chiedersi se effettivamente
il concetto di sovranità sia necessariamente legato all’idea dell’uni-
tarietà concettuale degli ordinamenti statali; se cioè vi sia una
connessione necessaria fra Stato e ordinamento giuridico, tale che
non siano pensabili forme di organizzazione del potere politico al di
fuori del modello statalistico. La questione sarà esaminata, nel
presente scritto, in una dimensione prevalentemente logica. Ci si
chiederà, in altri termini, quali siano i motivi per i quali il concetto
di sovranità, sorto per indicare essenzialmente rapporti di tipo
politico, abbia vista trasformata la propria essenza concettuale fino
ad assumere un contenuto di tipo giuridico. Ci si chiederà quindi se
la nozione di sovranità normativa, intesa come unitarietà giuridica di
un ordinamento, sia una nozione di tipo formale, inerisca cioè
necessariamente all’esistenza di un determinato ordinamento, ov-
vero se si tratti di una nozione di tipo storico, se cioè la sovranità
( ) Il concetto è espresso, con consueta forza sintetica da Z , Das Staatsrecht
9 ORN
…, cit., p. 68: “Allerdings wird diese staatsrechtliche Konstruktion im letzen Ende
immer zu der Alternative: Staat oder nicht Staat gedrängt”. E immediatamente dopo:
„Die beiden Begriffe Bundesstaat und Staatenbund aber unterscheiden sich dadurch,
daß ersterer ein Staat ist, letzterer nicht, dass ersterer ein einheitliche Persönlichkeit,
letzterer ein Verein mehrerer Persönlichkeiten ist“. Sul processo che ha portato all’iden-
tificazione fra sovranità e personalità dello Stato e per una discussione delle conseguenze
, Lo Stato immaginario, Milano, Giuffrè, 1986,
teoriche di tale identificazione, cfr. C OSTA
p. 241 ss. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
252 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
abbia assunto carattere normativo nell’ambito di una determinata
esperienza giuridica ed allo scopo di soddisfare esigenze storica-
mente contingenti.
Non sarà invece trattato l’ulteriore questione di vedere in quale
senso invece la nozione di sovranità possa acquistare rilievo nell’am-
bito dell’ordinamento dell’Unione europea.
4. La trasformazione del concetto di sovranità: la sovranità istituzio-
nale.
Al di là di episodici riferimenti ad un concetto normativo di
sovranità, tale concetto viene consapevolmente affermato nel conte-
sto della più generale opera di teorizzazione dell’identità fra Stato e
ordinamento giuridico. Uno dei momenti emblematici di tale ope-
razione è certamente l’evoluzione del pensiero giuspubblicista che si
è sviluppata in Germania nella seconda parte del XIX secolo. Pur se
analoghi percorsi concettuali sono propri anche di altre tradizioni
giuridiche, non vi è dubbio che l’analisi relativa all’evoluzione
concettuale che ha accompagnato il sorgere del nuovo Stato federale
tedesco è quella che consente con maggior nitore di seguire la
trasformazione del contenuto del concetto di sovranità. Conviene
quindi seguire questa evoluzione, sia pure per grandi linee e senza
dare all’analisi un improprio significato storiografico, avendo cura di
segnalare le varie tappe nelle quali essa si è dipanata.
Nella sua dimensione classica, la sovranità, concepita in fun-
zione di assicurare carattere di originarietà e di autonomia agli Stati
nazionali nei confronti delle pretese universalistiche imperiali, ha
mantenuto una spiccata connotazione istituzionale. Si trattava
quindi di un concetto essenzialmente politico, che assicurava al
nuovo sovrano un affrancamento da forme di sudditanza nei con-
fronti dell’imperatore, e, a sua volta, assicurava un solido titolo di
supremazia nei confronti del mondo feudale. Utilizzando categorie
contemporanee, il concetto di sovranità è stato elaborato al fine di
monizzare il potere politico del sovrano rispetto al precedente
pluralismo istituzionale, sottraendolo a qualsiasi forma di interfe-
renza, sia dall’alto, dalle pretese universalistiche, che dal basso, dalle
pretese centrifughe di autonomia dei poteri feudali. Di conseguenza,
il concetto di sovranità, sorto per descrivere l’assolutezza e la
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 253
ENZO CANNIZZARO
supremazia del potere regio, vedeva le sue vicende legate per secoli
a quelle della monarchia assoluta.
Questa origine storica del concetto di sovranità spiega perché da
esso rimaneva estraneo il diverso concetto di monismo normativo.
Vi sono per lo meno due spiegazioni per ciò: innanzitutto, nell’am-
bito delle prime monarchie assolute ciò che conta è assicurare al
sovrano il predominio politico, e non anche il monopolio della
produzione normativa. Per un certo tempo, infatti, la sovranità
istituzionale del sovrano convisse pacificamente con il pluralismo
normativo che caratterizzava i rapporti giuridici nella società da esso
). Ma anche quando l’assolutismo regio finı̀ con l’assor-
governata ( 10
bire la funzione di produzione giuridica, mai peraltro compiuta-
mente, l’esigenza di una nozione che indicasse distintamente l’uni-
tarietà dell’ordinamento giuridico non venne avvertita. Ciò per la
semplice ragione che la nozione di sovranità istituzionale, con la
caratteristica di onnicomprensività ed illimitatezza che vi era insita,
finiva con l’assorbire completamente ogni altro aspetto. Nell’ambito
di un’organizzazione statale priva di una interna articolazione di
poteri, quindi, la nozione di sovranità continuò ad essere una
nozione propria del pensiero politico, identificata con la pienezza,
l’illimitatezza, l’unitarietà concettuale del potere.
5. Segue. La separazione dei poteri e la questione della sovranità
normativa.
La prima grande sfida alla nozione di sovranità, e l’esigenza di
una distinzione concettuale fra la dimensione istituzionale e quella
normativa, è venuta quindi con il processo di dissoluzione del potere
assoluto del sovrano e con la distribuzione delle funzioni statali fra
più organi o enti di governo, ciascuno dotato di una propria
autonomia costituzionale. È questo il momento in cui si avverte
( ) Alla ricostruzione del pluralismo normativo medievale appare dedicata nella
10 , L’ordine giuridico medievale, Bari-Roma, Laterza, 1995;
sua interezza l’opera di G ROSSI , Civitas, Storia della
si veda specialmente a p. 223 ss. Su questi temi, cfr. inoltre C OSTA
e M , Storia del diritto
cittadinanza in Europa, Bari-Roma, Laterza, vol. I; S ORDI ANNORI
, Il privilegio dell’immunità, Milano,
amministrativo, Bari-Roma, Laterza, 2001; L ATINI
Giuffrè, 2001. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
254 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
l’esigenza di assicurare, al di là della distribuzione dei poteri, un
momento di sintesi nella gestione del potere politico che eviti una
frantumazione dell’unitarietà concettuale dello Stato.
Questo processo di trasformazione, peraltro ha assunto una
connotazione diversa nell’ambito delle varie tradizioni giuridiche. In
Francia e negli Stati Uniti la dottrina prospettò inizialmente una
concezione pluralista della sovranità, in relazione al processo di
distribuzione dei poteri, a favore di una pluralità di organi o livelli
di governo, nel senso di considerare titolare di poteri sovrani ciascun
organo statale, per poi tuttavia immediatamente passare ad identi-
ficare l’essenza della sovranità non nell’esercizio di singoli poteri, ma
nella sintesi del potere politico. Di qui l’idea, sopravvissuta fino ai
giorni nostri, che i singoli poteri vengono esercitati dagli organi che
ne sono titolari non in nome proprio, ma nel nome del popolo o
).
dell’unità personificata che fa capo allo Stato (
11
Una diversa e più marcata connotazione normativa ha invece
caratterizzato l’evoluzione del pensiero che ha accompagnato il
processo di aggregazione federale in Germania. Possiamo, per co-
modità espositiva, riconoscere tre diverse fasi. Una prima è rappre-
sentata dal riconoscimento dell’esistenza di sfere di competenza
costituzionalmente garantite come l’affermazione di un modello di
sovranità ripartita. Una seconda che tende ad affermare che non la
competenza, ma la competenza a determinare l’ampiezza delle ri-
spettive sfere di competenza distribuite ai vari organi o livelli di
governo, rappresenta l’essenza della sovranità. Una terza che, attra-
verso un processo ulteriore di astrazione, tende a considerare l’ar-
ticolazione delle competenze come una modalità del potere di
autodeterminazione dell’ordinamento giuridico, potere nel quale,
finalmente, verrebbe identificata la sovranità concepita come capa-
cità giuridica illimitata.
Di tale evoluzione concettuale, e dei suoi riflessi nella giuspub-
blicistica tedesca fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo,
conviene allora dar conto, sia pure per cenni sintetici, e con l’avver-
( ) Si veda, per tutti, la celebre affermazione di Madison contenuta nel Federa-
11
lista no. 46, (1787/88), “The federal and state Governments are in fact but different
agents and trustees of the people, instituted with different powers, and designated for
different purposes”.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 255
ENZO CANNIZZARO
tenza che essa, come sovente accade, non ha proceduto per via
lineare, ma attraverso un tortuoso percorso nel quale si possono
scorgere ravvedimenti e fughe in avanti, sul quale hanno pesato i dati
istituzionali e politici, e, non ultima, la profondità di pensiero dei
principali protagonisti.
6. Sovranità normativa e competenza normativa.
La dottrina tedesca perveniva ben presto ad una concezione
della sovranità ripartita nell’humus culturale dell’incipiente norma-
tivismo e pressata dalle esigenza storica di inquadrare nella dottrina
della sovranità il fenomeno di aggregazione su base federale.
In questo senso, il processo di aggregazione federale venne
inteso da Waitz, il quale appunto identificando sovranità e potere
assoluto, pervenne ad una concezione di sovranità divisa come
effetto dell’esistenza di una pluralità di sfere di competenza assoluta,
costituzionalmente garantita, nell’ambito dello Stato.
Nella sua opera Grundzüge der Politik, apparsa nel 1862, egli
espose questa teoria partendo dall’osservazione che “(f)ür den Bun-
desstaat wird also zunächst erfordert, daß ein bestimmter Theil des
staatlichen Lebens gemeinsam, ein anderer ebenso bestimmter den
einzelnen Gliedern überlassen ist”. Ricavandone da ciò la conclu-
sione che “jeder Theil auch für sich wirklich Staat ist. Im Staaten-
bund ist es die Gesamtheit nicht, im Staatenreich find es die Glieder
).
nicht; im Bundesstaat müssen es beide sein” ( 12
Il passo logicamente successivo è poi quello di dimostrare che le
due sfere di competenza godono di autonomia. “Es ist aber für jeder
Staat ein erstes Erfordernis, daß er selbständig sei, unabhängig von
). Waitz esclude quindi che
jeder ihm selbst fremden Gewalt” ( 13
l’organo centrale goda di questo requisito nella confederazione di
Stati, in quanto il suo potere deriva essenzialmente dall’accordo fra
i suoi membri: “Der Staatenbund ist ..niemals selber als ein Staat zu
( ) Grundzüge der Politik, Kiel, Ernst Homan Verlag, 1862, p. 164. Per un
12
inquadramento storico della teoria della sovranità ripartita, nonché per una critica di
, Allgemeine Staatslehre,
essa alla luce della insorgente dottrina normativista, v. R EHM
Freiburg, Mohr, 1899, p. 62 ss.
) Ibid., p. 165.
( 13 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
256 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
betrachten; den wie weit auch seine Competenz gezogen werde oder
wie Groß das Recht seiner leitenden Gewalt sei, das Maß und der
Grund derselben liegt in der Vereinbarung der Staaten, und in der
Uebertragung bestimmter Befugnisse, welche diese vorneh-
). Riguardo agli Stati federali tuttavia varrebbe un diverso
men” ( 14
principio. “Eine solche Uebertragung oder richtiger ein Aufgeben
bestimmter Rechte kann auch bei dem Bundesstaat seiner ersten
Begründung vorangehen. … Das ist aber nur ein einzelner histori-
scher Act, ganz verschieden von jener Begründung der staatenbun-
dlichen Gewalt, welche immer nur auf dem Grunde der Delegation
oder Bevollmächtigung beruht und sein eignes selbständiges Recht
).
in sich trägt” ( 15
Con indubbia modernità, quindi, Waitz concepisce lo stato
federale come autonomo ed originario, che si distacca dall’atto
istitutivo attraverso un processo di autoaffermazione. D’altra parte,
egli concepisce anche i singoli Stati come autonomi e originari:
“dieser darf ebensowenig seine Berechtigung von jenem empfangen,
wie umgekehrt der Gesammtstaat nicht erst in der Bereinigung der
Einzelstaaten die Wurzel und der Grund seiner Existenz findet”.
La reciproca autonomia giuridica delle due categorie di enti
comporta quindi una frammentazione della sovranità: “die Thäti-
gkeit, welche die Einheitsstaat ganz und ungetheilt umfaßt, ist hier
gewissermaßen gespalten; für jeden Theil giebt es eine besondere
Organisation, jeder von beiden hat eine besondere Sphäre, aber
innerhalb dieser Sphäre ist der eine so selbständig wie der andere.
Im Bundesstaat hat der Gesammtstaat und der Einzelstaat jeder ein
geringeres Gebiet als der Einheitsstaat, aber, innerhalb seines Be-
reichs ist das Recht weder des einen noch des andern schlechter als
das des letztern. Man kann diese Selbständigkeit mit einem in der
).
Politik übliche Namen nicht unpassend Souveränität nennen” (
16
Secondo Waitz dunque lo Stato federale, e la distribuzione di
competenze che in esso si realizza, rappresenta l’esempio migliore di
sovranità divisa, la cui somma ricostituisce la unitarietà dei poteri
sovrani: “nur da ist ein Bundesstaat vorhanden, wo die Souveränität
( ) Ibid.
14 ) Ibid.
( 15 ) Ibid., p. 166.
( 16 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 257
ENZO CANNIZZARO
nicht dem einen und nicht dem andern, sondern beiden, dem
Gesammtstaat (der Centralgewalt) und dem Einzelstaat (der Ein-
). Di
zelstaatsgewalt), jedem innerhalb seiner Sphäre, zusteht” ( 17
conseguenza, Waitz espressamente indica come la sintesi della so-
vranità coincida con la somma dei poteri assegnati a ciascuna delle
sue parti. Non vi è invece in Waitz alcun riferimento alla necessità di
concepire regole di soluzione dei conflitti di competenza. Ciò in
quanto per egli la sovranità risiede proprio nella esistenza di sfere di
competenza costituzionalmente garantite.
Riferimenti al criterio della competenza come elemento per
affermare la coesistenza di più sfere di sovranità ripartite non
mancano nelle più tarde ricostruzioni, le quali tuttavia non hanno
certo la nettezza della concezione waitziana, e paiono semmai costi-
tuire un ponte fra questa e le dottrine che tendono a ricostruire
l’unitarietà concettuale della sovranità.
Fra queste, conviene ricordare la teoria della sovranità relativa,
). Meyer parte da una rigorosa con-
sviluppata da Georg Meyer (
18
cezione normativa della sovranità: “Die Einführung Konstitutionel-
ler Verfassungen hat den Gedanken von der Schrankenlosigkeit des
Herrschers beseitigt… Durch die weitere Ausbildung der juristi-
schen Lehre von Staat sind die Personen des Staates und des
Herrschers schärfer voneinanderer geschieden worden”, per conclu-
dere tuttavia nel senso dell’esistenza di più sfere di competenza
normativa che si limitano reciprocamente, e non abbisognano quindi
di una norma di soluzione dei conflitti: “Souveränität ist auch
innerhalb eines beschränkten Bereiches und ohne Kompetenz-Kom-
petenz denkbar. Zur Souveränität eines Gemeinwesens wird nur
erfordert, daß die demselben zustehenden Kompetenz ihm ohne
seinen Willen nicht entzogen werden dürfen”. Meyer si avvicina cosı̀
all’idea che ogni titolare di potere costituzionalmente autonomo
sarebbe portatore di una sovranità parziale.
In un ordine di idee parzialmente analogo, Bluntschili, signifi-
cativamente, rigetta l’idea che la separazione dei poteri dia origine a
( ) Ibid.
17 ) Lehrbuch des Deutschen Staatsrechtes, Vierte Auflage, Leipzig, Duncker und
( 18
Humblot, 1895, p. 15 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
258 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
sfere di sovranità divisa, ma ammette che, invece, in una federazione
di Stati coesista una pluralità di entità parzialmente sovrane ( ).
19
Impropriamente tuttavia si vedrebbe in Bluntschli un epigono
delle teorie della sovranità divisa. In effetti, Bluntschli afferma
espressamente che la sovranità non appartiene né al sovrano né al
popolo, ma all’organizzazione giuridica del popolo, e cioè al potere
costituente. È solo l’esistenza di forme accentuate di autonomia in
Stati composti che induce Bluntschli ad ammettere la coesistenza di
enti sovrani nell’ambito di una forma composta di organizzazione
(melius) di divisione del potere politico.
7. La sovranità normativa come capacità di produzione giuridica.
L’identificazione della sovranità con la competenza doveva
avere come conseguenza che l’identificazione della sintesi della
sovranità, ed il rigetto quindi delle dottrine della sovranità divisa,
comportava la necessità di procedere per astrazione, ma sempre in
termini normativi. Non bastava più, in altre parole, per superare il
dilemma della sovranità divisa, l’affermazione che la sovranità ap-
partiene allo Stato o al popolo. Tale affermazione è destinata a
rimanere priva di significato qualora non vi si accompagni l’indivi-
duazione di un organo o di un processo atto a risolvere i conflitti di
competenza sul piano normativo. Tale individuazione esigeva,
quindi, una mutazione concettuale della nozione di sovranità, che
imputasse all’ordinamento giuridico il compito di dettare le regole di
soluzione dei conflitti, in maniera quindi da assicurare attraverso un
meccanismo normativo quell’unitarietà concettuale che non era
assicurata altrimenti dall’esistenza di una pluralità di enti dotati di
competenze. Occorreva allora por mano di nuovo al concetto di
sovranità e dimostrare che l’esistenza di sfere di competenza riser-
vate non si traduceva, come nel vecchio ordine medievale, nella
pretesa di assolutezza e nella libertà da vincoli. Occorreva allora
dimostrare il monismo dell’ordinamento non solo dal punto di vista
strutturale dell’unità istituzionale, ma anche, e soprattutto, ora che
quell’unità istituzionale non c’era più, dal punto di vista normativo.
( ) Lehre vom modernen Staat, Stuttgard 1886, Neudruck, Scientia Verlag,
19
Aalen, 1965, I, p. 563 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 259
ENZO CANNIZZARO
Quest’opera, che ha contribuito ad una radicale trasformazione
delle categorie giuridiche del diritto pubblico dell’epoca, è stata
essenzialmente compiuta dalla giuspubblicistica tedesca successiva
all’istituzione dell’impero su base federale. Da essi venne affermata
senza reticenze l’idea che il vero sovrano non è il re né il popolo né
alcun altro ente, ma l’ordinamento obiettivo, il quale si esprime in
regole di attribuzione del potere e di soluzione dei conflitti che ne
derivano, con pretesa di esclusività e di validità per tutto la sfera dei
rapporti da esso regolata.
In questa fase storica si assiste quindi alla inversione del rap-
porto fra potere politico e diritto, e all’affermazione che, se il potere
politico crea diritto allo stato iniziale, è poi l’ordinamento giuridico
a dettare le regole per l’ordinato svolgimento di esso. Di questo
processo concettuale, la sovranità ne accompagna l’evoluzione e si
adegua assumendo una dimensione ormai consapevolmente norma-
tiva. La sovranità diviene quindi lo strumento di affermazione del
monismo giuridico statale.
Fra i più radicali difensori della necessità di unificare l’ordina-
mento giuridico e di imputare ad esso la titolarità della sovranità vi
è Zorn. Coerentemente con la sua rigorosa visione monista dell’espe-
rienza giuridica, Zorn approda ben presto ad una concezione uni-
taria della sovranità come insieme delle norme che disciplinano
l’esercizio del potere politico dello Stato.
La critica di Zorn alla teoria della sovranità divisa poggia su due
argomenti. Il primo prevalentemente istituzionale:
“Souveränität ist höchste Gewalt. (Es ist nicht) begrifflich mö-
glich, daß die Souveränität geteilt werde, denn in diesem Falle wäre
eben keine höchste Gewalt vorhanden” ( ).
20
La seconda linea argomentativa è più propriamente normativa.
Essa procede dalla distinzione di Jellinek fra Bundesstaat e Staa-
tenbund, per affermare che, nella seconda categoria, la sovranità
appartiene interamente all’ente centrale: “(geht) die Einzelsouve-
ränität als solche unter und existiert Staatsrechtlich nur mehr als
Bestandteil der in der Centralgewalt ruhenden Gesamt Souveräni-
tät. Sobald der Verzicht auf die Einzelsouveränität durch Aufri-
chtung der Centralgewalt praktisch geworden ist, ist die etwa
( ) Das Staatsrecht des deutschen Reiches, cit., p. 65.
20 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
260 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
vorher eingegangene vertragsmäßige, auf jenen Verzicht gerichtete
Verpflichtung erfüllt, der Vertrag existiert nur mehr historisch, hat
). D’altra
aber keinen aktuellen juristischen Inhalt mehr…” (
21
parte, “Es kann folglich im Bundesstaat von Erfüllung oder Ver-
letzung der Verträge, Austritt aus dem Bund wegen Nichterfüllung
von Vertragspflichten, Auslösung des Bundesvertrages juristisch
keine Rede sein: der Vertrag kann nicht ausgelöst werden, denn er
existiert überhaupt nicht mehr”. Per concludere: “alle Streitigkei-
ten werden in inappellabler Weise von den geordneten höchsten
Instanzen der centralen Staatsgewalt entschieden, die zur Dur-
chführung ihrer Entscheidungen mit allen Mitteln staatsrechtlichen
).
Zwanges ausgestattet ist” ( 22
Del tutto coerentemente con tale premessa, Zorn può quindi
finalmente concludere: “Die Souveranetät findet ihren prägnante-
sten Ausbruch in der Setzung des Rechtes … Der das Recht setzt, ist
)”. Con ciò, Zorn suggella definitiva-
Inhaber des Souveranetät (
23
mente la sua concezione della assoluta identità fra diritto e sovranità.
Se questo appare comune anche ad altri autori, quel che pare
peculiare in Zorn è la franca affermazione del carattere solo storico
della trasmissione di sovranità da parte dei singoli Stati all’Unione.
Un punto che rimane peraltro problematico nella dottrina di Zorn è
che in questa non sembra esservi posto per sfere autonome di
competenza. Se cioè la sovranità coincide con il potere di produ-
zione di norme, e, quindi, con il potere di modificare l’ordinamento
giuridico, non sembra residuare uno spazio significativo per la
differenza concettuale fra Stato unitario e Stato federale. Anche
nell’ambito delle esperienze di tipo federale, infatti, la coincidenza
fra sovranità e diritto travolge potenzialmente ogni forma di com-
petenza costituzionalmente riservata. Questa conseguenza del mo-
nismo estremo nella concezione zorniana dell’ordinamento giuridico
fa di essa la opposizione ideale al concetto di pluralismo che ha
).
ispirato la dottrina precedente (
24
( ) Ibid., p. 72.
21 ) Ibid., p. 75.
( 22 ) Ibid., p. 76.
( 23 ) Con indubbia modernità, Zorn definisce le due conseguenze della propria
( 24
teoria applicata ai rapporti fra ente federale e Stati membri:
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 261
ENZO CANNIZZARO
Si può pensare che l’affermazione di un concetto normativo di
sovranità sia stato agevolato in Zorn dalla sua generale concezione
monista dell’esperienza giuridica, nella quale quindi una divisione di
sovranità è inconcepibile cosı̀ come è inconcepibile una contraddi-
zione fra proposizioni giuridiche ( ). Peraltro, le due premesse dalle
25
quali egli muove, quella riguardante il carattere monista dell’espe-
rienza giuridica interna rispetto a quella internazionale, e la conce-
zione normativa della sovranità non appaiono facilmente conciliabili
a meno di non pervenire ad una sorta di monismo a prevalenza del
diritto interno, alla quale peraltro Zorn, pur evidenziando una certa
contiguità, non arrivò mai espressamente.
8. La sovranità come norma di soluzione dei conflitti.
Questa ambiguità appare invece completamente scomparsa nel
sistema concettuale sviluppato da Hänel, Laband e Jellinek. È in
questa fase che si concepisce espressamente la sovranità non più
come diritto o come il potere di produrlo, ma come il potere di
stabilire regole per la soluzione delle sue antinomie.
Hänel, pur riconoscendo la coerenza sul piano logico della
dottrina federalista della sovranità divisa, finiva tuttavia con l’affer-
marne l’impossibilità pratica di attuarla attraverso una rinuncia ad
una regola o ad un procedimento di soluzione dei conflitti di
competenza: “Die Annahme ist ein Irrtum, als ob aus dem abstrak-
ten Begriffe Herrschaft und dem abstrakten Prädikate des ‘höch-
sten’, ‘suveränen’, die Unmöglichkeit logisch gefolgert werden
I. “Bundesrecht bricht Landesrecht: bei Widerspruch zwischen dem von der
Centralgewalt gesetzten Recht jeden Grades und dem von den Einzelstaaten gesetzten
geht das erstere unbedingt vor.
II. Die Centralgewalt steht sowohl den Einzelstaaten als den sämtlichen Staatsan-
gehörigen herrschend gegenüber: sie bedarf für ihre Rechtssätze keiner Vermittlung der
Einzelstaaten, kann jedoch mit Durchführung derselben die letzteren jederzeit und in
jedem Umfang betrauen” (Ibid., p. 86).
Difficile non scorgere analogie con la dottrina del primato e della diretta applica-
bilità oggi applicata nell’ordinamento dell’Unione europea. Solo che, nella particolare
sistemazione teorica dell’esperienza giuridica federale data da Zorn tali elementi sono
corollari inscindibili dal principio di sovranità.
) Concezione espressa in particolare nell’opera Die Deutschen Staatsverträge, in
(
25
Z. Staatsw., 1880, p. 1 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
262 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
könnte, daß zwei souveräne Herrschaften auf demselben Territor
und für dieselbe Volksgemeinschaft nebeneinander bestehen könn-
ten. In abstrakter Betrachtung läßt sich ohne jeden Widerspruch
eine vollkommene sachliche Trennung der Aufgabe und damit des
Wirkungskreises zweier Gemeinwesen denken und für jedes dieser
Gemeinwesen die Selbstgenugsamkeit, die Ausstattung mit allen für
seine Aufgabe notwendigen und darum innerhalb seines Wirkungs-
kreises höchsten Rechts- und Machtmitteln. Die formale Logik kann
der Bundesstaatstheorie der federalisten, Tocquevilles, Waitz’ und
deren Schule nicht entgegengestellt werden. Das, was dieser Theorie
allein entgegengestellt werden kann, ist der doppelte Nachweis, daß
ihre Auffassung mit der realen Natur, mit den konkreten Aufgaben
des Staates, wie sie der Einheitsstaat aufweist, unvereinbar sei, daß
mithin, wenn der Bundesstaat einen solchen Parallelismus aufwiese,
der Bund und die Einzelstaaten Staaten dem vollem Begriffe nach
nicht sein könnten, sowie daß das positive Recht des Bundesstaates
). Egli per-
die Auffassung der Waitzschen Schule zurückweist” ( 26
veniva quindi alla sua nota concezione secondo la quale non solo
l’ente federale o gli enti federati costituirebbero Stato, bensı̀ l’unione
organica fra di loro, nella quale, tuttavia, solo al primo spetterebbe
la sovranità in quanto dotato del potere di conformare la sfera di
competenza dei secondi: “Die auf dieser Grundlage herrschende
Auffassung erkennt es allerdings als in der Natur des Bundesstaates
und im positiven Rechte begründet an, daß die Einzelstaaten als
solche in einem mannigfachen Abhängigkeitsverhältnis und in viel-
seitiger Wechselwirkung mit der Centralgewalt stehen, daß sie aus
dem Gesichtspunkte einer Betrachtung des Staates als einer objek-
tiven Institution wie die beiden sich ergänzenden Hälften eines
). E, più avanti, “Mit der Kompe-
Staatswesens sich verhalten” (
27
tenz-Kompetenz ist dem Reiche die höchste und umfassendste
Gewalt gegeben, die von ihm auf Grund der Verfassung ausgesagt
werden kann Sie schließt den Kreis der Befugnisse ab, die den Inhalt
der Reichsgewalt ausmachen. Sie gibt von Standpunkt der Kompe-
tenz aus die letzte Entscheidung, ob und in welchem Sinne das
( ) Deutsches Staatsrecht, I, Leipzig, Duncker und Humblot, 1892, p. 803 ss.
26 ) Ibid., cit., p. 63.
( 27 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 263
ENZO CANNIZZARO
wissenschaftliche Recht besteht, das deutsche Reich als Gesamtheit
).
und in seinen Gliedern als Staat zu behaupten” (
28
Hänel conclude quindi: “Aufgabe des Reiches kraft seiner
Kompetenz-Kompetenz ist es, der oberste Wächter und Bürge dafür
zu sein, daß den Anforderungen der Nation an den Staat, von deren
Erfüllung seine geistige und wirtschaftliche Kultur abhängt, volles
Genüge geschehe und demgemäß auch der Wirkungskreis der
).
Einzelstaaten sich gestalte” ( 29
È nota la critica portata da Laband nei confronti di questa
dottrina, della quale pure egli sembra condividere la soluzione.
Secondo Laband, la concezione organicistica dello Stato finisce con
il ridurre l’autonomia degli enti federali alla stregua di altri organi
dello Stato centrale ( ).
30
Laband sviluppa quindi una diversa concezione del rapporto fra
Stato e sovranità, partendo dalla riformulazione della dottrina della
sovranità come competenza normativa, per quindi affermare che non
nell’esistenza di una forma di competenza normativa autonoma, né nel
sistema organizzato delle competenze e funzioni dello Stato, bensı̀
nella competenza della competenza risiede l’essenza della sovranità.
In riferimento alla concezione waitziana, Laband osserva quindi
che “(e)benso ist es eine Chimäre, die Kompetenz der Gesamtstaa-
tsgewalt in der Art von der Kompetenz der Einzelstaatsgewalt
abgrenzen zu wollen, daß kein Gebiet übrig bleibt, für welches es
zweifelhaft ist, welcher Staatsgewalt die Kompetenz zusteht und daß
die Abgrenzung für alle Zeit unabänderlich dieselbe bleibt. Es
entsteht also auch hier die Frage, wer hat den Zweifel über die
( ) Ibid., p. 793.
28 ) Ibid., p. 797.
( 29 ) “… auch der Gliedstaat wichtige und umfassende staatliche Aufgabe zu
( 30
erfüllen und zu diesem Zweck kraft eigenen Recht obrigkeitliche Herrschaftsbefugnisse
seinen Untertanen gegenüber hat, so sind allerdings beide, sowohl der Bundesstaat als
der Gliedstaat ‘in ihrer Sonderstellung betrachtet’ Staaten; nur daß die Gliedstaaten
nicht souverän, sondern dem Bundesstaat unterworfen sind. Wenn man dagegen beide
zusammen nur als den Staat gelten lassen will, wenn man im Bundesstaat einen
Gesamtorganismus erblickt, in welchem bestimmte Funktionen den Einzelstaaten zu-
gewiesen sind, so geht der begriffliche Unterschied zwischen dem Bundesstaat und dem
dezentralisierten Einheitsstaat verloren und es erscheinen die Einzelstaaten als Einri-
chtungen des Bundesstaat, als Teile seiner Organisation” (Das Staatsrecht des deutschen
a ed., Tübingen, 1911, Neudruck, Scientia Verlag, Aalen, 1964, p. 82).
Reiches, 5 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
264 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Kompetenzgrenze zu entscheiden und wer hat über eine Verände-
rung der Kompetenz zu befinden. Weisen die Einzelstaaten durch
ihren Willen dem Bunde die Grenzen seiner staatlichen Befugnisse
zu oder empfangen sie umgekehrt von der Zentralgewalt die rechtli-
che Begrenzung ihrer Willenssphäre? Nur eines von beiden ist
möglich und die Beantwortung der Frage enthält zugleich die
Entscheidung, wer souverän ist, die Zentralgewalt oder der Ein-
). Sarebbe difficile immaginare una più chiara percezione
zelstaat” (
31 ).
della sovranità come regola di soluzione dei conflitti ( 32
9. La sovranità normativa come autodeterminazione dell’ordina-
mento giuridico.
Compimento teorico di questa evoluzione, e sintesi dell’unifica-
zione concettuale della sovranità interna e di quella internazionale
appare la dottrina delineata da Jellinek. Questi, che pure aveva
accolto inizialmente la concezione della sovranità come Kompetenz-
Kompetenz, ed aveva anzi contribuito in maniera assai accentuata a
svilupparne le conseguenze applicative, perveniva poi ad una nuova
nozione di sovranità, destinata, nei suoi intenti, a fornire la saldatura
fra attività normativa interna ed attività normativa esterna dello
Stato.
( ) Das Staatsrecht des deutschen Reiches, cit., p. 55 ss. Conviene notare come nel
31
sistema concettuale di Laband scompare ogni riferimento alla concezione istituzionale
della sovranità, considerata come un relitto dell’epoca precedente. Si veda, ad esempio,
la serrata critica alla dottrina di Preuß: “Neuerdings hat Preuß … die Verwendung der
Souveränitätsbegriffs, den er für die radix malorum der ganzen Wissenschaft des
öffentlichen Rechts hält, als fehlerhaft, wertlos und irreführend bezeichnet. Unter
Souveränität versteht er aber die schrankenlose Gewalt des absoluten Staates. Insoweit
ist seine Kampf ein Streit gegen Windmühlen; denn darüber sind alle einig, daß eine
derartige Gewalt nicht nur für den heutigen Staatsbegriff nicht wesentlich ist, sondern
überhaupt nicht verwirklicht werden kann” (ibid., p. 74, nota 1).
) L’identificazione della sovranità in un potere specifico, quello di dettare le
(
32
regole di soluzione dei conflitti, consente quindi a Laband di costruire i criteri di
attribuzione della sovranità secondo un meccanismo “a soglia (tutto o niente)”. Si veda
la critica, ammirabile per concisione, alla dottrina della sovranità relativa di Meyer ed
altri: “Der Versuch … den Gliedstaaten eine verminderte Souveränität beizulegen, ist
nicht zur lösung des Problems geeignet, da eine Verminderung der Souveränität eine
Negation derselben ist” (ibid., p. 58).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 265
ENZO CANNIZZARO
Nella sua più matura analisi della dinamica giuridica pubblici-
sta, Jellinek sottopone a critica la concezione della sovranità come
competenza della competenza partendo dall’assunto che, in questo
sistema concettuale, il potere politico è illimitato, mentre, dall’os-
servazione empirica egli deduce l’osservazione di come esso sia
limitato dall’ordinamento giuridico, che vincola bilateralmente sud-
diti e Stato. Nella esclusiva capacità dell’ordinamento giuridico di
porre i vincoli giuridici all’esercizio del potere politico Jellinek vede
quindi il carattere essenziale della sovranità: “Ausschließliche Ver-
pflichtbarkeit durch eigenen Willen ist das juristische Merkmal des
souveränen Staates. Souveränitet ist demnach die Eigenschaft eines
Staates, kraft welcher er nur durch eigenen Willen rechtlich gebun-
). Di conseguenza, la sovranità non equivale a
den werden kann” (
33
potere assoluto. Si tratta bensı̀ di un potere giuridicamente vincolato
nelle forme volute dall’ordinamento: “Aus dieser Definition folgen
logisch alle die Eigenschaften, in welchen entweder das Wesen der
Souveranetät gesucht wurde, oder sie ihren prägnantesten Ausdruck
finden soll. Es ergibt sich aus den festgestellten Begriffe, wie unsere
Entwicklung soeben gezeigt hat, dass die Souveränetät die höchste
und unabhängige Mach in sich schliesst. Es ergibt sich, dass der
Souveräne Staat innerhalb der im durch seine Natur gezogenen
Grenzen seine Competenzen feststellen kann. Es ergeben sich säm-
mtliche Hoheitsrechte, d.h. die oberste normierende Thätigkeit des
Staates nach allen Richtungen des staatlichen Lebens, als Conse-
quenz des Souveränetäsbegriffes. Es ergibt sich ferner aus demsel-
ben die Untheilbarkeit der Souveränetät; ein ausschließliches Recht
kann nicht getheilt werden, sonst wäre es eben nicht ausschließli-
ch.… Endlich ergibt sich die Ewigkeit der Souveränetät, denn es ist
).
keine Macht vorhanden, die ihr eine Befristung setzen könnte” ( 34
), questo concetto era poi precisato:
Nella sua Teoria generale ( 35
“Potere sovrano, adunque, non è onnipotenza statale: esso è una
forza giuridica e perciò vincolata dal diritto. Beninteso esso non
( ) Die Lehre von den Staatenverbindungen, Wien, 1882, Neudruck, Scientia
33
Verlag, Aalen, 1969, p. 34.
) Die Lehre…, cit., 34 s.p.
( 34 ) Allgemeine Staatslehre, trad. it., La dottrina generale del diritto dello Stato,
( 35
Milano, Giuffrè, 1949. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
266 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
tollera alcun limite giuridico assoluto. Lo Stato può liberarsi da
qualsiasi vincolo impostosi da se stesso, però soltanto nelle forme del
diritto e imponendosi nuovi limiti. Non i singoli limiti, la limitazione
è ciò che vi è di costante; e come non esiste lo Stato sovrano
assolutamente limitato, cosı̀ del pari non esiste giuridicamente lo
Stato sovrano assolutamente illimitato”.
La concezione di Jellinek appare straordinariamente moderna ai
). Nel configurare cosı̀ l’essenza della sovranità nella
nostri occhi (
36
capacità dello Stato secondo il suo proprio ordinamento giuridico,
Jellinek sembra relativizzare l’originaria assolutezza del concetto,
dissolvere il suo riferimento ad uno Stato ideale, e inquadrarla
nell’ambito di dinamiche ordinamentali concretamente presenti, in
un dato momento storico. La sovranità cessa quindi di avere un
contenuto immutabile nel tempo e in riferimento ai vari modelli di
Stato, per assumere contenuto variabile in relazione ai singoli ordi-
namenti statali. La concezione di Jellinek si colloca quindi in una
sfera di contiguità concettuale rispetto all’idea, più moderna, che la
sovranità coincida con il potere dello Stato di costituire e modificare
le regole di fondo del proprio ordinamento giuridico.
I rapporti fra la concezione di Jellinek e la classica concezione
labandiana sono del resto assai stretti; si può dire che la prima
comprende in sé la seconda, senza contraddirla: “sovranità è la
capacità di esclusiva autodeterminazione giuridica; e perciò soltanto
lo Stato sovrano, entro i limiti da esso stesso fissati o riconosciuti,
può regolare con assoluta libertà il contenuto della sua competenza.
Lo Stato non sovrano, invece, si determina del pari liberamento,
però solo in quanto si estende la sua sfera statale. Possibilità di
( ) Jellinek estende tuttavia questa nozione anche alla sovranità di diritto inter-
36
nazionale. Anzi, l’intera concezione di essa è stata occasionata proprio dall’osservazione
della unitarietà concettuale della sovranità in diritto interno e in diritto internazionale.
Peraltro egli non concepisce, in un quadro teorico moderno, la sovranità statale come la
capacità di avvalersi di tutte le posizioni soggettive di diritto internazionale. Egli non
riproduce cioè il concetto di sovranità elaborato rispetto all’ordinamento interno, alla
luce dell’esistenza di un diverso ordinamento nel quale lo Stato si realizza. Ma continua,
con la dottrina prevalente dell’epoca, a considerare il diritto internazionale come fondato
sull’autodeterminazione e sull’autobbligazione dello Stato, con la conseguenza che la
nozione di sovranità finirebbe, portata a conseguenza, con il negare l’esistenza stessa
dell’ordinamento internazionale.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 267
ENZO CANNIZZARO
determinarsi o di obbligarsi per sua volontà è la caratteristica di
qualsiasi autonomo potere di signoria: quindi anche allo Stato non
sovrano appartiene la potestà giuridica della sua competenza. Que-
sta potestà però, trova i suoi limiti nel diritto della comunità che gli
è sovrapposta. Di due Stati legati durevolmente fra di loro, quello
adunque che non può estendere, mediante la propria legge, la sua
competenza di diritto statale, ma incontra nell’ordinamento giuri-
dico statale dell’altro un limite all’accrescimento della propria com-
petenza, è lo stato non sovrano; mentre sovrano è quello che, per
mezzo della legge sua, può sottrarre all’altro delle competenze di
diritto statale” ( ).
37
10. La nozione normativa di sovranità in una prospettiva sistema-
tica.
L’identificazione della sovranità nelle regole di soluzione dei
conflitti, indicata qui indicata con la formula della sovranità norma-
tiva, non è quindi frutto di necessità logica. Essa si deve piuttosto
alla particolare evoluzione del pensiero giuridico, che abbiamo
seguito soprattutto in riferimento alla dottrina tedesca, nella seconda
metà del XIX secolo, in relazione al processo di aggregazione su
base federale dei vari Stati tedeschi. Tale processo induceva quindi
un profondo mutamento nelle categorie concettuali del diritto pub-
blico. Esso stabiliva infatti una ripartizione di competenze fra fede-
razione e Stati, e, quindi, determinava l’insorgere di un pluralismo
istituzionale in luogo della tradizionale concentrazione del potere
politico nelle mani del sovrano.
La trasformazione del concetto di sovranità è quindi avvenuta in
un processo simbiotico rispetto alla più generale tendenza dottri-
nale, orientata ormai decisamente in senso positivista verso l’identi-
ficazione dello Stato con il suo ordinamento giuridico e quindi con
la Costituzione che di esso costituisce il fondamento. L’essenza della
sovranità non poteva più essere identificata nel monopolio e nell’as-
solutezza del potere politico, dato che esso, per definizione, non
esisteva più. Di qui un progressivo processo tendente ad identificare
semmai la sovranità nelle regole dell’ordinamento atte a risolvere i
( ) Allgemeine Staatslehre, cit., p. 86.
37 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
268 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
conflitti fra poteri e, quindi, nel nuovo concetto di sovranità nor-
mativa.
Può apparire paradossale che la dottrina della sovranità norma-
tiva, imperniata su una rigida concezione monista dell’ordinamento
statale, abbia visto la luce contestualmente alla dottrina della plura-
lità degli ordinamenti giuridici, e, quindi, in parallelo rispetto all’af-
fermazione della separazione fra ordinamento interno e ordina-
mento internazionale. Si può rilevare, per accentuare l’apparente
paradosso, come alla affermazione della sovranità in senso norma-
tivo abbiano contribuito autori che hanno militato in campi diversi
quanto alla ricostruzione dei rapporti fra ordinamento interno e
ordinamento internazionale. Il paradosso si scioglie, tuttavia, se si
pensa che fra le due dottrine, quella della separazione fra ordina-
menti e quella della sovranità normativa, non vi è alcun contrasto.
Anzi, l’affermazione della sovranità normativa, e la contestuale
asserzione del carattere necessariamente monista dell’ordinamento
statuale, ha agevolato l’affermazione della separazione dell’ordina-
mento interno rispetto a quello internazionale. La precedente con-
cezione del monismo istituzionale, infatti, sancendo la concentra-
zione nelle mani del sovrano sia del potere normativo “verso
l’interno” che di quello “verso l’esterno”, finiva con il produrre una
saldatura fra ordinamento interno e ordinamento internazionale,
dato che il medesimo organo che aveva il potere di assumere
obblighi internazionali, era dotato egualmente del potere di modi-
ficare, in corrispondenza, l’ordinamento interno al fine di assicu-
). In questo senso, non vi è alcun contrasto fra
rarne l’attuazione ( 38
il monismo normativo affermato in riferimento all’ordinamento
interno, e il carattere di separazione, affermato rispetto all’ordina-
mento internazionale. Anzi, questi due aspetti si saldano in un unico
sistema concettuale che tende a “sigillare” l’ordinamento costituzio-
nale e a salvaguardarlo rispetto alle interferenze di altri ordinamenti.
In altri termini, il monismo normativo dell’ordinamento interno
serve proprio a tutelare l’insorgente pluralismo istituzionale, e ad
evitare che l’organo dotato del potere di assumere obblighi interna-
zionali potesse poi vincolare i comportamenti degli organi dotati del
( ) Sia consentito rinviare all’analisi contenuta nello studio Trattato internazio-
38
nale (adattamento al), in Enciclopedia del diritto, vol. XLIV, p. 1394 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 269
ENZO CANNIZZARO
potere normativo interno. Monismo dell’ordinamento statale e plu-
ralismo nei rapporti con l’ordinamento internazionale sembrano
quindi non solo compatibili, ma anzi, si configurano come due
articolazione di una unica prospettiva teorica.
È essenzialmente intorno a questo nuovo nucleo concettuale, rap-
presentato dal monismo dell’ordinamento statale, che i fondamenti
della natura giuridica dello Stato, e quindi il nuovo concetto della
sovranità in senso normativo, hanno trovato sistemazione teorica.
Contestuale alla definizione di una autonoma nozione di sovranità
normativa, infatti, è l’affermazione della natura statuale della federa-
zione, contrapposta alla confederazione, di natura convenzionale.
Nella federazione, e non nella confederazione, si realizzerebbe quel-
l’unicità della prospettiva giuridica che caratterizza l’organizzazione
dello Stato. Nella confederazione, invece, si avrebbe una pluralità di
ordinamenti, tutti egualmente dotati del potere di autodeterminare le
proprie regole di soluzione dei conflitti. La sfera di competenza della
confederazione, di conseguenza, non sarebbe autodeterminata, bensı̀
determinata dall’esterno, dalla comune volontà degli Stati membri. In
questa alternativa si riassumerebbe quindi l’alternativa posta rispetto
al problema della sovranità dalle forme composte di Stato: o si tratta
di uno Stato in senso proprio, dotato di sovranità e, quindi, capace di
determinare esso medesimo le regole di soluzione di conflitti che vi
insorgono all’interno, ovvero si tratta di un ente privo di statualità, in
quanto vi è presente una pluralità di prospettive giuridiche per la
soluzione dei conflitti, nessuna delle quali capace giuridicamente di
imporsi alle altre.
La visione dello Stato sovrano come ente provvisto necessaria-
mente di una prospettiva giuridica unitaria, come ente normativa-
mente monista, pur se istituzionalmente pluralista, ha proiettato la
propria influenza ben al di là della occasionale contingenza storica
che ne ha permesso la piena affermazione. Se si guarda infatti alle
moderne costituzioni statali, esse assumono a proprio presupposto,
talora affermato espressamente, talaltra taciuto, l’esistenza di un
). L’essenza
ordinamento giuridico concettualmente unitario ( 39
( ) Ed in questo ambito ricostruiscono la sovranità come norma tesa alla
39
soluzione dei conflitti non solo fra sfere di competenza, ma anche fra valori. È in questo
periodo che inizia ad affermarsi l’idea che la sovranità non è illimitatezza del potere
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
270 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
stessa della Costituzione si riassume, anzi, nel pensiero giuridico
moderno, nella fissazione delle regole di soluzione dei conflitti.
Attraverso la determinazione di procedure di legittimazione del
potere politico, di trasformazione dei conflitti politici in conflitti
giuridici, di processi di bilanciamento di interessi e valori dell’ordi-
namento, le moderne costituzioni statali sembrano provvedere alla
determinazione dell’unicità della prospettiva giuridica attraverso la
quale pervenire alla soluzione di conflitti.
11. Considerazioni conclusive.
Cosa si può trarre, in chiave contemporanea, da antiche dottrine
elaborate al fine di teorizzare l’unicità del potere statale in un
processo di aggregazione federale, quale quello occorso in Germania
sul finire del XIX secolo? In che senso esse rilevano rispetto ai
moderni processi di aggregazione su base sovranazionale, che deli-
neano un contesto culturale profondamente diverso?
Per rispondere a tale questione, occorre considerare che nel
processo di integrazione europea, come sovente accade, i mutamenti
istituzionali hanno preceduto l’evoluzione concettuale. Nel tentativo
di inquadrare i fenomeni di integrazione sovranazionale nell’ambito
delle categorie giuridiche dell’organizzazione del potere politico, la
dottrina si imbatte costantemente nel concetto di sovranità, e lo
intende, secondo tradizione, in senso normativo, come concetto che
simboleggia l’unitarietà concettuale dell’ordinamento giuridico. Di
qui lo smarrimento concettuale derivante dalla difficoltà di inqua-
drare in un quadro tradizionale la nuova esperienza giuridica del-
l’integrazione sovranazionale. La nostra analisi peraltro ci ha portato
a verificare come il concetto normativo di sovranità, che si riflette nel
carattere monista dell’ordinamento statale, ed ha assunto valore
dogmatico nella teoria dello Stato, sia emerso relativamente tardi
nell’esperienza giuridica ed al fine di reagire al pericolo di dissolu-
giuridico, ma entità concettualmente limitata dai diritti individuali. Si comincia quindi
ad affermare un concetto che sarà alla base del costituzionalismo del XX secolo: l’idea
che la sovranità non possa essere concepita come potere indipendente, ma trova invece
dei limiti, negativi o di scopo, nel rispetto di sfere giuridiche separate da essa, separate
cioè dal concetto di unità dell’ordinamento.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 271
ENZO CANNIZZARO
zione dell’unitarietà istituzionale del potere politico. Si tratta quindi
di una nozione non assoluta, ma profondamente influenzata dalla
contingenza storica, e dall’esigenza di approntare una reazione
teorica alla frammentazione del potere politico derivante dai pro-
cessi di separazione dei poteri e di articolazione del sistema statale su
più livelli di governo. Al caos concettuale che ne derivava, e alla
diluizione del monolitismo dello Stato assoluto veniva quindi posto
riparo con la ricerca di un monolitismo immaginario e con l’identi-
ficazione di un nuovo sovrano, costituito dall’ordinamento giuridico.
Collocate nel loro contesto, tali dottrine sembrano quindi di-
mostrare proprio che un ordinamento normativamente pluralista
non è logicamente inconcepibile. Dimostrare che una costruzione di
tal fatta sia anche storicamente praticabile oggi, in riferimento al
processo di integrazione europea, ed articolarne più precisamente i
contenuti, è compito che fuoriesce dall’oggetto di questo studio.
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MAURIZIO FIORAVANTI
IL PROCESSO COSTITUENTE EUROPEO
1. Alla ricerca del processo costituente europeo. — 2. Un po’ di comparazione: Europa
e Stati Uniti. — 3. Alcuni possibili esiti del processo costituente europeo.
1. Alla ricerca del processo costituente europeo.
Com’è ben noto, il Consiglio Europeo di Laeken, del 14 e 15
dicembre 2001, si è concluso con un’importante Dichiarazione sul
futuro dell’Unione Europea, che si ricollega ad un’analoga Dichiara-
zione approvata in margine al Consiglio di Nizza, del dicembre
dell’anno precedente, lo stesso in cui era stata proclamata la Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, preparata da un’appo-
sita Convenzione, a sua volta convocata sulla base delle risoluzioni
del Consiglio Europeo di Colonia, del giugno del 1999 ( ). Come
1
ben si vede, la concatenazione degli eventi pare essere piuttosto
serrata, e precisa: la decisione di preparare un Bill of Rights europeo,
con il metodo della Convenzione, e non direttamente con il tradi-
zionale strumento della Conferenza intergovernativa, la sua procla-
mazione, per quanto non corredata dalla decisione d’inserirlo nei
Trattati, dotandolo dunque d’immediata forza prescrittiva, ed infine
la contestuale messa in moto, proprio sulla base della Dichiarazione
citata all’inizio, di una nuova Convenzione, cui sono affidati compiti
ampi, che lasciano intravedere, sullo sfondo, l’esito della Costitu-
zione europea. È questa serie di eventi che ha provocato una
crescente diffusione, non solo nella pubblicistica politica e d’infor-
mazione più diffusa, ma anche nella letteratura specialistica, del
( ) Sulla Carta si è formata rapidamente una vasta letteratura. Avremo occasione
1
di tornare sul punto. Si veda intanto, anche per la ricchezza del materiale raccolto, Carta
, Padova, 2002.
Europea e diritti dei privati, a cura di G. V
ETTORI
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274 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
termine-concetto di ‘processo costituente europeo’, con il quale ci
confrontiamo in questo contributo.
Ma procediamo con ordine, proprio partendo dai contenuti
). In effetti, alla Convenzione, com-
della Dichiarazione di Laeken ( 2
posta, oltre che dal Presidente e dai due Vicepresidenti direttamente
designati dal Consiglio Europeo, da 15 rappresentanti dei Capi di
Stato e di Governo degli Stati membri, uno per Stato membro, da 30
rappresentanti dei Parlamenti nazionali, due per Stato membro, da
16 membri del Parlamento europeo e da due rappresentanti della
Commissione, è affidata la progettazione di una riforma dell’Unione
certo di non poco rilievo. Ricordiamo rapidamente i capitoli di tale
riforma, cosı̀ come indicati nella Dichiarazione: ridisegnare i criteri di
ripartizione delle competenze tra Unione e Stati membri, al fine di
renderli più semplici e trasparenti, e nella stessa linea rivedere la
materia degli strumenti normativi, ripensare le istituzioni europee ed
il loro funzionamento, dalla Commissione ed il suo Presidente, al
Consiglio, al Parlamento, fino poi a giungere al ruolo degli stessi
Parlamenti nazionali.
Dal documento sembra trasparire una preoccupazione princi-
pale, che riguarda la possibile carenza di legittimazione, soprattutto
di fronte ai cittadini, di un complesso d’istituzioni politiche ed
amministrative cresciute nel tempo secondo logiche, e pratiche
politico-istituzionali, non sempre del tutto comprensibili dal-
l’esterno, e la cui ulteriore crescita non può dunque più prescindere
dalla guida di criteri apertamente ridiscussi, e per ciò stesso più certi,
più accessibili e trasparenti. Pare cioè evidente che si è di fronte ad
uno di quei casi in cui si pensa di rispondere ai problemi della
legittimazione con un grande piano di razionalizzazione delle istitu-
zioni e del loro funzionamento, nella linea della trasparenza e della
efficienza.
Diciamo la verità: fino a qui non si respira affatto alcuna aria
‘costituente’, se non per l’ampiezza stessa della materia da conside-
rare, che praticamente coincide con la globalità delle relazioni
politico-istituzionali in cui l’Unione è coinvolta. Manca però l’altra
dimensione dell’opera costituente, che è quella della profondità,
( ) Prendiamo il testo della Dichiarazione dalla “Rivista di studi politici interna-
2
zionali”, LXIX, n. 1, gennaio-marzo 2002, pp. 11 e ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 275
MAURIZIO FIORAVANTI
importante per lo meno quanto l’ampiezza, se non di più: un grande
progetto di razionalizzazione, d’ingegneria istituzionale, che rimane
tale, ed in cui il principio democratico si esaurisce nella richiesta di
una maggiore trasparenza, a sua volta del tutto conseguente agli
aspetti procedurali, nella linea dominante della efficienza, non è
ancora un progetto costituente. Si deve però aggiungere che la
Dichiarazione di Laeken non si ferma affatto a questo punto. È anzi
l’ultimo paragrafo di questa parte della Dichiarazione, dedicata
appunto ad indicare i compiti della Convenzione, quello più inte-
ressante, ed anche quello che ha indubbiamente maggiormente
sollecitato a discutere la nostra problematica del processo costi-
tuente europeo.
È qui infatti che si parla, in modo finalmente esplicito, di una
“via verso una costituzione per i cittadini europei”. Ma ciò che più
conta è che alla possibilità di “un testo costituzionale”, o addirittura
di una “legge fondamentale”, si arriva senza sostanzialmente abban-
donare la logica efficientistica ed incrementale della riforma del-
l’Unione e dei suoi Trattati. Le parole-chiave continuano infatti ad
essere “trasparenza” e “semplificazione”, o magari quella, in sé
ancora più modesta, di “riordino”, ma è come se a furia di procedere
su quella via si finisse quasi fatalmente per salire una sorta di
gradino. Cosı̀, il medesimo “riordino” potrebbe condurre a distin-
guere tra “trattato di base” ed “altre disposizioni”, con procedure di
modifica e di ratifica differenziate tra l’uno e le altre: certo, anche
questa operazione potrebbe essere letta nel senso consueto della
semplificazione, ma ora è ben possibile anche una seconda lettura,
ovvero che lo sforzo sia quello d’individuare i caratteri essenziali del
legame creatosi con l’Unione, le finalità ed i principi fondamentali,
precedenti il ben più variabile mondo delle politiche, e dunque da
proteggere, rispetto a queste ultime, con procedure di modifica più
pesanti.
A questo punto, per mettersi sulla via della costituzione, basterà
convenire su due punti: che una lettura del genere è più che
plausibile, e che essa è molto vicina ad un autentico processo
costituente, inteso come quel processo che conduce proprio ad
individuare il ‘nucleo fondamentale’ di un determinato patto, nel
nostro caso da estrarre dalla complessa materia dei Trattati. In
questa linea, il passaggio successivo della Dichiarazione chiama la
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
276 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Convenzione a “riflettere sulla opportunità di inserire la Carta dei
diritti fondamentali nel trattato di base”, e dunque proprio in quel
‘nucleo fondamentale’, che in tal modo prenderebbe evidentemente
ancora più forma nel senso di una Costituzione europea. Cosı̀,
l’ultimo capoverso del nostro testo pare essere del tutto conseguente
a quanto fin qui espresso, e pone correttamente “il quesito se questa
semplificazione e questo riordino non debbano portare, a termine,
all’adozione nell’Unione di un testo costituzionale”, che individua
“gli elementi di base di tale legge fondamentale”, ovvero “i valori
che l’Unione coltiva, i diritti e i doveri del cittadino, i rapporti fra gli
). Certo, il tono conclusivo è
Stati membri all’interno dell’Unione” ( 3
fortemente dubitativo, ma proprio per questo la via è aperta, e
comunque non è più assolutamente obbligatoria la lettura nel senso
della mera razionalizzazione, della pura opera d’ingegneria istituzio-
nale.
Proprio in un contesto di questo genere, diviene allora partico-
larmente rilevante la ricerca di criteri che ci consentano d’indivi-
duare il punto oltre il quale l’opera di riforma dei Trattati acquista
autentico significato costituente, e diviene quindi processo costi-
tuente. È questo anzi il problema principale che abbiamo oggi nel
valutare l’ultima fase della evoluzione costituzionale europea.
Come sappiamo, al quesito posto è possibile rispondere in
modo drastico, negando che da una riforma dei Trattati, per quanto
incisiva, possa mai nascere una qualche costituzione. Nascerà piut-
tosto un altro Trattato, come i precedenti fondato sulla volontà degli
Stati membri, ma non una costituzione. Alla costituzione si potrà
arrivare solo uscendo dalla logica del trattato, delle relazioni di
diritto internazionale tra Stati sovrani, ed attivando dunque un vero
e proprio potere costituente del popolo europeo, capace d’imporre
la soluzione dello Stato federale europeo, con una riconduzione
drastica e pesante degli Stati membri a parti del medesimo Stato
federale europeo. Una simile impostazione, che chiude immediata-
mente il discorso della costituzione europea, rinviandolo ad un
domani francamente improbabile, è figlia di una ben precisa tradi-
zione costituzionalistica, dominante negli ultimi due secoli, di cui si
( ) Ibid., p. 27. Si veda anche A. P , La Dichiarazione di Laeken e il processo
3 ACE
costituente europeo, in “Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico”, 2002, n. 3.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 277
MAURIZIO FIORAVANTI
vuole evidentemente salvare il pilastro ritenuto più essenziale: che
non può esservi processo costituente senza potere costituente, o
meglio senza quel particolare potere che assume di norma la forma
del soggetto capace di volere, della Assemblea capace di esprimere
la volontà del popolo, o della nazione, ed ancora, che non può
esservi processo costituente senza fondazione, come suo esito ob-
bligato, di uno Stato sovrano, non importa se ascrivibile al tipo
federale o meno. In altre parole, il processo costituente presuppone
un’unità politica capace di volere, e produce, a sua volta, un’unità
politica capace di agire, nella tradizione dello Stato nazionale uni-
).
tario (
4
È inutile ora spendere troppe parole per concludere su questo
punto. È infatti evidente che oggi sta accadendo proprio ciò che la
nostra tradizione costituzionale nega: si sta denominando come
‘costituente’ un processo in atto, pur non avendo esso un’origine in
un potere, nel senso di un soggetto capace di volere, e pur non
avendo esso affatto preso la direzione che conduce a fondare una
nuova unità politica espressiva del tradizionale principio di sovra-
nità. Proviamo allora ad abbandonare gli orizzonti noti, ed a porci il
problema della esistenza — da dimostrare, ovviamente — di un
processo costituente non più riconoscibile con gli strumenti della
tradizione: un processo costituente senza un’origine nella volontà di
un soggetto, e che tende a collocare il suo esito, ovvero la costitu-
zione stessa, al di là dei confini noti della forma politica statale.
Si entra qui in un territorio nuovo, irto di difficoltà, ed anche di
pericoli. Ma la sfida è inevitabile, e deve dunque essere accettata. La
prima osservazione è dedicata proprio al potere costituente. A mio
( ) Difende appassionatamente il modello costituzionale della tradizione G.
4 , Verso la Costituzione europea?, in “Diritto Pubblico”, 2002, 1, pp. 161 e ss. Per
F ERRARA
un’opposizione netta tra l’ambito costituzionale e quello internazionale, tra costituzione
V , Stato federale, in Enciclopedia del diritto, XLIII,
e trattato, si veda G. D E ERGOTTINI
1990, pp. 831 e ss.. Sulla tradizione europea della sovranità, rinviamo a Penser la
souveraineté à l’époque moderne et contemporaine, sous la direction de G.M. C AZZANIGA
e Y.C. Z , due tomi, Pisa e Parigi, 2001; ed in forma sintetica anche a M. F ,
ARKA IORAVANTI
Stato e Costituzione, in Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, a cura di M.
,
Fioravanti, Roma-Bari, 2002, pp. 3 e ss. Nella prospettiva attuale, si veda infine M. W IND
Sovereignty and European Integration. Towards a Post-Hobbesian Order, Basingstoke,
2001. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
278 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
avviso, se vogliamo continuare ancora a discutere, ed anche ad
operare, nella linea della Costituzione europea, non si può del tutto
). Si dovrà certa-
abbandonare il terreno del potere costituente (
5
mente marcare con cura la differenza tra il potere costituente della
tradizione, delle rivoluzioni di fine Settecento e delle stesse Costi-
tuzioni dell’ultimo dopoguerra, ed il potere costituente di cui oggi
andiamo alla ricerca in Europa, ma non si dovrà affatto chiudere
frettolosamente la partita, come se si trattasse di questione del
passato, non più attuale. Insomma, a nostro avviso, anche la Costi-
tuzione europea, per essere tale, ha bisogno di un’origine. Ciò che
però è sbagliato è collocare in quella origine il soggetto sovrano della
tradizione, il popolo o la nazione in senso unitario e monolitico. Pare
più adeguato raffigurare il potere costituente europeo come una
realtà in sé pluralistica, per sua natura collocata sul piano sovrana-
zionale, in cui troviamo sia gli Stati membri con i loro rispettivi
popoli, e con le obbligazioni che reciprocamente li limitano, sia il
popolo dei cittadini dell’Unione, come risultato, in senso normativo,
): è all’insieme di questi
di uno status crescentemente condiviso (
6
soggetti che è necessario riferire l’esercizio del potere costituente.
Più avanti, deriveremo da questa prima sommaria conclusione la
necessità, per una riforma dei Trattati che ambisca a produrre un
esito nel senso della Costituzione europea, di un’approvazione da
parte dei popoli degli Stati membri.
Un secondo punto non potrà inoltre essere trascurato nell’am-
bito della Costituzione europea. È vero che nel passaggio dal piano
nazionale a quello europeo lo stesso termine-concetto di ‘processo
costituente’ tende fatalmente a diluirsi, perdendo molto del suo
carattere di attuazione di un progetto globale, che punta a rideter-
( ) Si veda in proposito l’indagine di S. D , Una costituzione senza
5 ELLAVALLE
popolo? La Costituzione europea alla luce delle concezioni del popolo come ‘potere
, Elemente einer Theorie der
costituente’, Milano, 2002. Si veda inoltre A. P ETERS
Verfassung Europas, Berlino, 2001, spec. 360 e ss. sul potere costituente.
) Possiamo qui solo accennare a questo punto, evidentemente collegato con la
( 6
Carta dei diritti fondamentali, su cui comunque torneremo in seguito. Per la prospettiva
, La cittadinanza fra Stati nazionali e
della ‘comparazione diacronica’, si veda P. C OSTA
ordine giuridico europeo: una comparazione diacronica, in Una Costituzione senza Stato,
, Bologna,
Ricerca della Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco, a cura di G. B
ONACCHI
2001, pp. 289 e ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 279
MAURIZIO FIORAVANTI
minare da capo i poteri esistenti, tanto da poter essere connotato, sul
piano europeo, come qualcosa che opera “in modo incrementale e
concordato, senza salti di qualità o violente espropriazioni di poteri
). Sappiamo già, del resto, che quel processo non è affatto
sovrani” (
7
destinato a produrre una nuova forma politica sovrana di tipo
monistico, in sé portatrice della tendenza ad esautorare i poteri
). E tuttavia, anche per questo aspetto è necessario distin-
esistenti ( 8
guere: il fatto che si possieda la consapevolezza storica che il
processo costituente europeo non produrrà comunque quel certo
tipo di unità politica, da ricondurre alla tradizione europea conden-
sata nel principio di sovranità, non significa che si debba, o che si
possa, rinunciare alla ricerca di una qualche nuova forma di unità
politica, diversa da quella propria della tradizione, e nello stesso
tempo capace di oltrepassare, sul piano sovranazionale, la logica
meramente pattizia del diritto internazionale. Senza questa ricerca,
sarà difficile continuare a parlare di ‘costituzione’ e di ‘processo
costituente’. In altre parole, il processo costituente non è tale, anche
sul piano europeo, se non conduce, attraverso il ‘riordino’ dei
Trattati, e l’individuazione di un loro ‘nucleo fondamentale’, nella
linea della Dichiarazione di Laeken, alla proposizione di un legame
tra gli Stati membri nel senso della Unione, ovvero nel senso di
un’unità politica di tipo sovranazionale dotata di regole costituzionali,
cui gli Stati stessi sono chiamati ad aderire. Proprio per questo
motivo, si pone con forza il problema di una regola nuova, diversa
da quella della unanimità prevista dall’articolo 48 del Trattato
sull’Unione Europea. Su questo punto torneremo più avanti, ma
( ) Cosı̀ nel saggio di L. V , La Costituzione europea fra passato e presente, in
7 IOLINI
Costituzionalizzare l’Europa ieri ed oggi. Ricerca dell’Istituto Luigi Sturzo, a cura di U.
S , Bologna, 2001, pp. 71 e ss., p. 103. Non possiamo qui discutere la tesi,
D E IERVO
davvero impegnativa, formulata di recente, secondo cui la vicenda costituzionale euro-
pea s’inserisce in una trasformazione più ampia delle costituzioni, che le vedrà sempre
più debolmente indirizzate “verso mete condivise e fini riconosciuti come comuni”, e
-
sempre meno capaci di “operare chiusure definitive dei sistemi giuridici”: M.R. F
ERRA
, Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni, Bologna, 2002, spec.
RESE , La Costituzione senza
pp. 103 e ss. Nella discussione attuale, si vedano anche E. S CODITTI
, Il momento della scrittura.
popolo. Unione Europea e Nazioni, Bari, 2001; e C. P INELLI
Contributo al dibattito sulla Costituzione europea, Bologna, 2002.
) Insiste sul punto L. T , Una Costituzione senza Stato, in “Diritto
( 8 ORCHIA
Pubblico”, VII, 2001, n. 2, pp. 405 e ss., spec. pp. 421 e ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
280 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
diciamo fin d’ora che se quella regola dovesse permanere, e contem-
poraneamente non si affermasse la necessità della approvazione
popolare, sarebbe difficile, a mio avviso, resistere alle obiezioni di
chi considera quanto meno improprio l’uso del termine-concetto di
‘costituzione’ con riferimento all’esito del processo di riforma dei
Trattati. In una parola, ancora una volta si sarebbe fatto un nuovo
Trattato, magari rafforzando ancora di più il piano comunitario, ma
non una costituzione.
2. Un po’ di comparazione: Europa e Stati Uniti.
Due sono dunque gli elementi che devono essere presenti
perché si possa legittimamente parlare di ‘processo costituente
europeo’: il modo popolare di ratifica da parte degli Stati membri, e
la rottura della regola della unanimità. Un rapido sguardo alla genesi
della Costituzione federale americana aiuta a cogliere la rilevanza di
questi elementi, e soprattutto la loro forte reciproca connessione.
Ovviamente, non si vuole qui sostenere che le due situazioni storiche
). Si vuole piuttosto mettere
siano anche lontanamente assimilabili (
9
in rilievo come gli elementi da noi individuati, attinenti al modo di
ratifica, o di approvazione, da parte degli Stati si ripetano con
significativa puntualità nelle due situazioni, e siano probabilmente
destinati a ripetersi, nella vicenda storica complessiva delle costitu-
zioni moderne, ogni volta che si tratta di passare da un legame di
stampo essenzialmente internazionalistico, che si esprime nella
forma del trattato, ad un legame di qualità diversa ed ulteriore, che
continua magari a fondarsi nella dimensione pattizia e convenzionale
propria delle relazioni tra Stati, ma che assume poi, come esito
conclusivo, la forma della Unione, e della costituzione. Sotto questo
profilo, della vicenda americana interesserà proprio cogliere il mo-
mento in cui, come oggi in Europa, s’iniziò ad indicare la costitu-
( ) Riflessioni di carattere comparativo in G. B , L’evoluzione del federa-
9 OGNETTI
lismo moderno e i diversi modelli dello Stato federale, e Lo speciale federalismo del-
l’Unione Europea, in Modelli giuridici ed economici per la Costituzione europea, Ricerca
, Bologna, 2001, pp. 19 e ss.,
della Fondazione Nova Res Publica, a cura di A.M. P ETRONI
e pp. 245 e ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 281
MAURIZIO FIORAVANTI
zione come soluzione nuova, di essa mettendo in rilievo la differenza
con lo strumento esistente del trattato.
Come sappiamo, le relazioni tra le tredici ex-colonie inglesi,
divenute altrettanti Stati liberi ed indipendenti con la Dichiarazione
d’Indipendenza, erano regolate, prima della Costituzione Federale
del 1787, dagli Articoli di Confederazione, approvati nel 1778 dal
Congresso, ma entrati in vigore soltanto il primo marzo del 1781,
dopo la ratifica da parte di tutti gli Stati, secondo la regola della
unanimità. Tali Articoli, pur conferendo poteri anche rilevanti al
Congresso in materia diplomatico-militare, rimanevano però sul
piano del trattato, della “lega di amicizia reciproca” (articolo II) tra
gli Stati, e tra i rispettivi popoli, tanto che la regola della unanimità,
che era servita per mettere in vigore gli Articoli, era mantenuta
anche per la loro modifica. Leggiamo infatti nell’articolo XIII: “Gli
Articoli della presente Confederazione saranno inviolabilmente os-
servati da ciascuno Stato…; né potranno essere introdotte modifi-
cazioni al testo, a meno che tali emendamenti non vengano appro-
vati dal Congresso degli Stati Uniti e siano successivamente ratificati
dagli organi legislativi di ogni Stato”. Come vediamo, i due elementi
che precedentemente abbiamo individuato con riferimento all’Eu-
ropa sono anche qui tenuti insieme: poiché ciò che abbiamo di
fronte a noi è un semplice trattato, che mantiene quasi del tutto
inalterata la sovranità degli Stati, le sue modifiche non potranno non
rispondere alla doppia regola della unanimità e della semplice
ratifica parlamentare ( ).
10
Il processo costituente prendeva dunque le mosse da questa
( ) Non è ovviamente questa la sede per uno studio approfondito degli Articoli
10
di Confederazione. Ci limitiamo a ricordare la principale letteratura, ed in particolare
quella più rilevante per il profilo che più ci interessa, che è quello del passaggio dalla
(a cura di), The Confederation
Confederazione alla Costituzione Federale: G.S. W
OOD , The States’ Rights
and the Constitution. The Critical Issues, Lanham, 1973; A.T. M ASON
Debate: Antifederalism and the Constitution, Oxford University Press, 1972; e soprat-
, Collective Action under the Articles of
tutto la recente ricerca di K.L. D
OUGHERTY
Confederation, Cambridge University Press, 2001. Più in genere, si veda anche R.B.
, The Forging of the Union 1781-1789, New York, 1987, spec. pp. 298 e ss., per
M
ORRIS
gli aspetti che più ci interessano. Sul piano documentale, sono certamente utili R.
(a cura di), The Anti-Federalist Papers and the Constitutional Convention
K
ETCHAM (a cura di), The Origins of the American
Debates, New York, 1986; e M. K AMMEN
Constitution. A Documentary History, New York, 1986.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
282 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
situazione di partenza: una Confederazione di Stati sovrani fondata
sul principio della equal sovereignty, e conseguentemente sul prin-
cipio di unanimità per l’approvazione di ogni modifica nelle rela-
zioni tra quegli Stati. Ciò che interessa sul piano comparativo è
vedere come questa situazione sia stata superata attraverso il pro-
cesso costituente, evidentemente in direzione di un ridimensiona-
mento netto del peso della singola sovranità del singolo Stato.
I sostenitori della esigenza di un forte governo nazionale co-
mune, come Alexander Hamilton, o James Madison, cercarono in
un primo momento di affrontare di petto la questione della sovranità
degli Stati, proponendo un governo in qualche modo gerarchica-
mente sovraordinato rispetto ai governi statali. Nel piano presentato
da Hamilton il 18 giugno del 1787 era contenuta una misura in
questo senso esemplare: i Governatori degli Stati avrebbero dovuto
essere nominati dal governo nazionale, che avrebbero trasferito loro
il potere di dichiarare nulle le leggi statali contrarie alla Costituzione
ed alle leggi degli Stati Uniti. Nella proposta di Hamilton era
significativo anche il linguaggio: gli Stati erano chiamati particular,
).
ed il futuro governo federale era il general government nazionale (
11
Ed ancora, non dimentichiamo che fino al 17 luglio rimase in
discussione una proposta che aveva a lungo circolato, che attribuiva
direttamente al Congresso degli Stati Uniti un potere di veto nei
confronti delle leggi statali, anche in questo caso nella logica di una
ben precisa sovraordinazione della legge federale su quella stata-
).
le ( 12
Ebbene, proprio la vicenda costituente americana mostra come
in una situazione che in partenza è quella di un complesso di Stati
sovrani legati con lo strumento del trattato siano perdenti le strategie
frontali, che puntano ad affermare il principio di gerarchia nelle
relazioni tra i soggetti istituzionali e tra le fonti di diritto. La
Costituente americana respinse inesorabilmente tutte le proposte
orientate in questa direzione, mantenendo fermo un punto: che gli
States’ Rights avrebbero rappresentato comunque una componente
essenziale dell’ordine costituzionale, anche dopo il passaggio alla
( ) The Plan presented by Alexander Hamilton, il 18 giugno 1787, in The Origins
11
of the American Constitution, cit., pp. 36-38.
) Si veda il punto in A.T. M , The States’ Rights Debate, cit., pp. 37 e ss.
( 12 ASON
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 283
MAURIZIO FIORAVANTI
Costituzione federale. Quest’ultima non avrebbe dovuto infatti es-
sere intesa come la Costituzione che afferma la sovranità dello Stato
federale, ed avrebbe piuttosto dovuto rappresentare la norma fon-
damentale capace di ordinare le relazioni tra tutti i poteri, federali e
statali, che è cosa anche intuitivamente diversa.
Non è certo un caso che proprio quel 17 luglio, che sopra si
ricordava come data che segna la sconfitta definitiva di tutti coloro
che volevano imporre il veto del Congresso degli Stati Uniti sulle
legislazioni statali, crei i presupposti per l’affermazione della celebre
clausola di supremazia, che poi sarà contenuta nell’articolo VI,
secondo comma, della Costituzione: “Questa Costituzione e le leggi
degli Stati Uniti che verranno fatte in conseguenza di essa, e tutti i
trattati conclusi, o che si concluderanno, sotto l’autorità degli Stati
Uniti, costituiranno la legge suprema del Paese; ed i giudici di ogni
Stato vi saranno vincolati, quali che siano le disposizioni in contrario
contenute nella Costituzione o nella legislazione di ogni Stato”.
Insomma, una volta ricacciato indietro quel particolare tipo di
‘supremazia’ che s’identificava nella superiorità gerarchica del po-
tere federale, e della legge federale, sui poteri statali, e sulle leggi
statali, si creavano le condizioni per ammettere comunque, ed
inserire nella Costituzione, una nuova ‘supremazia’, che era però
quella della Costituzione medesima come legge suprema del Paese,
che in quanto tale non poteva non rappresentare, anche per i giudici
statali, la prima norma da applicare.
Vedremo più avanti qualche ulteriore implicazione di questa
scelta, evidentemente collegata al judicial review, al controllo diffuso
di costituzionalità. Per ora premeva sottolineare la rilevanza di
questo insegnamento contenuto nella esperienza costituzionale ame-
ricana: la costruzione di un’Unione, di un’unità politica comune, che
parta da una pluralità di sovranità statali distinte, passa difficilmente
per la via diretta dell’affermazione di una nuova sovranità a scapito
delle sovranità esistenti, e sceglie piuttosto la via giurisdizionale, del
comune dovere di applicazione della medesima legge da parte di
tutti i giudici. La lesione al principio di sovranità esiste comunque,
perché ora i giudici statali possono, ed anzi in certi casi debbono,
disapplicare la legge statale, che era fino a questo momento per loro
la fonte in cui si racchiudeva tutto il diritto da applicare, ma si tratta
di una lesione ben più ammissibile di quella che sarebbe derivata
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
284 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
dall’affermazione immediata di una superiorità formale e sostanziale
del potere federale, proprio perché attuata tramite lo strumento
della giurisprudenza, che per sua natura opera in modo puntuale e
progressivo, disteso nel tempo, adattabile in modo elastico alle
diverse fasi di evoluzione dei rapporti tra poteri federali e poteri
statali, ed in ultima analisi perché riconducibile ad una norma
comune ritenuta suprema, e non ad un potere in senso soggettivo,
diverso da quello statale ed a quest’ultimo ritenuto superiore in
senso gerarchico.
Torniamo ancora per un attimo alla Costituente di Filadelfia.
Certo non per caso, in quel medesimo mese di luglio, una volta
rassicurati gli Stati sulla loro permanenza come Stati liberi ed
indipendenti, è possibile finalmente porre loro la questione fonda-
mentale del passaggio dal trattato alla costituzione. Gli Stati vi
possono consentire perché ora sanno che dentro la costituzione la
loro sovranità sarà diminuita, ma non cancellata. È Madison, nella
seduta del 23 luglio, a porre il problema, con grande chiarezza: ciò
che ora deve emergere è “la differenza tra un sistema fondato solo
sui Parlamenti, ed uno fondato sul popolo, ovvero l’essenziale
differenza tra una lega, o un trattato, da una parte, ed una Costitu-
). La simmetria di Madison è perfetta: il
zione dall’altra parte” ( 13
trattato sta ai Parlamenti degli Stati come la Costituzione sta al
popolo.
Per ‘popolo’ non s’intendeva per altro certo il popolo americano
indistintamente inteso, che appena ora stava facendo il suo ingresso
nell’universo delle relazioni politico-costituzionali, e che la stessa
Costituzione metteva in fin dei conti a fondamento di un solo organo
costituzionale, della Camera dei Rappresentanti. Madison intendeva
piuttosto mettere in rilievo la necessità di dare un fondamento
popolare alla scelta per la costituzione, ciò che in concreto signifi-
cava lo ‘strappo’ della regola della semplice approvazione parlamen-
tare contenuta nell’articolo tredicesimo degli Articoli di Confedera-
zione. E questo fondamento lo si sarebbe ottenuto sostituendo alla
( ) The Records of the Federal Convention, ed. by M. F , New Haven,
13 ARRAND
1911, II, 93. I corsivi sono nel testo. Tutta questa fase, ed in particolare proprio la
, Collective
problematica anche da noi messa in evidenza, è esaminata da K.L. D
OUGHERTY
Action under the Articles of Confederation, cit., pp. 140 e ss..
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 285
MAURIZIO FIORAVANTI
procedura parlamentare, all’interno di ciascuno Stato, la ratifica
della nuova Costituzione per mezzo di Convenzioni appositamente
elette dai popoli degli Stati. È all’insieme di queste Convenzioni che
possiamo riferire il momento decisivo nello svolgimento del pro-
cesso costituente, l’esercizio in concreto del potere costituente.
La vicenda americana mostra il carattere essenziale ed impre-
scindibile della approvazione popolare, proprio per il configurarsi
stesso di un autentico processo costituente. Senza quella approva-
zione, avrebbe probabilmente ripreso forza la prospettiva minore
della semplice riforma del trattato, ovvero degli Articoli di Confe-
derazione, a quel punto con la connessa necessità di rispettare
integralmente le regole della revisione contenute nell’articolo tredi-
cesimo, anche per ciò che riguardava il requisito della unanimità. Ed
invece, grazie alla svolta del luglio del 1787, anche quest’ultimo
aspetto viene a cadere. Infatti, la Costituzione che si sta mettendo in
vigore non è più rappresentabile come un semplice trattato tra Stati
sovrani, che esiste solo nella misura in cui tutti quegli Stati l’abbiano
sottoscritto, nel suo contenuto originario, e poi con tutte le succes-
sive modifiche. Ora, la Costituzione, pur presupponendo gli Stati, e
pur conservando in sé buona parte della loro sovranità, riposa su un
fondamento di carattere popolare, ovvero sulla approvazione da
parte dei popoli degli Stati, in una misura ritenuta sufficiente per la
legittimazione della svolta avvenuta, che non può corrispondere ad
una maggioranza semplice, ma sulla quale si ragiona dopo aver
ormai superato e rimosso la regola della unanimità.
E tuttavia, a dimostrazione di quanto questo passaggio fosse
delicato ed impegnativo, i costituenti americani continuarono a
ragionarci sopra per alcune settimane. Nel First Draft of the Consti-
tution, del 6 agosto, l’articolo XXI mostra come un curioso spazio in
bianco. Vi leggiamo infatti: “La ratifica da parte delle Convenzioni
di […] Stati sarà sufficiente per l’organizzazione della Costituzione”,
ovvero per la messa in opera dei procedimenti necessari per l’ele-
zione della Camera dei Rappresentanti, del Senato, del Presidente
(art. XXIII), e dunque, in sostanza, per la messa in vigore della
). A quella data, si era dunque già deciso di dare alla
Costituzione ( 14
( ) First Draft of the Constitution, in The Anti-Federalist Papers and the Consti-
14
tutional Convention Debates, cit., p. 144.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
286 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Costituzione un fondamento popolare, ma non si era ancora in
grado di prendere posizione sulla regola dell’unanimità: in teoria, in
quello spazio si sarebbe ancora potuto scrivere tredici. Solo dopo un
mese di discussioni, per la precisione il 30 agosto, si scelse per nove
).
Stati (
15
Cosı̀, nel testo definitivo della Convenzione, del 17 settembre,
inviato al Congresso della Confederazione per la sua approvazione e
la successiva messa in moto delle Convenzioni di ratifica negli Stati,
leggiamo una norma ancora diversa: “La ratifica da parte delle
Convenzioni di nove Stati sarà sufficiente per l’entrata in vigore di
questa Costituzione tra gli Stati medesimi che l’avranno ratifica-
). Era ora ancora più chiaro, non solo che la
ta”(articolo VII) ( 16
regola della unanimità era caduta, ma anche che si era pronti a fare
entrare in vigore la Costituzione tra quei nove Stati che l’avessero
sottoscritta.
Il processo costituente aveva ormai evidentemente demolito del
tutto la vecchia logica del trattato: quegli Stati che non avessero
ratificato la Costituzione avrebbero potuto trovarsi soli. Cosı̀ fu in
effetti. Il nono Stato a ratificare fu il New Hampshire, il 27 giugno
1788. In verità, il Congresso attese ancora il decimo e l’undicesimo
Stato, che furono rispettivamente la Virginia e New York, data
anche la loro rilevanza. Ma poi, il 13 settembre 1788, mise in vigore
la Costituzione. Rhode Island aveva respinto la Costituzione con un
apposito referendum, ma la Convenzione del North Carolina aveva
semplicemente chiesto che fossero presi in considerazione determi-
nati emendamenti, da parte del Congresso e di un’eventuale seconda
Convenzione. Non c’era però più tempo per dialogare. La decisione
era stata presa, e la Costituzione doveva entrare in vigore. Del resto,
le soluzioni scelte mostravano che gli Stati non sarebbero stati affatto
cancellati all’interno del nuovo ordine costituzionale. Ma vi si
dovevano collocare dentro, o rifiutarlo: mantenere semplicemente la
vecchia posizione, pretendendo di far valere ancora la logica del
trattato e della unanimità non era più possibile. Anche North
Carolina e Rhode Island alla fine ratificarono, rispettivamente il 21
( ) Si veda K.L. D , Collective Action, cit., p. 160.
15 OUGHERTY
) Il testo della Costituzione inviato dalla Convenzione al Congresso si trova in
( 16
The Origins of the American Constitution, cit., p. 38.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 287
MAURIZIO FIORAVANTI
novembre del 1789, ed il 29 maggio del 1790. Cosı̀, i tredici Stati
fondatori si ritrovarono di nuovo tutti insieme, ma attraverso un
autentico processo costituente, che aveva prodotto, come esito
ultimo, un legame di qualità completamente nuova.
3. Alcuni possibili esiti del processo costituente europeo.
Il processo costituente americano non si arrestò con l’emana-
zione della Costituzione Federale. Subito dopo, fu messo in moto il
procedimento che avrebbe condotto, il 15 dicembre del 1791,
all’adozione del Bill of Rights. Anche questo può costituire un utile
elemento di comparazione con l’Europa, che in una certa misura
lega l’affermazione della esistenza di un processo costituente euro-
peo anche alla recente proclamazione della Carta dei diritti fonda-
).
mentali dell’Unione Europea (
17
La Carta europea è certamente destinata, anche indipendente-
mente dal suo inserimento nel Trattato, a svolgere un ruolo di primo
piano. Nella sua vicenda si esprime bene quella ‘via giurisdizionale’
alla costruzione della comune forma politica, cui già si accennava
sopra a proposito della Costituzione federale americana: come si
ricorderà, i costituenti americani scartarono le soluzioni imperniate
sul principio della gerarchia dei poteri, come il veto congressuale
sulle leggi statali, e preferirono fondare la clausola di supremazia sul
dovere di tutti i giudici, statali e federali, di applicare in primo luogo
la Costituzione, la legge fondamentale del Paese.
La situazione europea non è certo questa. Vi opera però, già ora,
il noto principio del primato del diritto comunitario su quello
nazionale, e dunque l’obbligo dei giudici statali, nelle materie di
competenza comunitaria, a fronte di una normativa statale incom-
patibile con il diritto comunitario direttamente applicabile, di pro-
cedere senz’altro alla applicazione di quest’ultimo ed alla conse-
guente non applicazione della norma statale interna. In seno alle
giurisdizioni degli Stati membri si è dunque già ora accettata l’idea
( ) Sul punto si veda S. N , Catalogo dei diritti e centralizzazione delle
17 INATTI
competenze nelle esperienze federali: uno sguardo oltreoceano, in La difficile Costituzio-
S , Bologna, 2001,
ne europea, ricerca dell’Istituto Luigi Sturzo, a cura di U. D
E IERVO
pp. 145 e ss. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
288 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
che i giudici debbano ubbidienza e fedeltà ad un diritto diverso da
quello statale, che a certe condizioni anzi prevale sul diritto statale.
È ciò che era accaduto, due secoli prima, ai giudici statali americani,
con la clausola di supremazia contenuta nella Costituzione federale,
con questa differenza: mentre negli Stati Uniti il diritto prevalente,
caso per caso, su quello statale era contenuto nella Costituzione
stessa, o da essa derivato direttamente, in Europa il primato del
diritto comunitario si è fino ad ora fondato in sostanza sugli obblighi
derivanti dai Trattati, e solo ora assume coloriture propriamente
costituzionali, con la proclamazione della Carta, e con la connessa
valorizzazione del concetto, a lungo circolante, anche nella giuri-
sprudenza della Corte di giustizia, di ‘tradizioni costituzionali co-
).
muni degli Stati membri’ ( 18
Il quesito che ora si pone è per l’appunto questo: se anche nel
caso europeo le ragioni della prevalenza sul diritto nazionale presso
i giudici statali da parte di un altro diritto possano assumere
contorni e significati di ordine costituzionale, tenendo presente il
limite fin qui fissato a tale prevalenza, ammissibile a condizione che
il diritto comunitario non violi i principi fondamentali e i diritti
inalienabili riconosciuti e garantiti dalle Costituzioni nazionali, come
quella italiana, e fissati dalle rispettive Corti costituzionali, assurte
cosı̀ a vere e propri custodi, non solo della Costituzione stessa e del
suo ‘nucleo fondamentale’, ma anche di una sorta di ‘riserva ultima’
di sovranità, assolutamente non disponibile ( ). Si chiede, in modo
19
ancora più netto e reciso, se la Carta, una volta inserita nel Trattato,
a sua volta considerato come vera e propria Costituzione europea,
( ) Su questo punto, sull’articolo sesto del Trattato sull’Unione europea, e sulle
18 -S. M , Il ‘modello costituzio-
problematiche connesse, rinviamo a M. F IORAVANTI ANNONI
nale’ europeo: tradizioni e prospettive, in Una Costituzione senza Stato, cit., pp. 23 e ss.;
, Il patrimonio costituzionale europeo, Bologna, 2002.
ed alla sintesi di A. P
IZZORUSSO
) Si veda in proposito G. M , La tutela giurisdizionale dei diritti
( 19 ORBIDELLI , ‘Armonia tra diversi’ e problemi
nell’ordinamento comunitario, Milano, 2001; V. O NIDA
aperti. La giurisprudenza costituzionale sui rapporti tra ordinamento interno ed ordina-
, La Corte
mento comunitario, in Quaderni costituzionali, 3/2002, pp. 549 e ss.; F. S ALMONI
Costituzionale e la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, in Diritto Pubblico, 2002/2,
, Costituzione europea e Carte dei diritti fondamentali, in
pp. 491 e ss.; e M.A. C ABIDDU
Profili della costituzione economica europea, Ricerca del Centro di Ricerche in Analisi
Economica, Economia Internazionale, Sviluppo Economico, a cura di A. Q
UADRIO
C , Bologna, 2001, pp. 177 e ss.
URZIO © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 289
MAURIZIO FIORAVANTI
attraverso il meccanismo ormai noto del primato del diritto comu-
nitario, non divenga di fatto uno strumento di destrutturazione delle
Costituzioni nazionali e del sistema dei diritti fondamentali in esse
incardinato.
A tale quesito rispondiamo negativamente. In realtà, quell’esito,
cosı̀ catastrofico per le Costituzioni nazionali, è pensato e previsto
sulla base del vecchio armamentario del diritto pubblico statale,
dominante in Europa tra Otto e Novecento: se c’è una Costituzione,
vuol dire che c’è uno Stato, e dunque che sono in pericolo le
sovranità degli Stati esistenti, con le loro rispettive Costituzioni. Non
sarà cosı̀ in Europa, poiché la stagione del diritto pubblico statale è
storicamente ormai trascorsa. Ciò che il processo costituente euro-
peo sta costruendo non è un nuovo Stato dotato dei caratteri
tradizionali della sovranità, ma un’originale forma politica sovrana-
zionale, la cui Costituzione conterrà una parte comune, in una certa
misura già espressa nella Carta, e che sempre più si preciserà nel
dialogo tra le giurisdizioni, comunitaria e nazionali, e tante parti
proprie quanti saranno gli Stati membri, entro le quali si conserve-
ranno gli specifici nazionali, anche se non in modo chiuso ed isolato,
ma entro un rapporto di continua dialettica con la parte comune.
Del resto, anche lo stesso Bill of Rights americano non fu affatto
concepito come un sistema di principi e di valori da imporre agli
Stati. Al contrario, in una celebre deliberazione del 1789 il Con-
gresso degli Stati Uniti, respingendo un emendamento di Madison,
stabilı̀ che il Bill of Rights non si dovesse applicare in ambito statale,
ovvero che non fosse ammissibile l’ipotesi di una legge statale da
dichiarare nulla, e da disapplicare, in quanto contraria al medesimo
). Né si può dimenticare che il medesimo testo costituzionale
Bill (
20
conteneva il celebre X emendamento: “I poteri non delegati dalla
Costituzione agli Stati Uniti, o da essa non vietati agli Stati, sono
riservati ai rispettivi Stati, ovvero al popolo”, che unito al precedente
IX: “L’enumerazione di alcuni diritti fatta nella Costituzione non
potrà essere interpretata in modo che ne rimangano negati o meno-
mati altri diritti che il popolo si è riservato”, ribadiva con forza il
( ) Si veda in proposito States’ Rights and American Federalism, ed. by F.D.
20
e L.R. N , Westport-London, 1999, pp. 67 e ss.
D
RAKE ELSON © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
290 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
ruolo degli States’ Rights, e dunque l’integrità del sistema dei diritti
fissato nelle Costituzioni statali.
Certo, com’è ben noto, le vicende successive volgeranno nel
senso di un incremento consistente dei poteri federali a scapito di
quelli statali, ma più sulla base di una nota interpretazione estensiva
della necessary-and-proper clause, contenuta nell’ultimo capoverso
della sezione ottava dell’articolo primo della Costituzione federale,
che non per la via del Bill of Rights, che ancora una sentenza del
1833 della Corte Suprema considerava non opponibile agli Stati ed
alla loro legislazione. In effetti, solo all’inizio degli anni Venti del
Novecento la stessa Corte Suprema, facendo leva soprattutto sul
XIV emendamento, arrivò alla conclusione che gli Stati fossero
sottoposti al principio del due process of law contenuto nel Bill of
).
Rights, ed in particolare nel V emendamento (
21
In realtà, proprio la vicenda americana mostra come in una
situazione di partenza data da una pluralità di Stati sovrani sia ben
difficile arrivare al risultato di poter legalmente opporre alle leggi, ed
alle Costituzioni statali, diritti fondamentali ad esse ritenuti superiori
perché fondati nella legge fondamentale comune, approvata dagli
Stati stessi. Se negli Stati Uniti si è impiegato ben più di un secolo
per arrivare a questo risultato, nonostante la clausola di supremazia
contenuta nella Costituzione, e nonostante l’immediata adozione del
Bill of Rights come parte integrante della Costituzione medesima,
non si vede perché in Europa gli Stati debbano cosı̀ facilmente
lasciare che le loro Costituzioni siano sovvertite sul piano europeo.
Del resto, non è proprio un caso che la stessa Carta europea si
preoccupi in modo cosı̀ marcato di rassicurare su questo punto, con
le disposizioni sull’ambito di applicazione e sul livello di protezione
( ) Cosı̀ recita la necessary-and-proper clause: che il Congresso avrà facoltà “di
21
fare tutte le leggi necessarie ed adatte per l’esercizio dei detti poteri”, ciò che indub-
biamente attenuava assai, nel passaggio dalla Confederazione alla Federazione, il prin-
cipio di tassatività delle materie su cui il Congresso poteva esercitare le sue competenze.
Per la sentenza della Corte Suprema del 1833 si veda States’ Rights and American
Federalism, cit., p. 91. Il XIV emendamento, del 23 luglio 1868, stabiliva che “…
Nessuno Stato priverà alcuna persona della vita, della libertà, o della proprietà, senza
una procedura legale nella dovuta forma…”. Anche su questa fase, si vedano i docu-
menti contenuti in States’ Rights, cit., pp. 139 e ss. Sotto un profilo diverso, si veda anche
, Milano, 1998.
John Marshall. ‘Judicial Review’ e Stato federale, a cura di G. B v
UTTA
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 291
MAURIZIO FIORAVANTI
(articoli 51 e 53), che stabiliscono l’applicabilità delle disposizioni
contenute nella Carta agli Stati membri, ma esclusivamente nell’at-
tuazione del diritto dell’Unione, e garantiscono inoltre circa la
permanenza delle competenze definite dai Trattati, e soprattutto
circa l’impossibilità di limitare la garanzia dei diritti fondamentali
fissata, in particolare, non solo nella Convenzione europea del 1950,
ma anche nelle Costituzioni degli Stati membri.
Quel che emerge, in ultima analisi, è che in una costituzione
federale, sia essa quella americana già sperimentata da due secoli, o
quella europea che si vorrebbe fare, gli States’ Rights sono destinati
). Noi crediamo dun-
a rappresentare una componente essenziale ( 22
que che anche in Europa, come già negli Stati Uniti, si possa seguire
la ‘via giurisdizionale’ , a partire dalla Carta, che in fondo nasce dalla
giurisprudenza, e ad essa è destinata a tornare, nella interazione, e
nel dialogo, certamente destinati a crescere, tra giurisdizioni, comu-
nitaria e nazionali, ma crediamo anche che questo diritto costituzio-
nale comune europeo, di origine giurisprudenziale, ben difficilmente
potrà trovare un punto di sintesi qualificabile come ‘costituzione’ se
non si affronterà il nodo degli States’ Rights su un piano necessa-
riamente diverso, che non può non essere quello, politico più che
giurisdizionale, di una incisiva riforma dei Trattati, tale da mutare la
qualità del rapporto esistente tra gli Stati membri.
Come ci insegna proprio l’esempio americano, quando si parte
da una situazione di equal sovereignty tra una pluralità di Stati, con
la lotta per la costituzione, che parte da quella situazione, non si
esprime solo l’affermazione di una legge fondamentale comune che
tutti i giudici devono applicare, ma anche, ed anzi in primo luogo, la
trasformazione del legame esistente tra gli Stati, non più riconduci-
bile nei confini noti del trattato. In altre parole, si vuole una
‘costituzione’ perché si pensa di avere un diritto comune da espri-
( ) Si veda ancora la sintesi complessiva di F. M D , States’ Rights and the
22 C ONALD
Union, cit., passim. Sarà anche bene ricordare come nella prima metà dell’Ottocento
fosse ancora in discussione la cosiddetta nullification, ovvero il veto dello Stato opposto
alla esecuzione della legge federale, che fosse ritenuta lesiva dei poteri dello Stato, che
derivava dalla convinzione che la sovranità risiedesse esclusivamente negli Stati e nei loro
popoli, unici autori della stessa Costituzione federale: si veda in proposito M.L.
, Potere e libertà nel mondo moderno. John C. Calhoun: un genio imbarazzante,
S
ALVADORI
Roma-Bari, 1996, pp. 229 e ss.
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292 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
mere, ma prima ancora perché si pensa che il trattato non basti più,
che l’insieme delle relazioni tra gli Stati non sia più contenibile nella
dimensione del trattato e formi invece un ordine che merita una
costituzione. Questo sembra essere il punto al quale si è arrivati oggi
in Europa, ed è da questa prospettiva che sembra imminente un vera
e propria svolta per il processo costituente europeo.
Già avevamo posto questo problema, all’inizio del nostro con-
tributo: quando la riforma dei Trattati cessa di essere una semplice
opera di riordino e di semplificazione per divenire vera e propria
opera costituente? È certamente importante che il Trattato del-
l’Unione riformato accolga la Carta, dando cosı̀ ulteriore impulso
alla formazione, per via giurisprudenziale, del diritto costituzionale
comune europeo. Noi crediamo però che tutto questo non sia
rappresentabile ancora come un autentico processo costituente. Il
processo costituente europeo non può operare solo con lo strumento
della giurisprudenza, ed alimentarsi di una logica puramente incre-
mentale ed evolutiva. Anche in questo caso, per avere una costitu-
zione è necessaria una decisione. È quella decisione che assunsero —
come abbiamo visto — i costituenti americani, quando abbandona-
rono la via della revisione degli Articoli di Confederazione, e con
essa la duplice regola della unanimità degli Stati e della semplice
approvazione parlamentare.
Quella regola era contenuta nell’articolo tredicesimo degli Ar-
ticoli di Confederazione. Anche noi in Europa abbiamo oggi il
nostro articolo tredicesimo da superare: è l’articolo 48 del Trattato
sull’Unione Europea, che prevede il metodo della Conferenza inter-
governativa per la modifica dei Trattati, e si conclude con un ultimo
comma: “Gli emendamenti entreranno in vigore dopo essere stati
ratificati da tutti gli Stati membri conformemente alle loro rispettive
). La differenza con gli Articoli di Confede-
regole costituzionali” (
23
razione sta solo nel fatto che l’articolo 48 del Trattato si limita a
rinviare alle regole costituzionali degli Stati membri, non prescri-
vendo un modo di ratifica che si esaurisca necessariamente nella
( ) Sulla regola del ‘comune accordo’ nella revisione dei Trattati, vedi B. D
23 E
W , Il processo semi-permanente di revisione dei trattati, in “Quaderni costituzionali”,
ITTE ,
3/2002, pp. 499 e ss. Nello stesso Quaderno vedi anche le considerazioni di G. A MATO
La Convenzione Europea. Primi approdi e dilemmi aperti, ibid., pp. 449 e ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 293
MAURIZIO FIORAVANTI
approvazione parlamentare, cosicché quegli Stati potrebbero ben
decidere per l’introduzione della voce popolare diretta nel procedi-
mento di ratifica. È noto per altro che alcuni Stati hanno già deciso
in questo senso.
È questo il vero banco di prova per il processo costituente
europeo: il modo popolare di ratifica del Trattato riformato, ed
insieme la rottura della regola della unanimità, la decisione per una
regola che stabilisca l’entrata in vigore della Costituzione europea tra
gli Stati che l’avranno ratificata, ovviamente a condizione che si tratti
di un numero elevato e rappresentativo degli Stati membri. Come si
ricorderà, i costituenti americani stabilirono 9 su 13. ).
Non spetta certo a noi formulare vere e proprie proposte ( 24
Possiamo però confrontarci, in conclusione, con lo ‘Studio di fatti-
bilità’ reso noto dalla Commissione Europea il 5 dicembre 2002, che
è corredato da un progetto organico di Costituzione dell’Unione
Europea, e che tocca in modo dettagliato proprio la nostra proble-
matica, forse troppo a lungo elusa, dei modi di ratifica.
Lo Studio della Commissione si fonda su un “concetto di base”,
che è quello di “dotare l’Unione di una Costituzione che sostituisce
i trattati esistenti” (p. I): non si poteva certo essere più chiari di cosı̀
nell’indicare l’obbiettivo. Tuttavia, non appena si approfondisce un
po’ di più l’argomento, ci rendiamo subito conto della sua comples-
sità. Intanto, in una Comunicazione del giorno precedente, del 4
dicembre, della stessa Commissione, in qualche modo diretta alla
Convenzione, si registra l’esistenza di un’alternativa, ancora del tutto
aperta: se concludere i lavori della medesima Convenzione con una
semplice riforma dei Trattati, a quel punto fatalmente seguendo
senza variazione alcuna le modalità indicate dall’articolo 48, o se
puntare decisamente, come risultato della medesima opera di ri-
forma, al Constitutional Treaty, da collocare al posto dei Trattati
esistenti, lavorando cosı̀ in modo ben più incisivo sullo scarto tra
Trattato e Costituzione, e dunque ponendo anche il problema, a
quel punto, di modalità nuove di approvazione e di ratifica (p. 23).
Anche secondo noi, è questa l’alternativa fondamentale. La
prima ipotesi è tutt’altro che esclusa. Non è insomma affatto detto
( ) Si veda Institutional Reforms in the European Union. Memorandum for the
24
Convention, Roma, 2002.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
294 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
che questa tanto conclamata Costituzione europea arrivi davvero,
magari nella forma appena enunciata del Trattato Costituzionale. E
può invece accadere che il processo costituente europeo si arresti, e
rifluisca lentamente e mestamente in un’ordinaria opera di riforma
dei Trattati. Noi qui però ragioniamo con la tecnica del ‘come se’, e
dunque procediamo avanti nel prendere in considerazione la se-
conda ipotesi, come se essa fosse prossimamente destinata a preva-
lere conducendoci questa volta davvero sulla via della Costituzione
europea. Quali problemi incontreremmo su questa via?
In primo luogo, si deve mettere in rilievo che scegliere la via
della Costituzione non significa affatto proporre, ed imporre, un
rottura dell’equilibrio istituzionale su cui si fonda l’Unione Europea:
tra gli stessi sostenitori della Costituzione è del tutto prevalente
l’idea che l’Unione abbia una propria natura specifica, sottratta
comunque al processo costituente, e che tale natura sia in sé
dualistica, dipendendo in ogni caso per un lato dagli Stati membri.
Ciò significa, in concreto, che non si fa la Costituzione perché si
vuole mutare tale natura dell’Unione, nella prospettiva dello Stato
federale europeo, e della conseguente riduzione degli Stati membri
a semplici parti dell’unico corpo politico federato. Non è questo il
punto, non è questo ciò che si vuole, non è questo il motivo per cui
si vuole la Costituzione europea. Su questo aspetto non si insisterà
mai abbastanza, data la sua importanza strategica, e data soprattutto
la necessità di svincolare in modo netto l’immagine della Costitu-
zione europea dall’immagine dello Stato federale europeo, in qual-
che modo destinato ad assorbire gli Stati membri.
La Costituzione europea non è dunque questo, non è la legge
fondamentale di un ipotetico Stato federale europeo. Dunque,
cos’altro è? Noi riteniamo che la si possa intendere come un insieme
di principi fondamentali, che i soggetti costituenti, ovvero gli Stati
membri con i loro rispettivi popoli, dichiarano essere, nel loro
complesso, i principi storicamente caratterizzanti l’Unione: la Costi-
tuzione è in questo caso il nucleo fondamentale del patto che sta alla
base della stessa Unione. In questo senso, il processo costituente
europeo può essere inteso come quel processo che tende ad estrarre
dalla complessa materia dei Trattati tale ‘nucleo fondamentale’,
collocandovi le grandi norme di principio, sulle finalità ed i compiti
dell’Unione, sui diritti fondamentali, sui poteri e sugli strumenti
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 295
MAURIZIO FIORAVANTI
normativi, sulle procedure di decisione. E che questa sia la ‘costitu-
zione’ dovrà essere chiaro anche per il tramite, come sempre deci-
sivo, delle future norme sulla revisione, che dovranno prevedere, per
tale ‘nucleo’, la protezione di un procedimento particolarmente
aggravato, con maggioranze particolarmente elevate, sia all’interno
delle istituzioni dell’Unione coinvolte nel procedimento, sia in sede
di ratifica da parte degli Stati membri. Se questo dovesse essere
davvero l’esito del processo che stiamo analizzando, nel decorso del
tempo ci abitueremmo a considerare ‘costituzione’ nient’altro che
questo, ovvero quella parte del patto tra gli Stati che si presenta
come più rigida perché contenente i caratteri essenziali del patto
medesimo: ciò che pare essere per altro una conclusione del tutto
adeguata e logica per una vicenda singolare come questa, che sembra
produrre per l’appunto una costituzione a partire da un trattato.
Rimane però un problema, che è in un certo senso quello dal
quale siamo partiti. Ricordiamo per un attimo il celebre intervento
alla Costituente di Filadelfia di James Madison, del 23 luglio
). Madison sapeva bene che la regola per la riforma degli
1787 (
25
Articoli di Confederazione, ancora ben vigenti tra gli Stati, era quella
della unanimità, e sapeva altrettanto bene che per lo meno due Stati
— Rhode Island e North Carolina — avrebbero votato contro. Con
grande decisione disse allora alla Convenzione: la regola della
unanimità vale per la riforma degli Articoli, ovvero del trattato
esistente, ma noi non stiamo riformando un trattato, ma facendo una
cosa diversa, che si chiama ‘costituzione’, che noi fonderemo sulla
volontà dei popoli, oltre quindi la semplice approvazione delle
legislature statali prevista dagli Articoli, e quando quella volontà sarà
chiaramente espressa — da parte delle Convenzioni appositamente
elette di 9 Stati su 13 —, noi metteremo legittimamente in vigore la
Costituzione, tra gli Stati che l’avranno approvata.
Oggi siamo in Europa al medesimo punto. Se ne sono accorti gli
autori dello ‘Studio di fattibilità’ della Commissione Europea del 5
dicembre, che sopra abbiamo già ricordato. Certo, non è più il
tempo delle Assemblee costituenti, e cosı̀ non troviamo, in questo
documento, i toni perentori di Madison, o una formulazione altret-
tanto netta della differenza tra trattato e costituzione. Anzi, il
( ) Vedi supra, nota 13.
25 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
296 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
tentativo è palesemente quello di conciliare, di stemperare, di ricon-
durre alla dimensione della procedura regolata il passaggio dal
trattato alla costituzione. Non v’è dubbio tuttavia che il problema sia
quello, in sostanza lo stesso formulato da Madison.
Si propone cosı̀ che la Costituzione europea — denominata
Treaty on the Constitution — entri in vigore mediante un Agreement
tra gli Stati membri, che prevede quanto segue: 1) che almeno tre
quarti degli Stati formulino una “dichiarazione solenne” di appar-
tenenza alla Unione Europea, ora dotata di Costituzione (articolo 5);
2) che con gli Stati che non intendano formulare tale dichiarazione
si aprano negoziati tesi a disciplinare la loro futura posizione nei
confronti dell’Unione (articolo 4); 3) che ad una certa data, a
condizione che almeno cinque sesti degli Stati abbiano sottoscritto
l’Agreement, o nella forma della dichiarazione solenne, o in quanto
abbiano concluso i negoziati previsti nel punto precedente, la Co-
stituzione entri in vigore, ovviamente tra gli Stati che l’abbiano
ratificata nella forma prevista al punto primo (articolo 6. 2 e 3).
L’intento è evidente: salvare il più possibile la regola della
unanimità prevista nell’articolo 48 attraverso lo strumento del-
l’Agreement, nella speranza che tutti gli Stati trovino il modo di
esprimere in esso la propria posizione, di piena appartenenza, o di
associazione più o meno stretta, secondo quanto si stabilirà nei
negoziati con ciascuno degli Stati che non intenderanno ratificare la
Costituzione. E tuttavia, la spessa coltre delle regole di procedura
non riesce a nascondere del tutto la sostanza: che quando si sarà
raggiunta — nel senso che sopra abbiamo precisato — la quota dei
cinque sesti degli Stati, l’Agreement sarà considerato concluso,
creando cosı̀ il presupposto per l’entrata in vigore della Costitu-
zione, ovviamente tra i soli Stati che l’avranno ratificata. A quel
punto, ogni ulteriore negoziato, eventualmente ancora in corso,
diverrà irrilevante, perché si sarà creata come una nuova legittimità,
che renderà possibile non attendere più nessuno. Si presumerà anzi
che gli Stati fuori dall’Agreement siano ormai, per loro stessa
volontà, fuori dall’Unione.
Alla fine, vi è dunque, anche in questo caso, una decisione alla
base della costituzione: si è cioè deciso che in ciò che chiamiamo
‘Costituzione europea’ sia contenuto un complesso di principi, e di
regole, di tale rilevanza per l’Europa da non poter essere lasciato
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 297
MAURIZIO FIORAVANTI
inespresso per la volontà contraria di solo un quinto degli Stati
membri. Non è un ragionamento molto dissimile da quello dei
costituenti americani, che non potevano rinunciare, dal loro punto
di vista, al progetto contenuto nella Costituzione federale per l’op-
posizione ad esso del Rhode Island e della North Carolina.
C’è però una differenza, con cui vorremmo concludere. Per i
costituenti americani fu decisivo l’argomento del voto popolare. È
vero infatti che si stabilı̀ che sarebbe stata sufficiente, al posto della
unanimità prevista dagli Articoli di Confederazione, la ratifica di
nove Stati su tredici, ma da ottenere attraverso speciali Convenzioni
direttamente elette dai popoli, e non più per via puramente parla-
mentare. Questo punto sembra invece intangibile in Europa. Lo
stesso Agreement sarà infatti ratificato dagli Stati membri “confor-
memente alle loro rispettive norme costituzionali” (art. 6.1), perfet-
tamente in linea con l’articolo 48 del Trattato sull’Unione, e dunque
con la ratifica parlamentare. Si è osservato sopra che per altro alcuni
Stati hanno già deciso a favore dell’introduzione della voce popolare
diretta nel procedimento di ratifica, e che altri potrebbero ben farlo,
pur rimanendo ferme le norme attuali. Noi riteniamo tuttavia che
questo non sia sufficiente, e che si dovrebbe compiere uno sforzo
ulteriore in questa direzione, in modo da garantire una deliberazione
popolare sulla Costituzione in ciascuno Stato, magari da effettuarsi
contestualmente, nella stessa data, e con modalità comuni. Pensiamo
che questo sia un punto non cosı̀ facilmente eludibile, per un motivo
molto serio, che attiene al piano della legittimazione: se davvero si è
deciso di mettere in discussione, almeno in parte, il fondamento
internazionalistico dell’Unione, consistente nel principio dell’una-
nime e comune accordo tra gli Stati, non si potrà allora troppo a
lungo rimanere a metà del guado, e si dovrà ricercare anzi rapida-
mente sull’altra sponda una legittimazione nuova per l’Unione, e per
la sua Costituzione, che non potrà non essere quella popolare.
Ovviamente, data la particolare natura dell’Unione, rimarrà il mar-
chio d’origine, e dunque tale legittimazione non andrà ricercata nel
popolo europeo, o in una speciale occasione costituente, ma nei
popoli dei singoli Stati, ed all’interno dei procedimenti di ratifica tra
gli Stati concordati. Entro questi limiti, un fondamento popolare per
la Costituzione europea sembra essere ormai necessario.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
ANGELA DE BENEDICTIS
RESISTERE: NELLO STATO DI DIRITTO,
SECONDO IL DIRITTO ‘ANTICO’,
NELL’EUROPA DEL ‘DIRITTO AL PRESENTE’
“… si rischia di provocare una loro [dei diritti] totale
incomprensione continuare a parlarne — come ancora
oggi si fa — mantenendo ben saldo in testa il modulo
inabdicabile dello Stato sovrano protettore; visione
positivistica e paleo-liberale insieme che riproduce an-
tistoricamente oggi una lontana infanzia dei diritti quali
situazioni bisognose di una tutela forte e pertanto
).
affidati allo Stato e pensati nello Stato” (
1
Queste considerazioni di Paolo Grossi nella Pagina introduttiva
del trentesimo numero dei “Quaderni Fiorentini” aiutano chi scrive
(ed è bene precisare subito che si tratta di una storica non giurista)
a presentare il problema “diritto di resistenza” e a delineare in
apertura l’approccio che verrà seguito.
I. Il “diritto di resistenza” è una questione che appartiene in
pieno alle scienze ottocentesche dello Staatsrecht, del diritto pub-
blico, del diritto costituzionale. Al loro interno viene tematizzato,
partendo dalla scienza tedesca di fine ’700 e giungendo alla scienza
italiana di fine ’800, come garanzia della libertà già compiutamente
realizzata nello Stato di diritto e quindi ormai privo di ragioni
giuridiche, dotato unicamente di interesse ‘storico’ residuale. Ora
che la teoria dello Stato di diritto viene vista criticamente in pro-
( ) P. G , Pagina introduttiva (Storia e cronistoria dei ‘Quaderni fiorentini’), in
1 ROSSI
“Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno” 30, 2001, I,
pp. 1-12:11. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
300 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
spettiva storica ( ); ora che alla prassi delle ‘tradizioni costituzionali
2
comuni’ è conferito un ruolo privilegiato dal fenomeno “globalizza-
), il problema “diritto di resistenza” può essere smontato
zione” ( 3
nelle componenti della sua costruzione teorica ottocentesca e ripor-
tato ad una questione fondamentale di prassi, intorno alla quale il
pensiero giuridico medievale e moderno ha costantemente e ripetu-
) dell’età della globaliz-
tamente riflettuto. Il “diritto al presente” (
4
zazione può comprendere, per l’“affollamento” che lo caratterizza, il
) degli
carattere “inclusivo, piuttosto che esclusivo e selettivo” ( 5
argomenti utilizzati da giuristi medievali e moderni nel discutere non
tanto sul “diritto di resistenza”, quanto piuttosto sulla liceità di
resistere secondo il diritto/i diritti.
Prima di entrare in medias res vale la pena ricordare quale
attenzione ricevesse il “diritto di resistenza” poco più di trent’anni
fa. Lo si farà sulla base di un breve ma denso intervento di un
filosofo del diritto (Norberto Bobbio), e di una lunga e dettagliata
voce — quasi una monografia — di uno storico del diritto (Giovanni
Cassandro): due esempi diversi di un forse comune Zeitgeist.
Nel 1971, nello stesso anno in cui si progettava il primo numero
dei “Quaderni Fiorentini”, Norberto Bobbio segnalava il “rinnovato
interesse per il problema della resistenza”, dopo aver sottolineato il
nesso tra stato liberale e democratico e “costituzionalizzazione” del
). “Dal punto di vista istituzionale lo Stato
diritto di resistenza (
6
liberale e poi democratico, che venne instaurato a poco a poco nei
paesi più progrediti lungo tutto l’arco del secolo scorso, fu caratte-
rizzato da un processo di accoglimento e di regolamentazione delle
varie richieste provenienti dalla borghesia in ascesa per un conteni-
mento e per una delimitazione del potere tradizionale. Poiché queste
( ) P. C - D. Z (eds.), Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Milano,
2 OSTA OLO
Feltrinelli, 2002.
) P. G , Pagina introduttiva, cit.
( 3 ROSSI
) M.R. F , Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni,
( 4 ERRARESE
Bologna, il Mulino, 2002.
) Ivi, p. 65.
( 5 ) N. B , La resistenza all’oppressione, oggi, relazione tenuta al convegno
( 6 OBBIO
sassarese su “Forme di autonomia e diritto di resistenza nella società contemporanea”
C (Autonomia e diritto di resistenza, “Studi Sassare-
organizzato da P IERANGELO ATALANO
si”, III, 1970-71), ora in L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990, pp. 159-179: 162.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 301
ANGELA DE BENEDICTIS
richieste erano state fatte in nome o sottospecie del diritto alla
resistenza o alla rivoluzione, il processo che diede luogo allo stato
liberale e democratico si può ben chiamare un processo di “costi-
tuzionalizzazione” del diritto di resistenza e di rivoluzione” ( ). Le
7
“ragioni storiche” della reviviscenza dell’interesse per il problema
della resistenza dipendevano dal fatto che “sia sul piano ideologico
sia sul piano istituzionale [era] avvenuta un’inversione di tendenza
rispetto alla concezione e alla prassi politica attraverso cui si venne
formando lo Stato liberale e democratico ottocentesco” ( ). Per
8
quanto allora non si svolgesse sul piano della storia del pensiero
giuridico, il ragionamento di Bobbio coglieva puntualmente la dif-
ferenza tra le discussioni condotte dagli autori del XVI e XVII
secolo ( ) e quelle del presente, una differenza che toccava l’essenza
9
stessa del diritto di resistenza ( ): “I teorici antichi discutevano sul
10
carattere lecito o illecito della resistenza sotto le sue diverse forme,
ovvero ponevano il problema in termini giuridici, mentre coloro i
quali discutono oggi di resistenza o di rivoluzione ne parlano in
termini essenzialmente politici, cioè si chiedono se questa resistenza
è opportuna e efficace; non si chiede se essa è giusta e costituisce un
diritto, ma se è conforme allo scopo” ( ).
11
Nel 1968, tre anni prima dell’intervento di Norberto Bobbio, il
volume XV del Novissimo Digesto Italiano pubblicava la “voce”
Resistenza (diritto di) redatta da Giovanni Cassandro: una lunga
trattazione sulla storia del diritto di resistenza, da Antigone alle
costituzioni contemporanee che prevedevano il diritto di resistenza,
che attraversava i numerosi momenti di emersione del problema nel
pensiero giuridico e filosofico medievale, moderno (con una parti-
( ) N. B , La resistenza all’oppressione, cit., p. 165.
7 OBBIO
) Ivi, p. 167.
( 8 ) Ricordo qui solo, al proposito, che Bobbio stilò la Avvertenza editoriale della
( 9 G , Giovanni
traduzione italiana a cura di Antonio Giolitti dello studio di O. VON IERKE
Althusius e lo sviluppo storico delle teorie politiche giusnaturalistiche. Contributo alla
storia della sistematica del diritto, Torino, Einaudi, 1943, pp. IX-X, come segnalato da L.
, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta,
M
ANGONI
Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 95.
) Lo ha sottolineato M. T , Tyrannie et tyrannicide de l’Antiquité à nos
( 10 URCHETTI
jours, Paris, PUF, 2001, nel capitolo dedicato al problema “Vitalità del diritto di
resistenza alle soglie del XXI secolo”, alla p. 935.
) N. B , La resistenza all’oppressione, cit., p. 172.
( 11 OBBIO © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
302 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
colare attenzione alle guerre di religione) e contemporaneo sulla
base di una amplissima e aggiornata letteratura. Il già giudice della
Corte costituzionale e politicamente liberale Cassandro non era
particolarmente disposto a riconoscere valore giuridico, e quindi
ammissibilità, al diritto di resistenza nel diritto contemporaneo.
Riconosceva però che per moltissimi secoli il diritto di resistenza fu
ritenuto avere valore giuridico. In quanto diritto che mirava “non già
a instaurare un ordine nuovo, ma a restaurare l’ordine vigente,
), il diritto
illegittimamente violato, e arbitrariamente esercitato” (
12
di resistenza era stato patrimonio comune della dottrina giuridica
dell’Europa occidentale, nonostante la quasi impossibilità a ricono-
scerlo come istituto giuridico. “In verità il problema del diritto-
dovere di resistenza... è riconducibile all’altro del rapporto libertà-
autorità, lungo il quale si svolge la storia delle società umane e degli
Stati, in seno alla complessa trama della quale la ‘resistenza’ appare
come un filo rosso continuo”. Meditare sopra la resistenza non era
possibile “senza meditare insieme sui problemi della vita dello Stato
e del diritto nella storia dell’Occidente... La resistenza non è affatto
scomparsa, nonostante la constatazione della sua incompatibilità con
). Era stata riproposta, nel XX secolo, dal
lo Stato moderno” (
13
formarsi di stati totalitari e da nuove forme di tirannide. E tiranno,
per Cassandro, poteva essere — oltre al dittatore — anche lo Stato
che si ponesse come unica fonte del diritto; anche lo Stato, quindi,
che facesse violenza agli enti politici minori: agli Stati di uno Stato
federale, a regioni, a città.
Vent’anni dopo la ‘voce’ di Cassandro, quando ormai il ragio-
nare in termini di “pensiero giuridico” aveva acquisito completa
cittadinanza nella ricerca italiana, un’altra ‘voce’, di nuovo redatta
da un filosofo del diritto, da Francesco Maria De Sanctis, proponeva
una definizione estremamente “inclusiva” del diritto di resistenza:
“Il tema è la resistenza al potere: il problema è se e quando questa
può assumere la connotazione di un diritto. Se l’obbedienza, intesa
come obbligo, è il segno che legittima il potere rendendolo effettivo,
la resistenza ad esso rappresenta una crisi più o meno radicale
( ) G. C , Resistenza (diritto di), in Novissimo Digesto Italiano, XV,
12 ASSANDRO
Torino, Utet, 1968, pp. 590-613, 604.
) Ibidem.
( 13 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 303
ANGELA DE BENEDICTIS
dell’effettività di questo (essendo resistenza il contrario di obbedien-
za), vale a dire il venir meno parziale o totale dell’obbligo di
obbedienza. La pensabilità di un diritto di resistenza, pertanto, si
determina in funzione della pensabilità di una differenza tra diritto
e potere tale che una definizione generalissima di esso potrebbe
essere: diritto di resistenza è il diritto di un soggetto (individuo,
gruppo, popolo) di non obbedire ad un potere illegittimo o agli atti
del potere non conformi al diritto. Tale definizione, pur nella sua
generalità, sottintende una distinzione tra potere legittimo e illegit-
timo; tra uso legittimo o illegittimo del potere. Distinzione che
diventa delicata e difficile laddove il potere si configura in partico-
lare come il potere politico dello Stato, e specificamente dall’epoca
in cui questo, superiorem non recognoscens, è fatto coincidere con il
).
concetto di sovranità” ( 14
Appare allora necessario riandare al pensiero giuridico che ha
formulato il dogma della sovranità dello Stato (Stato di diritto, Stato
moderno), per osservare come lı̀ sia stato costruito il “diritto di
resistenza”. L’esigenza odierna di verificare come siano stati forgiati
concetti già giudicati storicamente costanti e universalmente validi,
su cui si è negli ultimi tempi sviluppato uno specifico campo di
), costituisce anche da
indagine, tanto ricco quanto diversificato ( 15
qualche anno una urgente preoccupazione di alcuni storici impe-
gnati a comprendere e a far comprendere come le peculiarità e le
differenze della Alteuropa rispetto all’Europa degli Stati nazionali
sovrani possano in qualche modo servire alla comprensione dell’Eu-
ropa contemporanea. Se la scienza giuridica tedesca ottocentesca è
stata la prima ad assegnare il Widerstandsrecht allo Staatsrecht, la
attuale storiografia tedesca è stata di nuovo la prima a voler conte-
( ) F.M. D S , Resistenza (diritto di), in Enciclopedia del diritto, XXXIX,
14 E ANCTIS
Milano, Giuffrè, 1988, pp. 994-1003: 994-995. La rilevanza di questa ‘voce’ per una
,
attuale considerazione del problema è ora nuovamente sottolineata da D. Q UAGLIONI
B -K-H. L (eds.), Sapere, coscienza e scienza nel
Conclusioni, in A. D E ENEDICTIS INGENS
diritto di resistenza (XVI-XVIII sec.) - Wissen, Gewissen und Wissenschaft im Widerstan-
dsrecht (16.-18. Jahrhundert). Atti del Seminario Bologna 23-24 Febbraio 2001, Frankfurt
am Main, Klostermann, 2003 (in corso di stampa).
) V. la recente discussone nel convegno (organizzato dall’Istituto universitario
( 15
Suor Orsola Benincasa) “Per una storia dei concetti giuridici e politici europei” (Napoli,
20-22 febbraio 2003), i cui atti sono di prossima pubblicazione.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
304 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
stualizzare quel diritto in quella scienza. Da qui si partirà, anche
perché, come si è accennato sopra, pure la scienza giuridica italiana
avrebbe seguito un percorso analogo (che chi scrive sta cercando di
rintracciare).
Nella Sattelzeit della fine del XVIII secolo, cosı̀ rilevante per la
), il trattato di un protagonista del
scienza del diritto pubblico (
16
tardo illuminismo tedesco, August Ludwig Schlözer, dava inizio ad
una longeva tradizione interpretativa che aveva le sue radici nel
fondamentale mutamento concettuale verificatosi a partire dalla
seconda metà del XVIII secolo. Nel ricostruire l’origine del pro-
blema di ricerca “Widerstandsrecht”, Robert von Friedeburg ha
assegnato qualche anno fa un ruolo fondamentale allo Allgemeines
Statsrecht und Statsverfassungslehre di Schlözer, pubblicato nel
). Qui l’origine del nuovo diritto statale veniva localizzato
1793 ( 17
nella Riforma di Lutero e Zwingli, e nel conflitto confessionale il
diritto di resistenza trovava la sua nuova formulazione: “Von der
Zeit an war die große Frage von dem jure resistendi, aus der in der
). La novità stava per
Folge das Staatsrecht erwachsen musste” ( 18
Schlözer soprattutto nella generalizzazione del problema: “Lutero
predicava la vera religione; l’imperatore voleva proibirlo; natural-
mente si pose allora il problema se si dovesse obbedire all’impera-
tore in tutto e per tutto. No, non nelle questioni di credo religioso,
risposero nel 1531 entrambe le Facoltà di Wittenberg. Ben presto
( ) Per cui cfr. il fondamentale studio di M. S , Geschichte des öffentlichen
16 TOLLEIS
Recthts in Deutschland, 1, Reichspublizistik und Policeywissenschaft: 1800-1914, Mün-
chen, Beck, 1988; 2, Staatsrechtslehre und Verwaltungswissenschaft: 1800-1914, Mün-
chen, Beck, 1992.
) R. F , Widerstandsrecht und Konfessionskonflikt. Notwehr und
( 17 VON RIEDEBURG
Gemeiner Mann im deutsch-britischen Vergleich 1530 bis 1669, Berlin, Duncker &
Humblot, 1999, p. 26. von Friedeburg ha ripreso la questione nel saggio Widerstand-
srecht im Europa der Neuzeit: Forschungsgegenstand und Forschungsperspektiven, in R.
F (ed.), Widerstandsrecht in der frühen Neuzeit. Erträge und Perspektiven
VON RIEDEBURG
der Forschung im deutsch-britischen Vergleich, Berlin, Duncker & Humblot, 2001,
soprattutto pp. 16-25. Sulla epocale trasformazione del linguaggio dei diritti mi sem-
brano del tutto attuali, in riferimento al problema di cui si sta parlando, le riflessioni di
, Diritto naturale e rivoluzione, in Prassi politica e teoria critica della società,
J. H
ABERMAS
trad. it., Bologna, il Mulino, 1973, pp. 127-173.
) La citazione da Schlözer è riportata da R. F , Widerstandsrecht
(
18 VON RIEDEBURG
und Konfessionskonflik, cit., p. 26.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 305
ANGELA DE BENEDICTIS
risposta e domanda furono generalizzate, e si cominciò a parlare
). In questa
della ‘difesa dei sudditi nei confronti dell’autorità’” ( 19
difesa andava ricercato il vero e proprio momento originario del-
l’ordinamento giuridico dell’Impero, la cui sostanza il professore di
Göttingen individuava nella possibilità dei sudditi di appellarsi a
tribunali indipendenti contro le decisioni delle loro autorità. Il
diritto di resistenza rientrava, però, nel “dominio del diritto” solo ed
unicamente in quanto esso potesse essere rivendicato dai rappresen-
tanti del popolo, dai ceti elettivi che mettevano “in pratica un dovere
ed un diritto universale del cittadino, quello… di scoprire e denun-
):
ciare oppressioni, abusi e difetti, di indicarli, di porvi rimedio” ( 20
non quindi dal singolo suddito, non dall’”uomo comune”, non dal
popolo inteso come massa. “Guai perciò allo stato dove non ci sono
rappresentanti del popolo; felice Germania, l’unico paese al mondo
dove secondo il diritto si può citare il proprio sovrano, senza
pregiudizio per la sua dignità, presso un tribunale estraneo, non
).
presso il suo” (
21
Per l’illuminista Schlözer i due tribunali imperiali, il Reichskam-
mergericht e il Reichshofrat, consentivano la mediazione di qualsiasi
grave conflitto tra sudditi e principe territoriale attraverso il ricorso
al diritto ( ).
22
Il nucleo della dottrina costituzionale di Schlözer — ovvero la
concezione del Sacro Romano Impero inteso come costituzione
mista di monarchia ereditaria, aristocrazia ereditaria e democrazia di
ceti elettivi rappresentativi del popolo e della nazione, nonché il
( ) R. F , Widerstandsrecht und Konfessionskonflikt, cit., p. 26
19 VON RIEDEBURG
(traduzione di A.D.B.).
) La citazione italiana di Schlözer è ripresa da M. S , La nascita delle
( 20 CATTOLA
scienze dello Stato. August Ludwig Schlözer (1735-1809) e le discipline politiche del
Settecento tedesco, Milano, Franco Angeli, 1994, p. 212.
) Anche questa citazione italiana di Schlözer è ripresa da M. S , La
( 21 CATTOLA
nascita delle scienze dello Stato, cit., p. 159, che la riporta analizzando le “aporie del
diritto di resistenza” dello scrittore tedesco. Lo stesso passo in tedesco in R. VON
F , Widerstandsrecht und Konfessionskonflikt, cit., p. 27. Va ricordato, con von
RIEDEBURG
Friedeburg, che l’analisi della costituzione imperiale è in Schlözer ancora intessuta da
una attenta analisi storica. Schlözer segue lo sviluppo degli argomenti di jus resistendi nei
monarcomachi francesi, poi nell’Impero della Guerra del Trent’anni, e quindi nelle
rivoluzioni inglesi.
) M. S , La nascita delle scienze dello Stato, cit., pp. 213-215.
( 22 CATTOLA
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
306 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
posto in essa occupato dal diritto di resistenza — seguiva però in
certo modo la fine del vecchio Impero. La formazione di singoli stati
sovrani nel Deutscher Bund imponeva una nuova concezione della
rappresentanza con la questione della landständische Verfassung di
ogni stato. Per quanto controverse ne fossero le interpretazioni, si
trattava pur sempre di decidere, diversamente da prima, tra sovra-
nità del principe e sovranità popolare, con un generalizzato rifiuto
).
del modello costituzionale veterocetuale (
23
Nel corso del movimento per la istituzione di una landständische
), la questione del diritto di resistenza fu
Verfassung (1815-1860) (
24
posta come soluzione al problema della tutela giuridica della costi-
tuzione “borghese” contro lo stato monarchico, assumendo contorni
nuovi: “La contrapposizione di allora produceva una retroproie-
zione nel passato medievale. Nei nuovi stati sovrani sorti dallo
scioglimento del vecchio Impero nel Deutscher Bund, il diritto di
resistenza diventò perciò la prova, supportata da esempi, per il
conflitto condotto con argomenti storici sulla legittimità della rap-
presentanza principesca o popolare. La scienza storica, in quanto
disciplina, poté conseguire il suo ruolo di scienza principale soprat-
tutto per il fatto che alle conoscenze acquisite attraverso di essa
vennero attribuite conseguenze significative per la legittimità di
).
controversi concetti politici” ( 25
La concezione sostenuta da Immanuel Kant — proprio nello
stesso anno 1793 della Statsverfassungslehre di Schlözer — che un
popolo non potesse trovare nella storia, ovvero in una “costituzione
civile già stabilita” alcuna dimostrazione dei propri diritti; che, per
essere il popolo rappresentato nel supremo potere legislativo del
capo dello stato/sovrano, al popolo stesso veniva fatto divieto
assoluto ad ogni resistenza contro il capo dello stato, anche nel caso
che questi avesse violato “il contratto originario” e avesse perso “in
tal modo, a giudizio dei sudditi, il diritto di essere legislatore, per
);
aver autorizzato il governo a condursi del tutto tirannicamente” (
26
( ) R. F , Widerstandsrecht und Konfessionskonflikt, cit., p. 29.
23 VON RIEDEBURG
) Ivi, pp. 16-25 sulla “nascita di un problema di ricerca”.
( 24 ) R. F , Widerstandsrecht und Konfessionskonflikt, cit., p. 30
(
25 VON RIEDEBURG
(traduzione di A.D.B.).
) La citazione in italiano è tratta da Sopra il detto comune: “Questo può essere
( 26 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 307
ANGELA DE BENEDICTIS
questa concezione era in qualche modo rovesciata dal movimento
costituzionale della prima metà del diciannovesimo secolo.
Uno dei primi esempi fu lo Entwurf einer Verfassung, die auf alte
germanischem Recht beruht, auf neu germanischen Ständen und auf
einem gesalbten König di J.F. Benzenberg (1816). L’anno dopo, nel
1817, Johann Ludwig Klüber, professore di diritto a Heidelberg,
sosteneva (Das öffentliche Recht des deutschen Bundes) che se l’isti-
tuzione Stato monarchico (di diritto pubblico) e la società borghese
(di diritto privato) dovevano essere necessariamente divisi e distinti,
doveva essere anche previsto un diritto del popolo — nel senso della
società di diritto privato borghese — alla resistenza contro lo Stato,
inteso nel senso di Stato monarchico istituzionalizzato, nel caso che
questo Stato violasse la costituzione. Il diritto di resistenza diventava
un problema di garanzie costituzionali a tutela di libertà e ugua-
glianza giuridica. Dopo il 1820, la radicalizzazione del conflitto rese
normale il ricorso a fondamenti storici per la legittimazione di
progetti costituzionali che rifiutavano sia le costituzioni concesse dal
).
monarca sia le vecchie rappresentanze cetuali (
27
Uno degli esempi più “spettacolari” della nuova attualità della
ricerca storica nel conflitto per l’assetto costituzionale dei nuovi stati
nel Deutscher Bund è ritenuto lo studio pubblicato nel 1832 da
Friedrich Murhard, consigliere di prefettura del regno di Westfalia-
dipartimento di Fulda. In Widerstand, Empörung und Zwangsübung
der Staatsbürger gegen die bestehende Staatsgewalt, in sittlicher
und rechtlicher Beziehung la contrapposizione tra “Rechtsstaat” e
“Gewaltstaat” veniva ricondotta ad una storia che da esempi molto
). I “sistemi statali di un diritto dei
risalenti conduceva al presente (
28
più forti” venivano visti in un percorso che andava da Machiavelli a
giusto in teoria, ma non vale per la pratica” [1793], in I. K , Scritti politici e di filosofia
ANT
2
, pp. 237-281: 265. Sul famoso saggio di K
della storia e del diritto, Torino, Utet, 1965 ANT
R. F , Widerstandsrecht und Konfessionskonflikt, cit., si sofferma alle pp.
VON RIEDEBURG
28-29. Il problema kantiano del “diritto di resistenza” in rapporto alla valutazione della
rivoluzione francese è stato oggetto di numerose analisi (tra le quali cfr. l’Introduzione di
a I. K , Scritti politici, cit., pp. 37-39). Rinvio, per questo, ai riferimenti di
G. S
OLARI ANT
, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 2, L’età delle rivoluzioni, 1789-1848,
P. C OSTA
Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 150-157.
) R. F , Widerstandsrecht und Konfessionskonflikt, cit., pp. 29-30.
( 27 VON RIEDEBURG
) Ibidem.
( 28 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
308 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Hobbes; mentre le “voci per una incondizionata obbedienza” anda-
vano da Lutero a Bodin a Hobbes, poi a Filmer, Kant e Gentz; e, di
contro, le “voci per la legittimità della resistenza e dell’esercizio del
potere coercitivo contro l’esistente potere dello Stato in casi parti-
colari” correvano da George Buchanan a John Milton, a John Locke,
).
a Algernon Sidney (
29
La Wissenschaftsgeschichte del problema “diritto di resistenza”
tracciata da von Friedeburg comprende ancora il Ranke della Ge-
schichte der Reformation (1838-1840); si sofferma sulla particolare
importanza del concetto di “Genossenschaft” sia nella Restauration
der Staatswissenschaften di Carl Ludwig von Haller (1816), sia nel
Volksrecht und Juristenrecht di Georg Beseler (1843), sia — e
ovviamente — sul Johannes Althusius di Otto von Gierke (1879);
giunge quindi allo Staatsrecht und Naturrecht in der Lehre vom
Widerstandsrecht des Volkes di Kurt Wolzendorff (1916), il punto
più alto della proiezione della concezione dualistica dello stato
monarchico sugli argomenti di jus resistendi elaborati tra Riforma e
Illuminismo, e contemporaneamente la negazione del diritto di
resistenza in quanto corpo estraneo, anacronistico, nello Stato mo-
derno. Diventato infatti lo Stato monarchico uno Stato costituzio-
nale — uno Stato moderno caratterizzato da un potere monarchico
costituzionalmente limitato — il diritto di resistenza era inteso come
un contributo all’origine del diritto del nuovo Stato (come già aveva
intuito Schlözer), ma ormai privo di significato attuale, dal momento
che lo Stato stesso forniva ai cittadini i mezzi giuridici per la tutela
dei loro diritti ( ).
30
( ) Ivi, pp. 30-32.
29 ) Ivi, pp. 33-45. Va segnalato che la Wissenschaftsgeschichte di von Friedeburg
( 30
prende in considerazione la posizione della cultura luterana ottocentesca, e poi soprat-
tutto di Troeltsch, e dopo Weimar di Hans Baron, concludendosi con il processo di
revisione dell’immagine di Lutero e della ortodossia luterana successivo alla fine della II
Guerra mondiale. La ricerca di von Friedeburg è parte integrante di questa stessa
revisione, condotta nel solco di altri studiosi come Luise Schorn-Schütte, di cui, al
proposito, Politikberatung im 16. Jahrhundert. Zur Bedeutung von theologischer und
juristischer Bildung für die Prozesse politischer Entscheidungsfindung im Protestantismus,
-F. E (eds.), Zwischen Wissenschaft und Politik. Studien zur
in: A. K OHNLE NGENHAUSEN
deutschen Universitätsgeschichte. Festschrift für Eike Wolgast zum 65. Geburtstag, Stutt-
-S (ed.),
gart, Franz Steiner Verlag, 2001, pp. 49-66, e più in generale L. S }
CHORN CHU
TTE
Alteuropa oder Frühe Moderne. Deutungsmuster für das 16. bis 18. Jahrhundert aus dem
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 309
ANGELA DE BENEDICTIS
Questo quadro sul diritto di resistenza, per nulla usuale nella
recente storiografia, consente, e giusto a questo punto, di delineare
un quadro molto meno chiaro, ma a mio parere similmente degno di
un certo interesse, della presenza del problema nella scienza giuri-
dica ottocentesca italiana.
Le diverse valutazioni della resistenza come problema della
scienza criminalistica italiana erano state discusse, negli anni ses-
santa, nel Programma del Corso di diritto criminale, Parte speciale di
), con una analisi della questione che utilizzava
Francesco Carrara (
31
ancora tutta la letteratura cinque-settecentesca dei “pratici”. Carrara
riteneva errato “nel punto di vista scientifico” associare il reato di
resistenza al concetto di lesa maestà, come invece molta criminali-
stica continuava a sostenere. Ma parlava, ovviamente, di reato.
La prospettiva di una considerazione del “delitto” di resistenza
nei termini rovesciati del “diritto” veniva individuata, a metà degli
anni ottanta, all’interno del dibattito dottrinale precedente il codice
penale del 1889 e come tentativo di risposta alla “sedizione anar-
). Nel saggio Diritto e delitto di resistenza uscito in tre parti
chica” (
32
nell’annata 1884 de “Il Filangieri. Rivista periodica mensuale di
), l’avvocato Luigi
scienze giuridiche e politico-amministrative” (
33
Masucci si addentrava nell’analisi sia della “teoria della resistenza
collettiva” sia di quella della “resistenza individuale”, dando conto
delle “grandi divergenze” e dei “continui tentennamenti” della
). L’intento di Masucci era duplice: soste-
scienza al proposito (
34
Krisenbewusstsein der Weimarer Republik in Theologie, Rechts- und Geschichtswissen-
schaft, Berlin, Duncker & Humblot, 1999.
) F. C , Programma del Corso di diritto criminale, Parte speciale, VI ed.,
( 31 ARRARA , M. S , Dissenso politico e diritto penale in Italia
vol. V, Prato 1890. Su C
ARRARA BRICCOLI
tra Otto e Novecento. Il problema dei reati politici dal “Programma” di Carrara al
“Trattato” di Manzini, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico”, 2,
, in Dizionario biografico degli
1973, pp. 607-702; e la voce redatta da A. M AZZACANE
italiani, 20, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1977, pp. 664-670.
) Sul dibattito M. S , Dissenso politico e diritto penale, cit., p. 646.
( 32 BRICCOLI
) L. M , Diritto e delitto di resistenza, in “Il Filangieri. Rivista periodica
(
33 ASUCCI
mensuale di scienze giuridiche e politico-amministrative”, IX, 1884, I, pp. 40-45;
119-140; 178-187. Il lavoro di Masucci era parte del dibattito dottrinale precedente il
,
codice penale del 1889, e tentativo di risposta alla “sedizione anarchica”: M. S
BRICCOLI
Dissenso politico e diritto penale, cit., p. 646.
) L. M , Diritto e delitto di resistenza, cit., p. 123.
( 34 ASUCCI © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
310 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
nerne la legittimità di entrambe le teorie, a determinate condizioni;
dimostrarne la completa appartenenza alla scienza giuridica del
diritto pubblico. Da una parte si trattava di dimostrare al popolo,
contro gli argomenti dei partiti anarchici, che la “teoria della resi-
stenza” era “teoria di ordine” in quanto frenava “le autorità sul
pericoloso pendio degli abusi” ai quali potevano essere facilmente
). Dall’altra parte si trattava di dimostrare
trascinate dal potere (
35
agli scienziati del diritto, contro coloro che ancora ravvisavano “nel
trionfo di questa dottrina un pericolo grave e permanente per il
pacifico e disciplinato svolgimento della vita delle nazioni”, che il
principio della resistenza era tutt’altro che pericoloso e sovversivo.
Intendeva, invece, mantenere l’ordine pubblico; dar voce alla co-
scienza dei popoli; era quindi principio giuridico e razionale quando
affermava la resistenza alla tirannia e l’opposizione all’ingiusti-
).
zia ( 36
La scienza che riteneva legittima la resistenza ai soprusi serviva
al mantenimento della pace e dell’ordine, e bisognava amarla. Chi
voleva che la pace e l’ordine non fossero “turbati né dagli abusi della
libertà, né dagli abusi del potere”; chi voleva che l’attività dei
cittadini e l’attività del governo concorressero “ad un unico scopo,
lo svolgimento pacifico, temperato, progressivo della vita del dritto”
non doveva “ribellarsi contro la teorica della resistenza ai soprusi”,
che era razionale in quanto tendeva “a ristabilire il necessario
equilibrio illegalmente rotto dalle autorità”. Doveva invece far com-
prendere al popolo che quella teorica distruggeva tutti gli argomenti
dei partiti anarchici. Di fronte alle loro obiezioni che non vi fosse
nessuno a sorvegliare e frenare i governanti, gli scienziati giuristi
dovevano rispondere che c’era il popolo a vigilare gelosamente
sull’osservanza delle leggi, frenando “le autorità sul pericoloso pen-
).
dio degli abusi” ( 37
Questa resistenza collettiva aveva “rischiarata la coscienza dei
popoli” e dato animo alla “dignità delle nazioni” soprattutto da
quando, con la gloriosa rivoluzione inglese, la teoria della resistenza
era diventata parte del diritto pubblico inglese. La rivoluzione
( ) Ivi, p. 120.
35 ) Ibidem.
( 36 ) Ivi, pp. 119-120.
( 37 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 311
ANGELA DE BENEDICTIS
francese aveva poi elevato “a regola l’eccezione”; e vi erano stati
ancora il 1815 e il 1830 in Europa. Blackstone, Romagnosi, Berriat
Saint Prix, Fischel, De Lolme, Maculay, Lamartine, Serrigny, Blun-
tschli, Melegari, Caruti, Casanova, Garelli, Palma, e molti altri non
citati “per brevità”, erano stati ed erano i “propugnatori dottissimi
e convinti” che avevano “definitivamente conquistato alla scienza”
“la teoria della resistenza collettiva legittima all’opera illegittima
).
delle pubbliche autorità” ( 38
La teoria della resistenza collettiva era giusta, quindi, e razio-
nale, ma doveva essere praticata solo in determinati casi. Ad essa
non poteva darsi “un’applicazione indefinita, senza spingere real-
mente le moltitudini a deplorevoli eccessi, e travolgere la società in
). Certamente, essa
continue lotte, fonti di disordine e di miseria” ( 39
non aveva motivo di essere in un governo monarchico costituzionale
rappresentativo, come quello italiano del tempo, che assicurava il
). In un tale
godimento di una “libertà temperata e feconda” ( 40
paese il diritto di resistenza non era più un principio giuridico e
).
razionale, ma rimaneva solo un “doloroso ricordo storico” (
41
Se sulla resistenza collettiva si poteva registrare una sostanziale
concordia dei giuristi “pubblicisti”, a proposito della “resistenza
individuale agli ordini illegittimi delle pubbliche autorità” non si
poteva dire lo stesso. Molti erano ancora i sostenitori della teoria
dell’ubbidienza passiva, convinti che la legge offrisse sempre agli
individui i mezzi per protestare pacificamente, e quindi la possibilità
che loro fosse resa ragione. Ma la teoria dell’obbedienza passiva non
era affatto razionale, non era affatto “indispensabile per l’ammini-
strazione dello Stato e per la tranquillità sociale”. La storia della
scienza giuridica, in questo caso la criminalistica anche dei secoli
), sosteneva Masucci nel
passati a partire dal diritto romano ( 42 ). La
mostrare l’assurdità della “teorica dell’ubbidienza cieca” (
43
storia, oltre che il lume della ragione, aiutava il giurista a determi-
( ) Ivi, pp. 44-45.
38 ) Ivi, pp. 119-120.
( 39 ) Ivi, p. 120.
( 40 ) Ivi, p. 122.
( 41 ) Ivi, pp. 124-125.
( 42 ) Ivi, p. 135.
( 43 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
312 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
nare i principı̂ che avrebbero potuto “agevolare efficacemente
).
l’opera faticosa del magistrato” nell’ardua fatica forense ( 44
Scienza del diritto pubblico e scienza del diritto criminale
dovevano entrambe riconoscere, in determinate circostanze, il di-
ritto di resistenza collettivo e il diritto di resistenza individuale.
Un anno dopo lo scritto di Masucci, nel 1885, il diritto penale
e il diritto costituzionale non erano più ritenuti adeguati a discipli-
nare insieme “scientificamente la materia troppo grave e complessa”
del diritto di resistenza. Una “teoria scientifica e completa sul diritto
di resistenza” poteva essere sviluppata solo specificamente dal di-
ritto pubblico. Vittorio Emanuele Orlando intendeva farlo con il suo
).
studio Della resistenza politica individuale e collettiva ( 45
Scopo di Orlando era non solo e non tanto offrire alla scienza
italiana un lavoro specifico che ancora mancava, ma soprattutto
“colmare una lacuna” generalmente lamentata nella scienza del
diritto costituzionale malgrado la ricchissima bibliografia esistente e
dovuta “in grandissima parte” a scrittori inglesi o tedeschi. Si
trattava di una bibliografia alla quale gli “scrittori speciali” avevano
contribuito non praticando “quella coordinazione sistematica senza
la quale non p[oteva] darsi trattazione scientifica”, poiché le loro
opere erano “veri e proprii scritti di polemica”, pubblicazioni
“infarcite di lunghe dispute teologiche”. Lutero e i giuristi di
Wittemberg tra i tedeschi; Milton, Salmasio, Filmer, Sidney tra gli
inglesi (protagonisti della “grande ribellione”, di uno dei “periodi
rivoluzionarı̂ che l’Europa ha attraversato in tempi moderni” ( ))
46
avevano teso “piuttosto a confutare o difendere quel tanto che in
quel momento interessava anzi che a trattare scientificamente l’ar-
gomento”. Nessuna delle loro pubblicazioni riusciva pertanto a
sollevarsi al “campo indipendente di una discussione propria ed
autonoma”.
( ) Ivi, p. 187.
44 ) V. E. O , Della resistenza politica individuale e collettiva, Roma-Torino-
( 45 RLANDO
Firenze, Loescher, 1885. Anche questo studio giovanile di Orlando fu parte del dibattito
, Dissenso politico e diritto penale,
dottrinale precedente il codice penale: M. S BRICCOLI , La scienza
cit., p. 646 n. Sul ruolo dello scritto nella riflessione orlandiana M. F IORAVANTI
del diritto pubblico: dottrina dello Stato e della costituzione tra Otto e Novecento, Milano,
Giuffrè, 2001, I, pp. 94-132.
) V. E. O , Della resistenza politica, cit., p. 1.
(
46 RLANDO
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 313
ANGELA DE BENEDICTIS
Il problema di fondo, che era quello “dell’obbedienza al sovrano
e dei limiti di essa”, aveva certo “relazioni assai intime con diversi
ordini di scienze” e di discipline, tra le quali, specialmente “le generali
discipline filosofiche” che si occupavano “dello sviluppo e del pro-
gresso dell’umanità, delle condizioni fondamentali di esistenza di
essa”. Ogni scienza aveva però “modi proprii di osservazione”, e do-
veva “necessariamente considerare un argomento da quel lato che
principalmente [aveva] rapporti con essa”. Questo lato era quello
“specifico del diritto pubblico”. A questo solo apparteneva e trovava
il suo proprio posto l’argomento della resistenza. Solo esso intendeva
“a una teoria scientifica e completa sul diritto di resistenza”.
Né in Inghilterra, né in Francia una tale teoria era mai stata
sviluppata nei rispettivi “periodi rivoluzionari”. In Germania essa
mancava soprattutto nel campo della filosofia del diritto. In Italia i
pur “pregevoli lavori” generali di diritto penale e di diritto costitu-
zionale non avevano comunque “disciplinato scientificamente la
materia troppo grave e complessa”. Questa materia doveva essere
trattata “in speciale maniera… onde ricevere una sistemazione rigo-
rosamente giuridica”. Data la confusione esistente, il fine richiedeva
necessariamente una esposizione introduttiva delle “varie dottrine”
sulla resistenza, che però non si poteva ricavare dai “veri e propri
scritti di polemica”, ma unicamente da “tre lavori assai diversi per
mole e per valore”, tutti tedeschi, collocabili tra scienze politiche e
scienze dello Stato. Fornivano la base alla trattazione scientifica e
sistematica di Orlando contributi in parte nati all’interno dei dibat-
titi per la istituzione di una landständische Verfassung — cui si è
accennato sopra —, come quello di Friedrich Murhard, Ueber
Widerstand, Empörung, und Zwangsübung der Staatsbürger gegen die
bestehenden Staatsgewalt (1832); e poi il capitolo di Robert von
Mohl in Die Geschichte und Literatur der Staatswissenschaften
(1855), e l’articolo di Bluntschli Gehorsam und Widerstand nel
Deutsches Staatswoerterbuch (1865).
Lo scopo della scientificità e sistematicità induceva Orlando ad
andare oltre le sue fonti e a porre un netto spartiacque tra un prima
e un poi, tra rivolta violenta e resistenza. Lo spartiacque era costi-
tuito sia dalla teoria e dal diritto costituzionale, sia dalla formazione
dello stato costituzionale. “La resistenza, sia popolare sia collettiva,
presuppone necessariamente una teoria ed un diritto costituzionale.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
314 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Non è quindi a discorrere di una giuridica nozione di quella per
tutto il lungo volger di tempo che la formazione dello stato costitu-
). Prima della resistenza vi era stata solo “rivolta
zionale precede” (
47
violenta contro la persona del Sovrano” che avesse oltrepassato e
calpestato il fine cui l’autorità suprema era preposta “cioè di curare
il meglio dei sudditi”. La rivolta violenta era apparsa naturalmente ai
sudditi come l’unico mezzo adatto a “scuoterne il giogo”: gli esempi
). Nella storia la legit-
erano “antichi quanto la storia medesima” (
48
timità della resistenza era stata discussa “con meri criteri filosofici
anzi che giuridici”, sia presso i classici, sia nel cristianesimo, sia nel
medio-evo. Durante la Riforma “il grido della resistenza popolare”
diventò “un dovere spirituale”, ma privo di base giuridica che
mancava “nella scienza poiché una teoria dello Stato non esisteva
ancora, mancava nelle costituzioni che non avean tradizioni liberali”.
Solo con Grozio e con Hobbes poté nascere una “dottrina sulla
resistenza politica”, dal momento che solo con loro “si formò una
teoria scientifica sullo stato”. Questa teoria presupponeva “la con-
siderazione dell’indole, dell’intima natura del rapporto politico fra
governanti e governati, ... la nozione dei diritti politici individua-
). Col suo supporto si potevano considerare sia la resistenza
li” (
49
individuale, sia la resistenza collettiva o popolare nella sua forma
legale e nella sua forma illegale o di rivoluzione. Ed era proprio a
partire dalla resistenza individuale che Orlando dimostrava come
solo la scienza del diritto costituzionale potesse ammetterla come
diritto.
Dato che la questione della legittimità o meno “della resistenza
del singolo cittadino all’azione dell’ufficiale pubblico, la resistenza
individuale” supponeva “necessariamente la illegalità del procedi-
mento del funzionario”, cadendo altrimenti nel “delitto di ribellio-
ne”, l’esame del problema apparteneva “insieme a due scienze del
diritto pubblico interno, il penale e il costituzionale”. Per assicurare
“chiarezza e rigore al soggetto e semplicità all’esposizione” biso-
gnava innanzitutto determinare “il lato dal quale ognuna” scienza
considerava la resistenza individuale, “i criteri di cui ognuna” si
( ) Ivi, p. 5.
47 ) Ivi, p. 5.
( 48 ) Ivi, p. 8.
( 49 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 315
ANGELA DE BENEDICTIS
serviva. Praticare tale delimitazione consentiva a Orlando di verifi-
care un risultato positivo e uno negativo: “Il Diritto costituzionale
esamina se fra i diritti di libertà esiste anche il diritto alla resistenza
individuale: il diritto punitivo invece annovera fra i reati quello della
resistenza al pubblico ufficiale, e vuol determinare se sia motivo
dirimente il reato, l’elemento di fatto che l’ufficiale suddetto agisse
illegalmente. Positivo è quindi il primo esame, negativo il secondo:
ma esiste fra essi necessariamente un rapporto che sarà bene deter-
). Il problema, come già in Masucci, poteva essere anche
minare” (
50
affrontato nella “fusione dei due aspetti”. Ma era importante “tenere
scrupolosamente distinti i campi delle scienze diverse… perché la
ragion metodica risponde[va] sempre alla ragione intima dell’argo-
). L’esame puramente negativo del diritto penale aveva
mento” (
51
bisogno “del soccorso del diritto costituzionale”, perché quest’ul-
timo considerava non tanto se il cittadino che resisteva al procedi-
mento illegale dovesse “ritenersi come scusato”, quanto piuttosto se
). La maniera in cui la
in tal caso egli usava di un suo diritto ( 52
scienza del diritto costituzionale considerava la materia era “sempli-
ce ed evidentissima”: “Il diritto costituzionale moderno studia l’or-
dinamento dei pubblici poteri col necessario presupposto della
libertà: sia più o meno lato il senso col quale gli scrittori moderni
definiscono la scienza, quel presupposto vien sempre ritenuto espli-
citamente o implicitamente. Ora la legittima resistenza apparisce
come una sanzione pratica della libertà individuale ed in questo
).
senso il diritto di resistenza è diritto di libertà” (
53
Essendo il diritto di resistenza un diritto di libertà, il “ricono-
scimento giuridico” di esso non poteva neppure concepirsi in forme
di governo che non ammettessero libertà — ovvero, per Orlando, in
qualsiasi forma di governo precedente lo Stato dotato di costituzione
liberale. Qui, ad esempio, la resistenza ad un arresto illegale di un
cittadino (l’esempio per antonomasia) non poteva essere ammessa
come diritto, “comunque una liberale giurisprudenza [avesse] am-
messo come dirimente il reato, il fatto dell’illegalità del procedimen-
( ) Ivi, pp. 41-42.
50 ) Ivi, p. 54.
( 51 ) Ivi, p. 44.
( 52 ) Ivi, p. 45.
( 53 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
316 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
to” ( ). Il problema era costituito soprattutto dal fatto che il più
54
delle volte l’arresto arbitrario era voluto “non dallo agente, mero
strumento, ma dalla mano più elevata” che lo faceva operare.
Davanti alla “massima fondamentale del dispotismo: quod principi
placuit legis habet vigorem” ogni “teoria liberale” veniva meno. In un
governo del genere “sanzionare il diritto politico di resistenza nel
cittadino, sarebbe [stata] una contraddizione col sistema e nessun
).
governo [aveva] mai pensato a stabilirla” (
55
Il diritto di resistenza come diritto di libertà aveva certo avuto
uno sviluppo storico, per quanto indiretto, che aveva coinciso “con
le successive affermazioni della libertà individuale e con le solenni
garanzie richieste perché fosse lecito al potere governante di pri-
varne il cittadino”. Tra gli “scrittori moderni” si discuteva molto se
“il diritto romano ammettesse la resistenza”, utilizzando prevalen-
temente passi del Codice e che si riferivano quindi “ad epoca in cui
ogni libertà popolare era venuta meno”. Tale era la “l. 5, C, de iure
fisci, (10, 1)”, che permetteva al privato di resistere all’ufficiale che
volesse “occupare quei beni caduti nel Fisco, senza un ordine
). Ma il diritto di resistenza individuale
speciale del principe” ( 56
rimaneva per Orlando questione puramente negativa del diritto
penale, mentre “un’importanza assai maggiore” rivestiva il diritto di
resistenza collettiva, perché aveva a che fare con il progresso storico
dell’umanità e poteva essere giuridicamente pensabile solo dentro la
costituzione. La differenza fondamentale tra i due diritti, quello
individuale e quello collettivo, stava nell’essere il primo la conse-
guenza della decisione di un giudice, ciò che non valeva per il
secondo. Nel caso della resistenza individuale ad un ufficiale che
avesse proceduto illegalmente avveniva una “dichiarazione solenne
di un magistrato che ne [aveva] l’autorità, la quale dichiarazione
retroagendo al momento in cui la resistenza ebbe luogo, stabili[va]
con obiettiva e indiscutibile certezza di chi fu il torto”. Era questa la
ragione principale che consentiva di difendere la legittimità della
resistenza individuale. “Non basta credere di essere nel diritto,
resistendo al funzionario; bisogna essere nel diritto: ed il giudicato a
( ) Ivi, p. 46.
54 ) Ivi, p. 47.
( 55 ) Ivi, p. 56, n. 9.
( 56 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 317
ANGELA DE BENEDICTIS
questo mira, a sostituire l’obiettiva constatazione della legittimità
della difesa alla obiettiva convinzione dell’agente”. Nulla di simile
poteva invece avvenire nella resistenza collettiva. Nessuna autorità
poteva giudicare “il conflitto fra il popolo e il governo” ( ).
57
I criteri per condurre l’esame, per distinguere i principı̂ in base
ai quali la resistenza collettiva o popolare potesse essere un diritto,
correvano lungo lo spartiacque della “costituzione vigente”. Nella
storia, prima del presente, Orlando individuava due “tipi storici più
salienti” nei quali ognuna delle diverse forme di resistenza collettiva
si era praticamente attuata: a) “resistenza collettiva legale”, ovvero casi
di resistenza che si erano “mantenuti entro i limiti della costituzione
vigente, volendone delle modificazioni, ma rispettandone la sostan-
za” ( ); b) “resistenza collettiva rivoluzionaria, o semplicemente rivo-
58
luzione”, ovvero la resistenza collettiva volta contro la costituzione
medesima, intesa a “distruggere l’ordinamento politico esistente”, a
“rimuovere la costituzione medesima come causa di ogni abuso” ( ).
59
Iscrivendosi l’oggetto di analisi di Orlando all’interno del diritto
costituzionale, il tipo della resistenza collettiva rivoluzionaria — so-
stanzialmente uno solo, la rivoluzione francese — naturalmente non
vi rientrava. “Il preteso diritto di rivoluzione avendo per iscopo ap-
punto la distruzione della costituzione, non può essere, per la con-
traddizione che nol consente, un diritto costituzionale” ( ). Per il di-
60
ritto pubblico moderno erano più rilevanti i tipi storici nei quali si era
realizzata la resistenza popolare legale contenuta nei limiti del dirit-
to ( ). Nel diritto pubblico romano questo ruolo era stato svolto dal-
61
l’istituzione del tribunato ( ). Nel medioevo il tipo storico della re-
62
sistenza collettiva aveva assunto una “forma specialissima”,
caratterizzata dal fatto che, per quanto “troppo di frequente, trasmo-
dasse in guerre civili e in sanguinose turbolenze, non perdeva il ca-
rattere di legale né diventava rivoluzione”. Per i principi generali di
diritto pubblico allora vigenti, quelli del sistema feudale, i rapporti
giuridici esistenti tra un sovrano considerato a lungo come primus inter
( ) Ivi, pp. 62-63.
57 ) Ivi, pp. 63-64.
( 58 ) Ivi, pp. 64-65.
( 59 ) Ivi, p. 104.
( 60 ) Ivi, p. 67.
( 61 ) Ibidem.
( 62 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
318 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
pares e i baroni “non eran quelli che modernamente si concepiscono
fra suddito e Sovrano, ma si riducevano a prestazioni determinate, in
corrispettivo di privilegi man mano strappati alla suprema autorità
dello Stato e che ogni dı̀ crescevano”. Allora, come anche nel periodo
in cui era sorto il Comune, il diritto di resistenza ebbe “questo ca-
rattere di diritto eccezionale, di privilegio”, ed era naturale che si lot-
). Era “forma spe-
tasse per “acquistarlo, o difenderlo, o allargarlo” (
63
cialissima” anche perché “diritto di resistenza armata”, che giunse a
far parte dell’ordinamento pubblico medievale a tal punto da essere
scritto “in due celebri Carte di quel tempo”, soprattutto la Magna
Charta e la Bulla Aurea d’Ungheria. Perciò “fu diritto costituzionale
vero e proprio codesto, di insorgere contro la violazione di una fran-
chigia, costringere l’autorità suprema a tornare al rispetto di essa, e
).
quindi prestarle di bel nuovo l’antica obbedienza” ( 64
Diritto costituzionale, il diritto di resistenza armato medioevale,
ma “diritto eccezionale e sfrenato”, le cui manifestazioni “energiche
e rozze non erano più compatibili col nuovo diritto pubblico che
). Le manifestazioni di
sorgeva”, quello dello “Stato moderno” (
65
quel diritto eccezionale e sfrenato furono annichilite “sotto l’uni-
forme potenza dell’autorità centrale”. La “coesione” fu poi raggiunta
dal dispotismo, la forma che “prevalse allora nella maggior parte
). Nessun tipo storico
delle nazioni europee, nei tempi moderni” (
66
di legittima resistenza collettiva, quindi, nei tempi moderni dello
Stato moderno, con una sola eccezione: il “tipo perfetto, quanto
).
inimitabile” dell’Inghilterra (
67
Se l’“esame storico” confermava il principio che lo “svolgimento
della popolare resistenza” rimaneva “nei limiti della costituzione
vigente”, rispettando la costituzione e spesso mirando a difenderla,
rimaneva però ancora per Orlando la necessità di determinare se
esistesse, e quale fosse “una ragione giuridica di essa”. Era una
questione che riguardava il presente. Bisognava cioè considerare se
esistesse un “diritto di resistenza collettiva”, ed in quali casi potesse
( ) Ivi, pp. 68-69.
63 ) Ivi, pp. 69-70.
( 64 ) Ivi, p. 69.
( 65 ) Ivi, pp. 69-70.
( 66 ) Ivi, p. 71.
( 67 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 319
ANGELA DE BENEDICTIS
ammettersene l’esercizio in quanto diritto politico. Due ne erano
sostanzialmente le condizioni: “Perché la resistenza legale si conce-
pisca come un diritto, occorre in primo luogo che il popolo abbia
per la costituzione una parte qualsiasi nell’andamento della pubblica
cosa. … Dato il concorso di questo elemento, e dell’altro da noi già
esaminato cioè che la resistenza popolare sia specificamente diretta
non tanto contro la costituzione quanto contro quel dato arbitrio,
può dirsi che la resistenza collettiva costituisca un diritto politico,
).
comunque per sua natura eccezionale” (
68
Nei tempi recenti vi era stato peraltro uno straordinario sviluppo
di mezzi morali di resistenza collettiva legale, che avevano “reso più
raro l’uso dei mezzi materiali di pura resistenza legale [l’uso delle armi]
che invece era frequente nel medio evo, quando dei mezzi morali era
). La pubblica opinione, la stampa, le asso-
quasi nulla l’efficacia” (
69 ) erano i mezzi
ciazioni politiche, le riunioni o assemblee popolari ( 70
morali, “una maniera di freni i quali tutelassero le pubbliche libertà
e i diritti della comunità senza aver ricorso all’uso della forza che
). Erano mezzi che
diventava ognora più difficile e più rovinoso” ( 71
appartenevano alle origini di un governo costituzionale. “In questo
senso, potrebbe dirsi che il governo costituzionale nelle sue origini e
nel suo sviluppo storico servı̀ mirabilmente ad organizzare una con-
tinua resistenza legale. Come espressione di questo momento storico
potè esser vera quella definizione per cui la costituzione fu ritenuta una
‘legge che il popolo impone ai suoi governanti, onde tutelarsi contro
).
il loro dispotismo’” (
72
Tutto ciò che stava prima della costituzione, quindi anche i
mezzi morali della resistenza collettiva legale, erano per Orlando
“storia”. Erano ormai radicalmente mutate “le condizioni giuridiche
e politiche dello Stato rappresentativo moderno”. Era quindi “na-
turale che quel vecchio sistema dei contrappesi, che se ne stava in
guardia contro gli eccessi del potere esecutivo, non [avesse] più il
medesimo interesse né costitui[sse] più lo scopo primordiale o
( ) Ivi, p. 73.
68 ) Ivi, p. 84.
( 69 ) Ivi, pp. 81-84.
( 70 ) Ivi, cit., p. 85.
( 71 ) Ibidem.
( 72 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
320 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
l’essenza delle attuali istituzioni rappresentative”. Non si doveva
comunque ritenerne superfluo lo studio, o tralasciare di valutare se
non fosse ancora il caso, in contingenze particolari, di fare ricorso a
). Per il presente “una grave quistione”, che
“quelle vecchie armi” ( 73
aveva diviso l’opinione di egregi pubblicisti italiani, riassumeva
perfettamente “i mezzi materiali di resistenza legale per l’attuale
): la Camera aveva il diritto di servirsi dell’arma
diritto pubblico” ( 74
del “rifiuto del bilancio… arme che fu definita dall’Arcoleo come atta
a ‘scalzare il governo con un colpo decisivo ben più possente che
)?
una rivolta di popolo’” ( 75
Si può tentare di sintetizzare la teoria scientifica del diritto di
resistenza costruita da Vittorio Emanuele Orlando sottolineandone
alcuni snodi salienti. Innanzitutto, Orlando relega il diritto di resi-
stenza individuale al solo ambito del diritto penale. Per quanto ri-
guarda il diritto di resistenza collettivo, poi, l’assegnarlo unicamente
all’ambito del diritto costituzionale dello Stato costituzionale com-
porta sostenere che, prima del presente, non fosse possibile alcuna
“ragione giuridica” della resistenza, il popolo non avesse parte nel-
l’andamento del governo, la resistenza fosse sempre sfrenata; che,
dopo il medioevo, la coesione dello Stato moderno e il dispotismo che
lo caratterizzò annullassero qualsiasi resistenza e qualsiasi capacità di
reagire all’arbitrio; e infine che nel medioevo e nello Stato moderno
non venisse esercitato alcuno dei mezzi morali della resistenza, ovvero
di quei freni volti a tutelare pubbliche libertà e diritti di comunità
senza ricorrere al mezzo materiale dell’uso della forza.
Le differenze con il diritto di resistenza della giuspubblicistica
tedesca tardo settecentesca e ottocentesca sono certo consistenti, e
dipendono (riducendo in una veloce considerazione una questione
degna di ben altro approfondimento) dalla diversità tra la storia
imperiale e la storia italiana da una parte, nonché dalla diversa
tradizione della scienza di diritto pubblico nel Sacro Romano Im-
pero della Nazione Tedesca e negli antichi stati italiani. Vi è però un
elemento comune, che — almeno nell’economia del presente saggio
— ha un peso specifico più consistente delle differenze riscontrabili
( ) Ivi, p. 86.
73 ) Ivi, p. 86.
( 74 ) Ivi, p. 87.
( 75 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 321
ANGELA DE BENEDICTIS
tra le due tradizioni scientifiche nazionali: la formulazione stessa di
un “diritto di resistenza” e di “dottrine” del diritto di resistenza.
Dato che questa formulazione sia il prodotto di una “visione
positivistiva e paleo-liberale”, ci si può allora di nuovo chiedere, con
Paolo Grossi, che cosa questa visione abbia reso totalmente incom-
prensibile delle concezioni del resistere presenti nella cultura giuri-
dica pre-ottocentesca.
II. La più recente storiografia europea interessata ai conflitti
politico-confessionali della prima età moderna ha mostrato come in
Germania, in Inghilterra e in Scozia il “vocabolario” giuridico (oltre
che politico e filosofico) dei contemporanei non contemplasse il
“diritto di resistenza”, ma conoscesse invece tre forme di resistenza
legittima, tra loro differenziate anche riguardo coloro ai quali era
consentito resistere.
Il diritto dei magistrati inferiori a proteggere i loro sudditi;
l’autodifesa consentita anche all’“uomo comune” o al “popolo
comune” in casi di necessità rigidamente definiti; l’autodifesa rico-
nosciuta come un diritto in base allo ius naturae e consentita ad
intere popolazioni nella loro capacità di corpi in grado di esercitarlo
allo scopo di difendere la “patria”: tutte queste tre diverse forme
avevano però in comune alcuni principi di fondo. Prevedevano il
ricorso alle armi senza peraltro permettere a chiunque di rifiutare
l’ordine e la sudditanza ad un superiore; riconoscevano la possibilità
di esercitare forme di autodifesa che potessero comportare il resi-
stere usando le armi contro i magistrati, ma senza rivolgersi contro
la monarchia; esprimevano la consapevolezza di quanto pericoloso
potesse diventare l’uso del diritto di autodifesa. Il concetto di
“resistenza lecita” cosı̀ precisato poteva essere desunto dalle diverse
e talvolta anche concorrenti fonti del diritto che costituivano l’or-
dinamento giuridico del XVI e XVII secolo, cioè nello ius divinum,
).
nello ius naturae, nello ius commune e nello ius romanum (
76
( ) R. F , Widerstandsrecht und Konfessionskonflik, cit.; R.
76 VON RIEDEBURG VON
F , Widerstandsrecht im Europa der Neuzeit: Forschungsgegenstand und For-
RIEDEBURG F , ‘Self Defence and Sovereignty: The Recep-
schungsperspektiven, cit.; R. VON RIEDEBURG
tion and Application of German Political Thought in England and Scotland, 1628-69 , in
“History of Political Thought”, XXIII, 2002, in particolare pp. 238-240.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
322 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Le nuove indagini sul “vocabolario” dei conflitti politico-reli-
giosi della prima età moderna (sulle quali ritornerò più avanti) ne
hanno pure individuato il profondo radicamento nella letteratura
). È dall’analisi di questa letteratura, e
giuridica tardomedievale (
77
del sapere in essa espresso, che risulta evidente come la definizione
del resistere risulti dal negarne l’identificazione con il ribellare.
Finora non si è dedicato a questo aspetto del problema l’attenzione
che merita — a parte alcune significative eccezioni — proprio in
quanto consente di verificare la piena appartenenza del vocabolario
e del discorso del resistere alla dimensione del conflitto. Si tratta
infatti di vocabolario e discorso che si formano all’interno del
), e
“sistema del crimenlaesae”, aprendovi un “varco notevole” (
78
che possono ammettere sia il resistere individuale sia il resistere
collettivo. Il luogo originario è nel commento di Bartolo da Sasso-
ferrato alla costituzione imperiale Qui sint rebelles del 1312 e nei
Commentaria ai Tres Libri Codicis, due testi che stanno all’inizio di
una tradizione di pensiero di lunghissima durata.
È stato recentemente osservato da Diego Quaglioni che le
glosse di Bartolo alla Qui sint rebelles rappresentano il più alto
sforzo teorico della tradizione giuridica e politica di matrice ita-
liana nella trattazione del tema dell’obbedienza e della resistenza al
potere. L’inserimento di queste glosse nel Corpus iuris conferisce
loro una importante funzione autoritativa nella scienza giuridica del
tardo medioevo e dell’età moderna, e ne fa la base di tutta la
speculazione successiva sul diritto di resistere ( ). I passi più signi-
79
ficativi del testo bartoliano sono la glossa a Tenore ( ) e la glossa a
80
( ) D. B , Ungehorsam oder Widerstand? Zum Fortleben des mittelalter-
77 }
O TTCHER
lichen Widerstandsrechtes in der Reformationszeit (1529-1530), Berlin, Duncker &
Humblot, 1991.
) M. S , Crimen laesae maiestatis. Il problema del reato politico alle soglie
( 78 BRICCOLI
della scienza penalistica moderna, Milano, Giuffrè, 1974, p. 316.
) D. Q , “Rebellare idem est quam resistere”. Obéissance et résistance
(
79 UAGLIONI
dans les glosses de Bartole à la constitution “Quoniam nuper” d’Henry VII (1355), in J.C.
e e
(ed.), Le Droit de résistance XII -XX siècle, Paris, ENS Éditions, 1999, pp.
Z ANCARINI
35-46: 38.
) B S , Super constituione extravaganti Qui sint rebelles, c.
( 80 ARTOLO DA ASSOFERRATO
104v: “Tertia pars, in qua ponit statutum, ad cuius intelligentiam sciendum est, quod
rebellare idem est quod resistere, secundum Hug. C. de deser. l. 2. lib. 12. & hoc
resistere potest fieri faciendo aliquid contra, vel non faciendo, & non obediendo, vel
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 323
ANGELA DE BENEDICTIS
Rebellando ( ). Che sia lecito resistere in determinate situazioni, e in
81
base a C. 10, 1, 5 (l. prohibitum) e C. 12, 40, 5 (l. devotum), sta nello
testo dottrinale che glossa una costituzione imperiale in cui il
resistere è definito come crimen laesae maiestatis. E questa glossa
).
viene poi inserita nel Volumen legum del Corpus iuris civilis (
82
) sono enume-
Nel commento di Bartolo ai Tres Libri Codicis (
83
rate esplicitamente le diverse circostanze nelle quali è lecito resistere.
Alla l. prohibitum Bartolo annota che chiunque ne abbia interesse
può resistere ai messi del principe che compiano un’esecuzione
formalmente illecita o ingiusta. Per resistere più efficacemente
chiunque può convocare congiunti amici e vicini, che anzi possono
muoversi senza essere convocati. Perché i soccorritori raggiungano
con maggiore rapidità colui che è oppresso, si pratica per consue-
tudine che gli oppressi gridino ad alta voce: “succurrite, succurrite”,
). Nel
allo scopo di convocare tutti coloro che possono sentire (
84
utranque scilicet vocabuli significationem continet, [...] licet hoc nomine, rebellis, iura
antiqua non utantur”.
) Bartolo da Sassoferrato, Super constituione extravaganti Qui sint rebelles, c.
( 81
104v: “Resistendo, vel non obediendo, licet ipsi guerram non inferant, ut dictum est. Et
advertendum est, quod in illo qui rebellat contra Principem, hæc constitutio loquiter
simpliciter, quasi contra eum non possit esse aliqua iusta causa resistendi. In eo vero
quod loquitur in eo qui rebellat contra officiale suos, loquitur limitative, scilicet in his
quæ ad commissum eius officium pertinent, & hoc quia si ultra facerent, posset ei
legitime resisti, vt C. de iure fisci. prohibitum lib. 10. & de meta. l. devotum. lib. 12”.
) D. Q , “Rebellare idem est quam resistere”, cit., p. 39.
( 82 UAGLIONI
) B S in Tres Codicis Libros Commentaria, Augustae Tauri-
(
83 ARTOLI A AXOFERRATO
norum, Apud Nicolaum Beuilaquam, MDLXXIIII (è l’edizione da cui citerò in seguito).
) “Prohibitum. Nunciis Principis non creditur sine litteris, & ipsi volentibus,
(
84
aliorum bona capere, quilibet cuius interest, potest de facto resistere. [...] Casus in
terminis est planus [...] Fateor tamen, quod dicti officiales debent portare signa
officialium, ex quibus cognoscantur, ut nuncij biretum rubeum, & similia. alias possit ei
resisti, ut l. item apud Labeonem. §. si quis virginem. ff. de iniuriis, iuncta l. si quis
ignorans. ff. loca. Item nota quod officiali iniuste exequenti licet de facto resistere, ut hic,
& l. devotum. j. de meta. quod. dic., ut per Cy. in l. j. s. unde vi, & per Gulielmum de
Gug. ff. de iustitia, & iure. l. ut vim. Item nota quod licet resistere etiam his, quorum
interest. Puto etiam, quod, quo ad resistendum, potest convocare coniunctos, & amicos,
& etiam sine convocatione possint convenire vicini, & amici, ut l. si quis in servitute. in
fi. ff. de furt. facit, quod nota . in l. ii, § cum igitur. ff. de vi, & vi armata. Ad hoc tamen,
ut homines citius veniant ad succurrendum oppresso, est de consuetudine inventum, ut
oppressi exclament, succurrite, succurrite ex quo videt omnes audientes convocare, ut l.
pretor ait. §. si quis adventu. ff. vi bonorum raptorum. & habes per gl. doctores. in d. l.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
324 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
commento alla l. devotum Bartolo scrive che è possibile difendersi
dai soldati che pretendono più del convenuto per il loro alloggia-
mento e che violano il possedimento di qualcuno, anche colpendoli.
E se i soldati intendono espellere qualcuno dal proprio possedi-
mento, amici e vicini dell’interessato possono colpirli allo scopo di
impedire l’azione, senza che questo costituisca un’offesa. Si tratta,
).
invece, di difesa ( 85
La lettura incrociata del commento alla costituzione Qui sint
rebelles, e del commento alle costituzioni di Diocleziano e Massi-
miano (l. prohibitum) e di Onorio e Teodosio (l. devotum) contenute
nei Tres libri mostra, insomma, attraverso quali argomenti fosse
possibile superare l’equazione resistere=rebellare.
Poco tempo dopo il commento di Bartolo, un altro giurista, il
“pratico” Luca da Penne interpretava i Tres Libri con un opera che
). Invero, quanto scrive da Penne sulle due
ebbe grande fortuna (
86
ut vim. Ultimo nota quod officiali Principis venienti cum literis debet obediri”: B ARTOLI
S in Tres Codicis Libros Commentaria, ad X. Librum Codicis, De iure fisci, Lex
AXOFERRATO
A , La responsabilità del giudice e
V (4r). Il passo era già stato riportato da D. Q UAGLIONI , “Ci-
dell’officiale nel pensiero di Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), ora in D. Q UAGLIONI
vilis sapientia”. Dottrine giuridiche e dottrine politiche fra medioevo ed età moderna. Saggi
per la storia del pensiero giuridico moderno, Rimini, Maggioli, 1989, pp. 97-98, n. 56.
) B S in Tres Codicis Libros Commentaria, ad XII. Librum
(
85 ARTOLI A AXOFERRATO
Codicis, De metatis & epidemiticis, Lex V (55v): “Devotum. Nullus miles ad præsidium
publicum seu privatum potest accedere, & contrafacientem tamquam sacrilegum quili-
bet potest expellere. & administrator qui eum transmiserit punitur, atque dictis militibus
transeuntibus solum hospitari licet, nihil pro se, vel pro animalibus ab hospitante
quærent vel exigent, sive hospitantis invitus sive volens det, & in hospitio invitis dominis
domorum, residentiam non faciet, contra faciens punitur. h. d. In tex. ibi, ultionis Nota
quod pro defendenda possessione sua licitum est ulcisci & talis ultio non est proprie
ultio, sed defensio, ut dicit gl. q. no. ad q. de eo, qui dixit in iudicio ad sui defensionem,
Titium ulciscendo percussisse. Nam istud verbum ultionis, non sumitur hic pro offensa,
sed potius pro defensa. In tex. ibi. qui primum Nota hic tex. expresse, quod si aliquis
vult me expellere de possessione mea, quod amici mei, & vicini mei possunt percutere
volentem me expellere, ne me expellat, quod est valde notandum”.
) Commentaria D. L P iuriscons. Clarissimi in Tres Posteriores Lib.
(
86 UCAE DE ENNA
Codicis Iustiniani. In quibus, & inter alia ab eo curiose observata multa, idque doctissime,
ad cognitionem magistratuum & Praefecturarum Francorum, collegit & animadvertit, usu-
mque antiquorum magistratuum Romanorum aptissime ostendit [...], Lugduni, apud Ioan-
nam Iacobi Iuntae F., MDLXXXII. Sulla importanza dell’opera di Luca da Penne (al quale
, The medieval idea of law as represented
è stato dedicato il classico studio di W. U
LLMANN
by Lucas de Penna. A study in fourteenth-century legal scholarship, London 1946; nonché
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 325
ANGELA DE BENEDICTIS
leggi Prohibitum ( ) e Devotum ( ) amplia considerevolmente gli
87 88
argomenti di Bartolo. Nel commento alla l. devotum non sono però
il saggio di O. C , Luca da Penne, in “Annali di storia del diritto”, IX, 1965, pp.
ALASSO
313-369) e sulla sua utilizzazione anche in secoli successivi proprio in relazione al tema in
oggetto, ha richiamato l’attenzione M. D’Addio, L’idea del contratto sociale dai sofisti alla
riforma e il “De Principatu” di Mario Salamonio, Milano, Giuffrè, 1954. Cfr. ancora M.
, Fides in rem publicam. Ambiguità e tecniche del diritto comune, Napoli, Jovene,
M ONTORZI , Diritto medievale e moderno. Problemi del processo, della
1984, pp. 325-365; M. A SCHERI ,
cultura e delle fonti giuridiche, Rimini, Maggioli, 1991, pp. 108-110. Il saggio di I. B
IROCCHI
B -
Un finto contrattualismo: il diritto di resistenza in Giambattista De Luca, in A. D E ENE
-K-H. L (edd.), Sapere, coscienza e scienza nel diritto di resistenza, cit., mostra
DICTIS INGENS
la presenza di motivi di da Penne anche nella dottrina del tardo XVII secolo.
) Commentaria D. L P , cit., pp. 11-12: “Prohibitum. Casus. Si ex
( 87 UCAE DE ENNA
aliqua causa (quæ multæ sunt) alicuius bona deferantur in fiscum, non licet officialibus fisci
auctoritate propria invadere ipsa bona sine speciali principis iussione. Quod si fecerint,
licitum est privatis quorum exinde interest, eis resistere: & a tali iniuria illos arcere. Si vero
ad capienda bona processerint cum literis principis, non licet tunc privatis resistere: sed
obedire tenentur. [...] Et nota quod privatus potest impune resistere officiali cum aliquid
facit contra iura. ut. hic, & in concor. hic signatis: immo punitur qui non resistit. j. de decur.
omnes. I. & hoc quando certum est ipsum inique ageret & manifeste contra legem. In dubio
autem obediendum est iudici [...] Sed pone, dum ageretur bellum, seu guerra in regno per
nonnullos prædones et illicitos invasores barbarica incursione, qua satis immanis est [...]
Quidam ex regnicolis ab his prædonibus vel infidelibus capti fuerunt, hi captivi cum non
possent aliter evadere, custodes occiderunt, & vulneraverunt: & sic facto carcere evaserunt:
accusantur de occiso, rupto carcere, & vi illata. Dic quod cum est notum captivum contra
iustitiam detineri, licitum est ei detentores occidere ut si non potest aliter evadere: evadat
qualitercumque potest. [...] non enim peccat qui defendit eum qui iniuriam patitur [...]
sed depellenda iniuria lex virtutis est. qui enim cum potest non repellit iniuriam a socio,
tam in ipso est iniuria, quam in illo qui facit. Item Proverb. 24. Erue eos qui ducuntur ad
mortem, & qui trahuntur ad interitum liberare necesses. Et Eccle. 4. Libera eum qui
iniuriam patitur de manu superbi. [...] immo nedum præmissa locum habent in capo a
prædonibus & latronibus, sed etiam a malis iudicibus: quinetiam contra iustitiam con-
demnato, licet tunc resistere condemnati, ut non ducatur condemnatus ad mortem: quia
tale iudicium simile est violentiæ latronum. Ed ideo sicut licet resistere latronibus, ita etiam
licet resistere principibus malis in tali casu. Et hoc verum, nisi a tali resistentia scandalum
sequeretur, quo casu licet damnatus resistere nequeat inferenti morte: fugere tamen de ipso
loco potest. […] Dicit etiam in hac. l. Dominus Bart. quod ad resistendum possit, qui vim
patitur, convocare amicos & vicinos. Et quod sine vocatione possint ad hoc venire [...] &
satis aperte probatur per suprascipta iura. Et subiungit quod consuetudine invenimus pro
maiori securitate, quos oppressi clamant alta voce, succurrite, succurrite: pro quo inducit
ff. vi. bon. rap. l. prætor. §. si quis adventu”.
) Commentaria D. L P , cit., p. 881: “Devotum. Hæc lex pulchra &
( 88 UCAE DE ENNA
bona est, sed ob neglectum iustitiæ, peccata provincialium, & nequitiam militum male
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
326 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
solo gli oppressi e gli amici e i vicini degli oppressi a poter resistere
insieme a difesa di chi sia oppresso. Dal momento che la legge è male
osservata e la giustizia risulta quindi trascurata, è proprio il populus
(la “ipsa plebs” nominata nella legge) che può resistere e insorgere.
Resistere contro un’ingiuria, difendere da un’ingiuria come lex
virtutis, uccidere un sacrilego è possibile al privato e al populus. E il
populus, in da Penne, ha anche facoltà di insorgere contro un
usuraio, nonché di uccidere un sacrilego e un idolatra, sulla base
dell’autorità del Vecchio Testamento: Maccabei 2.4 e Levitico 20. Per
agire resistendo ad azioni compiute contra iura e contro giustizia è
necessario sempre ricordare la differenza tra iustitia e neglectus
).
iustitiae (
89
Sono infatti ingiustizia, ingiuria, violenza che consentono a chi
le patisce di resistere a chi le perpetra, sia questi un ufficiale, o un
giudice o un principe. Questo il quadro che tanto Bartolo quanto
Luca da Penne descrivono nei loro casus, un quadro del tutto
intrinseco a quello che Sbriccoli ha definito il “sistema del crimen
servatur. Statuit hic Imperator ut nullus metator, mensor, seu miles accedat ad aliquod
prædium publicum vel privatum domus principis vel alterius causa præparandi vel
ospitandi. Quia si accesserit licentiam tribuit dominis, procuratoribus eorum, & plebi
eum realiter expellendi. Magistratus autem qui hunc destinaverit, relegatur ad tempus,
vult autem solum eis hospitium in domo concedi, ita quidem ut nihil petant milites a
dominis domorum pro usu eorum equorumque suorum. Mandat eos non immorari
postquam in civitatibus fuerunt hospitati, utque residentiam nullam agant. Qui autem a
domino domus ultra hospitium postulat, punitur. [...] Ipsique plebis. Not. quod etiam
populus resistere potest cum alicui ex eis irrogatur iniuria. & facit aperte II.q. 3. si quis
episcopus. 2, in fi. Quinetiam debet ut ibi.& de exact. tri. quotiens. Ut scilicet eum arceat
ab ipsa nequitia quam committit. Sic etiam potest insurgere populus contra usurarium
manifestum, ut ipsum ab urbe depellat. quod dic ut legitur & not. per gl. & Arch. de
usur. c.I.li. 6. Sic & contra sacrilegum que etiam tunc licitum est occidere. 2. Mach. c.
4. prope fi. sic etiam iubetur occidi ad rumorem idolatra, quod si populus hoc neglexerit,
a domino succidetur. Levitic. 20”.
) In questo rimane centrale, per il sapere giuridico medievale, il ruolo svolto
( 89
dalla giustizia nelle civiltà antiche. “Giustizia è il concetto centrale che lega assieme le
sfere del diritto, della religione e della morale [...] La giustizia fornisce uno “spazio del
ricordo” in cui oggi vale ciò che valeva ieri, e domani varrà ciò che vale oggi”: J.
, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà
A
SSMANN
antiche, trad. it., Torino, Einaudi, 1997, pp. 192-193. Per la memoria come costitutiva
, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, Laterza, 1995.
del diritto medievale P. G ROSSI
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 327
ANGELA DE BENEDICTIS
laesae” e al suo “stile dottrinale” ( ). Non vi si può trovare, per la
90
intima natura di quello stile dottrinale, alcuna definizione del diritto
di resistere. In Bartolo e in Luca da Penne si trovano posizioni che
mostrano la volontà di evitare in certe particolari occasioni l’equi-
parazione tra crimen rebellionis e crimen laesae maiestatis.
Nel sapere giuridico successivo a Bartolo e a Luca da Penne
inosservanza della giustizia e pratica dell’ingiuria vengono riferite
non solo ad ufficiali che compiono esecuzioni illecite o a giudici che
giudicano male, ma anche a chiunque violi patti stabiliti. Si tratta di
un percorso aperto da Baldo, che ha conseguenze sicuramente
epocali per le argomentazioni giuridiche e politiche sulla liceità del
). Nel consilium noto come Rex romanorum, Baldo si
resistere (
91
cimentava con una questione estremamente complessa, conseguente
alla nomina del signore Giangaleazzo Visconti a duca di Milano da
parte dell’imperatore Venceslao, avvenuta nel 1395. In base alla
nuova dignità Giangaleazzo pretendeva di esercitare giurisdizione
anche sui vassalli immediati dell’imperatore, ritenendo che l’infeu-
damento ottenuto con il titolo ducale annullasse preesistenti immu-
nità, libertà, privilegi o infeudamenti dei vassalli lombardi. Scri-
vendo il consilium su incarico di Giangaleazzo, Baldo si scontrava
con le difficoltà insite nella necessità di conciliare le esigenze del suo
signore con i dettami della sua coscienza giuridica. Nella sostanza, le
argomentazioni di Baldo si sviluppavano nel senso di sostenere che
il trasferimento di un vassallo da un signore feudale ad un altro senza
il consenso dello stesso vassallo comportasse una violazione del
contratto feudale. Secondo il diritto, ogni ligius il cui feudo cadesse
sotto la giurisdizione ora spettante a Giangaleazzo doveva rimanere
vassallo immediato dell’imperatore, nel caso che non si presentasse
a giurare fedeltà al nuovo duca. L’imperatore, da parte sua, non
poteva non rispettare le consuetudini feudali. Se poi un signore
feudale avesse assunto illegittimamente il controllo sul feudo di un
vassallo, allora il vassallo poteva dichiarargli guerra, usando violenza
contro di lui.
La concezione che il princeps fosse legato dal contratto non era
( ) M. S , Crimen laesae maiestatis, cit., p. 177.
90 BRICCOLI
) M. R , Widerstandsrecht und Lehnswesen, in A. D B -K-H.
(
91 YAN E ENEDICTIS
(edd.), Sapere, coscienza e scienza nel diritto di resistenza, cit.
L INGENS © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
328 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
specifica del diritto feudale, ma proveniva da una teoria generale
elaborata dai giuristi fin dal tardo XIII secolo. Secondo Guido da
Suzzara anche un princeps legibus solutus era vincolato dai patti da
lui conclusi, poiché il fare patti aveva origine dal diritto naturale
come parte dello ius gentium, e il princeps non poteva considerarsi
sciolto dalla loro forza obbligante. Anche Cino da Pistoia condivi-
). Nel solco di questa tradizione stava pure
deva lo stesso parere ( 92
il pensiero di Baldo, quando egli mostrava di ritenere che il diritto
dei vassalli a resistere potesse trovare utilizzazione ai più alti livel-
).
li (
93
Nelle specifiche e concrete situazioni conflittuali, i motivi de-
dotti dall’interpretazione della Qui sint rebelles, del commento ai
Tres Libri Codicis di Bartolo e Luca da Penne, del consilium Rex
romanorum di Baldo venivano spesso utilizzati congiuntamente per
legittimare opposizioni a comportamenti degli ufficiali giudicati
ingiusti e a violazione dei patti da parte del principe. La letteratura
consiliare era, per sua stessa natura, ricca di tali situazioni. Alcune di
esse sono state individuate in studi recenti, ai quali si farà ora
riferimento, che complessivamente coprono un periodo pluriseco-
lare nonché territori e poteri diversi.
Agli inizi del XV secolo un consilium steso dall’illustre canonista
Francesco Zabarella difendeva il populus di Trento, accusato di
). I cittadini si erano
ribellione dal vescovo signore della città (
94
inizialmente mossi contro riscossioni fiscali ingiuste eseguite dagli
ufficiali dello stesso vescovo, occupando i luoghi materiali di difesa
della città e del territorio, distruggendo le case di alcuni ufficiali,
( ) Per questo cfr. K. P , The Prince and the Law 1200-1600. Soverei-
92 ENNINGTON
gnty and Rights in the Western Legal Tradition, Berkeley-Los Angeles-London, Califor-
nia University Press, 1993, pp. 125-130.
) M. R , Widerstandsrecht und Lehnswesen, cit. Il saggio di Ryan evidenzia
(
93 YAN
come la questione della resistenza lecita dei vassalli fosse affrontata con il sapere
elaborato intorno al concetto di iurisdictio, si cui si vedano ora le recenti riconsiderazioni
2
, Iurisdictio. Semantica del potere politico medievale, Milano, Giuffrè, 2002 ,
di P. C OSTA
pp. XXXI-XCVI.
) D. G , Vom Widerstandsrecht gegen den bischöflichen Stadtherrn.
( 94 IRGENSOHN
Ein Consilium Francesco Zabarellas für die Bürger von Trient (1407), in “Zeitschrift der
Savigny Stiftung für Rechtsgeschichte”, CXVIII, KA LXXXVII (2001), pp. 307-385.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 329
ANGELA DE BENEDICTIS
manifestando infine l’intenzione di sottoporsi ad un altro signore.
Una serie di accordi raggiunti tra vescovo e populus e la successiva
firma di una concordia sembravano aver posto fine al conflitto. Ma
i patti non erano stati poi rispettati dal vescovo: i suoi ufficiali
continuavano a praticare estorsioni indebite. La violazione dei patti
da parte del vescovo veniva sentita come minaccia di violenza. Il
populus temeva che il vescovo volesse soggiogare la città e perfino
uccidere alcuni suoi cittadini; e per questo arrestava il vescovo, il
quale a sua volta colpiva la città con la pena dell’interdetto. L’argo-
mentazione giuridica di Zabarella a favore del populus era che i
cittadini erano stati provocati e quindi potevano difendersi lecita-
mente. Venivano giustificati in quanto “commoti” per le estorsioni
indebite degli ufficiali del vescovo. Questi, da parte sua, non avendo
messo rimedio alle estorsioni, ma anzi consentendole, aveva gravato
i cittadini senza poterlo fare di diritto. Aveva agito quindi come
privato, e in tal caso gli si poteva resistere di fatto e con violenza.
C’era una legge che lo consentiva, secondo Zabarella: la l. prohibi-
).
tum (
95
Nell’Impero della fine del XV e dell’inizio del XVI secolo
numerosi furono i giuristi attivi come consiglieri, giudici o amba-
sciatori della Lega Sveva e che si occuparono, quindi, dei problemi
politici e giuridici derivanti dal conflitto tra la Lega e gli imperatori.
Giuristi umanisti come Conrad Peutinger, Willibald Pirckheimer,
Johannes Reuchlin und Dietrich von Plieningen difesero gli accordi
fissati per iscritto dalla Lega — ciò che allora veniva definito
“costituzione” — e ne denunciarono l’avvenuta violazione da parte
dell’imperatore, giudicando lecita l’eventuale resistenza dei membri
della associazione costituita per il mantenimento della pace territo-
).
riale (
96
Bartolo, Baldo e le le sue fonti Guido da Suzzara e Cino da
Pistoia fornivano argomenti per contestare anche al sovrano ponte-
fice violazione di patti. Nel 1506 il giurista dello Studio bolognese
( ) D. G , Vom Widerstandsrecht gegen den bischöflichen Stadtherrn,
95 IRGENSOHN
cit., pp. 378-379.
) H. C , Landfriedenseinung und Ungehorsam. Der Schwäbische Bund in der
(
96 ARL F
Geschichte des vorreformatorischen Widerstandsrecht im Reich, in R. VON RIEDEBURG
(ed.), Widerstandsrecht in der frühen Neuzeit, cit., pp. 85-112.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
330 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Giovanni Crotto da Monferrato costruiva intorno a questo problema
un lungo e articolato consilium. Ne era stato richiesto dal populus
bolognese perché lo difendesse dall’accusa di ribellione che papa
Giulio II aveva rivolto al populus, con l’interdetto, per avergli
resistito preparando le armi ( ).
97
Il pontefice, intenzionato a portare Bologna a una stretta sud-
ditanza allo Stato della Chiesa, stava col suo esercito poco distante
dalla città e pretendeva di entrarvi, minacciandola di mutarne il
governo basato su accordi conclusi precedentemente con papa
Niccolò V. Il giurista Crotto, pur riconoscendo la necessità della
plena potestas papale, riteneva che di fronte a tale minaccia il populus
bolognese potesse “iuste resistere” al pontefice anche prendendo le
armi contro di lui. Apparteneva alle verità “in facto” che il papa non
potesse derogare ai capitoli sottoscritti da Niccolò V e dalla città
proprio riguardo al governo della città. Al pontefice che voleva
entrare in città si poteva quindi “licite et legitime... resisti et denegari
ingressus” ( ). Poiché sussisteva il fondato sospetto che volesse
98
turbare lo status della res publica, la communis opinio doctorum
confortava nel parere che non si dovesse ubbidire al pontefice che
emanava ordini contro il generale stato della Chiesa, e che gli si
potesse per questo resistere. Al di là degli specifici motivi riguardanti
Bologna, vi erano poi alcuni principı̂ generali che confermavano il
parere di Crotto. In base ad essi, in determinate situazioni si poteva
opporre violenza alla violenza (vim vi repellere licet) per la difesa
della persona e delle cose, e chi era oppresso — come il populus
bolognese — poteva convocare amici e vicini per resistere ( ). Ma al
99
popolo bolognese era lecito prendere le armi e resistere al pontefice
( ) A. D B , Il diritto di resistere. Una città della prima età moderna tra
97 E ENEDICTIS (ed.), Ordnung und
accusa di ribellione e legittima difesa (Bologna, 1506), in M.T. F }
O GEN
Aufruhr im Mittelalter. Historische und juristische Studien zur Rebellion, Frankfurt am
B , Repubblica per contratto.
Main, Klostermann, 1995, pp. 17-41; A. D
E ENEDICTIS
Bologna: una città europea nello Stato della Chiesa, Bologna 1995, pp. 170-183; A. D
E
B , Sapere, scienza e coscienza nel diritto di resistenza. Le ragioni di un seminario
ENEDICTIS B -K.H. L (edd.), Sapere, scienza e coscienza nel
e del suo titolo, in A. D E ENEDICTIS INGENS
diritto di resistenza, cit., pp. 8-15.
) I C , Consilia sive responsa, Liber secundus, Venetiis, ex officina
( 98 OANNES ROTTUS
Damiani Zenari, 1576, consilium 184, pp. 66r-73r.: 71v.
) Ivi, p. 72v. Al proposito il giurista cita esplicitamente i commenti di Bartolo
( 99
alla l. Prohibitum e alla l. Devotum.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 331
ANGELA DE BENEDICTIS
anche perché si trattava di difendere il proprio stato; o perché era
indotto a temere che la sicurezza della patria fosse messa in pericolo.
Il fine ultimo della quies patriae spingeva i cittadini “omisso iuris
) Vi
ordine arma capere & adversus oppugnantes illa exercere”. ( 100
era poi un altro motivo per cui i bolognesi potevano resistere al
papa. Per allontanare l’ingiustizia dell’interdetto, la città si era
appellata al concilio. Nella bolla di interdetto Giulio II condannava
l’appello in quanto contrario ad ogni forma iuris, ovvero alle costi-
tuzioni di Pio II (la bolla Execrabilis del 1463). Secondo Crotto la
sentenza di censura era valida, ma procedeva da causa ingiusta.
Essendo emanato da un pontefice che ordinava un comando ingiu-
sto — agendo come giudice che emanava sentenza ingiusta —, e
dopo che era stato interposto legittimo appello, l’interdetto doveva
).
ritenersi nullo e privo di efficacia (
101
Non è affatto azzardato, a mio parere, ipotizzare che situazioni
e discorsi come quelli sopra riferiti (e da poco “scoperti”) fossero
ripetutamente presenti nell’Europa del quattro-cinquecento. Le si-
tuazioni prodotte dalla Riforma luterana prima, e dalla diffusione
della Riforma calvinista poi, utilizzarono quei discorsi e li radicaliz-
zarono.
Le ricerche che, negli ultimi anni, hanno messo in discussione la
prolungatamente tenace communis opinio storiografica per la quale
Lutero e i ceti evangelici avrebbero sempre espresso la concezione
dell’obbedienza incondizionata all’autorità politica, sono anche
quelle che hanno riconsiderato criticamente la retroproiezione del
“diritto di resistenza” ottocentesco al conflitto religioso e politico
che attraversò la Germania nella prima metà del XVI secolo. Il
riesame di fonti già utilizzate e l’analisi di fonti poco conosciute ha
permesso di “accorgersi” come da parte luterana, attraverso la
riflessione e l’attività consiliatrice di giuristi e teologi, opporsi alla
politica di Carlo V dopo la dieta di Augusta significasse sia rifiutare
l’accusa imperiale di ribellione, sia ragionare in termini di difesa
della propria scelta religiosa e della propria autorità dai comandi
ingiusti di Carlo V. Non era resistenza (Widerstand) il termine-
concetto usato nei numerosi scritti nei quali si possono leggere le
( ) Ivi, p. 72v.
100 ) Ivi, pp. 72v-73r.
( 101 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
332 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
posizioni assunte nel conflitto. Erano invece quelli di difesa contro
comando ingiusto (Gegenwehr) e difesa per stato di necessità
(Notwehr).
Nei numerosi testi fatti stampare da aderenti alla Lega di
Smalcalda Gegenwehr era rivendicato come diritto dell’uomo a
). Per essere usato doveva
difendersi contro il potere ingiusto (
102
corrispondere a tre criteri di adeguatezza: nelle intenzioni (il mo-
vente doveva essere difesa, mantenimento o recupero dei propri
beni, non vendetta, cioè danneggiamento dell’altro); nei mezzi (la
difesa militare concepita solo come ultima risorsa); nel tempo (che
significava, da una parte, essere pronti ad armarsi già nel presente
per affrontare pericoli attesi nel futuro; dall’altra usare la difesa il più
rapidamente possibile, ma non necessariamente nell’immediato). Il
problema dell’obbedienza dovuta dai sudditi all’utorità era natural-
mente centrale in questi testi, ma intesa come fondata non tanto su
di una obbligazione unilaterale, quanto piuttosto su di una relazione
di reciprocità, una obligatio mutua. Per i giuristi autori della maggior
parte di questi testi era innegabile che usava un potere ingiusto quel
giudice il quale rifiutasse un appello e emanasse ordini su questioni
il cui officium era incompetente. A un ordine ingiusto nessuno
doveva obbedire, e la difesa degli interessati giudicati disobbedienti
e per questo ribelli era giuridicamente legittima.
Generalmente, nella pamphlettistica della Lega di Smalcalda
l’uso in senso stretto di Gegenwehr era riferito al corrispettivo diritto
dei principi imperiali sia alla immediata difesa di se stessi, sia alla
difesa dei propri sudditi secondo il principio della “pace territoriale”
(Landfriede). Ma con Gegenwehr si intendeva pure che tanto ai
principi imperiali, quanto ai ceti imperiali, quanto anche agli infe-
riores magistratus spettasse, secondo ius naturae, il compito di vim vi
repellere contro gli assalti dell’imperatore (una concezione sostenuta
anche un secolo dopo, nel corso della Guerra dei Trent’anni).
Diversamente da Gegenwehr, con il termine-concetto di
Notwehr si intendeva il diritto che il singolo aveva alla diretta difesa
del proprio corpo e della propria vita e di quelli della propria
famiglia, quando i magistrati competenti non fossero in grado di
( ) G. H -M , Das Widerstandsrecht des Schmalkaldischen Bundes, in R.
102 AUG ORITZ
F (ed.), Widerstandsrecht in der frühen Neuzeit, cit., pp. 141-161.
VON RIEDEBURG
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 333
ANGELA DE BENEDICTIS
farlo. Tale diritto era anche contemplato in un paragrafo della
Constitutio Criminalis Carolina del 1532, ed era quindi parte del
diritto penale: nella costituzione imperiale il suo esercizio era pre-
visto soprattutto contro le violenze dei soldati o gli abusi degli
). Ma nella seconda metà degli anni qua-
ufficiali dell’autorità (
103
ranta, all’acuirsi del conflitto tra Lega di Smalcalda e imperatore e
con la crisi dell’Interim, nella pamphlettistica contemporanea l’uso
del Notwehr venne riferito anche a gruppi di persone, dandone
un’interpretazione non solo individuale ma anche collettiva. Si
rivendicava nei casi di violenze compiute su giovani donne da soldati
“stranieri” dell’imperatore; o anche per la difesa di intere popola-
zioni, come sostenuto pure da Melantone. Nel concreto di specifiche
situazioni, come durante la difesa della città di Magdeburgo nel
1550-51, Gegenwehr e Notwehr (ma anche Defension) erano usati
contemporaneamente a indicare la difesa della “patria” e della
).
“nazione” (tedesca) dalle truppe spagnole dell’imperatore (
104
Una serie di consilia giuridici e di pareri teologici elaborati
nell’ambiente di Filippo Melantone, e stampati tra il 1546 e il 1547,
evidenziano il peso di argomenti tratti dallo ius naturae nel sostenere
la legittimità e possibilità della resistenza contro il principe legittimo
).
in caso di conflitti religiosi (
105
Lo stesso Melantone sosteneva che usare Gegenwehr contro un
principe violento fosse un diritto naturale che Dio aveva “piantato”
), sottolineando ripetutamente che il Vangelo
nell’animo umano (
106
( ) R. F , Widerstandsrecht und Konfessionskonflikt, cit.
103 VON RIEDEBURG
) È qui il caso di ricordare che sia R. von Friedeburg, sia gli autori dei saggi
( 104
compresi nel volume da lui curato, condividono la critica (peraltro già espressa da D.
, Ungehorsam oder Widerstand, cit.) alla distinzione operata per lungo tempo
B }
O TTCHER
dalla ricerca tra un “diritto di resistenza” costituzionale (Gegenwehr) e un “diritto di
, Le origini del
resistenza” privatistico (Notwehr), e fatta propria anche da Q. S
KINNER
pensiero politico moderno, 2, L’età della Riforma, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1989.
) M. S , Widerstandsrecht und Naturrecht im Umkreis von Philipp
(
105 CATTOLA
Melanchton, relazione presentata al convegno Herrschaftskrise und Glaubenskonflikt.
Das Interim 1548/50, organizzato dal Verein für Reformationsgeschichte e tenutosi a
Wittenberg nei giorni 3-6 ottobre 2001. Ringrazio l’Autore per avermi permesso di
leggere il manoscritto.
) M. S , Widerstandsrecht und Naturrecht, cit. sottolinea anche il ruolo
(
106 CATTOLA
della Zirkulardisputation über das Recht des Widerstandes gegen den Kaiser (Matth.
19,21) redatta da Martin Lutero il 9 maggio 1539.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
334 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
non annullava il diritto naturale, ma che piuttosto l’ordine del diritto
naturale era opera di Dio e corrispondeva al suo volere. Perciò
doveva essere legittimato anche il diritto all’autodifesa e alla difesa di
bambini, familiari e sudditi, poiché questo era stato iscritto nella
natura da Dio stesso. In determinati casi, quando si verificava una
atrox iniuria e non ci si poteva attendere alcun aiuto dall’autorità,
tale Gegenwehr non era solo consentita, ma anche ordinata. La
ragione umana poteva poi trovare l’idea della Notwehr semplice-
mente nel diritto naturale. I comandamenti di diritto naturale erano
quelli che Dio fin dalla creazione aveva iscritto nel cuore degli
uomini. Melantone li definiva anche filosoficamente come notitiae
inditae, in quanto tali appartenenti a un ordine generale del mondo
e costituenti una “legge naturale” fondata dalla giustizia eterna, una
legge che riguardava sia il “reggimento ordinario” del mondo sia la
). Tra le notitiae inditae che agivano come prin-
“giusta Chiesa” ( 107
cipi direttivi per la vita morale — come già Melantone aveva
sostenuto nei Loci communes theologici —, oltre a quelle che ordi-
navano di onorare Dio, di non rompere il matrimonio, stavano anche
quelle che ordinavano di mantenere i patti, e di resistere a un potere
ingiusto. L’ordine politico doveva essere sempre rispettato, ma
quando il principe diventava tiranno — e tale trasformazione era
riconoscibile dal fatto che volesse distruggere l’ordine politico della
comunità opera di Dio — allora doveva essere combattuto e le
). Nel locus de Magi-
autorità a lui sottoposte dovevano deporlo (
108
stratibus civilibus dall’idea che l’ordine politico fosse stato stabilito
da Dio e non fosse stato abolito dal Vangelo, Melantone derivava il
principio “Ne laedat civis civem, sed omnes sciant se inter sese
devictos esse ad mutuam defensionem et communem salutem, quae
consistit in compensatione aequali voluntatum, officiorum et rerum.
Si quis autem violaverit hunc ordinem poena afficiatur” ( ). Nel
109
locus De vindicta la dottrina della Gegenwehr naturale, pensata
anche per combattere le pretese degli Anabattisti di Münster alla
eliminazione di ogni tipo di autorità e alla istituzione di un regno del
Vangelo, veniva specificata nel senso di naturalis notizia o appetitio
( ) M. S , Widerstandsrecht und Naturrecht, cit.
107 CATTOLA
) Ivi.
(
108 ) Ivi.
( 109 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 335
ANGELA DE BENEDICTIS
conservationis sui adversus iniustam violentiam. Sulla base della
Drei-Stände-Lehre la Gegenwehr poteva essere esercitata non solo da
un principe, per difendere i suoi sudditi, persino con la guerra; ma
anche da ogni ceto o città o famiglia in quanto in grado di agire
politicamente: ovvero i sudditi intesi non come moltitudine ma come
realtà costituita di corpi. Ognuno secondo il suo Beruff poteva
).
punire un signore tirannico e senza Dio (
110
L’idea della difesa naturale cosı̀ sostenuta unificava diverse
tradizioni, una delle quali riprendeva principi fondamentali del
diritto romano dichiarati nel Digesto e ascritti anche all’ambito dello
ius gentium. La scienza giuridica cinquecentesca fece riferimento sia
allo ius naturae sia allo ius gentium, tendendo più al secondo quando
dall’istinto all’autodifesa di qualsiasi essere (animali e uomini) si
voleva passare al diritto all’autodifesa. Il diritto aveva bisogno di un
ragionevole riconoscimento, che poteva aver luogo solo tra uomini e
tramite la mediazione della ragione. Secondo le categorie del diritto
romano questo era l’ambito specifico dello ius gentium, al quale
pertanto doveva essere attribuita l’autodifesa in quanto diritto se-
).
condo giuristi come Jean de Coras o Hugues Doneau (
111
Il “droit naturel et des gens”, insieme agli esempi e alle testi-
monianze forniti da “les sainctes lettres, les histoires prophanes, les
loix greques et romaines”, era per il calvinista Jean de Coras quello
che provava un principio fondamentale per la società degli uomini.
Nella “commune negociation des hommes”, nella “commune societé
et conversation” per cui gli uomini erano stati creati, “les pactions,
transactions, accords, negociations, et consequemment les capitula-
tions d’entre le prince et ses subjects” erano assolutamente indispen-
). Nella Francia delle guerre di religione, e qualche anno
sabili (
112
( ) Ivi.
110 ) Ivi. Più in generale, sulle intime connessioni tra Widerstandsrecht e Natur-
( 111 , Das Naturrecht vor dem Naturrecht. Zur
recht, si veda, dello stesso M. S CATTOLA
Geschichte des “ius naturae” im 16. Jahrhundert, Tübingen, Niemeyer, 1999. Cfr. anche
, L’idea dei diritti naturali. Diritti naturali, legge naturale e diritto canonico
B. T
IERNEY
1150-1625, trad. it., Bologna, il Mulino, 2000, passim.
) J. C , Question politique: s’il est licite aux subjects de capituler avec leur
( 112 DE ORAS , Genéve, Droz, 1989. Per la lettura del testo cui qui
prince, a cura di R. M. K INGDON
B , Supplicare, capitolare, resistere. Politica come comunicazione, in
alludo, A. D E ENEDICTIS
-A. W (eds.), Petizioni e suppliche nella prima età moderna (sec.
C. N }
UBOLA U RGLER
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
336 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
prima del massacro della notte di San Bartolomeo, il principio
veniva però negato da chi, per ingraziarsi il re, per renderlo flessibile
“au point de la verité”, sosteneva che patti, transazioni, accordi,
capitolazioni tra re e sudditi erano nulli e anzi dovevano essere
proibiti. “Flateurs”, “notables fabricateurs de paradoxe” erano co-
loro che da qualche tempo seminavano tale opinione sia tra i
“populaire”, sia tra i “superieurs” e il principe. Soprattutto, insisteva
). In
Jean de Coras, ignoranti “de tout droict naturel et politic” ( 113
base a questo diritto Stati, o Parlamenti, o Pari potevano resistere
alla volontà del re discutendo di materie di stato, o di guerra, o di
imposizioni di nuovi tributi, o di fare nuovi editti e ordinanze;
potevano dichiarargli, mostrandone le ragioni, che la sua intenzione
non poteva essere attuata “selon droict et justice”. I “paradoxeurs”,
invece, incolpavano per questo Stati, Parlamenti e Pari del crimine
). Il disprezzo
di lesa maestà, li accusavano di essere ribelli al re ( 114
dei “paradoxeurs” per la storia, per i costumi e le consuetudini della
Francia li portava a non ammettere che, se il re o i suoi ufficiali
attentavano ai privilegi concessi ai sudditi con giuramento solenne
nel corso della cerimonia d’incoronazione, gli Stati potevano pre-
sentare gravamina richiedendo la restituzione dei privilegi. Per i
“paradoxeurs” un re che accettasse le “justes remontrances et
humble insistances”, le “humble resistances et raisonnable remon-
strances” non era più re. Facevano di tutto per sedurre il re con tale
argomento, e cosı̀ lo spingevano a trasformare il suo office in quello
di un tiranno. Ma lo slittamento verso la tirannide avrebbe natural-
mente avuto conseguenze, poiché, era sottinteso, avrebbe interrotto
la comunicazione politica tra re e sudditi: “S’il veut de roy devenir
tyran, c’est l’interes des subjects, qui ont droict d’y contredire, et par
tous moyens s’essayer de maintenir leur prince en roy et non en
tyran, et procurer envers luy qu’ il soit accompagné d’un bon
conseil, moderant toutes ses actions, le reduisant au cerne de la
XV-XVIII), Bologna, il Mulino, 2002,. Recentemente il pamphlet è stato analizzato anche
B , Il pensiero politico ugonotto dallo studio della storia all’idea di
da S. T
ESTONI INETTI
contratto (1572-1579), Firenze 2002, pp. 77-86.
) J. C , Question politique, cit., p. 4.
( 113 DE ORAS
) Ivi, p. 13.
(
114 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 337
ANGELA DE BENEDICTIS
raison, et chassant d’autour de luy tels flateurs que nostre parado-
).
xeur” (
115
Jean de Coras era uno dei giuristi tra i quali, come già i
contemporanei potevano chiaramente notare, la Riforma trovava
aderenti qualificati. La pubblicazione a stampa della sua, per quanto
anonima, Question politique, costituiva un contributo ai numerosi
scritti di propaganda prodotti prima e dopo il 1572. Certo, con la
Francogallia di François Hotman (1573), il De iure magistratuum di
Theodor Beza (1574) e con le Vindiciae contra tyrannos (1579) —
ovvero con i testi principali dei cosiddetti “monarcomachi” — la
questione della resistenza veniva assolutizzata anche attraverso una
maggiore connessione tra argomentazioni teologiche, politiche e
).
giuridiche (
116
Il discorso sulla tirannide si faceva più puntuale e articola-
), anche se non sempre e non necessariamente portava alla
to ( 117
necessità del tirannicidio. Alcune recenti riflessioni hanno mostrato
come nella Francogallia il tirannicidio non fosse affatto un discorso
esplicito o particolarmente voluto, come pure quello sul diritto di
resistenza. Il trattato di Hotman, con le sue due “strategie argomen-
tative” di tradizione-continuità e Sacre scritture ( ), era una trat-
118
tazione complessiva dei fondamenti storici del diritto pubblico
francese il cui scopo consisteva soprattutto nella definizione della
limitazione del potere regale. Già nella prefazione Hotman conside-
rava come causa principale della guerra civile in Francia la centra-
lizzazione del potere regio ai costi dei ceti. E poiché la storia di un
( ) Ivi, p. 21. Va ricordato che l’identificazione di comportamenti tirannici si
115
alimentava di una lunga tradizione sapienziale alla quale aveva dato un fondamentale
, L’iniquo diritto. “Regimen regis” e “ius
contributo Bartolo da Sassoferrato: D. Q
UAGLIONI
regis” nell’esegesi di I Sam. 8, 11-17 e negli “specula principum” del tardo Medioevo, in A.
B (ed, con la collaborazione di A. P ), Specula Principum, Frankfurt am
D
E ENEDICTIS ISAPIA
Main, Klostermann, 1999, pp. 209-242.
) Ch. S , Das Verhältnis von theologischen, politisch-philosophischen und
( 116 TROHM
juristischen Argumentationen in calvinistischen Abhandlungen zum Widerstandsrecht, in
B -K.H. L (eds.), Sapere, scienza e coscienza nel diritto di resistenza,
A. D
E ENEDICTIS INGENS B , Il
cit. I tre classici testi sono stati analizzati di recente anche da S. T
ESTONI INETTI
pensiero politico ugonotto, cit.
) M. T , Tyrannie et tyrannicide, cit., pp. 419-442.
(
117 URCHETTI
) Su cui P. C , Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 1, Dalla civiltà
(
118 OSTA
comunale al Settecento, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 81-96.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
338 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
diverso ordinamento dello Stato durava da ben undici secoli, in caso
di necessità tale ordinamento doveva essere difeso con la violenza e
).
con le armi contro il potere dei tiranni (
119
Nella riflessione giuridica calvinista — lo si è visto prima con
Jean de Coras — il legame pattizio tra sovrano e sudditi costituiva
uno snodo fondamentale. La teoria del doppio patto, di un patto
religioso con Dio e di un patto civile tra popolo e re, stava al centro
delle Vindiciae, frutto di una strettissima interazione tra argomenti
teologici e argomenti giuridici tratti dal diritto romano e dal diritto
). Da qui anche la “connessione esplicita tra resistenza
medievale (
120 ).
al sovrano e difesa dei beni essenziali della vita dei soggetti” (
121
Era il bene della comunità, l’agire con responsabilità pubblica e
non come privati, che spingeva i calvinisti, di fronte a coloro che
assegnavano al re un ruolo di comando unilaterale, a insistere invece
sulla necessità che il rapporto tra re e sudditi si basasse su patti. Più
risolutamente ancora delle accorate sollecitazioni di Jean de Coras (il
crinale del 1572 faceva la diferenza), la questione costituiva il nucleo
centrale della diatriba che nel 1575 oppose il professore ginevrino di
teologia — ma di formazione giuridica — Lambert Daneau al
professore di diritto Pierre Charpentier, anch’egli ginevrino, il quale
aveva invitato i protestanti ad abbassare le armi incondizionatamen-
). Gli argomenti usati da Daneau provenivano tutti dal diritto
te (
122
romano, e servivano per sottolineare che la guerra civile non poteva
concludersi — come insisteva Charpentier — con una resa dei
protestanti, ma con un patto „aequo iure“tra re e protestanti. Le
armi dovevano ancora essere tenute in mano non per motivi privati,
ma per il mantenimento — cosı̀ Daneau — dello “ius publicum”.
Sentirsi collettivamente responsabili del bene della comunità,
della difesa del diritto pubblico del regno faceva parte di una
( ) Ch. S , Das Verhältnis von theologischen, politisch-philosophischen und
119 TROHM
juristischen Argumentationen, cit.
) Ivi.
(
120 ) P. C , Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 1, Dalla civiltà comu-
( 121 OSTA
nale al Settecento, cit., p. 86.
) Una prima approfondita analisi dello scritto in Ch. S , Ethik im frühen
( 122 TROHM
Calvinismus. Humanistische Einflüsse, philosophische, juristische und theologische Argu-
mentationen sowie mentalitätsgeschichtliche Aspekte am Beispiel des Calvins-Schülers
Lambertus Danaeus, Berlin-New York, de Gruyter, 1996.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 339
ANGELA DE BENEDICTIS
concezione della politica che nell’ultimo quarto del XVI secolo si
trovò a dover fare i conti con la sfida di una nuova e diversa
elaborazione. Più di Jean Bodin, fu Justus Lipsius — con i Politico-
rum sive civilis doctrinae libri del 1589 — a delineare una dottrina
dello stato e un’etica politica che individuava l’unica via possibile di
soluzione dei conflitti nella vittoria della ragione sugli affetti e sulle
). Le passioni
passioni, cosı̀ per l’individuo come per la comunità (
123
che agitavano e minacciavano l’animo individuale costituivano un
pericolo ancora maggiore per la vita politica, procurando rivolta,
caos e anarchia. In questo quadro i ruoli dell’agire erano prefissati:
agire secondo ragione era possibile solo al sovrano, agire secondo
affetti e passioni era tipico del popolo. Ne conseguiva che il sovrano
doveva sempre disporre di un potere sufficiente per eliminare affetti
e passioni. Daneau rispose qualche anno dopo a questa sfida,
ponendosi allo stesso livello teorico di Lipsius con il trattato Politica
del 1596, e portando più in alto il livello delle argomentazioni già
utilizzate per rispondere a Charpentier. La soluzione dei conflitti
proposta da Daneau faceva propria la straordinaria accentuazione
neostoica del ruolo dell’autorità, ma l’autorità di Daneau era quella
della legge, intendendo con essa le leges regni fundamentales. L’ob-
bedienza alle leggi fondamentali del regno promessa dal re al popolo
(il riferimento e l’interpretazione della Digna vox, Cod. 1,14,4 erano
qui ovviamente centrali) rappresentava un criterio decisivo per la
valutazione della legalità del potere sovrano. L’inosservanza e la
violazione delle leges fundamentales erano un chiaro segno di tiran-
nide, poiché comportavano la rottura del patto tra sovrano e popolo.
Per mantenere le leges fundamentales (tra le quali stava la difesa della
vera religione) si poteva fare guerra al sovrano, rimanendo nei limiti
della necessaria resistenza e senza cadere nel pericolo della rivolta
).
poiché si difendeva la “constitutio” dello stato (
124
( ) Tra le più recenti letture di L , R. T , Philosophy and Government
123 IPSIUS UCK
1572-1651, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1993, pp. 45-64, e P.
, Specchi della politica, Bologna, il Mulino, 1999, pp. 76-78.
S
CHIERA ) Ch. S , Das Verhältnis von theologischen, politisch-philosophischen und
(
124 TROHM
juristischen Argumentationen, cit. Sul rapporto tra il concetto di leges fundamentales e
quello di constitutio sono fondamentali le ricerche di Heinz Mohnhautp, per le quali
-H. M , Verfassung, Berlin, Duncker & Humblot,
rinvio, in sintesi, a D. G
RIMM OHNHAUPT
1994. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
340 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
La Politica di Johannes Althusius stava all’interno di questo
processo di generalizzazione e assolutizzazione degli argomenti sulla
resistenza, sia come parte di un problema politico-giuridico che
aveva a che fare con la realtà delle cose, sia come parte di un
continuo e pubblico dibattito sulle nuove concezioni della politi-
). Il ruolo intoccabile e sovrano che in Daneau avevano le leges
ca (
125
fondamentales spettava in Althusius, in misura ancora rafforzata, ai
ceti o agli Efori. Erano questi la vera controparte del sovrano in
quanto controllavano che egli si attenesse ai suoi doveri religiosi e
che rispettasse il patto col popolo o le leggi fondamentali dello stato,
l’Herrschaftsvertrag in cui stavano scritti i diritti del popolo. Inos-
servanza e violazione da parte del sovrano legittimavano gli Efori,
come rappresentanti del popolo, a resistere o addirittura lo obbli-
gavano a resistere, secondo una sistematica elencazione di motivi
(dodici nella terza edizione della Politica methodice digesta) sostenuti
da chiare argomentazioni giuridiche.
Si è scritto molto sul “diritto di resistenza” degli Efori come
“diritto” spettante solo ed unicamente alla istituzione che rappre-
senta il popolo. L’attenzione al “vocabolario” da parte della recente
storiografia che sto passando qui in rassegna (e che si esercita, va
sottolineato, nella ricerca su specifici conflitti, analizzandone il
linguaggio e considerandoli processi di comunicazione politica)
consente di mostrare un quadro più articolato delle posizioni di
Althusius ( ). La “resistentia” era rigidamente proibita ai sudditi,
126
ai quali era solo consentita la “defensio in casu necessitatis”. Nel
caso però che fosse in gioco la difesa della “patria”, delle “leggi del
( ) Ch. S , Das Verhältnis von theologischen, politisch-philosophischen und
125 TROHM
juristischen Argumentationen, cit. Della recente bibliografia su Althusius ricordo G.
- M. S -M. S , Su una sconosciuta ‘disputatio’ di Althusius, in “Qua-
D
USO CATTOLA TOLLEIS
derni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 25, 1996, pp. 13-126; G.
, Il governo e l’ordine delle consociazioni: la “Politica” di Althusius, in G. D (ed.),
D USO USO
Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Roma, Carocci, 1999, pp. 77-94, e
-G. D -M. S (eds.), Politische Begriffe und
il recente volume E. B ONFATTI USO CATTOLA
historische Umfeld in der Politica methodice digesta des Johannes Althusius, Wiesbaden,
Harrasowitz, 2002.
) Come pure il saggio di M. S , “Controversia de vi in principem”.
( 126 CATTOLA
Vertrag, Tyrannis und Widerstand in der Auseinandersetzung zwischen Johannes Althu-
B -K.H. L (eds.), Sapere, scienza e
sius und Henning Arnisaeus, in A. D E ENEDICTIS INGENS
coscienza nel diritto di resistenza, cit.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 341
ANGELA DE BENEDICTIS
territorio”, anche i semplici sudditi potevano resistere poiché diven-
tavano “subditi resistentes & cives patriae amantes” che si riunivano
insieme per compiere il loro dovere. Lo stesso valeva quando si
trattava della difesa della comunità contro l’invasione di un tiranno
ex defectu tituli: “At tyranno absque titulo regnum invadenti, etiam
privata autoritate sine alterius jussu, omnes et singuli patriae aman-
).
tes optimates & privati resistere & possunt & debent” (
127
Nei conflitti che coinvolsero i territori dell’Impero durante e
anche negli anni immediatemente successivi alla Guerra dei
Trent’anni, il ruolo di difensori delle leggi del territorio e della patria
poteva essere rivendicato anche da ceti territoriali come i cavalieri
dell’Assia inferiore contro la politica del principe territoriale. Era
qui esplicito il riferimento ai “cives patriae amantes” di Cicerone: un
riferimento che anche in altre situazioni e periodi stava a sottolineare
la volontà e la capacità dei sudditi a controllare i modi della propria
autoconservazione, del mantenimento del bene nel rispetto del
). Agli inizi del XVII secolo
mutuo patto tra governante e sudditi (
128
la formula ciceroniana era utilizzata tanto dal giurista calvinista
Johannes Althusius quanto dal giurista luterano Reinhard Koenig o
dal teologo luterano Johann Gerhard per riconoscere anche ai ceti
inferiori un diritto a Gegenwehr contro i rispettivi principi territo-
riali. Per tutto il periodo 1572-1674 fu anche un topos in disserta-
zioni giuridiche sul tema De Potestate Patriae redatte nelle università
di Jena, Rostock, Herborn, Greifswald, Marburg, Tübingen, Gies-
). Nei territori dell’Impero l’argo-
sen, Wittenberg e Leipzig ( 129
mento della difesa della patria e delle leges patriae proprio dei
conflitti tra ceti e principi consentiva, ancora nel tardo XVII secolo,
di incorporare i singoli privilegi cetuali entro lo stato territoriale
( ) R. F , Widerstandsrecht und Landespatriotismus: Territo-
127 VON RIEDEBURG
rialstaatsbildung und Patriotenpflichten in den Auseinandersetzungen der niederhessischen
Stände mit Landgräfin Amelie Elisabeth und Landgraf Wilhelm VI. von Hessen-Kassel
B -K.H. L (eds.), Sapere, scienza e coscienza nel diritto
1647-1653, in A. D
E ENEDICTIS INGENS
di resistenza, cit., in riferimento a Althusius, Politica, XXX, 48; XXXVIII, 68.
) Come nel “monarcomaco” scozzese George Buchanan, su cui si veda ora il
( 128 , People Power? George Buchanan on Resistance and the Common
saggio di R.A. M ASON
F (ed.), Widerstandsrecht in der frühen Neuzeit, cit., pp.
Man, in R. VON RIEDEBURG
163-181. ) R. F , Widerstandsrecht und Landespatriotismus, cit.
(
129 VON RIEDEBURG
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
342 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
anche grazie alle trasformazioni del sapere giuridico dalla vecchia
prudentia civilis al nuovo usus modernus. Gli stessi conflitti, tra gli
anni trenta e gli anni cinquanta del XVIII secolo, non ricorrevano
più, però, alle leges patriae, ma registravano la difesa di specifici
diritti e privilegi nobiliari e cetuali, come nel caso del Land Meck-
lenburg. Una “strada senza uscita”, per le concezioni della liceità del
).
resistere sostenute nella Alteuropa ( 130
Da qui derivava, probabilmente, il rifiuto kantiano del contratto
inteso come “fatto” — e quindi di una duratura cultura giuridica —
e l’inappellabile condanna della disobbedienza dei sudditi: “Vi è
dunque un contratto originario, che è l’unico sul quale si può fondare
una costituzione civile universalmente giuridica tra gli uomini e si
può istituire una comunità. Ma questo contratto (chiamato contrac-
tus originarius o pactum sociale), come unione di tutte le volontà
particolari e private di un popolo in una volontà comune e pubblica
(ai fini di una legislazione semplicemente giuridica), non è punto
necessario presupporlo come un fatto (come tale non sarebbe nep-
pure possibile), quasi che, perché noi ci considerassimo legati a una
costituzione civile già stabilita, dovesse prima esser dimostrato dalla
storia che un popolo, i cui diritti e le cui obbligazioni noi come
discendenti avremmo ereditato), dovesse una volta aver compiuto
realmente un tale atto e dovesse averne lasciato a noi testimonianza
scritta od orale. Questo contratto è invece una semplice idea della
ragione, ma che ha indubbiamente la sua realtà (pratica): cioè la sua
realtà consiste nell’obbligare ogni legislatore a far leggi come se esse
dovessero derivare dalla volontà comune di tutto un popolo e nel
considerare ogni suddito, in quanto vuol essere cittadino, come se
egli avesse dato il suo consenso a una tale volontà. Questa è infatti
la pietra di paragone della legittimità di una qualsiasi legge pubbli-
ca” ( ).
131
III. Vocabolario, discorsi, argomenti sulla liceità del resistere
nell’Europa medievale e della prima età moderna furono ben più
estesi e diffusi di quanto non sia stato sopra riferito. (E non solo
perché furono ben presenti in alcuni “classici” del pensiero politico,
( ) Ivi.
130 ) I. K , Sopra il detto comune, cit., p. 262.
( 131 ANT
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 343
ANGELA DE BENEDICTIS
come John Locke, o si trasformarono nel “diritto di rivolta” della
). Si può ragionevolmente supporre che
Francia rivoluzionaria (
132
essi fossero intrinseci ad ogni conflitto, tanto “normali” quanto fu
“normale” la dimensione del conflitto, non rimanendo confinati
all’interno dei conflitti politico-religiosi del XVI e XVII secolo e
quindi non essendo limitati ai territori direttamente coinvolti da
). Altrove chi scrive ha ripresentato alcuni
“guerre di religione” ( 133
discorsi e argomenti sviluppati in Catalogna, a Napoli, in Piemonte,
), tutti accomunati
ovvero nella cattolica Europa mediterranea (
134
dalla lucida consapevolezza di doversi difendere non solo da prati-
che politiche, ma anche da concezioni nuove della politica che
assumevano la “relazione di potere e obbedienza come unico criterio
). D’altra parte,
ordinante, perno esclusivo dell’ordine politico” ( 135
non è un caso che nel più recente ed esaustivo quadro comparato sui
secolari tentativi di assorbimento della “società giurata o corporata”
dalla “sovranità diffusa” nella “nuova identità collettiva” dello Sta-
), nella Geschichte der Staatsgewalt, Wolfgang Reinhard abbia
to (
136
mostrato la complementarità di Partnerschaft und Widerstand negli
stati europei di età moderna, e la “normalità” dei discorsi coi quali
( ) Il taglio dato a questo saggio mi consente di non soffermarmi, al momento,
132
su un tale autore e su un tale problema (come anche pure su altri qui non presi in
considerazione per economia del discorso). Poiché, come spero di aver mostrato in vari
punti, i discorsi sulla liceità del resistere traggono argomenti dai discorsi sulla cittadi-
, Civitas. Storia della
nanza, rinvio per Locke e per la rivoluzione francese a P. C
OSTA
cittadinanza in Europa, 1, Dalla civiltà comunale al Settecento, cit., pp. 266-309, e a P.
, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 2, L’età delle rivoluzioni, cit., pp.
C
OSTA
19-35. ) Cfr. ora F. B , Specchi della rivoluzione. Conflitto e identità politica
(
133 ENIGNO
nell’Europa moderna, Roma, Donzelli, 1999. Specifici rinvii a particolari situazioni in W.
, Archäologie der Grund- und Menschenrechte in der Frühen Neuzeit. Ein
S CHMALE
deutsch-französischer Paradigma, München, Oldenbourg, 1997.
) A. D B , Identità comunitarie e diritto di resistere, in P. P -W.
( 134 E ENEDICTIS RODI
(eds.), Identità collettive tra Medioevo ed Età Moderna, Bologna, Clueb, 2002,
R EINHARD
pp. 265-294.
) P. C , Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 1, Dalla civiltà comu-
( 135 OSTA
nale al Settecento, cit., p. 100.
) Su cui P. P , Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia
( 136 RODI
costituzionale dell’Occidente, Bologna, il Mulino, 1992, soprattutto pp. 161-487. Di P.
-W. R (eds.), Identità collettive
Prodi si veda ora anche la Introduzione a P. P
RODI EINHARD
tra Medioevo ed Età Moderna, cit., pp. 9-30.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
344 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
si rivendicava fino al diritto alle armi per l’attuazione del proprio
diritto nel corso dei numerosi conflitti che attraversarono l’Europa
).
della prima età moderna ( 137
Insomma, le riflessioni e discussioni se resistere e/o difendersi
fosse lecito, e a chi, e in quali circostanze, e secondo quali modalità,
non costruirono teorie o dottrine della resistenza (nessun “diritto di
resitenza”), ma risposero a questioni fondamentali di prassi, intorno
alle quali il sapere giuridico medievale e moderno si arrovellò
ripetutamente e continuamente, includendo sempre argomentazioni
risalenti in quelle che venivano riorganizzate nel dilemma di volta in
volta presente.
Se questo è il quadro che ora si sta ricostruendo, mi pare che il
) dell’età della globalizzazione possa com-
“diritto al presente” ( 138
prendere, per l’“affollamento” che lo caratterizza, molti dei motivi
— e più complessivamente il sapere — su cui per alcuni secoli molti
giuristi hanno lavorato, soprattutto per il carattere “inclusivo, piut-
) del suo sapere e delle sue
tosto che esclusivo e selettivo” ( 139
procedure. La maggiore vicinanza del diritto presente al “contesto
) e alla “costituzione medievale” ( ) può giustificare il
antico” ( 140 141
breve esperimento che si vuol compiere in poche righe, con una
qualche forzatura di cui si è consapevoli, di “attribuire” ai giuristi
“antichi” il metodo di lavoro e le priorità in agenda dei giuristi
“presenti”.
I giuristi che, nel lungo periodo sopra attraversato, esaminavano
la questione della “resistenza”, non si ponevano generalmente il
problema di “censire tutto l’esistente o organizzarlo in un chiaro
), un progetto che anche
elenco o in un rigido ordine gerarchico” ( 142
( ) W. R , Geschichte der Staatsgewalt. Eine vergleichende Verfassungsge-
137 EINHARD
schichte Europas von den Anfängen bis zur Gegenwart, München 1999, pp. 210-304 (si
può consultare ora la traduzione italiana Storia del potere politico in Europa, Bologna
2001, pp. 247-361).
) M. R. F , Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istitu-
( 138 ERRARESE
zioni, Bologna, il Mulino, 2002.
) Ivi, p. 65.
( 139 ) Ivi, p. 103.
( 140 ) Ivi, p. 108, in riferimento agli studi di M. F , soprattutto, da ultimo,
( 141 IORAVANTI
Costituzione, Bologna, il Mulino, 1999.
) M.R. F , Il diritto al presente, cit. p. 65.
(
142 ERRARESE
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 345
ANGELA DE BENEDICTIS
il diritto dell’età della globalizzazione non pratica per la sua estrema
). Gli stessi giuristi ragionavano sulla base di più fonti
difficoltà (
143
del diritto, di più “soggetti giuridici”, di più istituti. In questo senso,
il loro “orizzonte giuridico” percepiva gli attentati posti dal primato
della legge, che però allora non era ancora del tutto “incontrastata
).
signora e prima attrice della scena giuridica” (
144
Qui sta un punto fondamentale. L’affollamento del “diritto al
presente” può forse comprendere quei giuristi meglio di quanto non
avesse fatto il diritto del primato della legge. Probabilmente baste-
rebbe dire, in sintesi, che quei giuristi agivano in un’età di diritto
).
giurisprudenziale e giudiziario (
145
Data la rilevanza, nel diritto dell’età della globalizzazione, del
) —; delle costitu-
contratto — e dei diritti che se ne occupano (
146
); dei percorsi costituzionali di tipo
zioni poste per via pattizia ( 147 ); dati interessi più vicini alle
pattizio e di tipo contrattuale ( 148 ), alla costituzione medievale
antiche che alle nuove costituzioni (
149
piuttosto che alla costituzione ottocentesca; data la necessità di
comprendere i conflitti e le ripetute rivendicazioni di un diritto di
), di capire le forme della violenza ( ); data, soprat-
rimostranza (
150 151
tutto, la concezione diffusa che la titolarità di un diritto equivalga al
potere di chiederne l’osservanza, di porre sul tappeto la questione
), e l’altra, intimamente connessa, che l’aspet-
della sua esigibilità ( 152 ); dati tutti questi aspetti del
tativa di giustizia produca diritti ( 153
“diritto al presente” (e altri che qui non ho ripreso), allora si può
ritenere che i giuristi che lo pensano siano in grado di comprendere
— privi della presunzione tipica della cultura giuridica ottocente-
( ) Ivi, p. 65.
143 ) Ivi, p. 66.
( 144 ) Ivi, p. 69.
( 145 ) Ivi, p. 70.
( 146 ) Ivi, p. 78.
( 147 ) Ivi, p. 115-118.
( 148 ) Ivi, p. 97.
( 149 ) Ivi, p. 107.
( 150 ) Ivi, p. 183.
( 151 ) Ivi, p. 130.
( 152 ) Ivi, pp. 184-185.
( 153 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
346 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
sca ( ) — i discorsi dei giuristi medievali e moderni, non da ultimo
154
in quanto erano pure espressione di processi di politicizzazione del
).
giudiziario e di giuridicizzazione della politica (
155
Gli argomenti del resistere prima del “diritto di resistenza”
possono allora presentare qualche interesse per chi ora si muove nel
tentativo di pensare nuovi scenari, aggiornati per il futuro, dello
Stato di diritto. Come è stato fatto recentemente per la questione
), il confronto con la
della tradizione repubblicana in Machiavelli (
156
“genealogia” del “diritto di resistenza” potrebbe far acquisire “una
profondità di campo storiografica tale da permetterci di portare alla
luce modi “altri”, inconsueti e originali di affrontare e di concettua-
).
lizzare i problemi teorici” ( 157
Si è già mostrato ripetutamente come ogni proposizione del
problema del resistere fosse del tutto interna a conflitti e costituisse
un tentativo di risolverli da parte di chi, attivamente, avesse lo scopo
di difendere le proprie libertà. In questo senso aveva preoccupazioni
“repubblicane” che non escludevano affatto la loro compatibilità
). Chi si poneva il problema di difendere le
con la monarchia (
158
proprie libertà, e per questo resisteva, praticava un agire di “cura
vigile dei propri diritti”, era costantemente disposto a “opporsi agli
). La “activity of
oltraggi” e a “difendere la propria sicurezza” ( 159
) costituirono per secoli la premessa
claiming” e la rivendicazione (
160
e la sostanza insieme di ogni discorso di difesa delle libertà e di
( ) Ivi, p. 137.
154 ) Ivi, p. 203.
( 155 ) L. B , Machiavelli, la tradizione repubblicana e lo Stato di diritto, in P.
( 156 ACCELLI
-D. Z (eds.), Lo Stato di diritto, cit., pp. 424-93.
C OSTA OLO
) Ivi, p. 427. Segnalo qui un modo “altro”, completamente diverso per
(
157
impostazione da quello di Baccelli, portatore di una proposta estremamente stimolante
, Rechtsgeschichte
e che sta facendo discutere non solo gli storici del diritto: M.T. F }
O GEN
- Geschichte der Evolution eines sozialen Systems, in “Rechtsgeschichte”, I, 2002, pp.
14-20. La “originalità” di questa storia del diritto potrebbe anche comprendere il diritto
di resistere.
) Cfr. R. F , Widerstandsrecht und Konfessionskonflikt, cit., e
( 158 VON RIEDEBURG
B , Politica, governo e istituzioni nell’Europa moderna, Bologna, il
anche A. D E ENEDICTIS
Mulino, 2001.
) L. B , Machiavelli, la tradizione repubblicana e lo Stato di diritto, cit.,
( 159 ACCELLI
pp. 434-35, in riferimento nei primi due casi a Adam Ferguson.
) Ivi, p. 437.
( 160 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 347
ANGELA DE BENEDICTIS
liceità del resistere. Anche per questo è possibile, a mio parere,
“reperire nell’esperienza politico-giuridica della prima modernità
un’altra concezione dei diritti, alternativa a quella giusrazionalista,
riferibile al “sentimento” di affermazione della propria dignità e di
resistenza al dominio arbitrario” ( ).
161
Se poi questa concezione del “diritto di resistenza” (deprivata,
naturalmente, del ricorso alle armi) alternativa a quella elaborata
nello Stato di diritto e come parte di esso, possa offrire “un
contributo significativo alla riflessione contemporanea sui diritti
fondamentali” ( ), questo è compito che può spettare solo ai
162
giuristi, ammesso che se lo vogliano assumere ( ). Chi, come me, è
163
solo storica può unicamente segnalare, da ultimo, che tutta la
concezione del resistere di cui si è parlato fu propria di un’Europa
a suo modo (non certo kantiano) “repubblicana”, in cui le idee di
governo misto esprimevano insieme sia il principio aristotelico del
“giusto mezzo”, sia — senza esserne in contrapposizione — l’idea di
una articolazione dei poteri in modo tale che l’uno guardasse l’altro;
e che si poneva, si può dire quotidianamente, il problema della
tirannide ( ). Anche per questo l’incompleto quadro presentato
164
nelle pagine precedenti può essere di qualche interesse per chi oggi
pensa a una prassi del governo misto come forse “unico modulo
adatto all’Unione Europea all’inizio del nuovo millennio” in quanto
espressione di “un’idea flessibile di governo nella nuova Europa e
quindi di prefigurazione di una nuova modalità europea dello Stato
di diritto” ( ).
165
( ) Ivi, p. 437. Questa “altra concezione dei diritti” è appunto stata indagata da
161 , Archäologie der Grund- und Menschenrechte, cit.
W. S CHMALE
) L. B , Machiavelli, la tradizione repubblicana e lo Stato di diritto, cit.,
(
162 ACCELLI
p. 437. ) Per una sintesi della discussione in atto tra i giuristi dopo la II Guerra
( 163 , Resistenza (diritto di), in Digesto delle Discipline Pubblici-
Mondiale cfr. E. B
ETTINELLI
stiche, XIII, Torino, Utet, 1997, pp. 183-199.
) Ivi, p. 433.
(
164 ) R. B -D. C , Il deficit democratico dell’Europa e il problema
( 165 ELLAMY ASTIGLIONE
-D. Z (eds.), Lo Stato di diritto, cit., pp. 506-534: 529.
costituzionale, in P. C OSTA OLO
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RICHARD BELLAMY-DARIO CASTIGLIONE
BEYOND COMMUNITY AND RIGHTS: EUROPEAN
CITIZENSHIP AND THE VIRTUES OF PARTICIPATION
1. The return of the citizen. — 2. Models of citizenship. — 3. Citizenship as belonging:
A European Community? — 4. Citizenship as rights: a European Constitutional
Patriotism? — 5. Citizenship as participation: The role of civic engagement. — 6.
Conclusion.
1. The return of the citizen.
The revival of citizenship studies over the past twenty years has
been associated with two sets of related challenges to the liberal
democratic regimes of nation states. The first set consists of the
challenges to national political cultures posed by ethnic diversity and
minority nationalism within the state, and globalisation (often asso-
ciated with commercialisation and Americanisation) without. These
developments have prompted debates over the importance of na-
tionality and a shared culture as sources of reciprocity and allegiance
between both citizens themselves and them and the state. For
example, both academics and policy-makers have fiercely debated
such issues as the content of civic education in schools and the
degree to which naturalised citizens should be obliged not just to
adhere to the political norms of the host nation but also to acquire
various of its social and other cultural characteristics, such as the
dominant religion and language. The second set of challenges stem
from the political, social and administrative problems posed by the
growing electoral apathy of citizens, the fiscal crisis of the welfare
system, and the transformations of the relationship between the
public and private sectors induced by neo-liberal policies. These
developments have also been broadly linked to market driven global
forces and a multicultural concern with recognition at the expense
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
350 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
of the politics of redistribution. They have given rise to debates over
the degree to which markets or the law prove better than democratic
politics in enabling citizens to influence public and private produc-
ers and service deliverers and hold them to account.
Both sets of challenges have led social and political scientists to
investigate the presuppositions of citizenship and to ask whether the
role of the citizen can be adapted to a context that goes beyond a
form of liberal democracy linked to the nation state. The first set of
challenges is evident in the concern of sociologists in particular with
the rules of membership that give access to citizenship and in
comparing the responses of different social systems to the growth in
). There has also been a related debate amongst
immigration (
1
political theorists over the degree to which liberalism and democracy
either conflict with or assume some form of national political
community. Both these discussions are connected to an earlier clash
between liberals and their communitarian critics prompted by the
second set of challenges. Communitarians had argued that liberals
encouraged a self-defeating form of extreme individualism by con-
centrating on rights to the neglect of the claims of society and the
common good. By offering a link between issues of entitlement and
just distribution, on the one hand, and issues of membership and
solidarity, on the other, the theory of democratic citizenship prom-
), a
ised a synthesis of — but also, as Will Kymklica has remarked ( 2
kind of ‘strategic retreat’ from — this argument, which it was felt
had reached an impasse. However, the opposition between these
positions has resurfaced recently and connected to the debates over
the first set of challenges in the current discussions surrounding
cosmopolitan theories of global democracy and the claims of inter-
national justice.
In various ways, therefore, contemporary accounts of citizen-
ship have concentrated on either a communitarian concern with
belonging or a liberal concern with rights. In both cases, a more
( ) Cf. R. B , Citizenship and Nationhood in France and Germany, Cam-
1 RUBACKER
bridge, Mass., Harvard University Press, 1992.
) W. K , Contemporary Political Philosophy, Oxford: Oxford University
(
2 YMLICKA
2
, pp. 284 and 318; cf. also W. K and W. N , Return of the
Press, 2002 YMLICKA ORMAN
Citizen, “Ethics”, 1994, vol. 104, n. 2, pp. 352-81.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
- 351
RICHARD BELLAMY DARIO CASTIGLIONE
traditional focus on political participation has taken second place.
For communitarians, it arises only when a people or demos share a
common good and values through belonging to a relatively homog-
enous and circumscribed political community. For liberals, democ-
racy is but one, and not necessarily the best, means for individuals
to exercise and secure their rights. Indeed, within a global and
market orientated society, the law and impartial regulators may be
superior guarantors of individual rights. For them, citizenship is a
matter of entitlement rather than political participation or civic
commitment.
The debate on European citizenship draws upon, but does not
entirely belong to, the recent revival of interest in the citizen’s role
and character. For partly contingent reasons, it first developed
within a more juridical and administrative discourse, which had the
prime aim of defining the specific, primarily economic, rights and
liberties that accrue to member state nationals in relation to the
nascent European juridical space. However, the often contradictory
demands that lie behind criticism of the EU’s legitimacy have
pushed this discussion beyond that early stage, leading it to take on
board the current preoccupations of sociologists, political scientists,
theorists, politicians and policy makers rehearsed above — even if
traces of the original legal bias remain. Consequently, the political
aspects of citizenship have been understood mainly in terms of a
bundle of rights that define the status of the citizen, while the social
aspects have been interpreted almost exclusively in terms of criteria
for admission or membership. It is our contention that this perspec-
tive offers a partial and partly misleading genealogy of the historical
forms of citizenship, one that unduly reflects the dominant concern
with belonging and rights of recent studies and the juridical frame-
work within which EU citizenship initially developed. The purpose
of this essay is to offer a more adequate normative model of the
citizen that fits not only with the development of the European
political order, but also makes sense of its historical roots in the
modern languages of democratic citizenship.
2. Models of citizenship.
The original idea of citizenship, to be found in Greek political
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352 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
thought, arises out of a democratic view of the political order.
Citizens were those members of a political society whose basic
equality was established by the constitution recognising them as
entitled and capable of being rulers and ruled in turn. The consti-
tutive principle of this political regime, as one in which all citizens
had ‘full and equal membership’, was established through various
institutional arrangements and political practices. Although the
equality of all members of a political community has remained a
central feature of the idea of citizenship throughout its history, its
basis has shifted away from the ability and duty to be self-ruling, to
one of unqualified entitlement for each and every adult. The partial
re-reading of the role of the citizen in jurisprudential terms, as an
individual subject whose status is defined by the possession of rights
and claims against the sovereign, and the identification of the citizen
with all adult members of a national community, have both, in
different ways, obscured what was originally an entirely political
relationship defined by a certain kind of constitutional regime.
In modern times we find a variety of models and conceptions of
citizenship. These have been distinguished using a number of crite-
ria, from the contrasting interpretations of citizenship offered by
different political ideologies and languages (liberal, libertarian, com-
munitarian, social-democratic), to the diverse national histories of
citizenship and the distinctive legal and political definitions to which
they gave rise. At a more abstract and analytical level, however, it has
become common to identify three broad families of theories based
on different views of what makes a citizen a member of a political
). One view insists on the equal status of the citizen as
community (
3
a rights-bearer. This position is the citizenship-as-rights model. A
second view looks at the supposedly shared cultural, ethnic or other
characteristics of the citizens of any given community. This thesis
constitutes the citizenship-as-belonging model. A third view speaks in
more classical terms of a citizen as possessing the requisite civic
( ) H. R. G , A Theory of Citizenship Boulder, Co, Westview Press,
3 VAN UNSTEREN
and B. G eds, European Citizenship between National
1998, pp. 16-21; K. E DER IESEN
Legacies and Postnational Projects, Oxford, Oxford University Press, 2001, pp. 3-7; but
, Contemporary Political Philosophy, pp. 287-302.
cf. also K
YMLICKA
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- 353
RICHARD BELLAMY DARIO CASTIGLIONE
virtues to participate in the community. This is the citizenship-as-
participation model.
These three models are not mutually exclusive, and any account
of citizenship will include elements of each of them. However,
historically they have come to be associated with conflicting con-
ceptions of citizenship, each of which take different views of the
qualifications, entitlements, obligations and virtues of citizens. Clas-
sical views of citizenship emphasised virtue. What entitled someone
to be a citizen depended on his or her capacity to exercise the rights
of citizenship rightfully. Politics, as the only form of the public
domain, was where such virtues could be displayed and exercised.
The entitlements of citizenship could therefore best be displayed
and defended through political participation and vigilance, while
their diffusion consisted in nothing more than the extension of the
franchise. It was not rights per se so much as the ‘right to have
rights’, and the correlative duty to exercise them, which counted in
). However, this right was linked to belonging to a
this model (
4
specific kind of community — the free city republics — and to
occupying a certain role through membership of a propertied class
who had the time and money to engage in the citizen duties of public
service and soldiering.
Gradually, as John Pocock has observed, this, mainly Aristote-
lian, paradigm of citizenship gave way to another classical paradigm
stemming from the Roman juristic tradition and its later develop-
). This tradition
ments in medieval and early modern natural law (
5
tended to view the relations between people as being mediated by
relationships between people and ‘things’. Property rights and civil
private law provided the model for the citizen’s place and role
within the community. Thus, citizens were no longer seen as mainly
public agents. They were principally private agents, oriented less to
political action for the common good than the pursuit of their
personal goals under the protection of the law or of public power.
Nevertheless, the concentration of powers in the state and its
administration was regarded as a defence as much as a threat to the
( ) On this, see Section 5, below.
4 ) J.G.A. P , The Ideal of Citizenship since Classical Times, “Queen’s
( 5 OCOCK
Quarterly”, 1992 vol. 99, n. 1, pp. 33-55.
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354 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
individual. Consequently, the rights of citizens came increasingly to
be conceived as ‘subjective’ rights, establishing a limit to the burdens
and obligations that public power itself could impose upon them.
Historically, this ‘privatisation’ of the rights of citizenship has
been accompanied by, and to some degree promoted, the univer-
salisation of citizenship to the whole of the adult population.
Initially, this development occurred within the confines of the nation
state, and so was modified by a citizenship of belonging linked to
nationality, territory and group solidarity. However, human rights
increasingly justify access to citizenship rather than vice versa.
Though beneficial in certain respects, this process has also contrib-
uted to the fragmentation of citizenship as civil society has pulled
apart from the state, so that rights have been treated as either
uncompromising claims on resources or as absolute limits to obli-
gations. Individuals no longer see their rights as emanating from an
authority or as reflecting the duties they owe to fellow members of
the polity. Instead, they see them as subjective properties. Without
a sense of a common purpose, though, it is often difficult to
adjudicate between different claims or to order them according to
some kind of priority. As a result, there has been a revival of interest
in the role and normative importance of national political commu-
nities as well as attempts to construct a sense of global community
simply on the basis of rights rather than any sense of belonging or
identity.
Emphasising only one of the analytical dimensions of citizen-
ship, however, distorts the role that it played in the formation of
modern nation states and fails to offer a normatively convincing
grounding for citizenship in a postnational context. One way of
exploring the ways citizenship as participation, rights and belonging
interact with each other is by seeing them as different aspects of how
citizens accept the legitimacy of any organisation. This acceptance
depends on the congruence between four dimensions of its opera-
). On the one hand, it must be deemed legitimate at what
tion ( 6
might be called the ‘polity’ level. This level involves the acceptance
( ) For a discussion of this, see R B and D C ,
6 ICHARD ELLAMY ARIO ASTIGLIONE
Legitimising the Euro-‘polity’ and its ‘regime’: The Normative Turn in European studies,
“European Journal of Political Theory”, 2003 vol. 2, n. 1, pp. 7-34.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
- 355
RICHARD BELLAMY DARIO CASTIGLIONE
of its sphere of operation as legitimate, be that decided territorially
or on the basis of particular tasks or functions, and on those who are
controlled by it being legitimately considered (and considering
themselves) its subjects. On the other hand, it must be deemed
legitimate at what might be called the ‘regime’ level. This entails that
citizens consider the political system as legitimate in the sense of
both the styles of politics it employs and their scope. In other words,
the regime’s style must be thought to be sufficiently democratic in
terms of its representativeness, the operation of elections and so on,
and it must be deemed not to intervene into non-political areas.
All four of these dimensions (the sphere and subjects of the
polity, and the style and scope of the regime) can be said to have an
‘external’ (objective) and an ‘internal’ (subjective) aspect that reflect
rights and belonging respectively. From a more objective perspec-
tive, all four must meet certain minimum standards of justice. Yet
subjectively, citizens must also identify with them as somehow
‘theirs’. After all, Britain, France, Italy and Germany all subscribe to
the objective legitimacy standards set by such international rights
charters as the European Convention on Human Rights. However,
their citizens still identify themselves as British, French, Italian and
German and would be unhappy at a proposal suggesting, say, that
we now consider the German regime as that of Europe as a whole
and send our representatives to its parliament and so on. Indeed,
within all these countries there are minorities, such as the Scottish in
Britain, who desire a separate polity and regime of their own. In
these cases, the regime and polity of Germany and Britain respec-
tively may meet objective standards of legitimacy but they lack
subjective legitimacy.
Why is identification with a regime and polity important? Part
of the reason lies in the fact that agreement on the objective criteria
exists at a fairly abstract level and there is considerable scope for
disagreement on how they should be interpreted when applied to
particular cases. All these countries recognise rights to freedom of
speech and privacy, for example, yet interpret them in very different
ways. Details of a politician’s private life are not considered a matter
of legitimate public interest in Germany but are in Britain, with the
result that British newspapers can publish matters that German
papers may be prevented from revealing. To accept the validity of
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
356 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
such differences one need not rely on some form of communitarian-
based relativism, merely an acknowledgment that a plurality of
reasonable views of rights is possible. Indeed, alternative positions
are generally articulated by different ideological, cultural and inter-
est groupings within any given community. Citizenship as participa-
tion comes in here; for it has traditionally been the way a people who
feel they belong together have democratically decided how they
should understand their rights and establish fair rules of co-opera-
tion. The next three sections will explore how far this synthesis of
belonging, rights and participation can hold together given the
challenges confronting the nation state, using the EU as an example.
Section 3, which follows, will examine the attempt to ground
European citizenship in a sense of Europeanness, while section 4
will examine the claim that the EU can offer a new form of
post-national citizenship linked to rights. Both proposals are found
wanting. By contrast, section 5 outlines the prospects of employing
a form of participatory citizenship as the source of both belonging
and rights not only in the EU, but also more generally in any modern
complex society.
3. Citizenship as belonging: A European Community?
When the policy of European citizenship was first mooted, it
was conceived as providing a symbol of identification with the EU.
As such, it went along with such other symbolic measures as the
introduction of a European passport, anthem and flag. The hope
was that as the member states pooled certain sovereign powers, so
citizens would in some appropriate sense also pool their national
identities. Access to EU citizenship rights would stem from and help
promote identification with the EU as a polity within its given
sphere.
This policy arose out of the belief that the pattern of legitimacy
within the EU must mirror that of the nation state and stem from a
citizenship of belonging based on a certain symmetry between
sovereignty and identity. According to the ideal of the nation state,
for a people to exercise self-government they must identify with each
other and with the polity and its regime, which must be sovereign
within its own territory. As the demands of minority nationalities
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
- 357
RICHARD BELLAMY DARIO CASTIGLIONE
have brought to light, this match between a sovereign state and a
single people was rather less common than the ideologists of the
nation state assumed. Yet sovereignty and identity in both the EU
and the member states are now pulling apart in new and dramatic
ways, undermining any form of citizenship that assumes a neat
overlap between them.
An analysis of each of these terms reveals why. Sovereignty
refers to the possession and exercise of power. It is an attribute of
both the polity and the regime aspects of any organisation. The
polity aspect of sovereignty concerns where, over whom and by who
power is exercised, thereby connecting respectively to the sphere
and subjects of politics. It involves both the domestic exercise of
power over and by subjects within defined spheres, and the foreign
employment of power to defend or extend the polity. The regime
aspect of sovereignty concerns the ways power is exercised. As such,
it connects to the scope and styles of politics, both in the domestic
and the foreign arena.
With a certain degree of exaggeration, which reflects the his-
torical origin of the idea within the context of monarchical absolut-
ism, sovereignty is often assumed to be an absolute and unitary
). A regime must possess total constitutional indepen-
condition (
7
dence and be the supreme authority in the way it governs the
territory and people of an autonomous polity. This condition entails
that any dispersal of power must be vertical and hierarchically
ordered. Thus, federalism standardly represents a vertical parcelling
out of the polity aspect of sovereignty, with powers being delegated
from the centre, which retains the final say. Likewise, the separation
of powers usually consists of a vertical distribution of the regime
aspect of sovereignty, with one of the branches being more decisive
than the others, though which branch — the executive, legislature or
judiciary — differs between political systems and even according to
the issue.
Identity refers to the internal aspects of legitimacy. As we noted
above, a legitimate polity requires subjects to identify with both each
( ) A J , The Practice of Sovereign Statehood in Contemporary International
7 LAN AMES
J ed., Sovereignty at the Millenium, Special Issue, 1999 vol. 47
Society, in R OBERT ACKSON
“Political Studies”, pp. 457-73.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
358 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
other and the boundaries defining the political sphere, whilst a
legitimate regime involves citizens regarding their identities as ad-
equately recognised by the prevailing styles and scope of politics. As
we also remarked, a polity and its regime may meet perfectly
acceptable external standards of legitimacy and yet fail to satisfy
internal expectations. If a national minority do not identify with one
or other aspects of the polity, then it and its regime will be
unacceptable no matter how unexceptionable its procedures might
be. Similarly, a regime may enshrine just principles, but the ways
they are implemented can still fail to recognise the identities of
certain groups. For example, the ability of linguistic minorities to
participate fully in politics will be hindered if they cannot do so in
their own tongue, even if the system enshrines equal voting rights for
all. Legitimacy requires a certain congruence between sovereignty
and identity, therefore, even if such an identity has more often been
a matter of history and civic engagement than of ethnicity and
). In other words, where power is situated, over whom, by
culture (
8
who, how it is exercised and for what purpose must all match the
ways people conceive of themselves and of their relationships with
each other.
The ideology, if not necessarily the reality, of the Westphalian
state system, assumed this fit existed within the nation state. Its
achievement was to bring together territory (sphere), functions
(scope) and people (subjects) within a single political system (style).
Where other political identities and units existed, these were em-
bedded within, and so subordinate to, the larger political identity
and unit. Thus, Britishness was supposed to accommodate English,
( ) The assumption that identification with a polity requires strong ethnic and
8 , The Ethnic Origins of Nations, Oxford, Blackwell, 1986
cultural ties — e.g. A. D. S
MITH
— appears unrealistic for most states, let alone multi-state entities such as the EU.
Multiculturalism is the norm rather than the exception. As Will Kymlicka has noted, ‘the
world’s 184 independent states contain over 600 living language groups and 5000 ethnic
, Multicultural Citizenship: A Liberal Theory of Minority Rights,
groups’: W. K
YMLICKA
Oxford, Oxford University Press, 1995, p. 1. We discuss this issue more fully in R.
, and D. C , The Normative Challenge of a European Polity: Cosmo-
B ELLAMY ASTIGLIONE
politan and Communitarian Models Compared, Criticised and Combined, in A. F
ØLLESDAL
and P. K eds., Democracy and the European Union, Berlin, Springer-Verlag,
OSLOWSKI
1997, pp. 254-84.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
- 359
RICHARD BELLAMY DARIO CASTIGLIONE
Welsh, Scottish and Northern Irish identities. Each region formed a
part of the United Kingdom, with their local governments feeding
into the Westminster system. As this example indicates, this hierar-
chical and unitary organisation of sovereignty and identity was never
wholly uncontentious and today it clearly is not. Both the polity and
the regime aspects of sovereignty have been challenged, with identity
being similarly affected.
With regard to the polity aspect, greater interconnectedness at
the international level and greater heterogeneity at the local and
regional levels have undermined not only the functional efficacy of
states to frame independent socio-economic and security policies,
but also their ability to draw on or forge a national identity capable
of sustaining an allegiance to either the public good or the collective
institutions and decisions that define and uphold it. Externally,
states have become increasingly involved in and subject to interna-
tional bodies, with a concomitant loss of power. Internally, minority
nations have argued in consequence that they can be as viable as the
larger political units to which they currently belong, and have
demanded greater autonomy and even independence. Likewise,
immigrant groups look for recognition of their ethnic identities in
special rights and group representation. Meanwhile, a more diffuse
and fragmented set of attachments that are both sub national and
transnational in character have developed amongst people generally.
For example, the ties of family, work, ideology, religion and sport
increasingly operate either below or beyond the nation state, com-
peting with and diluting any sense of a purely national identity.
The regime aspect of sovereignty and identity is also affected.
We must now confront a situation of multiple and interacting demoi.
This circumstance has profound consequences for where and when
democratic decision-making can take place, amongst whom and
about what. Increasingly, different policies will generate very differ-
ent answers to each of these elements. This fact also poses challenges
to how we apply democratic norms, potentially questioning the
suitability of simple majority rule, formal conceptions of the rule of
law and notions of equal citizenship should these fail to protect
minority interests or respond to important differences of context. As
a consequence, multinational states such as Britain, Belgium and
Canada — but also more unitary ones such as France, Italy and
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
360 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Spain — are evolving new styles and scopes of politics to cope with
this situation, introducing a hitherto unprecedented degree of con-
).
stitutional and democratic complexity (
9
The EU emerges from these self-same forces, being both a
mechanism whereby nation states have responded to these changes
and a challenge to their current polity and regime sovereignty and
). Compared to the
the identification their citizens have with them (
10
member states, though, the EU’s nascent polity and regime are even
more complex. Within the EU, function and territory are pulling
apart, producing growing disjunctures between its territorial and its
functional membership in core policy areas. As a result, it is devel-
oping into a poly-centric polity with a multileveled regime. This
process involves the redistribution of sovereignty and the creation of
). For example, in monetary policy
multiple political identities (
11
Britain, Denmark and Sweden stand aloof. Indeed, different polices
tend to involve different types of territorial actors operating in
different sorts of institutional settings. In many cases, the actors are
sub- or trans-national rather than national, with the comitology
process involving private as well as public agents and agencies.
Moreover, representatives in even the same body are often selected
in different ways by their respective constituencies, as in elections to
the EP. The jurisdictions — the spheres and subjects — of these
various bodies are not clearly demarcated, they often have different
powers in different parts of the EU, and they employ different styles
and possess different scopes of politics. Nor is there any overarching
authority to decide disputes between them. Except in very restricted
domains, such as certain aspects of competition policy, the EU has
few exclusive competences and has not asserted its hierarchical
control over the member states. Meanwhile, European citizens
increasingly view their political engagement less, or not solely, as a
( ) For a survey, see D. A , and M. O’N , Democracy and Cultural
9 USTIN EILL
Diversity, Oxford, Oxford University Press, 2000.
) A. M , The European Rescue of the Nation State, London, Routledge,
(
10 ILWARD
, Governing in Europe: Effective and Democratic?, Oxford, Oxford
1993; F. S
CHARPF
University Press 1999.
) J. G. R , Territoriality and Beyond: Problematizing Modernity in Inter-
(
11 UGGIE
national Relations, “International Organisation”, 1993, Vol. 47, n. 1; pp. 139-74, at
p. 172. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
- 361
RICHARD BELLAMY DARIO CASTIGLIONE
general commitment to a particular party and system, and more as a
). Though voting is in
concern with various causes and issues ( 12
decline, non-electoral political participation is in the ascendant. As
a result, people have become members of a range of new alliances,
some national, others sub-national and many of a transnational
nature, and (as we noted) now operate as members of multiple
demoi.
A standard hierarchical account would regard these different
identities and their corresponding centres of decision-making either
as operating at distinct levels or as components of an ever more
overarching political identity and system, with the regional being
nested within the national and the national within the European.
However, neither of these models works entirely in either functional
and institutional or personal terms. European measures are not
discreet, they alter the shape of domestic politics — introducing new
subjects, namely resident citizens from other member states, and
new spheres, by giving economic, foreign, security and justice policy
a significant European dimension; whilst altering its scope, through
the need above all to ensure the freedom of capital, goods, services
and labour within the Union, and its styles — from European
elections and referenda, through the raising of European issues
within domestic politics, to the enhancement of executive power
offered by the intergovernmental aspects of EU decision making. At
the same time, national, subnational and transnational concerns
continue to shape European integration and policy-making.
A citizenship of belonging on the nation state model will not
work for the EU, therefore. We belong to too many polities — our
member states, our issue and interest groups, our ideological and
cultural communities, and so on. Nor are these neatly ordered in a
hierarchical way. We cannot either treat belonging to the EU as an
all-encompassing form of identity, enabling us to be European-
British, European-Christians, European-socialists and so on. Nor
can we regard these as discrete identities, so that I am British for
certain purposes and a European citizen for others. Thus, identifi-
cation with the EU arises for the most part in combination with
( ) H-D. K , and D. F eds., Citizens and the State: Beliefs in
12 LINGEMANN UCHS
Government Vol. 1., Oxford, Oxford University Press, 1995.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
362 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
other identities, interacting and occasionally conflicting with
). The multiplication of polities and regimes, operating at
them (
13
different levels of aggregation and attracting varying degrees of
identification, changes the character of both the external and the
internal legitimacy either of these can assert. The task is to find an
account of citizenship that can make normative sense of these
multiple forms of belonging.
4. Citizenship as rights: a European Constitutional Patriotism?
The weakening of national sovereign power has led some com-
mentators to believe the answer must lie in a post-national citizen-
ship grounded in rights. Rights have long offered the dominant
approach to citizenship within the liberal tradition and inform its
interpretation of the constitutional practices of liberal democracies.
This liberal model conceives rights, the rule of law and constitu-
). Although there are
tional democracy in largely juridical terms ( 14
different variants of this juridical paradigm (British, American and
broadly European), they all concentrate on the importance of legal
mechanisms for controlling the abuse of power and protecting
individuals. Their aim is to secure a just framework of rights within
which citizens and the government can legitimately act. The result-
ing liberal constitution lays out the entitlements and obligations of
citizens vis-à-vis both the state and each other. It constrains what
individuals may do to or expect of others and what the state may do
to or expect of them. As a consequence, rights define not only the
subjects of the polity but also its sphere and the scope and styles of
its regime.
Developing this liberal thesis, John Rawls has argued that
citizens of a liberal democracy share an overlapping consensus on
). The citizens of a state that upholds these prin-
political rights (
15
ciples of political justice not only should be obliged to obey it, but
( ) See, B and C , The Normative Challenge.
13 ELLAMY ASTIGLIONE
) See, R. B and D. C , Constitutionalism and Democracy -
( 14 ELLAMY ASTIGLIONE
Political Theory and The American Constitution, “The British Journal of Political
Science”, 1997 vol. 27, pp. 595-618.
) J. R , Political Liberalism, New York, Columbia University Press, 1993.
( 15 AWLS
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
- 363
RICHARD BELLAMY DARIO CASTIGLIONE
also, because they share these rights, will actually feel an allegiance
to it. Thus, a polity possessing a just regime will be stable over time.
In a similar spirit, Habermas maintains that it is the just political
culture of a state that binds us to it, rather than nationality or some
). We identify with
other social, religious or ethnic cultural force (
16
a polity because of a constitutional patriotism stemming from the
justice of its regime. In the Rawlsean scenario, if EU institutions
embody standard liberal democratic rights to which all adult mem-
bers have access through being citizens, they should give substantial
and permanent support to them. Habermas concurs, but suggests, at
least on some occasions, a partial thickening of the Rawlsean con-
sensus. He shares Rawls belief that European citizens should iden-
tify with EU institutions if they are just, but adds they also do so
because they reflect a distinctly European (as opposed to American,
say) political tradition that results from a particular historical pro-
cess. Nevertheless, this European political culture is fundamentally
political rather than cultural. For instance, it is characterized by a
commitment to a welfare state and the abolition of the death penalty
(the main contrasts Habermas draws between Europe and the USA
in this regard). Like Rawls’s overlapping consensus, therefore, Hab-
ermas’s constitutional patriotism ultimately issues from the rights
presupposed by democracy.
There are two problems with the Rawlsean and Habermasian
arguments. First, as we noted in the last section, rights may provide
a source of objective legitimation for an organisation, but they are at
best a necessary rather than a sufficient condition for subjective
legitimation. In part, this arises because Rawls and Habermas elide
the legitimacy of a regime with that of its polity. However, a regime
may be objectively legitimate yet fail to attract the subjective alle-
giance of all its citizens because they question the legitimacy of the
polity within which it operates. By contrast, citizens of an objectively
illegitimate regime often offer it tacit support because they subjec-
tively identify with the polity — presumably many Iraqis felt like
this. Likewise, a polity may be objectively legitimate, in the sense of
not being the result of recent conquest or colonization, but still lack
( ) J. H , Between Facts and Norms, Cambridge, Polity Press, Appendix
16 ABERMAS
II: Citizenship and National Identity.
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364 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
subjective polity legitimacy among a cultural minority. Moreover,
this absence of subjective polity legitimacy may lead citizens to
question the legitimacy of the regime, even if it meets fairly abstract
democratic criteria. For example, few, if any, Quebec nationalists
would deny that Canada is undemocratic per se. Their own view of
rights and democracy are more or less the same as Canadian
federalists in abstract terms. But they do feel that in the context of
the existing Canadian polity its political regime lacks democratic
legitimacy because, in their view, the French territories cannot
deploy these rights in ways that reflect their cultural interests.
The second problem kicks in here. As we noted, in the liberal
tradition rights supposedly define politics. Consequently, they can-
not themselves be matters of normal political debate. In fact, the
rationale behind constitutional bills of rights is to allow their judicial
protectors to overturn or constrain political decisions that offer
supposedly illegitimate interpretations of rights or appear to neglect
them altogether. In Rawls’s theory, the potential tension between
democracy and rights is resolved by arguing that liberal democracy
assumes a consensus on certain political, civil and social rights.
Habermas approaches the same issue from the opposite direction, as
it were. In his view, a consensus on rights is both the end point and
the presupposition or rationale of democratic deliberation. We
discuss with others in order to (and because we can) agree on rights.
The difficulty with both theories is that beyond the most abstract
level, and sometimes even here, there is considerable disagreement
about the foundations and character of rights, and how they apply
to particular issues. Moreover, debates about rights not only provide
the substance of many political debates, they also produce different
accounts of the nature of the political.
Take the main ideological divide within liberal democracies
between libertarians and social democrats. As figure one shows,
these two positions generate contrasting views of rights. These
different conceptions lie behind the main contemporary political
divisions, animating debates about the welfare state, the regulation
of the market economy and so on. Moreover, there can be no
overarching theory of rights that encompasses both positions. For
these views conflict in often incompatible ways.
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- 365
RICHARD BELLAMY DARIO CASTIGLIONE
F . 1
IG Libertarian Social Democrat
Legal Rights (liberties and Formally equal -ve liber- Formally equal -ve liber-
immunities) ties ties though certain immu-
nities for reasons of sub-
stantive equality and
linked to social rights to
defend their equal worth
Political Rights (powers) Protective, limited Protective and informa-
tive, limited
Social Rights (claims) Few (mainly insurance and Broad range: including
compensatory) or none enabling and distributive
as well as insurance and
compensatory
Civic Rights (powers) Few (consumer) or none Workers and consumer
Strict divide between Need for state to regulate
state/civil society, and balance civil society
public/private
Duties Of respect, with duties Of concern and respect,
subordinate to rights with duties being corollary
of rights
Part of the reason for the intractable character of their conflict
arises from the fact that, as figure two reveals, each offers a different
view of all four of the dimensions of politics.
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
F . 2.
IG Libertarian Social Democrat
Subjects All autonomous agents All autonomous agents
capable of entering legally capable of entering legally
recognised contracts, par- recognised contracts, in-
ticularly in the economic cluding social and political
sphere sphere
Spheres Political a narrowly defi- Political a more broadly
ned public framework for defined public framework
social interaction. Political for social interaction. Poli-
discussion and interven- tical discussion and inter-
tion, if not regulation, vention, if not regulation,
inappropriate within a inappropriate within a
broad private sector. narrower private sector.
Scope To protect the natural to foster autonomy by
—ve freedom and formal preserving the broader
equality of individuals —ve freedom and more
substantive equality of
individuals and classes
Styles Constrained maximisation Constrained maximisation
to achieve mutual advan- to achieve mutual benefit
tage via market trading via pluralist bargaining
Thus, debates between libertarians and social democrats are not
within a political framework of rights, they are about that fra-
mework.
The same goes for citizenship. It too is not constructed by a set
of political rights. Rather, citizenship has been about the claiming of
rights and the constitution of the political realm. Thus, workers in
the nineteenth century did not just seek to become subjects (by
obtaining the vote) in an otherwise unchanged political system. They
sought to extend the sphere of politics through the introduction of
industrial democracy, to change its scope by allowing greater regu-
lation of the economy, including public ownership of certain indus-
tries, and to alter its styles, through such measures as recognizing the
right to strike. Women campaigners made similarly broad demands
when claiming the franchise, that likewise aspired to change both
polity and regime. In the late twentieth and early twenty-first
centuries, the political demands of cultural minorities have been if
anything even more dramatic. For example, Britain has introduced
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
- 367
RICHARD BELLAMY DARIO CASTIGLIONE
new devolutionary structures to accommodate the demands of
Scottish, Welsh and Northern Irish communities, with potentially
new regional assemblies for parts of England as well. These have
changed all four dimensions of politics within the UK — possibly
rather more so than was initially foreseen. However, it cannot be
argued that these various challenges will give rise to an ever-
expanding set of compossible rights, as Habermas appears to sug-
gest. For these challenges often clash with each other, are both
regressive and progressive, and set up tensions that give rise to fresh
demands as part of an on-going process through which citizens
continuously reconstitute both polity and regime.
Needless to say, the EU represents a major change to the nature
of politics within all the member states. There has been a tendency to
view EU citizenship as simply a grant of rights by the member states
that legitimates, but does not change, the existing EU structures. In
other words, rights offer an objective form of legitimacy that citizens
should embrace and identify with. Yet citizens are clearly ambivalent
about the EU. Most may welcome it, but their identification with it
is qualified in numerous ways. In particular, there are endless debates
over both its polity dimensions — does it do too much or too little —
and the character of its regime — too intergovernmental and insuf-
ficiently federal, or vice versa. Consequently, European citizens have
not been mere passive recipients of rights.
For example, in a rather fragmented way, reflecting both the
lack of a common European public sphere and the non-hierarchical
structure of decision making, citizens’pressure has forced onto the
political agenda environmental, food-safety and other risk-related
issues. By so doing, they have redefined the sphere and the subjects
of democratic politics by appealing to an enlarged conception of
affectedness cutting across national boundaries. Although this is not
an exclusively European phenomenon, the integration process is an
ideal terrain for addressing many of the concerns citizens have with
regard to the risks they face as consumers in a more global and
integrated network of production and distribution. The same ap-
plies to the new patterns of mobility and communication that the
integration process has both reflected and encouraged. Just as these
have contributed to the creation of the new status of European
citizenship for member state nationals, so they have also posed the
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368 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
problem of equal treatment for third-country nationals and the
extension of their rights of residence. Similarly, the formation of a
European juridical space has facilitated struggles and demands for
the extension of civil rights at a national and sub-national level,
altering in the process the style and scope of local politics. Finally,
the EU has simultaneously encouraged the homogenisation of citi-
zenship rights at the transnational level while encouraging their
differentiation at a local level by fostering demands for the recog-
nition of certain forms of cultural, ethnic and linguistic diversity,
which previously had been denied within national regimes. In sum,
rights do not constitute and cannot of their own accord legitimately
constrain politics or citizenship. Rather, they are themselves consti-
tuted through citizenship activity. If the EU is to be seen as a
remaking of the politics of the nation state, then we need a language
of citizenship that mirrors their part in this process.
5. Citizenship as participation: The role of civic engagement.
The rights and belonging paradigms offer rather ‘passive’ and
mainly ‘horizontal’ views of citizenship. The former tends to estab-
lish citizenship either as a series of individual and mainly ‘private’
entitlements (in the liberal version) or as ‘clientelistic’ claims against
the administrative state (in the social democratic version). The latter
treats the acquisition of citizenship as the product of natural bond-
ing, acculturation and socialisation. These processes supposedly
define the citizen’s sense of identity, determining how he or she acts
and thereby qualifying him or her for this status. Both views posit a
relationship between the individual and a larger, super-ordinate
entity — the state or the community — as the essence of what being
a citizen is about. Moreover, as we have seen in the previous
sections, both views tend to reduce the role and importance of
disagreement as an essential component of politics.
However, disagreement is an inherent feature of co-existence
and co-operation in societies operating in the normal ‘circumstances
of justice’, with relative scarcity and limited altruism ( ). Its origins
17
( ) As remarked by Rawls following Hume: J. R , A Theory of Justice,
17 AWLS
Cambridge Mass., Harvard University Press, 1971, pp. 126-30.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
- 369
RICHARD BELLAMY DARIO CASTIGLIONE
lie as much in the imperfections of human character and social
arrangements (bad faith, self-interest, entrenched forms of injustice)
as in the plurality of values, conditions and lifestyles of modern
societies; besides reflecting the sheer complexity of political issues
and social co-operation. The resulting disagreements give rise to
what Jeremy Waldron has described as the ‘circumstances of poli-
tics’: the condition of having to reach agreement on collective
policies (including the constitution of the polity and its regime) in
). Citizen-
the face of disagreements about the right and the good (
18
ship-as-participation comes in here, as the way in which citizens, as
equal and full members of a political community (a ‘horizontal’ as
well as a ‘vertical’ bond), actively engage with each other in order to
create and re-create the conditions in which they can address the
‘circumstances of politics’. They do so by trying to agree on the more
objective and universalistic aspects of legitimacy (norms, values,
rights, duties), and by establishing the more subjective and local
forms of legitimacy (affiliation, identity and solidarity) that can
sustain them.
Disagreement enters into politics, therefore, producing an on-
going political constitutionalism whereby a polity and its regime is
continually reconstituted more appropriately to recognise, respect
and represent the values, opinions and vital interests of its members.
The side-lining of the participation paradigm in the process of
European integration, and the almost exclusive focus on rights and
identity issues, has resulted in a certain timidity in recognising the
legitimate role citizens have in the constitutionalisation of the EU.
This is also due to a misunderstanding of the nature of citizens’
participation in modern, complex societies. We shall examine this
timidity and the misunderstanding in turn.
If few theorists share our belief that citizens’actions and
struggles do and should play a continuous constitutive role in
establishing rights, obligations and political practices, many are
willing to grant them a part in rare moments of exceptional consti-
tutional change. Though we have disputed the implied distinction
between normal and constitutional politics ( ), believing momen-
19
( ) J. W , Law and Disagreement, Oxford, Clarendon Press, 1999, p. 102.
18 ALDRON
) See, B and C , Constitutionalism and Democracy.
( 19 ELLAMY ASTIGLIONE
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
370 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
tous change often and more readily occurs as the result of cumula-
tive and incremental shifts in people’s opinions, values and institu-
tional practices, it is nonetheless true that in many democracies some
kind of formal popular consultation and debate is deemed necessary
for a major reform of the constitution. Given the present enlarge-
ment and deepening of the EU, there is a sense that Europe may
currently be going through just such a constitutional moment. This
belief may be unfounded, as the difficulties in constructing a com-
mon European position on the international stage readily testify. But
at the time of writing, there is no way of saying whether the current
crisis over Iraq will indefinitely halt any serious reform towards a
more integrated system of governance or, by contrast, will make it
more compelling. Yet, in spite of the indeterminacy of the pace and
direction of the constitutionalisation process, it remains true that
over the past few years the EU has embarked upon a self-conscious
constitution-building exercise that has culminated in the drafting of
a Charter of Fundamental Rights and the establishment of a Con-
vention on the Future of Europe. Although the Charter has so far
remained a purely declaratory document, the Convention clearly
hopes to rationalise the EU’s institutional architecture and define its
scope, values and legal personality within a new constitution.
In the EU context, supporters of both the rights and the
belonging views of citizenship have put great store by these ‘consti-
tutional moments’, since they regard the formal declaration of the
Charter and/or the Constitution as an essential condition for fixing
the rights and political identity of EU citizens. Liberals of different
shades have consistently argued for the Charter to be both legally
binding and fully incorporated into the constitutional text. For they
consider incorporation essential to establish a conception of person-
hood based on equal dignity and a certain degree of security in one’s
liberties. Besides, from a democratic perspective, they regard the
proclamation of the fundamental rights of European citizens as a
way of giving legal substance to the European demos and the
creation of a public communicative sphere for opinion forma-
). For their part, communitarians who wish Europe to be-
tion ( 20
( ) J. H , The Postnational Constellation, Cambridge, Polity Press, 2001;
20 ABERMAS
, Ma l’Europa già applica la nuova Carta dei diritti, “La Repubblica”, 8 January,
S. R v
ODOTA © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
- 371
RICHARD BELLAMY DARIO CASTIGLIONE
come a new civic nation clamour for the introduction of core
substantive values into the constitutional document. They argue that
what holds Europeans together is their common historical, religious
and cultural heritage. Giscard D’Estaing’s claim that Turkey is
ethnically and culturally too different to be allowed to join is
illustrative of this position. Arguments in favour of this view have
emerged in the current Convention, as they did in the drafting of the
Charter, with delegates fiercely debating whether there should be an
explicit reference to God, and particularly Christianity, as sources of
human rights and European political values.
Yet, in spite of the importance that advocates of the rights and
belonging paradigms put on formal constitutionalisation, they have
paid little attention to the role that citizens might play in it. Both
camps seem satisfied with the very indirect way in which citizens
have been represented in the two conventions, through a low-key
self-selecting process occurring within current institutions. There
has been little concern over the low level of public interest in these
proceedings or the minimal press coverage it has received. Some of
the initiatives organised to give public visibility to the convention
proceedings have been rather perfunctory, as in the case of the
Youth convention, while the attempt to involve citizens more di-
rectly through the participation of civil society organisations has
been largely symbolic and not thoroughly thought out. Indeed, at
last year’s Social Forum in Florence denunciations were made of the
aloofness of the convention process from the debate about Europe
and its geopolitical place in a globalised world — the issue that truly
). The only formal role that
concerns the peoples of Europe ( 21
citizens have been assigned, and only in those few cases where a
member state’s domestic procedures require it, is to vote in refer-
enda in the final phase of the ratification process. After the experi-
ences of the Danish referendum on Maastricht and the Irish on
Nice, however, even such limited involvement is considered prob-
2001, E. O. E , Why a Charter of Fundamental Human Rights, in The Chartering of
RIKSEN , J. E. F , and A. J. M , ARENA Report No.
Europe, edited by E. O. E u
RIKSEN OSSUM ENE NDEZ
8/2001, p. 29.
) See also the antiglobal demonstrations that have started accompanying the
( 21
IGC meetings. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
372 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
lematic. There seems to have been a presumption that popular
consent should only serve to rubber stamp whatever agreements had
already been made between governments and the Commission. As a
result, when the Irish electorate, for example, failed to support Nice,
their decision was treated as a momentary lapse of good judgement
and simply sent back to them for a second time so they could get it
‘right’.
The extremely limited role allowed for citizens’direct participa-
tion is sometimes attributed to the relative lack of urgency and
momentousness with which institutional reform is seen by the
European citizens, and the difficulty of arousing popular interest in
rather complicated issues of institutional engineering that seem to
have no direct or tangible impact on policy. But this is clearly not
true of the series of crucial decisions taken by the EU and the
member states over the past few years that have precipitated the
present round of constitution-building. Enlargement and monetary
union are constitution-making events with clear policy implications,
and yet public discussion at European level has been carefully
managed and often curtailed. Where it has surfaced at national level,
as in the British case about the Euro, it has been due more to the
presence of a strong popular opposition (often opportunistically
manipulated by part of the elite opposed to any form of integration)
than to a genuine openness to a considered and well-informed
public debate. Indeed, the full social and political implications of
some of the policy and institutional decisions taken as part of the
establishment of a European common currency, such as the ‘stability
pact’, the role of the European Central Bank, and the price-stability
criteria, have only just begun to be publicly debated. The rigidity of
some of the structures and policies put in place has given rise to calls
for reform from many, often quite disparate, quarters. However,
these calls have met with strong resistance — not just from the
institutional centre of the EU, but also from many member states,
who fear that any change may undermine the whole structure of
macro-economic policy put together in the wake of monetary union,
whose legitimacy it is felt rests more on the painstaking way in which
administrative decisions were arrived at than any clear popular
support.
It is evident that at a macro-political level, Europeanisation has
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
- 373
RICHARD BELLAMY DARIO CASTIGLIONE
resulted in a timid approach to the virtues of democratic debate and
democratic decision-making. This timidity is largely due to the
difficulty of imagining democracy in conditions where there seems
to be no unified demos capable of speaking with a single voice. It
also reflects a very narrow interpretation of what is meant by
). As we saw, on the
citizenship as ‘the right to have rights’ ( 22
Aristotelian view the right to have rights is what makes citizens’
participation not just possible but essential to their very role.
However, this expression can also be interpreted a very different
way to mean simply the already given set of rights that come with the
right of citizenship. This alternative view belongs to the juridified
conception of politics propounded by modern liberalism and typi-
fies post-war constitutionalism. Indeed, many American authors,
citing the use of this phrase by the American Supreme Court, treat
it as a summary of the more ‘passive’ and ‘private’ view of citizen-
). Yet, we doubt that the participatory implications
ship-as-rights ( 23 ). If there are reason-
of this expression can be entirely jettisoned ( 24
able disagreements about rights, so that they fall within the ‘circum-
stances of politics’, then there can be no justification for favouring
elite over democratic-based procedures for their settlement. In a
society where citizens are presumed to be equal, the ideal of
‘comparative justice’ proves the most suitable norm for distributing
the political authority to make decisions concerning not only policies
). Participation, seen as citizens sharing in
but also principles (
25
political power with other citizens, is the right that makes it possible
for them to establish the nature and extent of the set of rights they
should all enjoy. Such participation should be understood as an
( ) Cf. C. L , Democracy and Political Theory, Cambridge, Polity Press,
22 EFORT
1998. ) Cf. K , Contemporary Political Philosophy, p. 288, and pp. 322-3,
(
23 YMKLICKA
note 6, where reference is made to Trop v. Dulles 356 US 86, 102 1958.
) W , Law and Disagreement, Ch. 11, Participation: The Right of Rights,
(
24 ALDRON , “The Right to have Rights”: Citizenship Practice and the
pp. 232-54 and R. B ELLAMY and A W eds, Citizenship and
Political Constitution of the EU, in R. B
ELLAMY ARLEIGH
Governance in the EU, London, Continuum, 2001, Ch. 3.
) W , Law and Disagreement, p. 238, and note 21, for reference to Joel
( 25 ALDRON
Feinberg’s understanding of ‘comparative justice’.
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374 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
equal and reciprocal right to have an effective voice in making the
).
collective decisions on which all citizens’ life-chances depend (
26
This argument returns us to the original ideal of citizenship-as-
participation that we find in the classical injunction that the citizens
of a republic are those who are both rulers and ruled. However, it is
often argued that this understanding of citizenship does not apply to
the conditions of modern politics and society, where the individual
citizen’s input is no longer necessary for the polity to both function
and survive. This claim proves misplaced. As John Stuart Mill
observed in his Considerations on Representative Government, ‘po-
litical machinery does not act of itself... [it] has to be worked by men
and women, and even by ordinary men and women. It needs not
their simple acquiescence, but their active participation, and must
be adjusted to the capacities and qualities of such people as are
). Active participation is therefore as important an
available’ (
27
ingredient of modern as it was of ancient democratic government,
though the particular form that it takes, and the institutional ma-
chinery through which it is channelled, must, as Mill says, be
‘adjusted to the capacities and qualities’ of the people available in
the modern world. It is in this sense that, besides being looked at as
a right, participation needs to be seen as a quality of the institutions
and the virtues of the citizen.
In this regard, the timorous view of citizen participation often
rests on a misunderstanding of the preconditions of the classical
conception of citizenship that leads to the assumption that it cannot
be adapted to modern complex societies. Both liberals and commu-
nitarians tend to assume it presupposed a homogeneous and simple
society, in which public matters were strictly separated from private
ones. Homogeneity ensured there was little disagreement on basic
values while simplicity meant that the policies to be decided were
few. The strict public/private split arose from citizenship being
restricted to those whose property was sufficient for them to be free
( ) R. B , Rethinking Liberalism, London, Continuum, 2000, pp. 155-59,
26 ELLAMY
177-83. ) J S M , Considerations on Representative Government, in Utilita-
( 27 OHN TUART ILL
rianism, Liberty, and Representative Government, London, J.M. Dent & Sons, 1944, p.
177 (our emphasis).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
- 375
RICHARD BELLAMY DARIO CASTIGLIONE
to engage in public service without any desire for a reward, with
public matters in any case excluding the management of private
affairs. As a result, there was little scope for a clash of interests. In
these circumstances, all those qualified to do so had the time to
deliberate on the public good and were likely to reach an impartial
and consensual agreement on it.
These conditions hardly hold in the modern world. Liberals and
communitarians react differently to this state of affairs. Liberals
argue that politics has degenerated in being largely about the pursuit
of private interests by public means. What were to become the twin
evils of later republicans, factionalism and rent-seeking, they claim
are now the norm. This fact provides the main reason for taking
rights out of the political arena altogether and handing their pro-
tection to the courts. The most that can be expected of citizens in
the way of civic virtue is law-abidingness and a passive toleration of
others. The difficulty with this analysis is that the restricted account
of politics and its virtues it proposes is itself only likely to be
adequate in relatively homogenous and simple societies motivated
by the public good. People will only be happy to trust in others and
abide by the law, keeping participation to a minimum, where there
are shared interests and values. However, if everyone is out for him
or herself, why should we expect judges, public servants or politi-
cians to be any more disinterested than anybody else. Qui custodit
cuius custodes becomes the central question, to which no satisfac-
tory answer has yet been given. Communitarians accept this diag-
nosis of modern liberal politics, but advocate a return to the ancient
virtues within more localised settings, where homogeneity and sim-
plicity prevail. Yet this solution appears hopelessly anachronistic,
and could only be established and sustained by a decidedly illiberal
degree of moral policing and interference with individual choice.
Such a policy seems unsustainable and unacceptable even at the
local level, let alone that of entire nations. Moreover, it too suc-
cumbs to the very problems it seeks to overcome. The emphasis on
our communal and familial ties risks further dividing and factional-
ising society, creating barriers between included and excluded
groups and individuals.
Fortunately, we believe things are not so bad as these accounts
suggest. The classical view has Roman as well as Greek antecedents,
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
376 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
and was developed by later thinkers well aware of the modern
predicament. In the neo-Roman account, class and ideological con-
flict were taken as givens. The spur to participate was precisely to
avoid a rival faction taking power so that they could use public
means to pursue private ends. The solution to these struggles was to
find ways of balancing the various groups within a system of mixed
government — thereby obliging them to cooperate with each other.
As the American Federalists presciently saw, complexity and size
aided this process (28). The one produced a plurality of interests, so
that any faction would always have to contend with other factions.
The second allowed power to be dispersed territorially, so that any
polity always had to contend with the claims of various sub-polities,
thereby preventing central government dominating all. It is our
contention that the multi-levelled forms of governance that are
painstakingly evolving in Europe offer an opportunity for develop-
ing such a neo-republican conception while avoiding the dangers of
factionalised and rent-seeking participation its critics fear.
Although multilevel governance undermines the sense of unity
that characterises traditional forms of democratic power, and so
apparently multiplies the occasions for factionalism and rent-seek-
ing, it does not necessarily exclude the introduction of other forms
of more diffuse democratic participation and deliberation, thereby
giving the citizens more of a say on what matters most to them in
relation to their life-chances. In comparison to the national level,
Europe offers opportunities as well as apparent losses. European
politics is undeniably often characterised by log-rolling and horse-
trading between national governments in defence of sectoral inter-
ests of various degrees of legitimacy. However, it also offers fora for
a more deliberative style of politics — one that is partly detached
from the constraints imposed by modern-day party politics, and
sometimes better able to combine individual and democratic per-
spectives with those advanced by expert bodies. For example, the
Commission, or some of the agencies and committees under it, can
( ) See, R. B , The Political Form of the Constitution: the Separation of
28 ELLAMY and D. C (eds.),
Powers, Rights and Representative Democracy, in R. B ELLAMY ASTIGLIONE
Constitutionalism in Transformation. Theoretical and European Perspectives, Oxford,
Blackwell, 1996.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
- 377
RICHARD BELLAMY DARIO CASTIGLIONE
often assume a more general view of the Union’s and its
citizens’common good, countering some of the more particularistic
).
and partial positions advanced by the national governments (
29
Thus, certain aspects of the BSE crisis testify to the ability of
European institutions to defend the interests of European consum-
ers against the entrenched power of certain sectors within national
communities. But, the reverse also holds true. For intergovernmen-
talism has also allowed some particular interests to be successfully
defended against the force of simple majoritarianism within a given
national community. From such a perspective, it should also be
possible to find and develop modes and instruments of transnational
governance that, along with efficiency, also value citizens’more
).
direct input (
30
The encouragement of such forms of governance at the Euro-
pean level may also be able to compensate for the more populist and
executive-centred tendencies in national democracies, which tend to
stifle proper democratic debate and deliberation and occasionally
show worryingly authoritarian inclinations. Indeed, for all its lack of
effective power, or perhaps because of it, the European Parliament
may some times be able to reflect European public opinion better
than the sum of the national parliaments or governments could, as
may presently be the case in the Iraq crisis. Certainly, its highly
representative character and the need to reach decisions by a
majority of all MEPs and not just of those who vote, encourages a
deliberative and consensual form of politics. The complexity of
European decision making is often criticised. Yet it is arguably the
very diversity and mutually balancing character of the various
policy-making polities and regimes comprising the European Union
that places it in a better situation than the more hierarchically
organised national systems to represent the variety of rights, interests
and identities that characterise citizenship in modern societies.
( ) See P. C , Democracy and Rule-making Within the EC: An Empirical and
29 RAIG
Normative Assessment, “European Law Journal”, (1997), vol. 3, n. 2; pp. 105-30; and C.
, The impact of European integration on private law: Reductionist perceptions, true
J OERGES
conflicts and a new constitutional perspective, “European Law Journal”, (1997), vol. 3, pp.
378-406.
) See J. C and C. S , Directly-Deliberative Polyarchy, “European Law
(
30 OHEN ABEL
Journal”, (1997) vol. 3, pp. 313-42.
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378 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
As for the practical problems raised by active participation, the
typical concerns about citizens’ willingness to engage in decision
making are partly misplaced. In modern complex societies, citizens
no longer participate solely in a narrowly defined public political
domain. It has become increasingly evident that people live in
overlapping networks of decision-making that are not organised in a
simple hierarchy. An increasing number of decisions affecting indi-
viduals as private persons, but also as citizens, are made in ways and
places that escape direct political control. The burgeoning of the
regulatory functions of the state (and of European institutions)
through independent or semi-independent agencies, which often
operate in the field of privatised public utilities, poses, for instance,
the problem of how to organise and give representation to the
interests of the citizen-consumers, balancing the growing power of
corporate enterprises in semi-monopolistic economic sectors. Simi-
larly, the globalisation and internationalisation of capital and labour
markets have weakened the connection between territory and eco-
nomic activities, thus sapping the vital sources of industrial and
work-based democracy and making large groups of economic agents
powerless. European-wide territorial policies should aim both to
protect the vital interests of local populations and to foster institu-
tional and associative forms that re-empower them.
To have meaning, participation must apply as much to civil
society as to the state. There is nothing entirely new in this, since
most conceptions of democracy recognise the supporting role played
by civil society and associational life in general. Involvement in civil
society, however, should not be seen simply as an education for
politics, or as the seedbed for the virtues of political citizenship. In
many cases, though not in all, participation in civil society is no
different to participation in politics, and the virtues required in both
are mutually sustaining, if not the same. There are important ways in
which the political virtues of civicness, which entails acquiring a
sense of what the public interest is, can at times be fostered or even
coincide with the cultivation of the more civil forms of virtue,
consisting in the development of generalised trust, a sense of fair-
ness, reciprocity, and a general civility in relation to others. Modern
participation requires these virtues to be actively exercised in the
practices of citizenship and collective decision making, in which
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- 379
RICHARD BELLAMY DARIO CASTIGLIONE
individuals may engage through forms of traditional political par-
ticipation, but also more directly either at the local level or in social
settings. These different levels and forms of collective decision
making increasingly form part of a more global interlocking system
of governance, in which we continuously dip in and out following
personal patterns of engagement and activism. Therefore, the prob-
lem is not that of sustaining any single or uniform pattern of civic
engagement (electoral turn-out, for instance; or party membership),
but of recognising that engagement takes very different forms and
that citizens should have the opportunity to have their say in a
variety of settings, which may better express the intensity of their
opinions or the proximity of their interests.
From such a perspective, the virtues of modern citizens are
more varied and in less need of being exercised to the utmost at all
times and circumstances. Moreover, if voice and participation are
important aspects of the liberty of citizens, so is ‘exit’ as an option
that modern citizens may want to be able to exercise in various
contexts of contemporary society. As Herman van Gunsteren sug-
gests, ‘people who ... take the option of exit provide important
). Such a
signals on the road of peaceful change in a free society’ ( 31
change is eventually supported by the ‘loyal’ citizen, but neither
absolute loyalty nor complete disinterest work. What is needed is a
healthy and variable mix of the two options across society, people
and issues (32). Nonetheless, the virtues that characterise the cyclical
involvement of the average citizen cannot be sustained in their
purely procedural sense, nor can they be paternalistically imposed
on them. Modern participation requires a certain amount of virtue
across the polity, or to be precise, it requires a mixture between civic
and civil virtues, and their practice by a substantial number of
citizens. It is, after all, from the encounter with other citizens in the
process of collective deliberation that the civic bond is established
and cemented — in Europe no less than in other places.
( ) Van Gunsteren, Theory of Citizenship, p. 123.
31 ) See, D. C , Public Reason, Private Citizenship, in M. P
( 32 ASTIGLIONE ASSERIN
D’E and U. V (eds.), Public and Private: Legal, Political and Philosophical
NTREVES OGEL
Perspectives, London, Routledge, 2000, pp. 28-50.
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380 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
6. Conclusion.
The belonging and rights accounts of citizenship fail to be
genuine accounts of citizenship at all. For different reasons, both
sideline the main rationale for citizenship — namely, participation in
making collective decisions in the face of disagreements over values
and conflicting interests. It is the fact that these disagreements and
conflicts exist that makes democratic politics necessary to resolve
them in ways that avoid tyranny or domination. For there can be no
expert or impartial decision-maker in such circumstances, and the
only way to ensure one’s views and interests are fairly considered in
the final decision is to play a part in making them. Once the necessity
of civic participation is acknowledged, it remains to be seen whether
it is possible. Again the belonging and rights-based accounts assume
it is not. Here too we have challenged their arguments, suggesting
that the very processes they assume have undermined such political
agency may well be promoting it. The impossibility of a civic Europe
lies more in a failure of political will and imagination than any limits
of modern societies as such.
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GIORGIO BERTI v
PRINCIPI DEL DIRITTO E SUSSIDIARIETA
1. Principi. — 2. Principi e organizzazione. — 3. Principi e regionalismo. — 4. Legalità.
— 5. Sussidiarietà. — 6. Società e Stato. — 7. Il distacco dello Stato dalla società. — 8.
Effetti sulla democraticità dello Stato. — 9. Unità dello Stato e autonomie: sussidiarietà
e gerarchia. — 10. Sussidiarietà e Unione Europea. — 11. Sussidiarietà e giuridicità:
considerazioni finali.
1. Principi.
Il linguaggio giuridico esprime di frequente dei concetti i quali,
essendo informati al criterio filosofico del dover essere, acquistano il
valore o la veste di “principio”. Il principio a sua volta, quando
sollecitato, si rifrange in una quantità di regole, che sono appunto la
riedizione del principio in una maggiore prossimità al reale. Tra il
principio e la regola possono collocarsi ad esempio le dodici tavole
di Roma antica, le quali furono il frutto di una traduzione positiva di
principi normativi formatisi spontaneamente in secolari esperien-
).
ze (
1
Per questo, quando oggi si torna a usare il concetto e il termine
( ) Si veda in proposito F. S , I principi del diritto romano, a cura di V.
1 CHULZ
R , Sansoni, Firenze 1949, passim. Il “giuridico” una volta elevato a sistema
A
RANGIO UIZ
o a pluralità di sistemi e delimitato dal suo stesso “metodo”, ridà vigore ai “principi”, in
certo senso superando la positività, che è contaminata dalla politica. L’isolamento del
diritto è anche purificazione del diritto come linguaggio e come metodo. Su questi
, Edificazione e conoscenza del giuridico nel sistema di Savigny,
aspetti si veda R. O RESTANO , Mommsen et
ora in Edificazione del giuridico, Bologna 1989, p. 170 ss.; Y. T HOMAS
“l’isolierung du droit” nel vol. Le Droit public Romain, Tome I, p. 1-48, Diffusion De
, Il progetto giuridico,
Boccard, Paris 1984; per la dottrina italiana inoltre P. C
OSTA
Giuffrè, Milano 1974. Sui principi generali del diritto e sulla loro efficacia anche nel
, I principi generali del diritto nell’ordine
diritto pubblico si veda ora il libro di A. S v
CIUME
giuridico contemporaneo (1837-1942), Giappichelli, Torino 2002.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
382 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
di principio, occorre cercare di rifarsi all’ambiente umano o sociale
o istituzionale nel quale il principio stesso si è maturato o nel quale
esso è destinato a espandersi in nuove concrezioni e quindi in nuove
regole. Alle volte sembra che l’utilizzo del principio serva a mitigare
un effetto giuridico che non si vuole venga percepito secondo il suo
vero contenuto, ma venga lasciato a mezz’aria cosı̀ che se ne faccia
o si creda di poterne fare un impiego accettabile. Altre volte, il
principio, quando inserito in una serie normativa di particolare
pregnanza e dignità, come è la costituzione di uno stato o di una
entità simile, oltre che divenire più suggestivo, acquista il senso di
una regola fondamentale del diritto come interpretazione della vita
associata e del rapporto fondamentale tra l’uomo e la società. È
appena il caso di dire allora che il termine “principio”, lungi
dall’avvolgere la conoscenza dell’ordine giuridico, ne esprime la
complicatezza, l’intrinseco “difficile”del mondo giuridico.
Se poi il principio diviene invece una specie di espediente per
cercare oltre l’esperienza immediata la soluzione di un caso o di più
casi, allora è come se si denunziasse una sorta di sconfitta: l’impos-
sibilità di esprimere i contorni e quindi la storicità di una regola ( ).
2
2. Principi e organizzazione.
La nostra e le precedenti generazioni sono state largamente
influenzate dal credo positivo, e quindi dal diritto prodotto attra-
verso meccanismi istituzionali e procedurali dal soggetto dotato di
una potestà sovrana. E non è difficile intuire che quanto più un
potere è forte o una potestà è davvero sovrana e cioè abilitata a fare
il bello o il cattivo tempo in ogni settore della vita dei popoli, tanto
più quel soggetto esprime volontà cosı̀ precise o puntuali da rag-
giungere l’obiettivo del momento quasi senza necessità di complicati
( ) I principi d’altronde debbono ispirare una quantità di regole di vita, control-
2
labili e sanzionabili. Altrimenti essi stessi si vanificherebbero. Nello stato moderno e
contemporaneo il diritto è divenuto monopolio del potere politico incarnato nello stato
e si è creata cosı̀ una perniciosa, per vari aspetti, commistione esistenziale tra politica e
diritto. La prima adotta il diritto per ricostituirsi come insieme di potestà, e la sovranità
ne è quindi la prima e più rilevante espressione. Debbo rinviare su ciò alle annotazioni
5 e 6 in appendice al mio volume Interpretazione costituzionale, Cedam, Padova 2001, IV
ed. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 383
GIORGIO BERTI
processi interpretativi, e quindi senza dover ambientare il precetto
espresso in una cornice più ampia, cioè nella cornice dei principi
(anche se un processo interpretativo, sia pure scarno, ricorre in ogni
caso).
Dipende anche dai modi con i quali l’imperio viene organizzato:
se l’organizzazione è accentrata, essa sarà il luogo di regole precise
destinate all’applicazione immediata. Mentre un principio viene alla
soglia della consapevolezza quando lo spessore interpretativo im-
plica un’aggiunta di conoscenza ed una rielaborazione del contenuto
normativo attraverso l’apparato logico interpretativo di una pluralità
di soggetti equiordinati e tra loro dialoganti, nello spazio di mezzo
tra la regola ufficialmente detta e l’applicazione di essa in un caso o
in più casi. È in questa cornice che il principio viene a soccorrere
colui che interpreta e colui che applica la regola. Il soccorso può
essere tale, per forza persuasiva, da avere anche l’idoneità a tradursi
nel suggerimento di contestare la regola per essere questa di fatto
incompatibile con il principio. Si pensi all’utilizzo da parte delle
corti costituzionali del principio di uguaglianza, tutte le volte che è
apparso che una regola positiva, pur creata nell’aureola di quel
principio, incidesse malamente sulla parità di chances dei cittadini.
Si pensa da molti che in un’organizzazione federalistica, a
differenza che in uno stato unitario ed accentrato, vi sia molto più
spazio per i principi del diritto, che avrebbero cosı̀ il compito di
ridurre le disparità fra i regimi giuridici dei vari stati minori e
indurre in via interpretativa una fondamentale unità della federa-
zione, anche oltre le materie di stretta competenza di quest’ulti-
). Non si può contestare ragionevolmente un tale convinci-
ma (
3
mento, pur sottolineando tuttavia che la sede di origine dei principi
e il loro vigore di penetrazione divengono in questo modo appan-
naggio dell’ordinamento più vasto, il quale dunque acquista, attra-
verso la formulazione di principi, quel ruolo di fattore dell’unità, che
gli stati minori per definizione non sarebbero in grado di produrre.
Pertanto, dal punto di vista delle fonti del diritto, e a parte le materie
riservate, opererebbe una divisione massima tra principi propri dello
stato grande e disciplina per regole, propria degli stati locali ( ).
4
( ) Vedi J. I , Subsidiaritätsprinzip und Verfassungsrecht, Berlin 1968.
3 SENSEE
) Sul federalismo in Europa, dal punto di vista storico-giuridico, ma anche per
(
4 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
384 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
3. Principi e regionalismo.
Di ciò ha fatto larga applicazione il regionalismo italiano, dove
non tanto i principi generali del diritto quanto addirittura i principi
ricavabili da leggi dello stato gravavano, secondo il vecchio testo
dell’art. 117 Cost., sul legislatore regionale.
Però in questo caso, i principi non hanno alcuna naturalezza,
essendo nient’altro che il frutto della spremitura di regole vere e
proprie, stabilite per l’interezza dell’ordinamento statale. È tuttavia
significativo che si sia usata la figura del principio, quasi che anche
i collegamenti tra istituzioni all’interno di uno stato dovessero
esprimersi in termini di principi.
Nella successiva e tutto sommato ambigua campagna legislativa
per l’incremento dell’autonomismo e l’avvio di un federalismo do-
mestico (o addomesticato), la figura dei “principi” viene utilizzata
come una sorta di passe-partout, che consente di far convivere
autonomismo e centralismo in un apparente nuovo ordine, conden-
sato alla fine nella c.d. riforma costituzionale del Tit. V della II parte
Cost. (l. cost. 18/10/2001 n. 3).
In questa riforma si fa impiego della figura dei principi per
trasferire a future legislazioni sistemazioni meno generiche e di
superficie dei rapporti tra centro e periferia.
4. Legalità.
Quando i principi, in qualsiasi modo definiti, ricadano in un
ambito normativo predefinito, divengono strumentali e, invece che
illuminare il legislatore e coloro che applicano le leggi, fungono da
fattore di legittimazione delle soluzioni date ai problemi del mo-
mento: strumenti di raccordo tra istituzioni, con un tasso di norma-
impostazioni generali, si veda S. S , Le droit fèdèral en Europe, Bruxelles, 1991.
CHEPERS
Importanti contributi si trovano nei due volumi del Handbuch des Staatsrechts, a cura di
e P. K , Heidelberg 1987. Ma v. già, per impostazioni attente ai limiti
J. I
SENSEE IRCHHOF , Subsidiaritätsprinzip und
dell’attività dello stato e ai rapporti tra società e stato: J. I SENSEE
Verfassungsrecht, cit., con ampi riferimenti al pensiero tedesco classico (Kant, Hum-
, Fédéralisme et relations internationales,
boldt, Jordan, v. Mohl, Jellinek); R. D
EHOUSSE , Il federalismo, ed. Olivares
Bruxelles 1991; e sul federalismo americano A. H
AMILTON
.
1993 con ricco saggio introduttivo di D. F
ISICHELLA
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 385
GIORGIO BERTI
tività tenue o ridotto. In questo modo i principi diventano anche
pretesti o veicoli di depotenziamento della legalità formale, vero
principio questo sul quale nel bene e nel male furono impiantati i
rapporti, oltre che fra i poteri dello stato, tra lo stato e le autonomie.
Nel pieno dello stato di diritto (un pieno di tipo concettuale, più
che temporalmente collocabile), tutte le relazioni dell’emisfero pub-
blico della società apparivano in certo senso ricondotte, a volte quasi
a forza e contro la ragione, al principio di legalità, che univa insieme
molteplici figure, ne legittimava l’azione e ne determinava le capa-
cità. La legalità sembrava riassumere in sé ogni altro principio di
convivenza e di azione.
Il mondo pubblico insomma si reggeva su questo principio che,
presso di noi, e prima ancora nell’ordinamento francese, aveva come
corollari, sul piano organizzativo, l’accentramento dei poteri, la
gerarchia delle competenze ed un’organicità tanto marcata e intensa
da raccogliere e riprodurre all’interno della figura dello stato persino
).
gli enti di autonomia (comuni come organi dello stato) (
5
Questo principio è andato scolorendosi in questi ultimi decenni
e ha perduto di rigore: il contatto col mondo privato ha tolto
alquanti contenuti alla legalità della versione pubblicistica, cosı̀
influenzata dalla sovranità e dal potere. E certi corollari organizzativi
di questo principio sono appassiti e sono divenuti figure invecchiate
e quasi disdegnate dal pensiero corrente.
Sono cosı̀ emersi altri, epperò pur essi (almeno in parte) artifi-
ciosi, principi, tratti dall’osservazione apparentemente più disincan-
tata delle stesse cose pubbliche, come se queste, perduto l’antico
( ) Sulla modernizzazione dello stato di diritto e sulla sua consistenza nell’attua-
5 , D. R , nel volume L’état de
lità, sono da tener presenti i contributi di D. C OLAS OUSSEAU e P. D ,
droit, Puf, Paris 1987. Sul principio di legalità in particolare G. V u
EDEL ELVOLVE
Droit Administratif, Puf, Paris 1958, p. 444 ss., a prescindere naturalmente da pressoché
tutta la dottrina pubblicistica dei paesi europei. Sullo stato di diritto dovremmo oggi
, Trattato del governo civile,
rileggere antichi testi a cominciare per esempio da J. L OCKE
tradotto nell’italiano idioma, Amsterdam 1773: secondo Locke, tutto il potere politico dà
corpo al potere legislativo dello stato. Se questo potere non funziona a dovere per cattiva
condotta, tutto ritorna alla società e il popolo riacquista la pienezza della propria
sovranità. Un’altra proficua lettura può essere fatta del Saggio sui limiti dell’attività dello
, traduzione italiana a cura di G. Perticone, al quale si deve un
stato di G. H
UMBOLDT
illuminante introduzione (Giuffrè, Milano 1965).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
386 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
piedestallo, si fossero mescolate disordinatamente al grande insieme
).
delle figure del diritto comune (
6
Pubblico e privato non sono più qualificazioni di capacità
differenti oppure diversamente disegnate. Se il pubblico cede al
privato e con questo si mescola, non si potrà più rimarcare e
condurre alle estreme conseguenze il potere pubblico e il bozzolo di
legalità nel quale esso deve contenersi.
Anche i controlli, figure ben note e caratteristiche della legalità
pubblica, paiono quasi ripudiati nelle più recenti leggi sull’ammini-
strazione.
Pubblico e privato, dismessi gli antichi paludamenti, si ripro-
pongono allora nella nudità della contrapposizione tra politica e
società: questa contrapposizione fa scoccare delle scintille che sotto
l’ombrello della legalità non si vedevano ed è cosı̀ che lo stesso
legislatore va cercando dei concetti o dei vocaboli che sintetizzino in
se stessi le difficoltà delle relazioni tra i due mondi e i modi per
ridurne gli attriti ed anche i conflitti.
È in ciò che il principio di legalità sembra messo da parte,
perché rimasto pura forma, spoglia di contenuti di un qualche
rigore. Ora, non è che con i principi che si mettono accanto alla
legalità si recuperi il perduto rigore del diritto pubblico e delle sue
figure, ma si intende esprimere in modi più significativi i passaggi di
maggiore rilievo tra la politica e la società. Il principio di sussidia-
rietà, di cui tanto oggi si parla, diviene in questo modo la sintesi o la
linea conduttrice del passaggio dalla società storica all’organizza-
zione politica, in quanto questo passaggio, non essendo più defini-
bile a priori, diviene necessariamente visibile e conoscibile nella
continuità del suo verificarsi e nelle dinamiche processuali mediante
).
le quali appunto prende consistenza ai nostri occhi (
7
( ) Sulla riapparizione dei principi e la correlativa conversione del positivismo
6
giuridico, con largo esame della dottrina giuridica più significativa (da Rousseau, Locke
, Droit,
fino a Hart, Dworkin, Perelman, Bobbio, Maccormick e altri) si v. L.Y. W INTGENS
principes et théories pour un positivisme critique, Bruxelles 2000.
) Sul processo di decentralizzazione in Francia e la relativa varietà di profili, si
( 7 , Le droit de la décentralisation, Paris, Puf 1983; AA.VV. (sotto la
v. F. e Y. L UCHAIRE
direzione di G. Gilbert e A. Delcamp), La décentralisation dix ans aprés, LGDJ, Paris
1993. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 387
GIORGIO BERTI
5. Sussidiarietà.
La sussidiarietà si trova oggi un po’ dovunque, e cioè in ogni
forma di composizione tendenzialmente federalistica delle organiz-
zazioni pubbliche. Peraltro, un principio sussidiario opera in qual-
siasi forma organizzativa: infatti, le competenze, che sono segno di
divisione, ancor più se definite esclusive, non potrebbero mai ricon-
dursi alla funzione unitaria dell’organizzazione di cui sono articola-
zioni, se non attraverso strumenti di risalita verso l’unità e di
superamento delle separazioni. È chiaro infatti che qualsiasi disegno
organizzativo è rivolto a creare un’efficienza ed una funzionalità
dell’insieme per modo che ciò che è fatto da una parte sia appunto
funzione dell’insieme unitario. Certo, quando l’organizzazione è
rigida, e lo vediamo agevolmente scorrendo la letteratura giuridica
del tempo dei poteri accentrati, la sussidiarietà è interiorizzata al
punto che non emerge in quanto tale: tutto è pre-disegnato ed ogni
risultato od ogni obiettivo raggiunto si colloca comunque in quel
punto nel quale esso è frutto allo stesso tempo della parte e del tutto.
Sono i miracoli dello stato di diritto: dopo aver assorbito in sé
ogni momento ed ogni processo super-individuale, questo tipo di
stato aveva dato vita a strutture statiche e dinamiche che consenti-
vano che lo svolgimento di tutte le attività avvenisse meccanicamente
per la singola parte e per l’insieme generale. Ogni organo chiamava
un ente di appartenenza e quest’ultimo chiamava lo stato: si direbbe,
una sussidiarietà pre-confezionata e generalizzata, non turbata, né
alterata da spazi per scelte estemporanee, per affermazioni di auto-
sufficienza, di capacità globale, e via dicendo.
Quando si slacciano i fili che tengono unito l’insieme per
definizione o ne creano connessioni forti e generalmente non modi-
ficabili, allora occorre fare ricorso a qualche principio, o ad una
ispirazione o ad una idealità nuova, anche se artificiosa, affinché ogni
parte del vecchio sistema possa giustificarsi in se stessa quasi per una
nuova ragione di vita, e perché abbia senso una qualsiasi forma di
riconduzione delle espressioni singolari ad una legittimità unitaria.
Il fatto stesso che si ponga al di sopra di singole entità un’altra
entità che le prime sovrasti e ricomprenda e in qualche modo
valorizzi, obbliga a giustificare, sia pur di volta in volta, l’essere
dell’ente più piccolo rispetto all’essere di quello largo e compren-
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QUADERNI FIORENTINI XXXI
sivo, e nel contempo a giustificare quest’ultimo rispetto agli enti o ai
soggetti collettivi più prossimi alle società reali. Avviene cosı̀ che si
debba formulare il principio dinamico del raccordo e, prima ancora,
della reciproca legittimità delle organizzazioni minori (o di investi-
tura sociale immediata) e di quella più ampia alla quale si fa capo
proprio al fine di potenziare le prime.
La struttura organizzativa dello stato liberal-democratico è tutta
una rete di sussidiarietà, per la sola ragione che non vi è istituzione
che non debba completarsi nell’altra, pena la caduta dell’intero
edificio. Ogni soggetto ed ogni organo pubblico vive l’atmosfera del
tutto e perciò si completa nell’insieme. Ciò accade sia nell’esperienza
dello stato accentrato e articolato gerarchicamente, sia nello stato
che fa spazio alle autonomie ed è composto secondo un criterio di
impianto di tipo federale. È nell’organizzazione stessa la sussidia-
rietà, e un po’ colpisce che non se ne dimostri sempre adeguata
contezza.
Il problema allora sorge non in un’organizzazione costruita e
vivente in quanto perfetta in sé, ma quando si profilino specifici ed
occasionali rapporti tra organizzazioni diverse. Oppure quando si
prenda in considerazione un insieme non per la sua organizzazione
o il suo modo di essere, ma in quanto lo si colga nel bisogno di
riflettersi in una diversa organizzazione. E sotto questo profilo si
potrebbe già discorrere dell’ausilio che è necessario alle cose, prese
nella loro sostanza, perché esse possano venire qualificate per la loro
funzione: la sostanza ha bisogno della forma anche solo per essere
visibile e farsi quindi riconoscere.
Come potremo pensare all’uguaglianza fra gli uomini, oppure
alla fratellanza se non potessimo misurare questi beni con metro
oggettivo? Se non potessimo usufruire di luoghi e cose su cui
riflettere il comportamento umano e dare senso ad esso quanto al
rapporto con gli altri, mediante figure adatte a formulare un giudizio
sul rispetto della parità, dell’uguale trattamento o delle uguali
chances, o, come si diceva, della fraternità come legame tra uomini
)?
e regola della vita di relazione (
8
( ) Sul principio di sussidiarietà, da ultimo P. D C , Sussidiarietà e governo
8 E ARLI
economico, Milano 2002: con un’ampia trattazione di vari aspetti della sussidiarietà, nelle
sue radici sia nello Stato che nella Chiesa. Come viene a risultare dall’approfondimento
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GIORGIO BERTI
6. Società e Stato.
È accaduto cosı̀ che nel configurare i rapporti tra la società e lo
stato o la politica, si sia cercata una formula per dare a questi
rapporti dei significati compatibili con il primato dell’uomo e quindi
della società (come luogo di relazioni tra uomini) e l’organizzazione
politica della società stessa. L’associazione tra gli uomini, comunque
costituita e finalizzata, è strumento di sussidio, purché serva anzi-
tutto a dare consistenza e conoscibilità a finalità e scopi pensati come
comuni ad un gruppo più o meno esteso e comunque reale di
dell’indagine condotta da De Carli, le versioni verticale e orizzontale della sussidiarietà
si intrecciano nella storia con tutte le problematiche che riguardano lo stato e il suo
formarsi in relazione all’economia e alla società nella molteplicità delle dimensioni da
questa via via assunte. Questa indagine è meritoria perché ci pone innanzi la struttura
della sussidiarietà come principio, costruendola attraverso l’utilizzo del concetto in una
grande varietà di contesti e di occasioni, a cominciare dal grande bacino di esperienza e
di pensiero che la dottrina sociale della chiesa ha sottoposto a ripetuti esami e valutazioni
anche attraverso il linguaggio delle encicliche. Ciò è tanto vero che nel trattare del
principio di sussidiarietà nell’ordinamento dell’unione Europea a partire dal Trattato di
Maastricht (art. 3 B), la dottrina, più che ad esperienze normative od organizzative degli
stati, si richiama alla sussidiarietà come principio della teologia morale cattolica, ripreso
nelle encicliche di Leone XIII (Rerum Novarum), Pio XI (Quadragesimo anno) (ma si
vedano anche le encicliche Familiari Consortio del 1981 di Giovanni Paolo II e, prima,
Mater et Magistra e Pacem in terris di Giovanni XXIII). Il principio di sussidiarietà è
stato poi utilizzato nell’affrontare le problematiche dello stato sociale e sotto questo
profilo si intende meglio il parallelismo tra la dottrina sociale della chiesa e la dottrina
, Sul principio di sussidiarietà dell’intervento statale,
dello stato sociale (su ciò v. E. T
OSATO
in “Nuova Antologia”, 1959). Sulla dottrina sociale della Chiesa si vedano anche i
contributi contenuti nel volume Scienze sociali e dottrina sociale della Chiesa, edito dal
Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della chiesa presso l’Università
Cattolica del Sacro Cuore, Milano 1997. Il principio di sussidiarietà trovò inoltre eco
all’assemblea costituente e l’applicazione di esso nella costituzione del 1948 venne
preparata dagli esponenti cattolici presenti nell’assemblea, in particolare Dossetti e La
Pira. L’utilizzo del principio, negli studi e nella preparazione politica dell’ordinamento
dell’Unione Europea, ha rinfocolato l’attenzione scientifica verso il principio stesso: si
, Costituzione e principio di sussidiarietà, in “Quaderni
vedano ora per tutti A. D’A TENA , Lineamenti di diritto comunitario e
costituzionali”, 2001, p. 13 ss.; T. B ALLARINO
5
, p. 23 ss.; S. C , L’aquila e le mosche.
dell’unione Europea, Cedam, Padova 1997 ASSESE
Principio di sussidiarietà e diritti amministrativi nell’area europea, in “Foro Italiano”,
C ,
1995, V parte, p. 373 ss., e da ultimo, come detto, il contributo di P. D E ARLI
Sussidiarietà e governo economico, con ampi riferimenti di altra dottrina.
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persone. La forma sussidiaria entra in gioco quando il percorso che
stiamo compiendo nel superamento delle singolarità richiede una
sorta di verifica od una definizione per dare appunto immagine sia
pure ancor non compiuta ai risultati perseguiti. L’uomo nella società
non potrebbe vivere senza l’alimento dell’associazione.
Tutto ciò è detto a chiare lettere nella stessa formulazione
dell’art. 2 della nostra costituzione: l’uomo svolge la sua personalità
nelle formazioni sociali, e cioè nelle associazioni alle quali si trova a
partecipare. Ergo, l’associazione è sussidio necessario della perso-
nalità dell’uomo, e serve a dare immagine e senso all’essere uomo
nella società. Al punto terminale di una filière di associazioni si
ritrova però lo stato, che più che agglomerato di singoli è insieme
organizzato di associazioni o di formazioni sociali. Insomma, lo stato
politico, tradotto in organizzazione, è necessario a sua volta per dare
senso, immagini, collocazione certa e duratura alle formazioni sociali
nelle quali si svolge la personalità umana.
Da ciò deriva anzitutto che non si può discorrere di sussidiarietà
senza dare al concetto una connotazione di dinamicità. La sussidia-
rietà è di per se stessa struttura dinamica, cioè processo. Ciò, per la
semplice ragione che la funzione sussidiaria deve aggiustare di
continuo la ragione di se stessa, e mettersi alla prova, alla stregua
della storia vivente dei gruppi sociali.
Allo stesso modo, infatti, la famiglia è un’entità dinamica, anche
se la prossimità di natura all’uomo toglie l’immediatezza della
percezione dell’essere dinamico. La costituzione afferma infatti che
la famiglia si forma mediante il matrimonio (figura genericamente
contrattuale), ma si costituisce come società naturale che ha in
quanto tale dei propri diritti (art. 29).
Il fatto di essere il primo traguardo del percorso sociale della
persona non toglie dunque alla famiglia idoneità sociale dinamica, se
non altro per far generare naturalmente da sé altre associazioni
sempre più larghe e specializzate, fino alla soglia della politicità.
Il percorso della sussidiarietà è pertanto inesausto. Ogni strato
associativo ne genera altri più ampi, più densi di contenuti e di
).
forme (
9
( ) Quando la sussidiarietà viene evocata per profilare congegni di cooperazione
9
stabile od occasionale tra soggetti pubblici e soggetti privati e si valorizza cosı̀ l’utilizzo
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GIORGIO BERTI
Dire che un ente è sussidiario di altri enti significa alla fine che
nessun ente può appagarsi di se stesso e imporre la propria presenza
e il compimento delle proprie funzioni con l’assolutezza del co-
mando, con l’imperio, quasi appunto tagliando i fili della comuni-
cazione con altre entità, quelle appunto sussidiate, con le quali è in
una condizione di naturale parità.
7. Il distacco dello Stato dalla società.
Lo stato liberal-democratico, soddisfatto della propria legitti-
mità formale e dell’assolutezza della propria capacità di reggere la
società come insieme di individui isolati, ha esaltato al massimo
grado il suo distanziamento politico proprio da quella sostanza
sociale nella quale doveva basare la propria sovranità.
Per volere essere sciolto da ogni condizionamento interno ed
di iniziative di cittadini singoli e associati, ma soprattutto di associazioni in attività di
interesse generale, si discorre di sussidiarietà “orizzontale”, per distinguerla da quella
“verticale” che coglierebbe invece i rapporti intraorganizzativi interiori al mondo
, op. cit., p. 92 ss. Il principio di sussidiarietà
pubblico. Su ciò si veda già J. I
SENSEE
“orizzontale” è esaminato anche in confronto alla sussidiarietà “verticale” da G. U.
, nella “Rivista di diritto pubblico”, 2002, p. 5 ss.; ma si veda anche A.
R ESCIGNO , Il principio di sussidiarietà orizzontale: autonomia sociale e compiti pubblici, ivi,
A LBANESE
p. 51 ss. (nello stesso numero della “Rivista di diritto pubblico”, 2002, aspetti
particolari della sussidiarietà sono trattati da G. Pastori, E. Ferrari, C. Marzuoli
rispettivamente alle pp. 85, 99, 117). Come si è detto più sopra, la sussidiarietà
orizzontale, come definizione del rapporto tra la società e lo stato, aveva sollevato
l’attenzione degli studiosi del passato recente non solo con riguardo alla valorizzazione
della società e dei suoi principi e valori, ma anche con specifico riguardo ai compiti
assuntisi dallo stato nell’economia. Fuori dall’autorità e dalla potestà dello stato
unitario centralizzato, e con l’occhio puntato ad un particolare federalismo o regiona-
lismo potenziato, si tende a valorizzare l’apporto dei gruppi sociali soprattutto nel-
l’ambito dell’attività amministrativa (art. 118 u.c. Cost.). Anche a questo riguardo va
posto in evidenza il facile utilizzo del principio nella varietà storica dei relativi modi di
proporsi, in confronto al formarsi o al riformarsi dello stato. Importante sarebbe
salvaguardare la dignità del principio, sia da parte del legislatore, troppo sciolto nel
servirsi di parole e di concetti, sia da parte della dottrina giuridica, che fa eco molto
spesso in modo acritico alle evoluzioni e involuzioni del legislatore.
Per una chiara impostazione della sussidiarietà nelle sue varie radici rimandiamo
, op. cit.
ancora A. D’A
TENA © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
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esterno, lo stato si era dotato di una sovranità artificiosa, togliendo
a se stesso il terreno sul quale avrebbe dovuto fondarsi.
Di qui, il distacco sempre più accentuato dalla società reale e
dagli uomini e la progressiva, anche se talora inavvertita, riduzione
di garanzia degli stessi diritti umani, trattati spesso con indifferenza,
quando non con ostilità. Cosı̀ appunto lo stato, come costruzione
organizzativa di poteri politici, distaccati dalla comunicazione con la
società, si è sovrapposto a questa stessa, alla fine negandone o
contestandone la vitalità e la produttività sociale ed economica verso
i singoli.
Nella contemplazione della società moderna, si finisce sempre
con il prendere le mosse dallo stato e dal diritto dello stato. Lo stato
diviene anche la parola simbolo di un ordine necessario non solo a
conservare la libertà e i diritti degli uomini, ma anche a favorirne il
progresso, ampliando le chances di tutti verso una vita migliore.
D’altronde, l’aumento degli strumenti destinati ad accrescere il
benessere degli uomini e a rendere possibile una sia pure illusoria
felicità conferisce allo stato una potenzialità di azioni e quindi
un’autentica sovranità, percepibile nella disponibilità di mezzi, che
solo la società intera, in quanto organizzata in stato, può predisporre
ed elargire ai singoli. La necessità e la sussidiarietà dello stato
rispetto all’intreccio delle relazioni umane si traduce peraltro in
accrescimento sempre più veloce e certo inarrestabile della sua
potenza.
L’utilità e la necessità delle cose aumenta la potenza statale,
rendendola imprescindibile. Allo stato di diritto si accompagna
presto lo stato sociale, che porta seco, quando non ne è manifesta-
zione, un accrescimento di forza politica, giustificata da un iperat-
tivismo derivante a sua volta dal progressivo incremento degli
interessi, sollecitati dal canto loro da sempre nuovi e crescenti
bisogni individuali e collettivi.
8. Effetti sulla democraticità dello Stato.
La democraticità dello stato è maggiormente risposta ai bisogni,
e assai meno attenzione ai diritti, o garanzia delle libertà. Queste
ultime, nello specificarsi in sempre nuove fogge, tendono anzi ad
appiattirsi sulla domanda generalizzata di beni materiali, nell’illu-
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sione che il possesso di questi sia sufficiente presidio dei diritti
individuali. In questa dinamica, i bisogni e i diritti sociali si avvici-
nano sempre più a quelli economici, se non altro per effetto della
mediazione reale di quella nuova dominante autorità che è l’impresa.
E presto il confronto sarà tra l’organizzazione economica delle
imprese (e dei sindacati) e l’organizzazione politica, delle istituzioni
ufficiali e dei partiti.
Anche questa semplificazione plagia l’immagine dell’uomo por-
tatore sovrano di diritti: il capitalismo tende ad oscurare l’istanza
liberale; il soddisfacimento dei bisogni di vita in chiave ugualitaria
produce conformismo e allontana lo spirito di solidarietà. Un diffuso
materialismo di fatto rende grigia la società, crea un’immagine di
benessere ugualitario, e però toglie la consapevolezza dell’impegno
verso la libertà e la correlativa responsabilità personale. Cosı̀ le
costituzioni sono applicate solo in superficie, in realtà perdono
vigore e sono mistificate.
Per questo la politica distrae il popolo, nuova massa, con le
proposte continue di riforme costituzionali ed istituzionali. Tutti
sanno che qualsiasi riforma, se non accompagnata da un diffuso
senso della propria necessità come rimedio immediato a mali pre-
senti, lascia le cose al punto di prima, e non incide nel complesso
reale dei protagonisti della politica e degli attori sociali. Con le leggi
fatte a profusione si può anche giocare e far sı̀ che, con rimandi
intrecciati dall’una all’altra, le cose restino com’erano.
Anche questa nuova asfittica democrazia porta in primo piano
lo stato rispetto alla società degli uomini, e ciò avviene attraverso una
continua intersecazione dei due versanti per modo che la politicità,
mediante strutture giuridiche, si approprii del consenso sociale e
questo si consumi negli istituti della rappresentanza, ma ancor più in
una nuova partecipazione di tipo processuale.
In tal modo la politica, cioè l’organizzazione statale, penetra la
società e questa sembra addirittura rimodellarsi su quella: una
coloritura uniforme sembra calarsi sul tutto e riproporre il gioco
della sussidiarietà con partenza dal nuovo traguardo raggiunto.
In pratica, il gioco della sussidiarietà viene riflesso sull’ambito
istituzionale, dove la relazione società-stato si moltiplica e assume
varie fogge e si svolge in mille dinamiche. Lo stesso limite del potere
politico verso la società viene insomma introitato e variamente
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somatizzato dalle istituzioni e cioè dalla pluralità degli organi dello
stato. Il principio della separazione delle competenze o dei poteri è,
a ben guardare, l’effetto del trasferimento nella faccia interna dello
stato dell’insieme dei giochi nei quali si rappresenta la corrispon-
dente varietà di relazioni fra la società economica o libera e la società
politica. Solo in uno stato dotato di uno strumentario adatto a tenere
in piedi poteri separati e pur coordinati, la società è salva e le libertà
sono garantite: cosı̀ si è invero pensato per lungo tempo.
La progressiva penetrazione dello stato nella società a fini di
solidarietà o di uguaglianza ha via via ridotto il peso del principio
della separazione dei poteri e proposto alla nostra attenzione una
sorta di riconduzione al cittadino della scelta e del controllo dei
modi per ottenere adeguata tutela e valorizzazione di se stesso: in
vario modo, a cominciare dalla classifica dei diritti soggettivi pub-
blici fatta da G. Jellinek, si configura una serie di strutture o
rapporti, dove il cittadino svolga da sé la propria partecipazione al
potere per raggiungere pienezza di tutela dei propri diritti, nei limiti
in cui appunto questi possono convivere con il potere.
La partecipazione dell’uomo alle manifestazioni del potere pub-
blico si è accentuata nel tempo e nei vari ordinamenti in concomi-
tanza con l’acquisto di evidenza dei passaggi procedimentali del-
l’azione pubblica. E ciò è avvenuto anche in parallelo con
l’affievolimento del vigore e dell’efficacia delle strutture pubbliche in
quanto identificate nell’articolazione della capacità della persona
giuridica dello stato. L’avanzata dell’economia, delle dinamiche
finanziarie, dell’uso delle tecnologie ha infatti ridotto le dimensioni
e la potenza delle figure politico-giuridiche, rendendole sempre più
simili a quelle del diritto comune e dell’economia.
L’impressione che l’evoluzione dà nel suo complesso è nel senso
di una sorta di prolasso che colpisce, evidentemente per invecchia-
mento, le strutture dello stato e soprattutto quella sintesi di potere
che costituisce il luogo ideale di formazione della volontà impera-
tiva, e che è appunto lo stato-persona.
9. Unità dello Stato e autonomie: sussidiarietà e gerarchia.
In virtù dell’art. 5 della nostra costituzione, la riaffermazione
dell’unità dello stato ordinamento si accompagna alla previsione di
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una serie di strati di autonomia, deputati a sorreggere la decadente
unità del corpo statale. Si comprende come, una volta rotta o in
qualche modo allentata tale unità, si apra una serie di spazi nei quali
la cooperazione tra le istituzioni dell’autonomia e del decentramento
con le residue (e peraltro sempre operanti) istituzioni centrali av-
venga non attraverso decisioni del vertice statale ma in virtù di una
distribuzione di competenze e della predisposizione di procedure o
di strumenti dinamici di collegamento. Allo stesso tempo il cittadino
“istituzionale” che era uso confrontarsi con lo stato unitario e
fungere da collaboratore di questo nel perseguimento degli interessi
sociali, si trova per cosı̀ dire allo scoperto ed acquista quindi, almeno
all’apparenza, una maggiore dose di capacità partecipativa. Si è
sempre pensato per vero che le forme di stato ad autonomia
avanzata o addirittura di tipo federalistico fossero o siano maggior-
mente compatibili con l’affermazione e la valorizzazione delle libertà
e dei diritti fondamentali.
La sussidiarietà entra in campo proprio come termine identifi-
cativo di una serie di rapporti intraistituzionali che non sono basati
sul comando o sulla volontà imperativa, sia pure variamente
espressa, del vertice statale come sede della sovranità, ma attraverso
il riconoscimento reciproco delle istituzioni e degli enti pubblici e
soprattutto come indice di una rimessa alla base territoriale e
popolare dell’origine e della scaturigine delle strutture politiche e
dei loro poteri o competenze.
Si potrebbe dire anche che la sussidiarietà si contrappone
all’assolutezza gerarchica: ma come è facile comprendere, si tratta
più che altro di un’espressione ottativa, non sembrando infatti
dubbio che dovunque sussiste la tendenza del potere politico a
risalire rapidamente la linea verticale e a ricollocarsi al centro dello
stato.
Difatti, l’esperienza regionalistica italiana è dimostrativa, nella
facile rappresentazione storica di essa, del rapido riassorbimento dei
poteri nelle mani del governo centrale.
Non entro ora in merito alla riforma del Titolo V della costitu-
zione, recentemente adottata, nella quale è peraltro da notarsi che
l’utilizzo del termine sussidiarietà avviene solo nell’ambito della
disciplina delle funzioni amministrative, attribuite ora di prima
mano ai comuni. Tali funzioni sono conferibili anche alle regioni e
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allo stato, però solo nella linea della sussidiarietà: il che dimostre-
rebbe che la sussidiarietà entra in gioco in quanto il riconoscimento
dell’origine o della base delle competenze avvenga in capo all’ente
più prossimo, per sua natura e collocazione, agli ambiti nei quali si
producono i bisogni sociali, nella specie il comune.
Un aspetto collaterale che vale la pena di sottolineare è che il
principio di sussidiarietà reclama, per la sua intrinseca elasticità di
contenuti, la caratterizzazione amministrativa, e cioè non legislativa
né giudiziaria, dei soggetti o delle strutture di cui costituisce mezzo
di allacciamento. In altri termini, la generalizzazione della sussidia-
rietà è anche generalizzazione della caratterizzazione amministrativa
e quindi pratica e pragmatica dell’ambito generale preso in consi-
derazione. Come ho notato altrove, proprio l’attribuzione ai Comuni
del ruolo di depositari della funzione amministrativa pubblica co-
stituisce fattore di riedizione in chiave democratica e secondo la
valorizzazione della prossimità dei centri organizzativi ai luoghi di
emersione degli interessi collettivi, dello stato amministrativo, a suo
tempo debellato dallo stato legislativo.
10. Sussidiarietà e Unione Europea.
Passiamo ora piuttosto alla “sussidiarietà”, quale ufficializzata
nell’ambito dell’Unione Europea dal Trattato di Maastricht, e de-
stinata ad assicurare, a fronte delle nuove competenze comunitarie,
la conservazione da parte degli stati aderenti delle loro competenze
materiali (quelle non abbandonate in partenza in favore dell’Unio-
ne), fino a quando non sopraggiungano segni gravi di inefficienza
statale a raggiungere gli obiettivi.
Il principio di sussidiarietà gioca come garanzia della persi-
stenza del potere statale fin dove è possibile e produttivo.
Di fronte all’organizzazione comunitaria, che si dovrebbe pre-
sumere potenzialmente capace in ogni ambito di interessi, lo stato
arriva fin dove può.
L’esistenza stessa dell’Unione Europea diviene per vero fonte di
bisogni nuovi, e può comunque determinare la scoperta o l’insor-
genza di interessi sociali, prima sconosciuti o lasciati da parte.
Dovunque e sempre l’esistenza di una struttura organizzativa a
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potenzialità illimitata crea nuovi bisogni: una struttura associativa,
anche se fra stati, potenzia ogni singolo stato, ma riflette allo stesso
tempo su di esso e sulla sua funzionalità i difetti o le inettitudini
dipendenti dalla singolarità territoriale, economica, sociale, e via
dicendo.
Mi vien da pensare cosı̀ che la valvola della sussidiarietà apra
l’ingresso dell’energia comunitaria proprio nelle occasioni e nei
campi nei quali la comunità diviene anche potenziamento o allarga-
mento di bisogni e di scopi da raggiungere. D’altra parte, l’avvio di
un processo di unione di tipo federale, a cominciare dall’invenzione
dei bisogni, delle competenze e dei mezzi finanziari e giuridici
appropriati, non può che accrescere la statalità, e cioè il peso delle
scelte politiche e delle decisioni. Nel momento nel quale si forma la
nuova comunità sopranazionale, si nota una elevazione del grado di
potenzialità decisionale pubblica rispetto ai bisogni sociali e all’uti-
lizzo delle strutture economiche da parte delle imprese.
Sarebbe per vero contro natura che l’accrescimento della sfera
pubblica indotto dalla cooperazione interstatale non determini un
parallelo accrescimento dei bisogni collettivi e delle necessità, e in
aggiunta il bisogno di mezzi per fronteggiarli.
La politica insomma riguadagna e accresce il suo peso, affievo-
lito nell’ambito dello stato nazionale, e pretende mezzi adeguati a
soddisfare le sue nuove ragioni di presenza.
La sussidiarietà alla quale allude la carta dell’Unione finisce cosı̀
col combaciare con questo accrescimento. Assistiamo a un processo
inverso rispetto a quello della regionalizzazione interna al singolo
stato: e forse questi due processi portano a compensare le rispettive
risultanze. Dal punto di vista quantitativo non vi saranno mutamenti
troppo sensibili, se è giusto quanto rilevato sin qui. Vi saranno
piuttosto quei rifacimenti di strutture, di organismi, di sostanze e di
forme necessari a coprire il vuoto lasciato dalla perdita di potere
dello stato territoriale di tipo nazionale.
11. Sussidiarietà e giuridicità: considerazioni finali.
La sussidiarietà non è dunque un processo giuridicamente
definibile a priori. Subisce sempre il condizionamento della sostanza
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delle relazioni effettive, il cui formarsi viene eccitato e determinato
dai fatti. Da questo punto di vista, il nome racchiude anche il senso
del pragmatismo che si insinua negli ordinamenti a seguito della
caduta della sovranità, cosı̀ come intesa nel linguaggio tradizionale
dello stato di diritto.
A ben guardare, i presupposti di questa sopravvenuta e del tutto
particolare forma di anomı̀a organizzativa si leggono già nei pream-
boli e nei principi fondamentali dichiarati nelle costituzioni degli
stati cosiddetti democratici: basta richiamare la separazione tra
l’affermata sovranità del popolo e gli apparati di esercizio di questa
sovranità, lasciati in realtà ad un gioco che molto spesso sfiora
soltanto la sovranità popolare.
Già l’aver operato all’interno della sovranità statale attraverso
l’introduzione della separazione dei poteri ebbe a rappresentare un
compromesso tra il potere sovrano e la società libera, e ad introdurre
nella sovranità un cuneo che consentı̀ alle forze politiche di adattare
il compromesso alle circostanze storiche, ai reciproci modi di essere
del potere politico e della società e delle sue libertà. Forse in tale
orditura è dato scoprire un inizio della neutralità del diritto, anche
quando vuole essere regola tra le cose collettive. Può esserci in-
somma gerarchia oppure quel tipo di sussidiarietà, che della gerar-
chia vorrebbe essere l’opposto o il superamento, ma non riesce mai
ad esserlo del tutto.
Per queste ragioni la sussidiarietà, come poco fa si è detto, non
è definibile per contenuti, ma assume le sembianze delle relazioni
organizzative che essa vorrebbe in qualche modo suscitare e quali-
ficare. Designa simbolicamente un movimento e soprattutto la par-
tenza di questo movimento. Opponendosi oggi al centralismo e alla
gerarchia, rivela la necessità dell’adattamento delle organizzazioni
alla effettività delle forze in gioco.
Non avrebbe dunque senso domandarsi ora se e in qual modo
la sussidiarietà possa tradursi in rapporti e debba essere in qualche
modo gestita. Se cosı̀ fosse, il principio perderebbe immediatamente
la sua autonoma ragione d’essere e diverrebbe ancora niente altro
che un effetto della gerarchia oppure di una rigida definizione di
competenze. Si potrebbe dire allora che il principio è soprattutto un
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veicolo di legittimazione: i modi per trasmettere delle competenze
ad un ente più ampio e comprensivo sono dunque i più vari e
dipendono da accordi ai quali tutte le parti debbono prestarsi.
Piuttosto, questa legittimazione trascolora nell’obbligazione di tra-
smettere o di accogliere delle competenze, quando tra le parti si
convenga sulla esistenza di condizioni o di circostanze che rendano
necessario o fortemente opportuno traslocare la funzione verso
l’ente che, per la propria consistenza, è più adatto ad esercitarla in
modo adeguato ai bisogni da soddisfare.
Non credo che si possa andare oltre nella ricerca di precisazioni
concettuali o di definizioni. Forse la sussidiarietà è un principio
guida, che non varrà mai di per se stesso come regola di compor-
tamenti sanzionabili con strumenti di giustizia. Avrà sempre piutto-
sto un significato simbolico e a questa funzione di simbolo dob-
biamo alla fine piegarci.
E questa è anche la sorte dei principi che ormai si affollano
nella legislazione e nella cultura giuridica: a seconda degli ambiti
organizzativi od associativi che di volta in volta vengono presi in
considerazione (ma è soprattutto l’amministrazione la nuova pale-
stra dei principi), le nuove relazioni tra soggetti, organi, istituzioni
vengono sempre più appoggiate a principi. Si pensi al principio di
proporzionalità, al principio di collaborazione, al principio di
specialità, per non discorrere dei massimi principi collegati alle
libertà, ai valori della solidarietà, e via dicendo. L’ordinamento
cerca sempre una sua unità, quasi fosse una specialissima famiglia.
Ora, lasciati da parte i principi legati all’organizzazione in senso
stretto, l’unità viene ricostruita attraverso delle figure normative e
quindi oggettive. I principi sono queste figure e stringono tra loro
legami di evidente parentela. Però i principi hanno senso se
sollevano l’obbligazione di tutti, e cioè se tutte le persone si
investono del valore normativo che è incluso in ogni principio. I
principi dunque aprono le porte alla diffusione della responsabilità
delle persone, dei gruppi, delle strutture politiche.
La sussidiarietà è un principio, la cui formazione rispetto alle
vicende della società, oppure della comunità e dello stato, è stori-
camente verificabile: quindi un principio che è tanto più valido
quanto più rivela i suoi processi di formazione, quando oltretutto
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
400 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
questi processi avvengono in momenti e in campi differenti. Il
principio per vero li unifica e ne rende conoscibile la radice nel
profondo della giuridicità ( ).
10
( ) All’origine della fenomenologia giuridica esiste sempre alcunché di apparen-
10
temente irraggiungibile, di inappagato rispetto alla nostra ansia di apprendere, definire
e classificare.
I principi hanno molte radici e le sintesi che in essi si condensano mostrano una
pluralità di punti di osservazione e quindi di conformazione. Il principio ci fa però
saggiare l’unità del diritto e ciò che di esso è specifico, sul piano culturale prima che su
quello dell’esperienza concreta. Non riusciremmo altrimenti a raccogliere insieme e
distanziare allo stesso tempo fenomenologie tanto diverse per ambientazione sociale,
temporalità, bisogni e interessi, aspetti questi che rivelano tuttavia un filo che collega, in
modo sotterraneo, le diverse apparenze.
Si potrebbe dire che il principio è il verbo dell’apparire della giuridicità come
traduzione di questa in orientamento di vita. Il bisticcio, apparente, tra l’essere effettivo
e l’essere doveroso si risolve alla fine nella sintesi del principio, il quale è normativo in
se stesso, ma costantemente rivelatore del proprio perché e della sua necessità.
Il principio è altresı̀ profondamente razionale nel momento stesso nel quale assume
la forma e la dimensione del complesso dei rapporti al quale serve. Raccoglie in sé il
“naturale”dell’ordine fra gli uomini e il “positivo”, come visibilità di una o più norme,
affinché queste siano cogenti e se ne possa rinfacciare l’efficacia a chi non conosce o non
osserva coscientemente i bisogni e le istanze della vita collettiva.
Della sussidiarietà ho avuto modo di occuparmi in varie precedenti occasioni, in
particolare: Regionalismo europeo nella prospettiva del Trattato di Maastricht e della sua
revisione nel 1996, in Atti del Convegno Posizione delle Regioni italiane nella prospettiva
del Trattato sull’Unione Europea, p. 27 ss., pubblicazione a cura della Regione Autonoma
Trentino Alto Adige, Trento 1992; Considerazioni sul principio di sussidiarietà, in “Jus”,
1994, p. 405 ss.; Democrazia, pluralismo e sistema economico. (Le costituzioni e l’Unione
Europea), in “Rivista italiana di diritto pubblico comunitario”, 1996, p. 1142 ss. Voglio
rilevare a questo proposito che l’affrontare lo stesso tema in momenti diversi, dal punto
di vista culturale, politico, ecc., non è indifferente alla ricostruzione del proprio pensiero
e all’utilizzo degli istituti. Solo apparentemente questi rimangono uguali a se stessi. E si
avverte grande difficoltà a ricomporre, mantenendo il riferimento allo Stato e al suo
diritto, dei concetti che ora contengono in sé, per esserne stati nel frattempo aggrediti,
i germi della dissoluzione dell’ideale edificio del diritto pubblico.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
UGO MATTEI
MIRAGGI TRANSATLANTICI. FONTI E MODELLI
NEL DIRITTO PRIVATO DELL’EUROPA COLONIZZATA
1. Difficile immaginare un momento più propizio, ma forse
anche più ostile, per una riflessione pacata sulle fonti del diritto
europeo.
Si è aperto da poco un nuovo millennio. Con esso il BGB ha
completato il primo secolo di vita. Il Codice Napoleonico si appresta
a celebrare, in gran pompa, il bicentenario. Il codice Italiano ha
raggiunto la soglia della maturità, festeggiando a sua volta un
importante anniversario. Cruciali ed ambiziose riforme nel diritto
privato generale, in primis lo Schuldrecht tedesco vedono la luce.
Gli Inglesi abbattono tabù vetusti, affidando per la prima volta ad un
giudice interno una forma di controllo di costituzionalità sulle leggi.
Si è prodotta da poco, a livello comunitario, una Carta fondamentale
dei diritti che consegna all’osservatore segnali per lo meno ambigui.
Autorevoli (e meno autorevoli) uomini politici sono al lavoro in un
ambizioso tentativo di dotare l’Europa di una Carta Costituzionale
autentica. Gli Stati continuano a cedere, pur fra resistenze di varia
matrice, sovranità all’Unione. L’unione, a sua volta, cede sovranità ai
grandi legislatori dell’era globale, il Fondo Monetario Internazionale
e l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Fra i giuristi privatisti
europei infuria il dibattito sulla codificazione, mentre la Commis-
sione li ricambia promettendo pochi spiccioli per studi dall’ambi-
zione smisurata. Le facoltà di Giurisprudenza vengono riformate, e
gli studi comparatistici divengono quasi un logo, nel delirio di
provincialismo conseguente lo sforzo disordinato di mostrarsi mo-
derni ed avanzati. I grandi studi legali Inglesi ed Americani conqui-
stano le piazze più lontane dalla loro tradizione giuridica, sbarcando
in massa anche in Italia. Mentre gli osservatori cercano di capire che
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
402 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
cosa stia avvenendo ecco che, a loro volta, i nuovi arrivati corrono il
rischio di essere spazzati dai grandi magazzini “tutto compreso”: le
grandi Società di Revisione, sempre baldanzose nonostante la scarsa
prova di indipendenza offerta oltre-Oceano, offrono, per la prima
volta, servizi giuridici.
Si potrebbe continuare, tratteggiando un panorama di cambia-
menti, in una pluralità impressionante di settori, capace di procurare
le vertigini, se non l’angoscia, a chi debba aggiornare (o produrre)
testi di diritto comparato!
Nel diritto, ovviamente, come in ogni altra forma culturale, tutto
muta, sicché osservare il mutamento di fronte ai nostri occhi,
costituisce il compito essenziale dello studioso avvertito. Se peraltro
il mutamento non è una novità, la velocità ed il ritmo del mutamento
che oggi si presenta di fronte a chi affronti il tema delle fonti del
diritto in Europa sicuramente lo è. Il diritto privato europeo,
prodotto da tali fonti, determinato da tutti, e molti altri tra i fattori
tratteggiati poc’anzi, è un’oggetto in trasformazione cosı̀ rapida che
la stessa possibilità di descriverne i dati salienti risulta non poco
compromessa. D’altra parte, è mai esistita la possibilità di mere
descrizioni nel mondo del diritto? Abbandoniamo perciò del tutto il
complesso di inferiorità nei confronti degli scienziati naturali, il cui
oggetto di osservazione attende, immobile o quasi, di essere misu-
rato e accingiamoci ad interpretare il mutamento, anche soltanto
alcuni mutamenti, nel panorama delle fonti Europee.
È possibile tracciare una teoria capace di spiegare almeno in
)?
parte quanto fin qui avvenuto (
1
2. La natura della rivista che ospita questo importante mo-
mento di riflessione collettiva sull’Europa, spinge inevitabilmente ad
interrogarsi sul passato, senza obbligarci a fare i conti con tentativi
predittivi di dinamiche future che, io credo, debbano tenere in
considerazioni possibili e repentine soluzioni di continuità. D’altra
parte, il civilista non può pretendere di vestire professionalmente i
panni dello storico, (meno che mai in questo consesso!) sicché
( ) Ho cercato di tratteggiare una tale teoria in U. M , A Theory of Imperial
1 ATTEI
Law. A Study on U.S. Hegemony and the Latin Resistance, in 10 Indiana J. Global Legal
Studies (2002) e Global Jurist frontiers, www.bepress.com.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 403
UGO MATTEI
perfino l’osservazione a ritroso va in qualche modo limitata ad un
periodo a noi vicino.
Collocherò quindi il presente, l’oggetto del mio tentativo di
interpretazione, in un torno di anni che va dalla fine della Guerra
Fredda ad oggi, spingendomi a ritroso al più fino ai primi anni
ottanta, un momento ormai noto come “Rivoluzione Tatcher-Rea-
ganiana”. Mi limiterò inoltre, ad un numero relativamente limitato
di mutamenti, cercando di cogliere quelli più profondi e potenzial-
mente strutturali, tralasciando perciò quasi interamente il diritto
sostanziale, per riflettere su aspetti più marcatamente istituzionali.
Intendo esplorare taluni dei più recenti cambiamenti nel pano-
rama istituzionale del diritto privato Europeo come fenomeni di
ricezione di stilemi e modelli ispirati in larga misura dal diritto degli
Stati Uniti d’America, cosı̀ come recepito dai centri di produzione
giuridica del mondo globale, il Fondo Monetario Internazionale, la
Banca Mondiale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, sol-
). Un diritto
tanto per menzionare i più noti ed i più potenti (
2
Statunitense d’esportazione, dunque, qualcosa di profondamente
diverso da quello della madre patria, cosı̀ come sempre diverso è il
diritto coloniale da quello dei luoghi della sua produzione. La mia
analisi dell’Europa come nuovo contesto di ricezione fonda tuttavia le
sue radice in un momento in cui l’Europa era contesto di produzione.
Un momento in cui erano gli Stati Uniti a presentarsi come contesto
).
di ricezione di stilemi e modelli prodotti in Europa (
3
Fonti del diritto è tema poliedrico che il comparatista non può
affrontare in modo formale. Le pagine che seguono, come ritengo
l’intero Quaderno, si collocano ad un livello discorsivo per cosı̀ dire
“sistemologico”, capace cioè di cogliere aspetti profondi che an-
corché mutabili e mutanti, non sono tuttavia interamente alla por-
tata del tratto di penna di un legislatore. Seguirò quindi mutamenti
culturali (che preludono forse a cambiamenti strutturali), mutamenti
in cui dunque, la dottrina rivendica il ruolo di protagonista. L’ idea
( ) Cfr M.R. F , Le istituzioni giuridiche della globalizzazione (2001). Vedi
2 ERRARESE
, Lo spazio giuridico globale (2003).
S. C ASSESE
) La nozione di contesti di produzione e contesti di ricezione è messa a fuoco
(
3 L M , Comparative Jurisprudence, Harvard Law School (2001).
da D
IEGO OPEZ EDINA
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
404 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
è cogliere i momenti di cambiamento profondo avvenuti in questi
ultimi vent’anni cercando di coglierne il senso di massima.
3. Da qualche tempo ci si interroga sulle ragioni di un fenomeno
che è oggi sotto gli occhi di tutti. Il modello giuridico degli Stati Uniti
d’America, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, circola nel mondo
più di ogni altro. Gli Stati Uniti da contesto di ricezione si sono tra-
sformati nel più poderoso contesto di produzione di modelli, stilemi,
e regole giuridiche del mondo globalizzato ( ).
4
Gioverà osservare questa importante trasformazione perché si
tratta del riflesso speculare di quanto avvenuto in Europa, dove la
trasformazione ha seguito un itinerario opposto: da produzione a
ricezione.
Gli Stati Uniti coloniali ricevono dalla madre patria la prima
fondamentale “appartenenza” sistemologica al mondo di common
law. Certo, il diritto coloniale fu radicalmente diverso da quello
inglese, ma non si può negare che dall’Inghilterra le colonie ameri-
cane prima e, dopo l’indipendenza, gli Stati Uniti, abbiano recepito
la fondamentale centralità delle Corti e della giurisprudenza fra le
fonti del diritto.
Non molti anni dovettero trascorrere perché il contesto di
ricezione statunitense, ormai dotatosi di una Costituzione scritta,
scavalcasse la stessa madre patria, nel primato del giudice e della
giurisprudenza fra le fonti del diritto. Già dal 1803 il giudice
Americano si è arrogato il potere di dichiarare una legge invalida,
per contrasto con la sua propria interpretazione del (vago) dettato
costituzionale ( ). Quasi duecento anni ci sono voluti perché gli
5
inglesi, parzialmente, accedessero alla subordinazione del processo
di produzione giuridica politicamente legittimato al processo di
interpretazione professionale del giudice ( ). La sovranità parlamen-
6
tare piena fu da sempre la chiave del sistema di Westminster.
( ) Ho analizzato questo fenomeno in U. M , Why the Wind Changed.
4 ATTEI
Intellectual Leadership in Western Law, 42 Am. J. Comp. Law. 195, (1994).
) Cfr. Marbury v Madison, 6 U.S 137, (1803).
( 5 ) Come noto, in Inghilterra la Convenzione Europea per la Salvaguardia dei
( 6
Diritti dell’Uomo è stata incorporata, dopo un lungo dibattito, come un vero e proprio
- D. P , The Human Rights Act Explaines, London,
Bill of Rights. Cfr. D. L
ECKIE ICKERSGILL
1999. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 405
UGO MATTEI
Il caso Bush v. Gore, quello in cui la Corte Suprema Federale ha
“deciso” le prime elezioni presidenziali del nuovo millennio, ci
mostra quanto gli Americani siano stati capaci di rendere spettaco-
).
lare la sovranità del giudiziario ( 7
Gli Stati Uniti indipendenti, ricevono dai philosophes francesi
gran parte della retorica sui diritti individuali e sulla proprietà
privata. Tale ricezione, solitamente legata al nome di Madison, viene
).
incorporata nella Costituzione, in particolare nel Bill of Rights ( 8
La vocazione universalistica di quelle concezioni filosofiche non è
mediata in America dallo statalismo giacobino. I diritti di proprietà
non devono convivere con un apparato pubblicistico che struttural-
mente e profondamente li limita. I diritti universali, incorporati nella
concezione statunitense del diritto internazionale, sono recepiti e
divengono parte della “supreme law of the land”.
Ancora una volta il modello importato viene amplificato e
spettacolarizzato in un contesto di ricezione che già ha saputo
dotarsi di soluzioni originali —- in particolare che ha già amplificato
il ruolo delle Corti. Sul piano interno, la ri-distribuzione dei diritti di
proprietà (nel senso più ampio del termine, quello consegnato loro
dalla tradizione economica) ad opera delle agenzie amministrative e
del legislatore viene limitata, considerata costituzionalmente inac-
cettabile, e comunque relegata ad un periodo storico eccezionale
quale il New Deal. Le corti si ergono a paladine dei diritti di
proprietà, contro la ridistribuzione politica: l’attuale giurisprudenza
della corte Rhenquist in materia di espropriazione mostra come la
partita sia stata largamente vinta dalle concezioni proprietarie più
).
assolute, universali ed intolleranti di ogni intervento distributivo (
9
Sul piano del diritto internazionale, le Corti Statunitensi, dotate
di eccezionali strumenti coercitivi, rivendicano giurisdizione globale,
in civile ed in penale, universalizzando ancor più la già rozza ed
( ) Su questo caso la letteratura è ormai cospicua sia sotto forma di libri che di
7
articoli. Una buona collezione di saggi si può trovare nel volume 2002 della rivista
monografica Law and Contemporary Problems pubblicata dalla Duke University Law
School.
) La più vivace trattazione resta a mio parere G. G , The Ages of American
( 8 ILMORE
Law, (1983) tr. it. Le grandi epoche del diritto americano, (1987).
) Cfr. per una ricostruzione comparativa attenta al dato economico, A. P , Il
(
9 RADI
problema del valore dei diritti, Trento, (in corso di stampa).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
406 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
etnocentrica concezione universale dei diritti degli illuministi e dei
gius-naturalisti. Le corti statunitensi, basano sempre più aggressiva-
mente le loro pretese di giurisdizione universale sull’“incorporazio-
ne” del diritto internazionale nella costituzione federale. Vecchi
strumenti normativi, studiati per sconfiggere la pirateria d’alto mare
nel diciottesimo secolo, vengono ristrutturati e consentono alle Corti
statunitensi di rivisitare episodi storici lontani, quali la tragedia
dell’Olocausto, con una spettacolarizzazione della giurisdizione che
).
non ha uguali nel mondo (
10
Gli Stati Uniti si discostano ancor più radicalmente dal modello
inglese, se l’osservatore delle fonti sposta la sua attenzione dalla
giurisprudenza alla dottrina. Mai prima di Cristopher Columbus
Langdell, un sistema di common law aveva legato la formazione del
ceto dei giuristi al mondo universitario. Ed ancora una volta siamo
di fronte ad un’ importazione dalla vecchia Europa. Ed ancora una
volta siamo di fronte ad una spettacolarizzazione ed amplificazione
locale del modello (tedesco) di riferimento traslocato nel panorama
istituzionale del contesto di ricezione. Il modello del professorato
tedesco, la peculiarità di un ceto di giuristi accademici a tempo
pieno, il contatto fra il mondo del diritto e la “cultura alta” della
tradizione universitaria, tutte importazioni d’oltre Atlantico, sono
amplificate e rese spettacolari dal modello universitario privato della
neonata tradizione accademica di Harvard e della Ivy League.
L’educazione del giurista ed insieme ad essa una gran parte della sua
legittimazione, è trasferita in blocco nelle mani di “scienziati”. Il
diritto visto come scienza, naturale all’inizio, sociale poi, spinge il
discorso giuridico d’oltre oceano fino ad un limite che mai, prima
d’allora, era stato raggiunto: il diritto diviene ingegneria sociale e
). Ancora una volta sono condizioni specifiche
infine tecnologia (
11
del contesto di ricezione che amplificano l’input europeo. L’inse-
gnamento e la ricerca universitaria non sono, come in Germania, un
bene pubblico offerto in primo luogo dallo Stato. Sono attività che
( ) Ho discusso questi temi in U. M & J. L , United States Jurisdiction
10 ATTEI ENA
over conflicts Arising Outside of the U.S. Some Hegemonic Implications, Global Jurist
Topics (2001), www.bepress.com.
) Cfr. B. D S S , Toward a New Common Sense. Law Science and
( 11 E OUSA ANTOS
Politics in the Paradigmatic Transition, (1995).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 407
UGO MATTEI
devono mantenersi sul mercato, un mercato fortemente competitivo,
che deve “vendere” prodotti di immediata utilizzazione. Ed è cosı̀ che
la “law school” deve diventare scuola professionale, politecnico: deve
dimostrare di saper formare ed immettere sul mercato tecnici sempre
più specializzati e “riconoscibili” come il prodotto di una certa scuola.
Il realismo a Yale e alla Columbia, il Legal Process ad Harvard, la Law
and Economics a Chicago, sono soltanto gli epifenomeni più acca-
demicamente visibili di una spasmodica ricerca della diversificazione,
volta ad attrarre studenti sempre più ambiziosi e qualificati, sottraendo
). In America, primo e (ancor per
clienti alle scuole concorrenti (
12
poco unico) modello al mondo la facoltà giuridica si trasforma, come
Medicina, Ingegneria o Architettura, in graduate school, rivolgendosi
a studenti già dotati di una qualche formazione universitaria di base.
Nel progetto professionale del giurista accademico statunitense, tra-
sformato in tecnocrate, sostenere la reputazione e l’immagine della
propria scuola di appartenenza non è questione di buon vicinato ac-
cademico ma di interesse personale. Si tratta di investire nel logo del
proprio successo. Questa forma mentale viene riprodotta a livello
internazionale dove gli accademici Americani regolarmente mostrano
eccezionale lealtà nei confronti del proprio modello, finendo per non
vederne i guasti ed i limiti.
4. In queste condizioni il diritto degli Stati Uniti si presenta
all’appuntamento con la “globalizzazione” economica e con la na-
scita delle sue istituzioni giuridiche. Ricco in prestigio— insieme
all’intera tradizione di common law — già dal dopoguerra; libero
dalle pastoie del positivismo normativo, grazie alla necessità di
sviluppare “principi generali” volti a guidare il ragionamento giuri-
dico del giurista in una pluralità di Stati; accompagnato da una
incessante retorica auto-congratulatoria, divenuta parte essenziale
).
del progetto professionale del giurista statunitense (
13
Grazie a questi ingredienti essenziali, il diritto Statunitense non
( ) Una importante discussione critica di queste dinamiche si può leggere in D.
12 , America by Design. Science, Technology and the Rise of Corporate Capitalism
F. N OBLE
(1977). ) Cfr. E. G , Imitazione e diritto. Ipotesi sulla circolazione dei modelli;
(
13 RANDE
(2000). © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
408 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
poteva che esercitare un fascino irresistibile fra i giuristi della
provincia — almeno quelli più curiosi intellettualmente — soffocati
dalla limitatezza culturale cui si trovavano costretti in casa propria
da decenni di statalismo normativo e di burocratizzazione delle
istituzioni accademiche e giudiziarie. Tutto ciò anche senza consi-
derare l’imponente sforzo propagandistico volto ad accreditare alla
concezione Americana della rule of law, ed alla sua mancanza
nell’area comunista, il merito della fine della guerra fredda.
La rule of law americana si vede riconosciuta la palma dell’a-
politicità, una patente essenziale per il successo planetario di un
). La Banca Mondiale ed il Fondo Moneta-
movimento giuridico ( 14
rio per la prima volta a partire dagli anni novanta finanziano progetti
e ricerche nel campo del diritto. Il diritto non è più oggetto di uno
scontro politico fra blocchi contrapposti. La legalità socialista non
contrasta più la rule of law. Il diritto non è più né politica né cultura
ma ingegneria istituzionale. In quanto tale, diviene parte fondamen-
tale dei progetti di “aggiustamento strutturale”, volti a smantellare
ogni concezione della statualità incompatibile con le ricette mone-
).
tariste e post-keynesiane (
15
Quasi per incanto, il vento era mutato. L’Europa da contesto di
produzione era trasformata in contesto di ricezione. Un fenomeno
visibilissimo, in Svizzera come in Italia, in Germania come in
Olanda, ma anche in Spagna ed in Grecia. L’avanguardia giuridica
cita e si ispira agli Americani. Gli studenti brillanti vogliono fare il
master in America. Gli Americani sono gli ospiti prestigiosi, cui
sempre più spesso vengono conferite lauree honoris causa ed altri
riconoscimenti. Sforzi istituzionali ingenti vengono dedicati a pro-
). L’Associazione Euro-
muovere modelli e stilemi neo-Americani (
16
pea di Analisi Economica del Diritto, fondata sul finire degli anni
ottanta, costituisce forse l’esempio più interessante. L’egemonia si
( ) Si veda D. K , Three Globalizations, in corso di stampa in “Suffolk Law
14 ENNEDY
Review”.
) Il più interessante luogo dove familiarizzarsi con la letteratura più influente
( 15
sulle ricette seguite dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario è la bibliografia
giuridico-economico-istituzionale offerta dal sito www.worldbank.org
) Cfr. W. W , The Reception of American Law in Europe, 39 Am J.
( 16 IEGAND
Comp. Law 229 (1991).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 409
UGO MATTEI
fonda sul consenso. Nel mondo globale la costruzione di apparati
ideologici non richiede più l’iniziativa dello Stato o del Partito.
5. In concomitanza con il mutamento del vento, il pensiero
accademico Americano sviluppa i tratti necessari per l’esercizio
dell’egemonia. Nell’ambito del realismo giuridico, fenomeno com-
plesso, ed eccezionalmente duraturo in terra statunitense, collo-
chiamo gli ultimi significativi episodi di ricezione, e di apertura
culturale nella dottrina d’oltre oceano. È ben noto come Pound
leggesse e citasse i francesi, come Llewellyn conoscesse e si ispirasse
ai tedeschi, come Cardozo conoscesse e si abbeverasse a tutte le
grandi culture giuridiche Europee, e come i giuristi “immigrati”, da
Kessler a Schlesinger, abbiano svolto nel corso degli anni cinquanta,
sessanta e settanta un eccezionale opera di “cosmopolitizzazione”
della scena giuridica statunitense.
Il primo movimento di pensiero squisitamente originale (ed
esclusivamente parrocchiale) negli Stati Uniti è stato il c.d. Legal
Process, fiorito ad Harvard negli anni cinquanta come prima rea-
zione forte al dominio realista sull’accademia Americana ( ). La
17
scuola del legal process, nasce e si sviluppa in strettissima simbiosi
con il particolare substrato istituzionale degli Stati Uniti d’America.
Non è un caso che i suoi contributi più significativi siano stati offerti
nel diritto pubblico, né probabilmente uno studio tanto sofisticato
delle alternative istituzionali percorribili avrebbe potuto essere svi-
luppato lontano dagli Stati Uniti. Nessun diritto al mondo ha saputo
sviluppare un sistema giudiziario federale completo, e l’allocazione
istituzionale delle competenze decisionali è da sempre il problema
prioritario che il giurista americano, pratico o teorico, deve affron-
tare. Nel lavorio quotidiano del giurista statunitense, le preoccupa-
zioni legate alla giurisdizione, alla scelta del diritto applicabile, alla
possibilità o meno di ottenere discovery, al rimedio eventualmente
ottenibile, sono assai più presenti e determinanti delle discussioni sul
diritto sostanziale. Era quindi in qualche modo naturale che sul
piano teorico si cercasse di sviluppare, prima o poi, una assiologia
delle opportunità percorribili, al fine di recuperare un minimo di
( ) Si veda A. D R , Movimenti e Scuole Post-realisti, in Digesto Discipline
17 I OBILANT
Privatistiche. Appendice (2003).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
410 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
quella prevedibilità che il realismo giuridico aveva tramutato in una
chimera. Da qui il contributo teorico fondamentale della scuola del
legal process: la capacità di mostrare come il luogo istituzionale della
). Ma la lezione teo-
decisione determini i contenuti della stessa (
18
rica, in qualche modo generalizzabile oltre il contesto specifico
statunitense, è stata colta molto successivamente, perché gli studiosi
del legal process avevano in mente un problema locale (la perdita di
prevedibilità dovuta al predominio realista) ed offrivano soluzioni a
loro volta strettamente legate al contesto locale. Strettamente par-
rocchiali, se si vuole, ma anche strettamente originali perché nulla di
simile era stato mai tentato altrove.
Spostare il discorso dal contenuto delle decisioni (diritto sostan-
ziale) a chi debba decidere che cosa, (legal process) costituisce una
vera rivoluzione epistemologica, destinata ad offrire frutti e conse-
guenze non secondarie. Fra queste una notevole facilità a spostare il
discorso dalla giustizia all’efficienza. Nella scelta su chi debba
decidere, la capacità di farlo in modo efficiente non può non essere
altamente rilevante. Sicché le condizioni ambientali per guardare il
diritto dal punto di vista dell’efficienza, senza eccessiva preoccupa-
zione per l’abbandono della giustizia sostanziale, non derivarono
negli Stati uniti soltanto dalla presenza di economisti nelle facoltà di
giurisprudenza (una innovazione figlia del realismo) né esclusiva-
mente da un’ oscillazione del pendolo, nuovamente attratto verso le
grandi teorie di ispirazione formalista, in reazione agli effetti nichi-
listi di certa parte del realismo.
Quali che siano le spiegazioni storiche, e quale che sia il
rapporto, sicuramente ambiguo, fra realismo, legal process e analisi
economica del diritto, sta di fatto che quest’ultima costituisce, fin
dall’origine, un paradigma squisitamente Americano, intimamente
parrocchiale e altamente originale. Il legame con gli economisti
(nuovo ceto sacerdotale), e soprattutto la mutata percezione del
rapporto fra Stato e mercato nell’ambito della globalizzazione, fanno
dell’analisi economica del diritto il paradigma dominante nella
globalizzazione giuridica.
Beninteso, legal process ed analisi economica non esauriscono
( ) Cfr. H & S , The Legal Process (1994). Per una applicazione al
18 ART ACKS , Pensare il diritto civile (1998).
contesto italiano, P.G. M
ONATERI
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 411
UGO MATTEI
l’intero ambito dei movimenti post-realisti negli Stati Uniti. Una
varietà di scuole critiche, a loro volta raggruppabili in diverse
). Ma tale varietà di para-
sottoscuole, completano il panorama (
19
digmi, che taluno ha raggruppato sotto l’etichetta di post-moder-
), non inficia la percezione di un diritto accademico Americano,
ni ( 20
profondamente incentrato su problematiche domestiche, o comun-
que sostanzialmente auto-referenziale, come si conviene ad un mo-
dello dominante, tutto incentrato a parlare piuttosto che ad ascol-
tare, ad insegnare piuttosto che imparare.
Un modello accademico che comunque ha raggiunto, forse per
la prima volta in un sistema di common law, la piena consapevolezza
del proprio ruolo fra le fonti del diritto.
Grazie all’eccezionale crescita di consapevolezza della dottrina
ed al ruolo conquistato dalle grandi Università, gli Stati Uniti
inaugurano cosı̀ il primo ordinamento al mondo fondato su due
grandi controlli professionali sul processo politico: le corti, titolari
dell’ultima parola sulla legittimità costituzionale, e l’accademia,
).
titolare della legittimazione scientifica e tecnologica (
21
Non può sfuggire all’osservatore critico come la titolarità del
controllo sul potere politico conferisca a sua volta potere politico.
Un potere politico di due istituzioni che, come direbbero gli studiosi
del legal process, non hanno “né la spada né la borsa”. Due istitu-
zioni politiche reattive capaci di radicare profondamente i caratteri
) Due isti-
di quanto recentemente definito “adversary legalism”. (
22
tuzioni politiche incapaci per struttura a svolgere efficacemente
qualsiasi ruolo ridistributivo: sicché, in piena sintonia con le indi-
cazioni dei nuovi guru neoliberisti, tanto maggior potere viene
allocato a queste istituzioni reattive, tanto più limitate saranno le
possibilità della ridistribuzione egualitaria, propria di assetti istitu-
zionali proattivi ed interventisti.
Non è un caso che proprio lo sviluppo di questi assetti istitu-
zionali reattivi, considerati tecnologici e non politici, figuri come
( ) Cfr. D R , cit. supra, nt. 17.
19 I OBILANT
) Cfr. G. M , Movimenti giuridici postmoderni (2001).
(
20 INDA
) Mi sia consentito un rinvio a E. G -U. M , Voce Stati Uniti, in
(
21 RANDE ATTEI
Digesto Discipline Privatistiche.
) Cfr. R. K , Adversary Legalism, (2002).
(
22 AGAN
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
412 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
primo carattere degli aggiustamenti strutturali che instancabilmente
il Fondo Monetario Internazionale pone come condizione per l’ac-
cesso al credito.
6. In concomitanza con lo sviluppo negli Stati Uniti dei tratti
somatici di un sistema giuridico egemone, il diritto in Europa sembra
aver sviluppato i tratti caratteristici di un contesto di ricezione. Anche
qui la nostra analisi non può esser che condotta per rapidissimi cenni.
Innanzitutto, come ovvio, si incontrano immediatamente diffi-
coltà a parlare di un sistema giuridico “europeo”, non tanto per la
polisemia del termine Europa, quanto perché il ruolo e l’importanza
culturale dei sistemi nazionali offre indubbi caratteri di resistenza
all’omogeneizzazione che una trattazione sistemologica generale del-
l’“Europa” inevitabilmente comporta.
Anche soltanto restando confinati all’Europa dei Trattati, non
possiamo che osservare un modello giuridico composto dall’aggre-
gato di una moltitudine di famiglie giuridiche. Non solo, come
ovvio, il common law ed il civil law, ma anche la bipartizione,
prestigiosamente sponsorizzata da Zweigert, Kötz, e Rudolf Schle-
singer, fra un’ area Francocentrica ed un’ area Germanica all’interno
del civil law. A ciò possiamo aggiungere un modello scandinavo, a
sua volta portatore di tratti profondamente originali; un modello
tradizionalmente “misto” quale quello scozzese capace di mostrare
la forza ma anche la debolezza delle specificità culturali giuridiche di
fronte all’uniformità linguistica; un modello spagnolo, a sua volta
dotato di caratteristiche proprie, dove i tratti locali mantengono
aspetti di vivezza impensabili altrove; un modello “post-socialista”
quale quello della ex DDR (destinato a crescere enormemente in
importanza all’interno del diritto Europeo con le prime nuove
accessioni di Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovenia ecc.).
Tutto ciò ci ammonisce di quanto difficile sia, in tali condizioni di
diversità strutturale, affrontare il discorso dell’Europa come un
entità generale ai fini di comparazione con gli Stati Uniti d’America.
D’altra parte, sappiamo bene che, nel diritto comparato come in
ogni altro ambito del sapere, le tassonomie sono mezzi e non fini,
sicché proprio questo aspetto di diversità strutturale profonda co-
stituisce, ai fini della comparazione con gli Stati Uniti, il tratto
sistemologico dominante del diritto Europeo.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 413
UGO MATTEI
I caratteri più salienti del contesto di ricezione, sono enfatizzati
dalla diversità e dalla balcanizzazione, non soltanto quella giuridica
ma anche quella linguistica e culturale. È noto che i sistemi giuridici
“minori” quelli che mancano dei requisiti minimi per l’autosuffi-
cienza economica e culturale (anche soltanto l’auto-percezione di
essere una grande cultura) tendono a sviluppare maggiori tratti di
cosmopolitismo giuridico, spinti dalla necessità di accesso al dialogo
culturale internazionale. Un ottimo esempio di questa disposizione
alla “ricezione” si ritrova, per esempio, nella cultura giuridica israe-
liana, ma chiunque abbia esperienza internazionale può verificare i
tratti aperti di una cultura di ricezione anche in Svizzera, Olanda,
Scozia o Portogallo.
Sembra cioè possibile percorrere una scala immaginaria in cui i
contesti giuridici sono caratterizzati da un tratto di apertura inver-
samente proporzionale con l’autosufficienza culturale (vera o pre-
sunta). Più un sistema si sente culturalmente autosufficiente, meno è
disposto ad imparare dagli altri, sicché i confini fra egemonia e
autarchia culturale non sono mai netti. Tendenzialmente, i sistemi
egemoni sono anche culturalmente autarchici (si pensi alla Francia
dell’Esegesi o alla Germania della Pandettistica) anche se i sistemi
culturalmente autarchici non sono necessariamente egemoni (si
pensi all’Italia della neosistematica o all’Inghilterra fra il dopoguerra
).
e la fine della Guerra Fredda) (
23
I tratti di apertura culturale che abbiamo visto propri dei sistemi
subordinati sono tradizionalmente assenti dai sistemi giuridici Eu-
ropei maggiori, quali la Germania o la Francia. Ovviamente anche
qui sono necessarie molte distinzioni, ma non è tuttavia un caso che,
nell’ultima parte del “secolo americano”, proprio questi paesi mo-
strino segnali di apertura assai maggiore. Quasi una disponibilità,
del tutto nuova, ad “imparare” dal sistema egemone.
7. Poste queste premesse, ed osservando ora la cultura giuri-
dica Europea non soltanto come aggregato di diverse culture giuri-
diche nazionali, ma anche come “nuova” cultura giuridica transna-
( ) Trattazioni autorevoli dei tratti salienti della tradizione di civil law e di quella
23
di common law con particolare sensibilità per le diverse epifanie all’interno delle due si
& R. S , Sistemi Giuridici Comparati, (1996).
trovano in A. G
AMBARO ACCO
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
414 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
zionale ( ), ci troviamo di fronte ad una cifra nettamente
24
subordinata, direi quasi culturalmente colonizzata dal modello eco-
nomico, politico, giuridico dominante: gli Stati Uniti d’America.
Rimandando a più approfondite dimostrazioni di questo as-
sunto, mi limiterò qui, per brevissimi cenni, ad osservare alcune
variabili. Innanzitutto, è ormai ben documentato come gli stessi
gruppi di pressione transnazionale che determinano gran parte del
processo politico statunitense siano particolarmente attivi ed efficaci
nel determinare il processo di produzione normativa di Bruxelles:
può dirsi che le medesime filosofie politiche dominanti ispirino
l’orientamento politico del contesto di produzione e di quello di
ricezione. Filosofie politiche che trovano nel Fondo Monetario
Internazionale la sede dell’elaborazione teorica, e nell’Organizza-
zione Mondiale del Commercio il proprio principale strumento di
).
efficacia normativa ( 25
Non è una novità, per chi sia familiare con la letteratura di
diritto comparato, segnalare come un’ampia varietà di norme posi-
tive che sono parte fondamentale del nuovo diritto privato Europeo,
dal diritto dei consumatori, all’antitrust, al corporate governance,
testimonino l’influenza di modelli e stilemi americani. Né costituisce
una novità osservare come la senior pars del diritto privato Europeo,
sia dominata sul piano della cultura professionale dalla produzione
“informale” dei grandi studi legali internazionali, a loro volta por-
tatori di un dialogo transoceanico che ha in New York e Londra i
propri punti focali. Cosı̀ come da tempo si segnala, secondo un
modello che riproduce nel rapporto fra Stati Uniti ed Europa quello
fra madre patria e colonie, come le law schools statunitensi siano
diventati i principali centri di formazione del giurista Europeo con
ambizioni globali. Costui o costei sempre più sovente completa la
propria formazione Europea con un master in America (e sempre
più spesso anche con un ulteriore periodo di pratica legale in loco)
prima di tornare in Europa e svolgere le proprie funzioni di avvocato
in un grande studio.
Qualche osservazione in più può invece svolgersi andando al
cuore delle fonti del diritto privato: la codificazione. È proprio in
( ) Cfr. M. H , The New European Legal Culture (2002).
24 ESSELINK
) Cfr. W.K. T , L’Elefante Amorale, tr. it. (2002), pp. 82 ss.
(
25 ABB
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 415
UGO MATTEI
quest’ambito che si possono riscontrare nuovi e più profondi feno-
meni di influenza culturale, ed è a questo proposito che l’osservatore
critico deve sollevare perplessità e preoccupazioni. Anche qui sa-
rebbero necessarie maggiori precisazioni contestuali. Occorrerà al-
meno menzionare che l’americanizzazione della nuova periferia
Europea non può in nessun caso comprendersi come fenomeno di
sovrapposizione del diritto cosı̀ come questo è vigente e vivente negli
Stati Uniti. L’importazione è parziale e si esaurisce in grande misura
ad un livello retorico. Si importano soltanto i tratti del modello
Americano che maggiormente incoraggiano l’espansione del capita-
lismo globale, mentre si lasciano a casa quei tratti maturati nel corso
di una profonda e spesso entusiasmante esperienza storica statuni-
tense, che costituiscono, nel contesto di produzione, “le forze vive
). Cosı̀, ad esempio, mente si importa il corporate
del diritto” (
26
governance all’americana, fondato su una teoria dell’impresa come
nesso di contratti, si lasciano oltre oceano le class actions ed i potenti
strumenti nelle mani delle minoranze. Strumenti che, se non sono
stati capaci di evitare disastri delle proporzioni di Enron, Arthur
Andersen e Worldcom, pur sempre vigilano a che l’illegalità dei
white collars non dilaghi del tutto incontrollata, e certamente intro-
ducono aspetti di resistenza alla più intollerabile rapacità degli
interessi finanziari di breve periodo. Gli stessi interessi forti, che
negli Stati Uniti lottano senza esclusione di colpi per limitare i danni
punitivi, per contestare le class actions, ( ) e per sterilizzare ogni
27
nuovo strumento istituzionale volto a ridurre i conflitti di interesse,
ma che localmente incontrano resistenze altrettanto forti ed orga-
nizzate, trovano in periferia un livello d’attenzione e di resistenza
assai minore e riescono cosı̀ a rinviare all’infinito il metter mano alla
creazione anche in Europa di strumenti capaci di creare una legalità
effettiva.
8. Il dibattito sul c.d. nuovo diritto privato Europeo, costitui-
sce un esempio interessante a mio parere di queste dinamiche di
importazione parziale, di delegittimazione della legalità istituzionale
( ) Cfr. lo splendido saggio di L. N , The Life of The Law, (2002) tr. it. Le
26 ADER
Forze Vive del Diritto, in corso di stampa.
) Cfr. N , cit.
(
27 ADER © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
416 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
effettiva, di conseguenze drammatiche in termini di confusione delle
priorità istituzionali, sempre a favore dei suddetti “interessi for-
).
ti” (
28
Anziché metter mano ai più profondi e problematici aspetti
istituzionali che rendono il diritto privato europeo incapace di
creare e mantenere regole del gioco autorevoli ed effettive, il dibat-
tito degli ultimi quindici o vent’anni si è in larga misura arroccato
intorno alla questione del “Codice Civile Europeo”. Si tratta di un
interessante oggetto di riflessione, perché la “questione codice” in
), quasi
Europa si colloca ad un livello culturale profondissimo ( 29
viscerale, sicché interrogarsi sulle motivazioni profonde e sulle
dinamiche più o meno consapevoli di questo processo, costituisce
quasi un’ esercizio di psicanalisi sociale, con tutti i benefici ed i limiti
di tale approccio. Ma poiché sostengo che l’ultima parte del lungo
ventesimo secolo ha trasformato l’Europa in periferia e forse in
colonia, la psico-analisi sociale alla Franz Fanon, per intenderci,
offre spunti radicalmente critici di innegabile interesse, anche se
).
molti possono onestamente dissentire sulle opzioni normative (
30
Introdurrò questi problemi al lettore italiano osservando com-
parativamente il processo di creazione del codice del ’42 con quanto
).
sta avvenendo in Europa oggi (
31
In Europa oggi, molti dei temi di fondo che già appassionarono
i grandi civilisti italiani nella fase preparatoria della codificazione del
1942 si stanno riproponendo. Come allora ci si interrogava sulla
necessità di un nuovo Codice, altrettanto oggi ci si domanda se sia
proprio necessario ri-codificare, a fronte di una pluralità di codici
che tutto sommato svolgono adeguatamente la loro funzione. Ci si
chiede poi a quale livello di fonte debba avvenire la codificazione
( ) Ho sviluppato quest’argomento in U. M , Hard Code Now!, in Global
28 ATTEI
Jurist Frontiers 2002, www.bepress.com.
) Cfr. A. G , voce Codice, in Digesto Discipline Privatistiche. Civile.
( 29 AMBARO
) Cfr. F. F , Les Damnés de la terre (1961) e, in particolare, la prefazione
(
30 ANON
di J.P. Sartre.
) Una monografia dei “Quaderni Fiorentini” è stata dedicata alla Codifica-
( 31
zione. Si fa rinvio a quella sede per l’opinione di diversi maestri espressa in un
& A. D R ,
importante convegno fiorentino. Qualche spunto anche in U. M
ATTEI I OBILANT
Il lungo addio. Il Codice Civile Italiano nel Bicentenario della Codificazione Napoleonica,
(ed.), Livre du Bicentenaire du Code, in corso di stampa.
in V OGEL © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 417
UGO MATTEI
(direttiva o regolamento), quasi a riprendere la grande (e probabil-
mente fasulla) alternativa codificazione-legge speciale su cui tanto
rifletteva Vassalli. Ci si interroga sulle specificità del diritto dei
consumatori e del diritto commerciale, proprio come allora ci si
poneva il problema della commercializzazione del diritto civi-
).
le… (
32
Naturalmente, il contesto è molto diverso non soltanto perché la
dottrina europea, divisa da barriere linguistiche, è meno omogenea
di quella italiana dell’epoca, ma anche perché, come visto, il bari-
centro della produzione intellettuale del diritto privato si è oggi
spostato negli Stati Uniti. Sposato come referente forte un modello
di common law, evidenti risultano le diversità proprio sul piano
profondo delle fonti del diritto, sicché i temi del dibattito odierno
risultano influenzati non poco dalla diversità profonda del contesto
di produzione. In altre parole, mentre i giuristi Italiani affaticati a
preparare il codice del ’42 si misuravano con modelli di riferimento
della tradizione romanista, i giuristi europei oggi si misurano con un
pluralismo (anche estetico) di fonti normative che pone sul tavolo
della riflessione opzioni del tutto nuove. A chi sarebbe venuto in
mente di proporre seriamente l’alternativa Restatement senza il
modello di riferimento statunitense?
Il diritto privato è anche cultura ed identità storico-politica,
sicché la sostituzione di una pluralità di codici (o di esperienze non
codificate) con un solo Codice Europeo comporta una rottura
drammatica con il passato e allo stesso tempo rappresenta un
). Se, per-
momento fondativo sul piano politico-costituzionale ( 33
tanto vi è una differenza importante più di ogni altra nella vicenda
della codificazione italiana del ’42 quando comparata con quella
Europea di oggi, essa si colloca a livello di dibattito politico. Mentre
infatti la valenza politica del processo di codificazione era perfetta-
mente presente alla cultura civilistica italiana di quel periodo, oggi la
cultura giuridica Europea sembra ripiombata in un’operazione di
( ) Il dibattito ha ormai prodotto una letteratura abbondantissima. Si veda
32 2
, H , H , Towards a European Civil Code, (2000 ).
H ARTKAMP ONDIUS ESSELINK
) Si veda L. M , L’Europa dei Codici o un Codice Per l’Europa?, in Centro
( 33 ENGONI
di studi e ricerche di diritto comparato e straniero, Università di Roma, vol. 7.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
418 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
diniego psicologico di tale valenza ( ). La ricezione del modello
34
statunitense ha veicolato una concezione del giurista quale ingegnere
sociale, professionista volto a edificare un impianto tecnologico.
Questo giurista tecnocrate, rifiuta di misurarsi con la realtà politica
).
assumendo la neutralità e la tecnicità del suo compito (
35
A parlare di Codice Civile Europeo si è incominciato nel 1989
a seguito di una raccomandazione del Parlamento Europeo, poi
reiterata nel 1994, in cui la sola istituzione dotata di legittimazione
politica sembrava indicare l’opportunità di percorrere questa via a
causa degli eccessivi costi ed ostacoli che la diversità giuridica
frappone al traffico transfrontaliero. Tale raccomandazione fu rac-
colta in modo tiepido dalla cultura giuridica dominante e fu intera-
mente ignorata dalle altre istituzioni fino a questi ultimissimi mesi in
cui in rapida successione sono apparsi un libro verde della Com-
missione (redatto in particolare dalla Direzione Generale 24, quella
relativa ai consumatori e alla salute pubblica), una nuova Raccoman-
dazione del Parlamento (assai più dettagliata in modi e tempi) ed
una dichiarazione del Consiglio, che sembrano aver messo in moto
).
il processo in modo inarrestabile (
36
I giuristi europei, in maggioranza tradizionalmente conservatori,
temevano un cambiamento cosı̀ importante anche perché la com-
plessità del diritto offre grandi opportunità di ritorni professionali al
). La sinistra delle catte-
ceto che ne monopolizza la conoscenza ( 37
dre, scoperto in ritardo il mercato ed ubriaca delle sue virtù tauma-
turgiche, sta sperimentando una stagione marcatamente postmo-
derna sicché una codificazione generale e le scelte che essa
inevitabilmente comporta, le impongono assunzioni di responsabi-
lità anche politica di cui non sa farsi carico ( ). Essa si è perciò
38
arroccata dietro la tutela della diversità e del pluralismo culturale,
( ) Cfr. H , The Politics of European civil code, in Global Jurist Frontiers
34 ESSELINK
(2001). ) Si veda da ultimo L.M. F , American Law in the Twentieth Century,
( 35 RIEDMAN
572 ss. (2002).
) Si veda U. M , Hard Code Now!, in Global Jurist Frontiers, 2002.
( 36 ATTEI
) Cfr. M , The Issue of Private Law Codification and Legal Scholarship.
(
37 ATTEI
Biases, Strategies and Developments, 22 Hastings Int. and Comp. L. Rev 883, (1998).
) Cfr. M & D R , International Style e Postmoderno nell’architet-
(
38 ATTEI I OBILANT
tura giuridica della nuova Europa. Primi spunti critici, in Riv. Crit. Dir. Priv. 2001, 89 ss..
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 419
UGO MATTEI
lasciando campo libero alla logica liberista e non interventista tipica
del modello statunitense attuale. Se tutto ciò si colloca nella ten-
denza generale all’americanizzazione del diritto privato in Europa si
spiegano agevolmente le varie proposte di codificazione mite (c.d.
soft law) che paiono prendere piede.
Tale ideologia mite (soft con il capitale multinazionale quanto
ad imporre limiti alle sue pratiche “efficienti”, ma sempre più hard
nei confronti dei ceti deboli che dalle decisioni del capitale dipen-
dono) finirà per prevalere se un dibattito cosı̀ fortemente politico
continua ad essere contrabbandato come tecnico e neutrale, utiliz-
zando logiche e strategie bugiarde smascherate da oltre settant’ anni
nel pensiero giuridico critico.
La maggior parte delle proposte oggi sul tavolo, lungi dall’in-
terrogarsi sulle condizioni politiche e culturali di fondo in cui il
nuovo diritto privato europeo pone le proprie radici, assumono
come naturale punto di arrivo un codice soft, neutrale, tecnico,
efficiente, facilitante e non vincolante. Un modello di codice in netta
rottura con la tradizione civilistica Europea le cui radici positivisti-
che, assolutistiche e giacobine sono ormai considerate insopportabili
dai più.
Il modelli di riferimento più accreditati, il Restatement e lo
Uniform Commercial Code sono infatti entrambi statunitensi, con il
che si evidenzia ancor più la disponibilità della “nuova” cultura
giuridica Europea ad accettare lezioni provenienti d’oltre oceano
anche negli ambiti in cui da oltre duecento anni i giuristi romanisti
sono maestri. Ma non si tratta soltanto di osservare questo fenomeno
di sudditanza psicologica. Si tratta di comprendere come le ricette
soft negli Stati Uniti siano sostenibili soltanto perché calate in un
sistema di fonti profondamente diverso da quello Europeo attuale.
Un sistema in cui la giurisprudenza primeggia ed in cui le corti sono
dotate di tutti gli strumenti di efficacia indispensabili per dettare e
rendere effettivamente vincolanti le regole del gioco. Nulla di tutto
ciò esiste in Europa, sicché la sacrosanta critica del positivismo
giuridico rischia di condurre a gettare il bambino insieme all’acqua
sporca, delegittimando ed indebolendo culturalmente e politica-
mente le scelte (spesso sociali) contenute nei codici.
Un filone di pensiero critico (le cui azioni, crollate dopo la
caduta del muro di Berlino, sembrano oggi risalire prepotentemente,
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
420 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
spinte dall’evidente brutalità delle implicazioni politiche del modello
neoliberista della globalizzazione imperante) fondava l’analisi del-
l’egemonia su due pilastri fondamentali: la forza e la persuasione.
L’ideologia come falsa coscienza, a sua volta, offriva lo strumento
più efficace per ottenere il consenso, indispensabile per ottenere una
duratura subordinazione. Alla produzione di ideologia sono prepo-
ste alcune élites la cui attività fondamentale sembra essere quella di
confondere l’ideologia con la scienza. Tali élites sono normalmente
portatrici di interessi propri, normalmente derivanti da più o meno
marcati privilegi sociali conseguenti allo status.
Se osserviamo le dinamiche culturali del sistema delle fonti
europee nell’ambito di un tale strumentario critico, non possiamo
che cogliere aspetti preoccupanti. L’élite dei giuristi europei risulta
oggi nettamente divisa nell’ambito di un fenomeno di dualismo, un
tempo osservabile ed osservato soltanto nello studio dei sistemi
economici del c.d. terzo mondo. Un nuovo gruppo sociale di giuristi,
strettamente limitato ai paesi nordici (Olanda, paesi Scandinavi,
Germania ed Inghilterra), padrone dell’anglofonı̀a e sovversivo di
precedenti gerarchie interne di prestigio accademico, domina la
scena e decide l’ordine del giorno del dibattito. Tale gruppo domi-
nante, una vera Alleanza del Nord, capace di favorire la penetra-
zione del modello americano egemone, coopta da contesti diversi
alcune individualità, a loro volta anglofone, promovendo costoro ad
interlocutori sul tavolo della cultura giuridica “alta”. In tal modo si
cerca di far fronte al difetto di legittimazione anche culturale che
deriva dal lasciar indietro la major et senior pars della cultura
giuridica latina, quella che non si esprime in inglese e che non ha
posto il dialogo con gli Americani al centro delle proprie preoccu-
pazioni.
La retorica soft ed efficientistica, tecnologica e fintamente scien-
tifica, costituisce l’arma principale di questa operazione di potere
che ha come risultato finale, l’inversione del rapporto fra diritto e
mercato, sicché il secondo viene utilizzato a governo del primo e non
viceversa ( ). Ma la natura ideologica di tale operazione non può
39
sfuggire a chi tenga conto del fatto che il mercato è a sua volta
un’istituzione che non vive e non può vivere e svilupparsi in modo
( ) Cfr. M.R. F , Diritto e mercato (2000).
39 ERRARESE
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 421
UGO MATTEI
efficiente e sostenibile senza regole del gioco dotate di effettività,
capaci di internalizzare gli effetti esterni, di limitare e neutralizzare
i conflitti di interesse ed i monopoli, capaci di produrre informa-
zione attraverso l’offerta pubblica ed indipendente della cultura e
).
degli altri beni pubblici (
40
Il sistema delle fonti del diritto costituisce l’insieme complesso
di queste regole del gioco. Questa è la ragione principale per cui
l’onestà intellettuale richiede uno sforzo costante ed instancabile di
comprensione ed analisi del contesto di produzione delle norme
prima di propagandarne l’introduzione nel contesto di ricezione.
Qualche anno fa, in Italia, ipnotizzati dalla macchina spettacolare
che propone instancabilmente la concezione americana (privatizza-
ta) della rule of law, abbiamo importato la procedura penale all’ame-
ricana, senza curarci di comprendere il contesto di produzione e le
dinamiche istituzionali profonde (come per esempio la giuria) che
rendono in qualche modo sostenibile quel modello ( ). Tale rice-
41
zione, promossa da un’élite specialistica (parte della quale si è poi
messa in evidenza offrendo servizi giuridici ad alcuni dei principali
beneficiari di tali riforme) non è stata accompagnato da alcuno
sforzo serio di comprensione e di critica da parte degli storici e degli
studiosi dei sistemi giuridici comparati, i soli dotati professional-
mente del bagaglio culturale che avrebbe consentito di prevedere e
scongiurare per tempo il disastro che ne sarebbe seguito.
In Europa oggi, con il codice civile, si sta facendo la costituzione
economica della nuova Europa. Saprà essere la costituzione di un
blocco forte, autorevole e responsabile capace di assumersi le pro-
prie responsabilità politiche economiche e storiche anche nei con-
fronti dei paesi in cui i beni che consumiamo vengono prodotti
(spesso da donne e bambini orribilmente sfruttati) ( )? O, come più
42
probabile, sarà la costituzione economica di un’altra provincia,
subordinata ed incapace di produrre resistenza e saggezza? L’espe-
( ) Cfr. F. D , Norme efficienti (2002).
40 ENOZZA
) Cfr. E. G , Italian Criminal Justice. Borrowing and Resistance, 48 Am. J.
( 41 RANDE
Comp. Law 227 (2000).
) Si vedano simili interrogativi in P. B , Controfuochi 2. Per un nuovo
(
42 OURDIEU
movimento europeo (2001). Un’analisi del c.d. processo costituente in Europa, in
, Lo spazio, cit.
costante comunicazione con le problematiche globali è ora in S. C ASSESE
pp. 39-55. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
422 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
rienza di tre lustri trascorsi dall’introduzione del codice di proce-
dura penale “all’americana”, in cui l’Italia ha svolto la funzione della
cavia europea, e la miriade di nuove proposte di “privatizzazione”
della giustizia propagandate da interessi forti e corrotti, coadiuvati
da pseudo-analisi scientifiche, impongono nuovi doveri alla cultura
critica.
La vicenda della codificazione civile italiana può perciò vedersi
come un interessante esempio a livello di fonti del diritto in Europa
di consapevolezza politica e sociale. Certo, le drammatiche condi-
zioni imposte nel ventennio alle libertà civili, economiche e politiche
degli italiani stimolarono l’atteggiamento partecipe, politicamente
consapevole, e talvolta resistente di tanta civilistica. Le condizioni di
oggi, a livello europeo, solo apparentemente sono migliori, se sol-
tanto si fuoriesce almeno intellettualmente dal piccolo mondo di
privilegi che l’occidente riserva al ceto dei giuristi, e si prende
coscienza delle condizioni drammatiche che il modello di sviluppo
monistico, prodotto dalla Pax Americana, impone alla moltitudine
dei senza diritti, che l’Europa dopo aver sfruttato per secoli, oggi
esclude senza pietà.
Il processo di codificazione è, oggi come allora, un percorso
gravido di implicazioni politiche. Un processo politicamente ri-
schioso perché rischia di “naturalizzare” e legittimare l’attuale con-
dizione di un mercato che scarica a sud i propri effetti esterni,
codificando le regole del gioco senza attenzione alle violazioni delle
medesime che avvengono nel corso di processi produttivi che si
). Ma si
svolgono fuori dai confini del mercato comune Europeo (
43
tratta anche di una grande occasione politica, in cui una cultura
giuridica consapevole e matura potrebbe richiamare l’attenzione alle
grandi distorsioni del mercato globale, tracciando regole del gioco
responsabili, che quanti intendono operare sul mercato europeo
devono rispettare ovunque nel mondo.
Sta alla sensibilità politica di ciascun giurista, oggi come allora,
schierarsi dall’una o dall’altra parte di un’alternativa che può essere
succube degli attori forti del mercato dietro al paravento dell’inge-
gneria sociale, o che può invece porre le basi fondamentali di un
( ) La più potente recente analisi di questa dinamica è L. N , cit. nt. 26.
43 ADER
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 423
UGO MATTEI
altro modello di mercato, dinamico ed in comunicazione costante
con i luoghi ed i produttori delle merci in esso vendute.
9. Gli Stati Uniti ricevono dall’Europa le strutture portanti
della tradizione giuridica occidentale. Le amplificano, le esagerano,
le rendono spettacolo ( ), e le rispediscono al mittente deformate ed
44
irriconoscibili. Ciò che fu il contesto di produzione non riconosce il
proprio seme; si appropria avidamente di ciò che pare una novità
seducente e scintillante quanto l’immagine della giustizia ritratta
dall’industria di Hollywood. Ma l’immagine che si riceve non è il
diritto statunitense. Ne è mero apparato ideologico, mera immagine
riflessa, priva di effettivi contatti con la realtà e con il contesto.
L’immagine riflessa ha comunque un impatto. Essa spinge il nuovo
contesto di ricezione a smantellare le proprie strutture portanti,
ritenute obsolete, senza curarsi di rimpiazzarle con altre dotate di
sufficiente effettività.
( ) Vedi G. D , La Società dello Spettacolo (1967).
44 EBORD
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
QUADERNI FIORENTINI
per la storia del pensiero giuridico moderno
31
(2002)
L’ordine giuridico europeo:
radici e prospettive
TOMO II
giuffrè editore milano
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Figure dell’esperienza
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
SILVANA SCIARRA
DI FRONTE ALL’EUROPA.
PASSATO E PRESENTE DEL DIRITTO DEL LAVORO
1. Metodo comparato e metodo europeo. L’esempio italiano. — 1.1. Il passato del diritto
del lavoro italiano. — 1.2. Il presente. — 2. Il linguaggio sincronico del diritto del lavoro.
Alla ricerca di una destinazione europea. — 3. Diritto del lavoro e ‘sensi di colpa’. Alla
ricerca di un equilibrio delle fonti.
1. Metodo comparato e metodo europeo. L’esempio italiano.
Per impostare una comparazione diacronica nel diritto del
lavoro, in linea con quanto si prefigge questo volume della Rivista,
ho ritenuto di dover prendere le mosse da un ambito circoscritto. Il
primo obiettivo è verificare se e come, tenendo conto di una
impostazione disciplinare specialistica e di un solido impianto co-
stituzionale dei diritti sociali, il diritto europeo sia riuscito —
lentamente, ma pervicacemente — ad affondare le sue radici nel-
l’ordinamento italiano.
Il secondo obiettivo consiste nel valutare se, quando lo sguardo
si dirige verso alcuni temi che, anche fuori dall’Italia, hanno inciso
sul patrimonio culturale dei giuristi del lavoro e sui loro strumenti di
analisi, la lingua adottata si fa sincronica, pur nelle inevitabili
sfaccettature di una comunicazione aperta e mutevole fra ordina-
menti diversi.
Una lettura delle principali vicende legislative e giuri-
sprudenziali che hanno caratterizzato l’evoluzione della materia non
può non seguire lo svolgersi nel tempo di avvenimenti che riguar-
dano l’integrazione del mercato e, successivamente, l’avvio del-
l’Unione monetaria. Il terzo obiettivo ha a che fare, pertanto, con la
precisazione di un ruolo del diritto del lavoro — in quanto disciplina
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
428 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
ancora prevalentemente calata nelle competenze legislative nazionali
— nel quadro delle politiche macroeconomiche europee.
La comparazione diacronica dimostra, a questo riguardo, che gli
obiettivi prioritari del mercato e della moneta non hanno contami-
nato il diritto del lavoro fino al punto da condizionarne lo sviluppo,
privandolo di una sua propria identità. L’emersione dei diritti sociali
nell’ordinamento europeo segue un suo percorso lento, ma conti-
nuo, intrecciato con una complessa revisione istituzionale volta a
).
creare un nuovo equilibrio fra competenze statali ed europee (
1
Un sincretismo linguistico più spinto — se è concesso usare
questa terminologia per un ordinamento, come quello europeo, in
cui proprio la diversità delle lingue nazionali meglio simbolizza la
ricchezza delle molteplici culture — si fa notare soprattutto con
l’avvio della Strategia europea per l’occupazione, dopo il vertice di
Lussemburgo del 1997 e l’introduzione nel Trattato di Amsterdam
del Titolo VIII. Il Metodo aperto di coordinamento, una nuova
tecnica regolativa che dalle politiche occupazionali si sta estendendo
ad aree contigue, quali l’inclusione sociale, le pensioni e forse anche
la sicurezza sociale, si muove su direttrici interdisciplinari e basa le
sue probabilità di riuscita su percorsi virtuosi di informazione e di
apprendimento. Per i giuristi del lavoro, adusi alla sfida che proviene
dal metodo interdisciplinare, gli spunti di riflessione circa la centra-
lità della materia hanno a che fare non tanto con una inutile difesa
dei suoi confini disciplinari, quanto con la ricerca di una sua interna
coerenza.
1.1. Il passato del diritto del lavoro italiano.
L’uscita dei giuristi del lavoro italiani da ambiti solo nazionali di
riflessione si deve, soprattutto dagli anni sessanta in poi, alla diffu-
sione di un raffinato ed originale metodo di comparazione, influen-
zato prevalentemente dagli scritti di Otto Kahn-Freund e dal suo
diretto coinvolgimento nell’organizzazione di gruppi di ricerca ( ).
2
( ) La Convenzione sul futuro dell’Europa, presieduta da V. Giscard d’Estaing,
1
affiancato da G. Amato e J.L. Dehaene, è stata varata dal Consiglio Europeo di Laeken,
del 14 e 15 dicembre 2001.
) Nella cerchia di giuslavoristi che facevano capo a Kahn-Freund vi era Gino
( 2 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 429
SILVANA SCIARRA
Non si può dare conto in questa sede dell’inesauribile impulso
che la ricerca militante voluta, promossa, coordinata ed ispirata da
questo fertile studioso ha impresso a singoli ricercatori e ad istitu-
zioni, incluse quelle comunitarie. Ciò che si può fare è tracciare un
percorso di avvicinamento al diritto europeo tramite gli strumenti
della comparazione giuridica. L’apparente scarsa attenzione rivolta
ad un ordinamento sovranazionale atipico — come certamente
doveva apparire la CEE e prima ancora la CECA agli occhi di
giuristi impegnati nella elaborazione di nuove categorie interpreta-
tive del diritto interno — si deve leggere come esigenza di dare
) nel quadro
precedenza al consolidamento di uno ‘stile italiano’ ( 3
variegato del diritto del lavoro europeo.
Fin dagli inizi degli anni cinquanta, la dottrina italiana si
interroga circa l’autonomia della materia e rincorre una ‘terza di-
mensione’ per superare e risolvere un inutile quanto sterile dualismo
).
fra una sua anima pubblica ed una contrapposta anima privata (
4
La divisione fra diritto pubblico e diritto privato, a lungo accettata
e coltivata dai giuristi italiani, fu lucidamente individuata come dato
caratteristico — ed in verità un po’ anomalo — in una delle prime
indagini comparate dedicata allo studio dell’ordinamento italiano.
In quel contesto si indicò il diritto del lavoro come una delle
Giugni, come egli stesso ricorda nella Intervista concessa a P. I , Riv. It. Dir. Lav.,
CHINO
, Comparazione e circolazione dei modelli nel diritto
1992, p. 429. Si veda inoltre T. T REU (a cura
del lavoro italiano, in “Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind.”, 1979, ed anche in R. S
ACCO e S.
di), L’apporto della comparazione alla scienza giuridica, Milano 1980; G.G. B
ALANDI
(a cura di), Il pluralismo e il diritto del lavoro. Studi su Otto Kahn-Freund, Roma
S CIARRA
1982. ) L’espressione è mutuata da J. M nel suo contributo in M. C ,
(
3 ERRYMAN APPELLETTI
, J. P , The Italian Legal System, Stanford 1967.
J. M ERRYMAN ERILLO
) Come ricordato da G. C , L’autonomia del diritto del lavoro nel
(
4 AZZETTA
dibattito giuridico tra fascismo e repubblica, in “Quaderni Fiorentini”, 1999, pp. 615-16,
in cui si richiama il primo congresso internazionale di diritto del lavoro tenutosi nel 1951
a Trieste (Atti del Primo Congresso Internazionale Di Diritto Del Lavoro, Ed. Univ. di
Trieste 1952). In quel primo Congresso — si veda ad esempio la relazione di Udina e le
comunicazioni sul tema — spazio fu dedicato al diritto internazionale del lavoro ed alla
sua formazione. In quell’occasione si praticò un terreno di analisi non troppo frequen-
, Formazione di
tato dalla dottrina italiana successiva. Si segnala la relazione di A
SCARELLI
un diritto comune del lavoro, p. 40 ss., un vero e proprio ‘manifesto’ delle funzioni del
diritto comparato. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
430 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
discipline emergenti più adatte a mettere in crisi una tale dicoto-
).
mia (
5
Nel 1951 nacque la CECA, con il Trattato di Parigi. Questa
Comunità, fondata su presupposti pragmatici e su esigenze contin-
) — di unificazione del
genti — ma non per questo meno valide (
6
mercato del carbone e dell’acciaio, diede luogo ad importanti espe-
rimenti di riconversione produttiva e di formazione professionale
per i lavoratori interessati dalle trasformazioni delle imprese carbo-
siderurgiche. La CECA, se confrontata con la CEE, pose un più
forte accento sulle politiche sociali e mostrò un ‘dogmatismo’ meno
). Ciò era da
spinto nelle politiche di liberalizzazione del mercato (
7
attribuire, come è stato sostenuto in termini più generali, alla scelta
dei governi nazionali di trovare un’alternativa al mancato trattato di
pace dopo la fine della seconda guerra mondiale e di bilanciare il
raggiungimento di interessi esclusivamente nazionali con la perdita
).
di una parte della sovranità nazionale ( 8
Nella seconda metà degli anni cinquanta, quando videro la luce
), era fervido in Italia il
il Rapporto Spaak ed il Rapporto Ohlin ( 9
dibattito circa l’impatto delle norme costituzionali sul diritto del
lavoro. La dottrina si preparava con accortezza a rivisitarne i prin-
( ) J. M , in C et al., The Italian Legal System, cit., p. 211. In
5 ERRYMAN APPELLETTI
anni successivi il diritto del lavoro venne, invece, lasciato fuori dalle riflessioni promosse
dall’Associazione Italiana di Diritto Comparato. Si veda L’influenza del diritto europeo
sul diritto italiano, Milano 1982.
) Sull’importanza storica del Trattato CECA v., più di recente, le interessanti
( 6 , Il momento della scrittura. Contributo al dibattito sulla Costitu-
riflessioni di C. P INELLI
zione europea, Bologna, 2002, pp. 46-7.
) Secondo l’opinione di A. e G. L -C , Droit social international et
( 7 YON AEN
européen, Parigi 1993 (VIII ed.), p. 160.
) È questa la nota tesi di A. M , L’Europa in formazione, in Storia
( 8 ILWARD
d’Europa, vol. I, L’Europa oggi, Torino 1993, in particolare p. 189 ss.
) Un’analisi accurata di questi importanti documenti — entrambi prodotti nel
( 9 , Diritti sociali e mercato. La dimensione sociale della
1956 — è fornita da S. G
IUBBONI
integrazione europea, il Mulino, Bologna 2003, p. 44 ss. Opportunamente si segnala
l’importanza del Rapporto Ohlin nell’affermare l’utilità oltre che l’opportunità del
mantenimento di sistemi sociali differenziati all’interno degli Stati Membri. In tema S.
, Labour Law as Market Regulation: the Economic Foundations of European Social
D
EAKIN , A. L -C , S. S , S. S , European Community Labour
Policy, in P. D
AVIES YON AEN CIARRA IMITIS
Law. Principles and Perspectives. Liber Amicorum Lord Wedderburn, Oxford 1996, p. 63
ss. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 431
SILVANA SCIARRA
cipali istituti, alla luce dei nuovi principi democratici introdotti dalla
Carta costituzionale. Lo scenario fornito ai padri fondatori da questi
autorevoli Rapporti rafforza l’idea, confermata dalla ricerca più
recente e documentata, che la dimensione sociale non fosse estranea
ai costruttori dell’Europa e neanche dimenticata, quanto piuttosto
difficile da coordinare con la missione prioritaria del Trattato,
protesa alla creazione di un mercato comune.
Tuttavia, se si sfogliano i principali manuali, la nascita della
CEE, con il Trattato di Roma del 1957, sembra avvenire in un
contesto lontano dalle preoccupazioni del diritto del lavoro italiano.
In quegli anni di avvio della Comunità esisteva, con molta probabi-
lità, una profonda scissione fra una élite di burocrati impegnati nel
) e gli ambienti accademici,
perseguire l’integrazione europea ( 10
soprattuto quelli specialistici, ancora privi di una forte identità
scientifica, quali erano gli ambienti giuslavoristici del tempo. Nel
dibattito contemporaneo una tale cesura sembra in gran parte
superata. Il ruolo del giurista del lavoro attento agli sviluppi del
diritto europeo si è fatto in anni recenti assai pregnante e talvolta
carico di implicazioni simboliche oltre che pratiche sul piano della
elaborazione delle politiche legislative.
Con ciò non si vuol dire che la dottrina italiana fosse sorda ai
richiami inviati da un ordinamento sovranazionale in formazione.
Uno dei primi volumi, pubblicati nell’ambito dei seminari organiz-
zati da Giuliano Mazzoni presso l’Istituto di diritto del lavoro
dell’Università di Firenze, è dedicato alla politica sociale comunita-
). I contributi in esso raccolti, eterogenei nello stile
ria degli esordi (
11
e nel metodo adottato, rivelano, anche a distanza di tempo, l’esi-
genza avvertita dagli studiosi di affiancare all’analisi giuridica, tal-
volta molto dotta e sofisticata ( ), un’informazione accurata circa le
12
( ) L’atteggiamento ‘filo europeo degli alti funzionari del Ministero degli Affari
10
Esteri’ è segnalato, come elemento di forte continuità nel perseguire gli obiettivi
S , Europa, forza gentile, Bologna 2001, p. 94, in un
comunitari, da T. P ADOA CHIOPPA
capitolo dedicato all’Italia ed alle sue diverse fasi di avvicinamento all’Europa.
) La politica sociale della Comunità Economica Europea, Milano 1960.
( 11 ) Il volume sopra citato include un elegante contributo di O. K -F ,
( 12 AHN REUND
Alcuni problemi relativi alla composizione delle controversie di lavoro sotto il profilo del
diritto comparato, p. 77 ss., tema quanto mai estraneo alle competenze del diritto
comunitario e tuttavia, a detta dello stesso autore, utile a comprendere che la strada di
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
432 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
politiche sociali comunitarie, sia per i loro contenuti, sia per le
modalità seguite dalle istituzioni nella loro elaborazione.
L’armonizzazione dei sistemi nazionali apparve fin da allora agli
osservatori lungimiranti un obiettivo posto al termine di un cam-
mino impervio. Anche per questo sembrò importante non perdere
di vista la funzione e l’evoluzione delle altre fonti internazionali, in
particolare quelle dell’OIL, nello sforzo di adeguamento degli stan-
). L’obiettivo era di tenere
dard nazionali a quelli sovranazionali (
13
aperto nel nostro come in altri paesi europei, un sistema di circola-
), proficuo per formare una cultura
zione degli standard di tutela (
14
giuridica meno ripiegata su se stessa e più aperta alla comprensione
del ruolo delle istituzioni internazionali nelle trasformazioni del
diritto. Si tratta — è bene sottolinearlo — di tentativi isolati
all’interno del panorama italiano, sia dottrinale che giuri-
).
sprudenziale (
15
È soprattutto nella fucina di giuristi europei voluta dall’Alta
Autorità della CECA che spiccano, fra le altre, le acute intelligenze
dei migliori giuristi del lavoro italiani. In una voluminosa raccolta di
studi intitolata ‘Collezione di diritto del lavoro’ si trovano i presup-
posti di conoscenza indispensabili alla costruzione di un moderno
diritto del lavoro ed anche i germi di un metodo comparato indi-
pendente, non condizionato dalle istituzioni committenti e, proprio
per questo, proficuo per il legislatore sovranazionale. Nonostante il
vuoto di poteri istituzionali della CECA nel campo delle politiche
un diritto sovranazionale è aperta dallo studio degli ordinamenti nazionali. Altri contri-
buti sono affidati a funzionari delle istituzioni comunitarie.
) Nello stesso volume La politica sociale, cit., si veda L. G R S -
( 13 ILARDI IVA ANSEVE
, L’attuazione delle Convenzioni internazionali del lavoro nella CEE e, in particolare,
RINO
nell’ordinamento italiano, p. 61 ss., in cui si rammenta che in quegli stessi anni di avvio
della CEE era in preparazione la Carta Sociale Europea del Consiglio di Europa, il cui
presupposto era quello della osservanza da parte degli stati membri delle norme minime
contenute nelle Convenzioni dell’OIL.
) Ho usato questa terminologia nell’analisi di avvenimenti recenti che hanno
(
14
costretto il diritto del lavoro a guardare simultaneamente in più direzioni per cogliere
, From
l’influenza sincretica di fonti internazionali fra sé diverse. Si rinvia a S. S CIARRA
Strasbourg to Amsterdam: Prospects for the Convergence of European Social Rights Policy,
(a cura di), The EU and Human Rights, Oxford 1999, p. 473 ss.
in P. A LSTON
) Come osservò M. O nelle conclusioni del suo libro, Le convenzioni
(
15 FFEDDU
internazionali del lavoro e l’ordinamento giuridico italiano, Padova 1973, p. 200.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 433
SILVANA SCIARRA
sociali ( ), l’ansia di conoscenza degli ordinamenti nazionali del
16
lavoro creò un clima aperto di confronto fruttuoso ed espose i
giuristi nazionali alla comprensione di ordinamenti diversi.
Nel 1959, la creazione di una associazione fra editori specializ-
zati in materie giuridiche ed attivi in più paesi consentı̀ la pubbli-
cazione contemporanea dei volumi della collana in quattro lingue.
L’integrazione attraverso la ricerca giuridica, in quel fortunato espe-
rimento, tributò rispetto alle lingue nazionali ed alle particolari
implicazioni del linguaggio tecnico-giuridico. Quest’ultimo, come è
noto, non è mai asettico, ma serve ad illustrare l’origine ed il
significato di importanti istituti caratterizzanti l’ordinamento nel suo
complesso e dunque conduce a capire le diversità, invece di assimi-
lare dentro formule comuni funzioni diverse delle norme giuridiche.
Nell’arco di circa un decennio, dal 1958 in poi, Luigi Mengoni
fornı̀ il suo contributo a molte delle pubblicazioni promosse dalla
). A
CECA, incentrate sui più significativi istituti della materia (
17
questo autore, ben noto nel resto d’Europa anche al di fuori di
questa disciplina, si deve una attenzione non rituale nei confronti dei
).
temi comunitari, poi confermata nel tempo (
18
Sotto l’egida della CECA si colloca anche un volumetto prezioso
per la costruzione di una spiccata identità del diritto del lavoro
italiano. Nel 1964 Gino Giugni tracciò in modo sintetico ed efficace
i contorni dell’originale sistema nazionale di contrattazione collettiva
).
e scrisse il rapporto di sintesi, relativo ai sei paesi membri (
19
( ) L’art. 3 e) del Trattato CECA faceva riferimento ad una generica promozione
16
delle condizioni di vita e di lavoro, mentre l’art. 46. 5 affidava all’Alta Autorità il compito
di promuovere l’informazione, consultando i governi nazionali per rendere possibile un
tale miglioramento. Non è nostalgico, ma semplicemente informativo, il riferimento alla
cessazione dell’attività della CECA ed al Protocollo annesso al Trattato di Nizza che si
occupa degli aspetti finanziari e della destinazione del fondo per la ricerca.
) Si veda di recente M. N , Ricordo di Luigi Mengoni, maestro di diritto e
( 17 APOLI
d’umanità, cultore di diritto del lavoro, in “Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind.”, 2002, p. 151 ss.,
che cita in bibliografia tutti i contributi di Mengoni nella Collezione di diritto del lavoro
della CECA.
) L. M , Libera circolazione dei lavoratori, in La Comunità economica
( 18 ENGONI
europea, Corso di lezioni litogr., Milano 1975. Sullo stesso tema Mengoni aveva già
pubblicato un saggio in Dir. Lav. 1970, p. 165 ss.
) G. G , L’evoluzione della contrattazione collettiva nelle industrie siderur-
(
19 IUGNI
gica e mineraria, Milano 1964. Giugni ha anche curato il rapporto finale, basato su
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
434 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
L’attenzione di questo autore per il diritto vivente, oltre che per
il diritto positivo, nonché la sua familiarità con l’ordinamento
nord-americano, lo resero omogeneo alla cerchia di comparatisti che
si formò intorno a Kahn-Freund. Anche se il lavoro del Comparative
labour law group, di cui Kahn-Freund fu solo ispiratore, senza mai
farne parte ( ), non fu orientato alla produzione di studi diretta-
20
mente funzionali all’elaborazione di politiche comunitarie, esso creò
un patrimonio comune di nozioni ed una metodologia sofisticata di
analisi comparata a cui le generazioni successive di studiosi di vari
paesi hanno potuto attingere.
Più lenta appare la sistemazione di una materia — come il
diritto comunitario del lavoro — all’interno dei manuali. Si deve alla
dottrina internazionalista la diffusione accurata degli elementi di
diritto comunitario che hanno avvicinato gli specialisti di diritto del
lavoro al linguaggio, oltre che alle tecniche regolative proprie di un
ordinamento sovranazionale ( ).
21
È da ricordare che viene dalla Francia uno dei primi e più
rapporti nazionali dei sei paesi aderenti. Si v. CECA, Alta Autorità, L’evoluzione della
contrattazione collettiva nelle industrie della Comunità 1953-1963, Lussemburgo, giugno
1967. ) Come riferisce B. A , The Comparative Labor Law Group: a Personal
( 20 ARON
Appraisal, in “Comparative Labor Law”, 1977, p. 229 ss. Il gruppo ha prodotto varie
pubblicazioni citate da Aaron, a cui si deve anche un interessante resoconto del modo
di impostare la comparazione.
Kahn-Freund collaborò anche alle pubblicazioni della CECA. Si veda, ad esempio,
un suo efficace rapporto di sintesi in I rapporti tra datori e lavoratori sul piano aziendale.
Forme e funzioni, Bruxelles 1967. Ciò conferma una sua eccezionale funzione di
collegamento fra i vari piani in cui si svolgeva la ricerca lavoristica comparata ai suoi
esordi. ) G. G , La giurisprudenza della Corte Comunitaria sulla politica sociale, Pol.
( 21 AJA
Dir. 1977, che riproduce una comunicazione al Convegno ‘Politiche comunitarie e
,
giurisprudenza della Corte di giustizia’, tenutosi a Siena nel settembre 1977; F. P OCAR
Diritto comunitario del lavoro, vol. 13 dell’Enciclopedia giuridica del lavoro, diretta da G.
, Padova 1983. Si noti che la stessa Enciclopedia ospitò un corposo volume di
M AZZONI
C e G. Z , Il diritto del lavoro dei paesi dell’Europa continentale
F. D I ERBO ANGARI
partecipanti alla CEE, Padova 1984. In esso — in una fase ormai avanzata della vita della
Comunità — con una curiosa trovata, non è incluso il Regno Unito, in quanto paese a
common law, accorpato pertanto in altri volumi della stessa opera enciclopedica con Stati
Uniti, Canada ed Australia. L’opera citata, oltre all’estrema opinabilità del metodo
adottato, si pone in controtendenza rispetto al metodo in precedenza promosso dai
volumi della CECA, volto ad approfondire gli studi di diritto nazionale dei paesi membri
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 435
SILVANA SCIARRA
riusciti contributi della dottrina nel proporre una lettura congiunta
delle norme internazionali e delle norme propriamente europee di
). Non si vuole con questo richiamo attrarre
diritto del lavoro ( 22
l’attenzione su una citazione bibliografica, quanto piuttosto porre in
evidenza la terminologia — diritto sociale e non diritto del lavoro —
adoprata nel titolo. Per lungo tempo si è posto il problema, non solo
linguistico, di chiarire quanta parte del diritto sociale comunitario
rientrasse nel diritto del lavoro e quanto l’espressione ‘politiche
sociali’, ricorrente nel gergo comunitario, fosse compatibile con
l’evoluzione di sistemi normativi di diritto del lavoro a livello
nazionale. Si vedrà in seguito come questo problema si è gradual-
mente attenuato, sia per uno sforzo nazionale di apprezzamento
delle norme sovranazionali che via via emergevano dall’indistinto
delle politiche sociali, sia per i mutati indirizzi che queste ultime
hanno assunto.
Solo ad occhi distratti il passato del diritto del lavoro italiano,
quello che, proprio mentre le Comunità europee erano agli albori, si
andava consolidando intorno a valori costituzionali fondamentali,
può apparire rinchiuso in un provincialismo asfittico. Si tratta in
realtà, nonostante talune ritrosie, di un diritto in espansione verso
orizzonti sovranazionali. La dottrina più attenta ha saputo agevolare
una tale evoluzione senza abbandonare la difesa delle caratteristiche
peculiari dell’ordinamento ed anche mantenendo vivo il pluralismo
del dibattito scientifico, arricchito dalla combinazione di una ma-
trice cattolico-sociale con una componente laica e riformista.
La lezione di Tullio Ascarelli, affidata ai giuristi del lavoro nel
lontano 1951, affinché si superasse il ‘nazionalismo positivista’ at-
).
traverso il diritto comparato, sembra aver dato buoni frutti (
23
della Comunità, al fine di valutarne le assonanze o, più spesso, le dissonanze in funzione
della comune adesione al Trattato istitutivo.
) G. L -C , Droit social international et européen, pubblicato da Dalloz
( 22 YON AEN
(che nella prima edizione del 1969 si chiamava Droit social européen) ha avuto una
-C . Il libro
grande diffusione. Dalla V edizione nel 1980 è firmato anche da A. L YON AEN
è giunto nel 1993 alla VIII edizione.
) T. A , Formazione, cit., p. 43.
( 23 SCARELLI
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
436 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
1.2. Il presente.
Su queste premesse si basa il presente del diritto del lavoro,
aperto all’influenza del diritto europeo ed anche capace di influen-
zarlo. Per comprendere l’iniziale ritrosia della dottrina nell’affron-
tare temi connessi al diritto comunitario ed anche per giustificare
certi suoi pregiudizi neppure apertamente confessati, occorre dire
che il Trattato CEE sembrava perseguire obiettivi del tutto diver-
genti rispetto all’evoluzione di un diritto del lavoro da poco uscito
dal bozzolo del diritto corporativo, pronto a volare alto sia sui cieli
della giurisprudenza, sia su quelli della legislazione speciale.
L’Italia, come del resto la Francia che si era battuta fin dall’ini-
), ha
zio per l’inserimento nel Trattato di alcuni standard di tutela (
24
spesso assunto un atteggiamento orgoglioso nel preservare le sue
prerogative di politica legislativa all’interno del territorio lavoristi-
co ( ).
25
Bisogna riconoscere, a distanza di tempo, che anche nella
( ) È noto l’impegno della Francia, fin dalla redazione del rapporto Spaak, per
24
l’inserimento nel Trattato istitutivo degli articoli in materia di parità retributiva fra uomo
e donna ed equivalenza nei periodi di ferie retribuite, affinché già nella prima fase del
periodo transitorio si raggiungesse, attraverso l’armonizzazione di queste misure legisla-
tive, l’eliminazione di distorsioni nella concorrenza. La materia dell’orario di lavoro e del
lavoro straordinario trovò collacazione in un Protocollo allegato al Trattato. Ne dà
, France and the Origins of the European
conto, dal punto di vista storico, F. L
YNCH
(a cura di), National Interests and the EEC-EC-EU, Trondheim
Community, in S. D AHL -F , Labor
1999, p. 15 ss. I dettagli e l’analisi giuridica complessiva sono in O. K
AHN REUND
(a cura di), American Enterprise in the European
Law and Social Security, in E. S TEIN
Common Market. A Legal Profile, Ann Arbor, The Univ. of Michigan Law School 1960,
vol. I p. 325 ss.
) Basti pensare al lungo rifiuto dell’Italia di adottare la Direttiva n. 75/129 del
(
25
17 febbraio 1975 sui licenziamenti collettivi, in ragione della già esistente disciplina
volontaria della materia contenuta in un accordo interconfederale del 1965. Il caso
culminò con la condanna dell’Italia da parte della Corte di Giustizia. Cfr. C 91/81, Racc.,
1982, p. 2133, e C 131/84, Racc., 1985, p. 3531. Sul tema si veda il contributo di
, Sull’attuazione in Italia della direttiva comunitaria
un’internazionalista, A. A DINOLFI
concernente i licenziamenti collettivi, in “Riv. Dir. Int.”, 1983, p. 76 ss.
Ugualmente emblematica la vicenda della Direttiva 93/104, in materia di orario di
lavoro. Per la mancata trasposizione, la Commissione ha fatto ricorso alla Corte di
giustizia nel dicembre 2002, chiedendo pesanti sanzioni pecuniarie, anche a seguito della
censura della Corte nei confronti dell’Italia. Cfr. Commissione c. Italia, 638/98, Racc.,
2000, p. 1277. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 437
SILVANA SCIARRA
materia che qui ci interessa, l’approccio funzionalista tanto più ha
mostrato la sua validità quanto più la posta in gioco era alta.
L’impegno della Francia, dettato da interessi esclusivamente nazio-
nali, ha avuto un insperato effetto di costituzionalizzazione della
norma sulla parità retributiva fra uomo e donna per uno stesso
). Un tale principio ha guadagnato negli anni un valore di
lavoro (
26
gran lunga più solido rispetto all’obiettivo di tutelare la libera
concorrenza nel mercato, eliminando misure potenzialmente distor-
sive.
L’Italia, forse a causa della minore solidità del suo sistema
economico, non fu protagonista in tale vicenda e si riservò, in quella
come in altre occasioni, uno ‘spazio interstiziale’ fra Francia e
). L’orgoglio nazionale ha, in taluni casi, assunto le
Germania (
27
caratteristiche di un adempimento lento, se non addirittura svo-
gliato, agli obblighi di attuazione del diritto europeo, con la conse-
guenza di relegare l’Italia fra i paesi meno efficienti nel trasporre le
direttive nell’ordinamento interno.
Un tale atteggiamento è cambiato, anche se non sono mancati
casi di forte dialettica fra legislatore nazionale e istituzioni comuni-
tarie circa i tempi ed i modi per attuare la trasposizione nell’ordi-
namento interno di talune riforme, in ossequio al principio di un
).
mercato sempre più efficiente, perché libero da monopoli ( 28
Si può solo speculare circa una distanza culturale del diritto del
( ) C. B , The Economic Objectives of Article 119, in T. H e D.
26 ARNARD ERVEY
, Sex Equality Law in the European Union, Chichester 1996, p. 321 ss.
O’K EEFFE
) Sarà questa la soluzione adottata anche in vista dell’Unione monetaria,
(
27 S , Europa, cit., p. 105.
secondo T. P
ADOA CHIOPPA
) Ho analizzato Job Centre come caso ‘esemplare’ nel rapporto fra Corte di
( 28
giustizia europea e legislatore nazionale in relazione al lento e faticoso superamento del
, Job Centre: An Illustrative
monopolio pubblico del collocamento. Rinvio a S. S
CIARRA
. (a cura di), Labour Law in the Courts. National
Example of Strategic Litigation, in E
AD
Judges and the European Court of Justice, Oxford 2001, p. 241 ss. Un altro esempio di
ritardo istituzionale si è avuto nell’uso dei fondi strutturali, divenuto più efficiente in
anni recenti, mentre sempre critico rimane il rapporto con le istituzioni comunitarie in
, Politiche del lavoro.
materia di aiuti di stato. Su questi punti si rinvia a T. T
REU
Insegnamenti di un decennio, Bologna 2001, p. 86 ss. Si veda anche la recente sentenza
(del 7 marzo 2002, in causa C-310/99, Repubblica italiana c. Commissione CE) con cui
la Corte di giustizia ha confermato che taluni aspetti della disciplina degli sgravi
contributivi concessi dal legislatore italiano nel caso di stipulazione di contratti di
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
438 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
lavoro italiano dalle matrici del diritto comunitario. A voler scegliere
un esempio fra i tanti, si può osservare che, mentre in Italia si
assisteva all’ascesa delle organizzazioni sindacali, pilastri portanti di
un autonomo sistema di contrattazione collettiva e di autotutela
sindacale, in Europa l’art. 118 del trattato istitutivo della CEE
affidava alla Commissione il compito di ‘promuovere una stretta
collaborazione tra gli Stati Membri nel campo sociale’ per una serie
di materie, fra cui ‘il diritto sindacale e le trattative collettive tra
datori di lavoro e lavoratori’. Non è difficile comprendere che, a
fronte di un impegno comunitario cosı̀ vago, si scegliesse di indiriz-
zare verso il diritto sindacale nazionale energie e sforzi propositivi.
Con il passare del tempo, quella che poté apparire nient’altro
che una sfumatura nella semantica adottata dai padri fondatori,
divenne il segno di un divario profondo, attenuato solo in parte dalle
riforme intervenute successivamente. Si constatò, infatti, che le
carenti basi giuridiche nel Trattato, da un lato, ed i meccanismi
decisionali del Consiglio, improntati frequentemente al principio
dell’unanimità, dall’altro, avrebbero potuto condurre ad una morti-
ficazione del diritto del lavoro nelle sue molteplici funzioni.
Il passato ed il presente del diritto del lavoro italiano di fronte
all’Europa si differenziano proprio in questo. Ad un iniziale atteg-
giamento di attesa prudente, subentra gradualmente un atteggia-
mento critico ed informato. Le acute punte di scetticismo che hanno
), sono state
segnato talvolta l’avvicinamento al diritto europeo (
29
controbilanciate dalla scoperta di una autonoma ed indipendente
capacità di sintonizzare i contributi nazionali sulle onde delle poli-
tiche sociali europee, senza rinunciare ai principi fondanti della
materia.
Il linguaggio del diritto comparato, nelle sue espressioni più
sofisticate, è stato utilizzato, come si è visto, per perfezionare gli
formazione e lavoro sono da considerarsi aiuti di Stato, come tali in contrasto con la
normativa comunitaria.
) Una voce scettica circa l’evoluzione delle politiche sociali europee è stata
( 29
quella di Federico Mancini, uno dei più illustri giuristi del lavoro italiani, divenuto
Avvocato generale presso la Corte di giustizia nel 1982 e poi nominato giudice nel 1988
fino al 1999, anno della sua morte. I suoi più importanti contributi al diritto europeo
, Democracy and Constitutionalism in the European Union,
sono raccolti in F. M ANCINI
Oxford 2000. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 439
SILVANA SCIARRA
strumenti di analisi del diritto interno e per accorciare le distanze
dall’Europa. Per questo motivo, il linguaggio del diritto europeo
potrebbe essere diacronicamente interpretato come una prosecu-
zione del precedente, quasi che, con il passare del tempo, il fine della
comparazione sia divenuto il mettere a confronto l’ordinamento
sovranazionale con gli ordinamenti nazionali degli Stati Membri,
ricavandone una analisi a più piani, con implicazioni diverse a
seconda della materia affrontata.
In realtà non è cosı̀ ed anzi occorre mettere in guardia da una
simile comparazione diacronica. Si dirà in seguito perché è impor-
tante, soprattutto nella fase attuale di integrazione europea, mante-
nere ‘puro’ il metodo della comparazione e liberarlo da implicazioni
che ad esso non appartengono.
È rassicurante intanto constatare che sulla strada di un diritto
del lavoro europeo metodologicamente indipendente si sta muo-
vendo una nuova generazione di giuslavoristi, impegnata a valoriz-
zare le peculiarità dell’ordinamento interno sia nella fase di proposta
che dal livello nazionale si muove verso le istituzioni comunitarie, sia
nella fase di risposta, ovvero di valutazione critica circa contenuti,
).
tempi e modalità degli adempimenti comunitari ( 30
L’ingresso nel presente del diritto del lavoro italiano — un
presente condiviso con quello di altri paesi europei, più di quanto
non lo fosse il passato — è segnato da alcuni tratti originali, che si
tenterà di delineare brevemente, prima di affrontare — se si vuole in
modo più sincronico — l’analisi dei temi che contraddistinguono
l’evoluzione recente della materia.
Innanzi tutto si deve osservare con soddisfazione che la dottrina
giuslavorista si è appropriata di uno stile maturo e dimostra fami-
( ) Il merito principale di una tale equilibrata operazione culturale va ricono-
30
sciuto a Massimo D’Antona (del quale v. principalmente gli scritti di diritto comunitario
e comparato del lavoro ora raccolti nel primo volume delle Opere, Milano 2000, p. 279
, Dopo
ss.). Esempi significativi, su problematiche recenti, sono, fra gli altri, M. B
ARBERA , Il
Amsterdam. I nuovi confini del diritto sociale comunitario, Brescia 2000; B. C ARUSO
contratto collettivo europeo, in Diritto privato comunitario, vol. II, Lavoro, impresa e
, Napoli 1997 ed anche Alla ricerca della ‘flessibilità mite’: il
società, a cura di V. R IZZO , Nel
terzo pilastro delle politiche del lavoro comunitarie, Dir. Rel. Ind. 2000; B. V
ENEZIANI
nome di Erasmo da Rotterdam. La faticosa marcia dei diritti sociali fondamentali nell’or-
dinamento comunitario, Riv. Giur. Lav. 2000, p. 779 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
440 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
liarità con le fonti europee. I titoli dei manuali segnalano coraggio
nell’accogliere una terminologia che riflette la volontà di contribuire
a creare i principi fondatori di un ordinamento comunitario del
). Né va sottovalutata
lavoro, ancorché incompleto ed impreciso (
31
l’attenzione dedicata alla giurisprudenza della Corte di giustizia,
), sia accorpando filoni
proposta sia secondo un metodo casistico (
32
interpretativi e valutandone criticamente l’impatto su grandi settori
).
della materia (
33
Su questo sfondo informato ed anche variegato, quanto alle
opzioni metodologiche e di politica del diritto adottate, scorrono
gli anni novanta, caratterizzati, come è stato efficacemente scritto,
da un ‘miscuglio tra l’obiettivo di non incrinare il consenso sociale
e il desiderio di introdurre misure di deregolamentazione e di
). Il dibattito politico fu segnato da una contrappo-
flessibilità’ (
34
sizione ideologica talvolta assai dura, che puntava a destabilizzare
la scelta europea, descrivendola come sbilanciata, a causa dell’as-
senza di politiche occupazionali nelle linee-guida sulle politiche
). L’instabilità
macroeconomiche emanate dal Consiglio europeo ( 35
dell’economia italiana non lasciava, nei fatti, ampi margini di
trattativa nelle sedi europee e l’austerità fu apprezzata come una
scelta necessaria dai protagonisti più consapevoli, incluse le orga-
).
nizzazioni sindacali (
36
( ) M. R e T. T , Diritto del lavoro della Comunità europea, Padova
31 OCCELLA REU G , B. C , M. D’A , S. S ,
1992 (III edizione 2002); A. B
AYLOS RAU ARUSO NTONA CIARRA
, Il diritto del lavoro
Dizionario di diritto del lavoro comunitario, Bologna 1996; G. A
RRIGO , Il lavoro, in
dell’Unione europea, vol. I, Milano 1998 e vol. II, Milano 2001; R. F
OGLIA
, Il diritto privato dell’Unione Europea,
Trattato di diritto privato, diretto da M. B ESSONE
vol. XXVI, Tomo II, Torino 1999.
) M. R , Diritto comunitario del lavoro. Casi e materiali, Torino 1999,
( 32 OCCELLA
II ed. ) M. R , La Corte di giustizia e il diritto del lavoro, Torino 1997; R.
( 33 OCCELLA
, L’attuazione giurisprudenziale del diritto comunitario del lavoro, Padova 2002.
F OGLIA ) M. F e E. G , Salvati dall’Europa? Welfare e lavoro in Italia fra
(
34 ERRERA UALMINI
gli anni ’70 e gli anni ’90: le riforme fatte e quelle che restano da fare, Bologna 1999,
e C.M. R , Italian Political Science and the
p. 95. Si veda anche M. G
IULIANI ADAELLI
European Union, Journal of European Public Policy 1999, p. 517 ss.
) Come ricorda un giuslavorista protagonista delle vicende politiche di quegli
(
35 , Politiche del lavoro, cit., p. 84 ss.
anni. Si veda T. T
REU
) L. B , Concertazione e contrattazione, Bari 1999, p. 64 ss.; L. B ,
( 36 ELLARDI ORDOGNA
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 441
SILVANA SCIARRA
Ai costi da pagare per l’ingresso in Europa, ma anche ai vantaggi
di lungo periodo che da una tale scelta era verosimile aspettarsi, si
può far risalire una errata biforcazione delle posizioni assunte dai
giuslavoristi italiani. Comincia a svilupparsi in quegli anni un atteg-
giamento sotteraneo che si avvicina molto al senso di colpa. Non
deve sorprendere questa metafora cosı̀ poco vicina al linguaggio
giuridico. Essa verrà riproposta nelle conclusioni di questo mio
contributo per affermare che anche i giuristi possono soffrire per le
proprie scelte represse e giungere ad esternare, specie nel ruolo di
consiglieri del legislatore, comportamenti dettati da un incombente
senso di inadeguatezza, più che da una interpretazione coerente del
sistema di norme da riformare.
Il tracciato di avvicinamento all’Europa viene talvolta utilizzato
per formulare una critica esasperata del sistema di diritto del lavoro,
quasi a voler bruciare le tappe per conquistare rapidamente la meta,
credendo in tal modo di poter emulare i paesi ritenuti più forti ed
efficienti.
In questo atteggiamento che si può definire di rincorsa dell’Eu-
ropa si cela, come dirò dopo, un equivoco di fondo ed una forzatura
del ruolo innovatore del giurista del lavoro. Nel rincorerre la meta si
rischia di piegare il metodo comparato a finalità contingenti, conta-
minando l’analisi giuridica con opzioni passeggere, talvolta lette in
chiave esageratamente ideologica.
Ciò che invece non va perso di vista, anche nell’urgenza di
adeguare l’ordinamento interno ad un contesto sovranazionale, è il
ruolo delle tradizioni nazionali, vero e proprio contrappeso nel
bilanciamento dei poteri e delle competenze legislative.
A ben guardare, gli anni novanta segnano l’avvio deciso di un
processo dinamico di apprendimento — e non di mera dipendenza
— dall’Europa, che si esplicita anche in un lento adeguamento delle
strutture burocratiche dei Ministeri ed in generale dell’apparato
burocratico coinvolto nell’attuazione delle politiche di risanamento.
Non è casuale che anche le opzioni privilegiate nella comparazione
con altri ordinamenti slittino dagli Stati Uniti, ritenuto in prece-
Unione monetaria e relazioni industriali in Europa, in Stato e Mercato, 1996, p. 467 ss.;
, Il Protocollo sul costo del lavoro e l’“autunno freddo” dell’occupazione, ora
M. D’A
NTONA
in Opere, vol. II, Milano 2000.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
442 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
denza il modello da imitare per dinamismo del mercato e assenza di
vincoli eccessivi, all’Olanda, paese considerato vincente sul piano
della combinazione di flessibilità e tutela nelle riforme del mercato
del lavoro ( ).
37
Emblematica, a questo riguardo, è la vicenda legislativa del
lavoro part-time. Il ‘miracolo olandese’ è stato invocato da più parti
come l’esempio da seguire per incrementare l’occupazione attra-
verso il ricorso a forme di lavoro flessibile, estrapolando un po’
surrettiziamente questo dato dal contesto generale del sistema di
relazioni industriali, caratterizzate in quel paese da un alto tasso di
concertazione e di consenso. Piuttosto che miracoloso, il caso
olandese è stato descritto dagli studiosi più accreditati di quel
fenomeno, come ‘fortuito’, ovvero non del tutto prevedibile nei suoi
risvolti di crescita occupazionale, in quanto riconducibile allo spon-
taneo ritorno nel mercato di un alto numero di lavoratrici madri ( ).
38
Il riferimento al caso olandese come caso da imitare è dunque da
ricondurre nell’alveo di una corretta analisi comparata, utile a
dimostrare gli effetti benefici di una flessibilità concordata, oltre che
tutelata, nel rispetto delle tradizioni nazionali ( ).
39
2. Il linguaggio sincronico del diritto del lavoro. Alla ricerca di una
destinazione europea.
Nel tentativo non facile di selezionare gli avvenimenti che più
hanno caratterizzato l’emersione del diritto del lavoro quale com-
ponente autonoma ed originale delle politiche sociali europee, si
( ) Questo rilievo pienamente da condividere è di F e G , Salvati,
37 ERRERA UALMINI
cit., p. 131 ss., i quali osservano che gli ‘architetti’ del risanamento erano all’interno del
Ministero del Tesoro e della Banca d’Italia ed i ‘costruttori’ si collocavano nel ceto
politico più aperto ed attento, nonché fra i gruppi di interesse, con carattersitiche di forte
interdipendenza.
) J. V e A.C. H , ‘A Dutch Miracle’. Job Growth, Welfare Reform
( 38 ISSER EMERIJCK
and Corporatism in the Netherlands, Amsterdam Univ. Press 1997. Il fenomeno non è
limitato all’Olanda, ma riscontrato in molti paesi dell’OCSE nel corso degli anni ottanta.
) Questo tentativo viene proposto in S. G , S. S , Introduzione a La
(
39 IUBBONI CIARRA
regolamentazione del part-time in Europa, in “Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind.”, n. 4 del 2000,
F sul caso italiano. Il progetto
ed ivi pure — nello stesso senso — l’analisi di A. L
O ARO
di ricerca in questione si basa sullo studio della legislazione in materia di part-time in
sette paesi dell’UE.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 443
SILVANA SCIARRA
rischia di trascurare i dettagli o di apparire poco attenti rispetto al
significato di taluni passaggi intermedi. La consapevolezza di correre
questo rischio si contrappone alla curiosità di verificare se esiste una
dimensione linguisticamente sincretica della materia nella sua ormai
acquisita valenza europea. Per convincere chi legge che è opportuna
la scelta in favore della curiosità, piuttosto che della completezza,
occorre segnare qualche punto di riferimento nelle diverse fasi di
avanzamento dell’integrazione europea.
Non vi è dubbio che l’avvio del mercato unico, nella seconda
metà degli anni ottanta, impresse un ritmo più incalzante agli
adempimenti degli Stati Membri, grazie ad un sistema più compe-
titivo, in grado di stimolare il miglioramento progressivo delle
politiche pubbliche. Si spiega in questi termini un forte ridimensio-
namento dell’armonizzazione per fare spazio al mutuo riconosci-
mento, una tecnica regolativa che, meglio di altre, assolve al compito
di formalizzare gli standard di tutela, con il rischio non marginale di
).
abbassarne il livello e l’intensità (
40
Anche se si rivendica all’Italia un ruolo non secondario nell’aver
messo in moto gli ingranaggi istituzionali che condussero alla stipu-
lazione dell’Atto unico ( ), è pur vero che le implicazioni di tali
41
scelte su piani di intervento molto specifici non erano chiare se non
ad una minoranza di addetti ai lavori. Gli studi della Commissione
per aprire le frontiere nazionali e consentire la libera circolazione
delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali, furono per certi
aspetti anticipati dalle mosse strategiche delle grandi società multi-
( ) Fra gli autori italiani si veda, per tutti, A. L F , Funzioni e finzioni della
40 O ARO
contrattazione collettiva comunitaria. La contrattazione collettiva come risorsa dell’ordi-
namento giuridico comunitario, Milano 1999, p. 66, che parla del mutuo riconoscimento
come ‘alternativa’ e non ‘variante tecnica’ dell’armonizzazione e mette in guardia dalle
possibili ‘derive deregolative’ conseguenti ad una tale opzione. In generale si rinvia a F.
, Governare l’Europa. Legittimità democratica ed efficacia delle politiche del-
S CHARPF
l’Unione europea, trad. it., Bologna 1999, per un’ampia disamina dell’integrazione
negativa e delle sue implicazioni nei processi di integrazione.
) Come ricordato da T. P S , Europa, cit., p. 106, nel Consiglio
(
41 ADOA CHIOPPA
Europeo di Milano del 1985 l’allora presidente del Consiglio Craxi ed il ministro degli
esteri Andreotti adottarono a sorpresa il voto a maggioranza qualificata per avviare la
Conferenza intergovernativa che poi approdò nella revisione del Trattato con l’Atto
unico europeo. Si veda anche la ricostruzione dettagliata di quegli avvenimenti fatta da
, L’Europa difficile, Bologna 1993, p. 279.
B. O LIVI © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
444 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
nazionali, anche italiane ( ). Le politiche sociali ancora una volta
42
rimasero marginali rispetto all’obiettivo di fondo, ma rientrarono nel
programma a lunga scadenza di Delors, già proteso verso le più
significative riforme di Maastricht. La risposta a problemi non risolti
all’interno di ciascuno stato veniva cercata nell’espansione del mer-
cato europeo, lasciando aperti i dibattiti nazionali che ribadivano
).
l’urgenza di rivedere le regole di fondo dei sistemi sociali (
43
Nelle varie fasi di avanzamento dell’integrazione europea il
diritto del lavoro ha trovato ostacoli apparentemente insormontabili
nel vincolo delle decisioni all’unanimità. Ha dovuto convivere, dopo
l’entrata in vigore dell’Atto unico europeo, con una prospettiva di
sviluppo relegata alla materia della sicurezza e della salute, unico
spiraglio aperto alle decisioni da prendersi a maggioranza qualifi-
cata. L’armonizzazione nel progresso fu posta come obiettivo da
perseguire nell’emanazione di direttive in questa materia. Il linguag-
gio originario del Trattato istitutivo — il vecchio art. 117 — fu
riproposto con impercettibili cambiamenti, nella convinzione, tra-
scinatasi fino alla seconda metà degli anni ottanta, che dal buon
funzionamento del mercato potessero scaturire sistemi sociali armo-
nizzati.
Vi fu poi la stagione dell’apertura del diritto comunitario alle
fonti collettive, avviata dal Trattato di Maastricht e consolidata con
quello di Amsterdam. L’ingresso delle parti sociali sulla scena delle
politiche sociali comunitarie ha complicato — ma anche enorme-
mente arricchito — il processo decisionale, vincolando la Commis-
sione a stringenti oneri di consultazione. Gli accordi collettivi,
soprattutto quelli a cui pervengono le parti sociali a livello europeo,
in un processo autonomo di formazione della volontà collettiva,
furono concepiti — anche se cosı̀ non è accaduto nella pratica —
quali fonti vincolanti, in alternativa alla legge. Si trattò di un
significativo passo avanti, anche se le concrete implicazioni sul piano
( ) Utile la ricostruzione delle posizioni dei maggiori gruppi industriali fatta da
42 , Trading Places, Londra 1988, p. 30 ss.
J. P
ALMER
) Fu la rapidità impressa al progetto del mercato unico che sottrasse ‘il
( 43
dibattito economico alle polemiche fra destra e sinistra’, sotto la guida di una sinistra
, I
francese molto propensa ad avviare il progetto della moneta unica. Cosı̀ C. M
AIER
fondamenti politici del dopoguerra, in Storia d’Europa, vol. I, Torino 1993, p. 364-366.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 445
SILVANA SCIARRA
dell’ordinamento interno non furono immediatamente visibili in
).
Italia come in altri Stati membri (
44
Queste importanti tappe dell’integrazione europea sono con-
trassegnate da una crescente presa di coscienza da parte dei giuristi
del lavoro. Da un lato vi è l’urgenza di avvicinarsi alle fonti europee
in modo consapevole e se necessario critico della ‘europeizzazione’
degli ordinamenti nazionali. Dall’altro si avverte, quasi come una
forza contrapposta, l’esigenza di ritornare ai significati profondi del
).
diritto nazionale e dunque di favorirne una ‘rinazionalizzazione’ (
45
Nel ritorno alle radici si nasconde, tuttavia, una ambivalenza di
fondo: nell’affermare punti di vista interni, nell’illustrare le ragioni
storiche che ne confermano la validità, nel battersi per soluzioni
coerenti con l’impianto territoriale della materia, si è consapevoli
che i vincoli esterni posti dall’Europa sono, nella gran parte dei casi,
ineludibili.
Dalla ‘rinazionalizzazione’ si passa a quella che si può descrivere
come ‘ri-europeizzazione’, ovvero ri-consegna all’Europa di un mo-
dello nazionale modificato a causa della pressione posta dalle istitu-
zioni sovranazionali e tuttavia confezionato secondo canoni nazio-
nali. La strategia di delegare all’Europa, soprattutto attraverso il
canale dei rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia ( ), la soluzione
46
di problemi domestici altrimenti non risolvibili, si confonde, in tal
modo, con l’opposta strategia di porre sui legislatori nazionali il peso
gravoso di sentenze che da Lussemburgo si espandono e penetrano
nei confini degli ordinamenti nazionali.
La formula più adatta per descrivere questo intenso scambio di
( ) S. S , Collective Agreements in the Hierarchy of European Community
44 CIARRA
, A. L -C , S. S , S. S , European Community Labour
Sources, in P. D
AVIES YON AEN CIARRA IMITIS
Law. Principles and Perspectives Liber Amicorum Lord Wedderburn, cit., p. 189 ss. Gli
accordi quadro stipulati dalle parti sociali a livello europeo sono stati fino ad ora tutti
trasposti in direttive del Consiglio, anche se quest’ultimo non ne altera il contenuto e si
limita ad allegarli alla direttiva.
) S. S , Europeizzazione o rinazionalizzazione del diritto del lavoro?, in
( 45 IMITIS
“Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind.” 1994, p. 639 ss.
) J. W , Journey to an Unknown Destination: a Retrospective and Prospec-
( 46 EILER
tive of the European Court of Justice in the Arena of Political Integration, in “Journal of
Common Market Studies”, 1993, p. 422, parla di ‘giuridificazione’ delle controversie
giudiziali e sottolinea lo scambio che i rinvii pregiudiziali avviano fra gli stati, in modo
diverso dai normali rapporti diplomatici.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
446 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
punti di vista e di messaggi politicamente pregnanti è quella del
), sia fra le corti nazionali e la
dialogo, sia fra gli ordinamenti ( 47
). Altre formule sono quelle della ‘collaborazio-
Corte di giustizia ( 48 ). Entrambe segnalano l’opportu-
ne’ ovvero della ‘cooperazione’ ( 49
nità, specie nel rapporto fra le corti, di usare il diritto europeo come
strumento di integrazione, talvolta scavalcando il legislatore nazio-
nale al fine di accellerare il processo di concreta attuazione della
norma sovranazionale.
Nel campo del diritto del lavoro, l’attivismo delle corti ha fatto
emergere interessanti risultati, tanto più se interpretati in chiave
comparata ed orientati ad evidenziare il ruolo ‘strategico’ di altri
soggetti, quali agenzie amministrative, enti di varia natura o studi
).
professionali specializzati (
50
Prima ancora di venire metaforicamente adottata dalla dottrina
per descrivere l’andamento dei rapporti fra Stati membri ed istitu-
zioni europee a vari livelli, dialogo è espressione che figura anche fra
le innovazioni introdotte dall’Atto Unico Europeo. Il ‘dialogo tra le
) aprı̀ la strada a successivi esperimenti di negozia-
parti sociali’ ( 51
zione collettiva e, quel che più interessa sottolineare, evidenziò il
( ) Questa la scelta fatta dall’Associazione italiana di diritto del lavoro nelle
47
giornate di studio di Pavia del 1992: Il dialogo fra ordinamento comunitario ed ordina-
mento nazionale del lavoro, Milano 1994, con relazioni di F. Santoni, S. Sciarra, R. Foglia
e L. Forlati Picchio.
) A.M. S , A. S S , J. W , The European Courts and
( 48 LAUGHTER TONE WEET EILER
(a cura di), Labour Law in the Courts. National
National Courts, Oxford 1997; S. S
CIARRA
Judges and the European Court of Justice, Oxford 2001. Parla dei giudici nazionali come
, Sistema giuridico comunitario, ora in Opere,
se fossero giudici ‘federali’ M. D’A NTONA
vol. I, cit., p. 377. Si vedano anche in tema gli interventi raccolti in Lavoro e diritto 1998,
n. 3-4. ) Di ‘collaborazione’ parlano G. e A. L -C , Droit Social International et
( 49 YON AEN
européen, cit., p. 173, mentre il concetto di ‘cooperazione’ è dominante nel pensiero di
, The European Court of Justice, National Courts and the Member States, in P.
P. D AVIES
et al. European Community, cit., p. 98 ss.
D
AVIES ) Specialmente in materia di parità uomo-donna, la ricerca comparata eviden-
(
50
zia comportamenti diversi delle corti nazionali e trae originali conclusioni circa il ruolo
di altri soggetti strategicamente orientati nell’‘usare’ il diritto europeo. Si veda C.
, Gender Equality: a Fundamental Dialogue, in S. S (a cura di), Labour
K ILPATRICK CIARRA
law, cit., p. 31 ss.
) Art. 118 B, introdotto dall’art. 22 dell’AUE. Ancora di facilitazione del
(
51
dialogo da parte della Commissione e di dialogo che può condurre alla contrattazione
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 447
SILVANA SCIARRA
ruolo di norme non vincolanti, ma meramente orientative, volte ad
attrarre nell’orbita di un potere di indirizzo e di sollecitazione della
Commissione soggetti ancora privi di una specifica identità istitu-
zionale, quali erano per l’appunto le ‘parti sociali’.
La terminologia prescelta in quegli anni dai riformatori del
Trattato rispecchia una prassi favorita all’interno di ambienti elitari,
lontana dai soggetti collettivi rappresentativi dei datori di lavoro e
dei lavoratori a livello nazionale, una prassi del tutto estranea alla
frequentazione del conflitto come sanzione collettiva di autotutela.
L’esclusione del ‘diritto di associazione’ ed anche del ‘diritto di
) serve a
sciopero e di serrata’ dalle competenze comunitarie ( 52
rimarcare, ancora oggi, la profonda diversità del contesto istituzio-
nale in cui si calano i germi di un ancora indefinto diritto del lavoro
collettivo sovranazionale. Non si può non evocare, a questo ri-
guardo, l’accorata notazione di Lord Wedderburn, preoccupato da
una tale ‘contraddizione nel cuore della Comunità’ ( ), tutt’oggi
53
irrisolta e solo in parte attenuata dalla menzione di entrambi i diritti
prima richiamati nella Carta dei diritti fondamentali approvata a
Nizza ( ).
54
Quanto al diritto del rapporto individuale di lavoro, esso è
sorretto a livello europeo da alcuni flebili, seppure significativi,
principi. Questi includono, a voler fare alcuni esempi, una reticolare
legislazione in tema di salute e sicurezza ( ), l’obbligo del datore di
55
lavoro di informare il lavoratore circa le condizioni applicabili al
contratto o al rapporto di lavoro ( ), la tutela dei lavoratori nelle
56
crisi d’impresa ( ).
57
collettiva si parla nelle norme contenute nel ‘Capitolo sociale’ allegato al Trattato di
Maastricht ed incluso, dopo Amsterdam, nel Trattato.
) Già presente nel ‘Capitolo sociale’ allegato al Trattato di Maastricht ed ora
( 52
nell’art. 137 del Trattato di Nizza. Un’ampia ricognizione dei problemi interpretativi
, Sciopero e servizi pubblici essenziali nel processo di
ancora aperti è in G. O
RLANDINI
integrazione europea. Uno studio di diritto comparato e comunitario, Torino, 2003.
) Lord W , Employment Rights in Britain and Europe, London 1991,
(
53 EDDERBURN
p. 332. ) Pubblicata in GUCE C 364/1, del 18 dicembre 2000.
(
54 ) Di cui non si può in una sola nota dar conto, ma che prende origine dalla
( 55
Direttiva quadro 89/391 CEE.
) Direttiva 91/533/CEE, 14 ottobre 1991.
( 56 ) Direttiva 98/59 CE del 20 luglio 1998, che adegua la disciplina dei licenzia-
( 57 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
448 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Più variegato è il campo della normativa europea che vieta la
discriminazione, specialmente a seguito dell’inserimento nel Trat-
tato di Amsterdam dell’art. 13 e dell’emanazione di direttive a più
ampio spettro, se confrontate con le prime direttive in materia di
). Si va delinando a questo proposito
parità fra uomo e donna ( 58
un’area di intervento legislativo cosı̀ vasta da rendere necessario un
coordinamento delle politiche legislative, anche per evitare che
).
taluni soggetti ricevano più tutela di altri ( 59
Vi è poi da menzionare la legislazione in materia di informa-
zione e consultazione, dapprima limitata ai comitati aziendali euro-
), poi affiancata alla disciplina della società europea ( ), infine
pei (
60 61
formulata nel senso di istituire un quadro generale sulle regole
).
minime per l’esercizio generalizzato di tali diritti (
62
Come si vede, siamo in presenza di un sistema frastagliato,
difficilmente proiettabile nel futuro, quanto ad una sua potenziale
espansione. Proprio per l’assenza di un suo respiro unitario, il
sistema europeo di diritto del lavoro continua ad essere non com-
parabile con i sistemi nazionali. Questi ultimi hanno difeso ampie
aree di sovranità anche a causa della difficoltà di riversare sul livello
sovranazionale l’ansia di cambiamento della materia. Un esempio
significativo è quello della libera circolazione dei lavoratori, una
delle aree di elezione del diritto europeo fin dalle sue origini, stretta
nei vincoli delle decisioni all’unanimità e pertanto ferma all’impo-
).
stazione originaria (
63
menti collettivi risalente agli anni settanta; Direttiva 77/187/CEE del 14 febbraio 1977
e Direttiva 2001/23/CE del 12 marzo 2001, entrambe in materia di trasferimenti
d’impresa; Direttiva 2002/74/CE, del 23 settembre 2002, che modifica la Direttiva
80/987/CEE concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative
alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro.
) V. la Direttiva 2000/43/CE, del 29 giugno 2000, che vieta la discriminazione
( 58
per razza ed origine etnica e la Direttiva quadro 2000/78/CE, del 27 novembre 2000, in
materia di occupazione e condizioni di lavoro.
) Come sostenuto da M. B , Anti-Discrimination Law and the European
( 59 ELL
Union, Oxford 2002, p. 210 ss.
) Direttiva 94/45/CE, del 22 settembre 1994.
(
60 ) Regolamento n. 2157/2001, dell’8 ottobre 2001.
( 61 ) Direttiva 2002/14, dell’11 marzo 2002.
( 62 ) Importante appare la preannunciata riforma del Regolamento 1408/71 e la
( 63 -H ,
sua estensione a cittadini di stati terzi legalmente residenti. Cfr. A. N
UMHAUSER ENNING
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 449
SILVANA SCIARRA
Piuttosto che avallare un atteggiamento della dottrina giuslavo-
rista ostinatamente critico — e talvolta distruttivo — nei confronti
dell’ordinamento europeo e dei suoi limiti istituzionali, è utile
evidenziare come la stessa dottrina si sia esercitata nell’intento di
colmare le lacune dell’ordinamento europeo.
Un primo esempio si rintraccia nell’intenso dibattito sui diritti
sociali fondamentali che, specie negli anni intercorsi fra il Trattato di
Maastricht e quello di Amsterdam, ha visto i giuristi del lavoro attivi
e propositivi, per lo meno quanto lo sono state le istituzioni euro-
). Da questa stagione assai vivace e proficua per il confronto
pee (
64
scientifico emerge un dato centrale su cui riflettere. Sia pure nella
diversità dei toni adottati e nelle sfumature circa le soluzioni tecni-
che da favorire, si rivela sulla scena sovranazionale l’anima riformista
del diritto del lavoro, quella che, a ben vedere, è stata vincente negli
anni di fondazione della materia e che proprio dal metodo giuridico
comparato ha tratto una indiscutibile forza propulsiva.
Un altro esempio, anch’esso collocato sul finire degli anni
novanta, ha a che fare con uno straordinario e ben riuscito esperi-
mento di collaborazione fra esperti di diversa estrazione nazionale e
disciplinare, volto a ridisegnare i confini della materia, intrecciando
in modo nuovo diversi regimi di tutela e proponendo uno ‘statuto
) ha avuto il merito di
professionale’ del lavoro. Il rapporto Supiot (
65
Freedom of Movement and Transfer of Social Security Rights, Relazione presentata al VII
Congresso Europeo dell’Associazione Internazionale di diritto del lavoro e sicurezza
sociale, Stoccolma 2002.
) Oltre ad un primo pamphlet (B , H , S , W , Fundamental
(
64 LANPAIN EPPLE CIARRA EISS
Social Rights, Proposals for the European Union, Leuven 1996), si deve ricordare il
gruppo di giuristi del lavoro attivi intorno all’Istituto di ricerca del sindacato europeo
, D , K , K , M , S , V , A Ma-
(B
ERCUSSON EAKIN OISTINEN RAVARITOU UCKENBERGER UPIOT ENEZIANI
nifesto for Social Europe, Bruxelles ETUI 1996). Ma soprattutto si deve evidenziare il
‘tocco’ giuslavoristico impresso da S. Simitis, chiamato, in un momento maturo del
dibattito, a presiedere un importante Comitato di esperti. Cfr. Commissione Europea,
Per l’affermazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea: è tempo di agire. Rapporto
del gruppo di esperti sui diritti fondamentali, Bruxelles, febbraio 1999.
) Au-delà de l’emploi. Transformations du travail et devenir du droit du travail
(
65
en Europe, Parigi 1999. Presieduto da un giuslavorista, Alain Supiot, il gruppo ha redatto
un rapporto per la Direzione degli affari sociali della Commissione, utilizzando l’Uni-
versità Carlos III di Madrid come base logistica. La versione inglese è pubblicata da
Oxford University Press (2001).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
450 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
risvegliare il dibattito europeo e di convogliare molti dibattiti nazio-
nali verso una riflessione innovativa. L’Europa, in questo caso, ha
rappresentato uno stimolo per gli ambienti accademici, chiamati a
riflettere sui principi e sul metodo, piuttosto che su impellenti
scadenze legislative.
Ciò che spinge il giurista del lavoro nazionale verso mete cosı̀
ambiziose — quali la riforma dei Trattati o la rivisitazione di alcune
importanti categorie giuridiche — è, molto probabilmente, l’ansia di
difendere il proprio sistema di valori costituzionali. Ma altrettanto
forte è la pulsione verso un sistema nuovo di diritti e principi, che
segni la sua stessa rinascita come giurista del lavoro europeo. Si può
interpretare in questo modo l’avvio di una nuova fase del diritto del
lavoro di fronte all’Europa: un futuro da comprendere e da costruire
avendo sempre più chiaro l’intreccio fra competenze legislative
nazionali ed europee. Questo è uno dei nodi istituzionali intorno a
).
cui si sta svolgendo il lavoro della Convenzione europea (
66
L’ambizione del giurista-riformatore dei Trattati si esplicita su
un piano diverso da quello del giurista-consigliere del legislatore
nazionale. Mentre si può immaginare che il primo proietti su una
futura fonte di rango costituzionale una conoscenza comparata dei
sistemi nazionali e giunga per questa via ad isolare le aree di diritti
meritevoli di una tutela forte, si può temere che il secondo, assillato
da un presente irto di compromessi, si allontani dalla visione di un
organico ordinamento futuro e si convinca di non poter contribuire
a crearlo. L’inadeguatezza, all’origine del senso di colpa, nasce da
questa sfasatura fra due piani di riforma — quello sovranazionale e
quello nazionale — che dovrebbero, al contrario, correre paralleli.
3. Diritto del lavoro e ‘sensi di colpa’. Alla ricerca di un equilibrio
delle fonti.
In uno dei tanti spunti psicanalitici che si incontrano nelle
pagine di Lord Wedderburn si legge che l’opera di Kahn-Freund ha
( ) Il V gruppo di lavoro della Convenzione si è occupato delle competenze
66
‘complementari’ , che dovrebbero coprire aree rilevanti per salvaguardare l’identità degli
Stati Membri e che vengono ridefinite ‘misure di sostegno’ (la traduzione, di ‘supporting
measures’, è mia). Cfr. CONV 375/1/02 REV 1.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 451
SILVANA SCIARRA
lasciato in molti suoi interpreti un sentimento ambivalente di odio e
).
amore, simile a quello che i figli provano nei confronti del padre ( 67
Senza dubbio questa lacerante sensazione si ritrova nella diffi-
coltà di adeguare a tempi di crisi economica gli strumenti di analisi
che avevano sorretto gli sforzi ricostruttivi della dottrina giuslavori-
stica in tempi di espansione. Il peso delle teorie di Kahn-Freund si
era fatto sentire dapprima in termini di avanzamento del sistema di
diritto del lavoro — per l’Italia basti pensare allo Statuto dei
lavoratori come esempio fra i migliori in Europa di legislazione
auxiliary, ovvero di sostegno non invadente — e successivamente in
termini destabilizzanti — si pensi alla ridotta autonomia del sistema
di contrattazione collettiva ed ai difficili rapporti legge-contratto
collettivo negli anni successivi agli shock petroliferi —.
Questa osservazione si adegua a numerosi ordinamenti europei.
Il dopo-Kahn-Freund assunse i toni di una vera e propria catarsi nel
). La
dibattito che per lungo tempo occupò la dottrina britannica (
68
riflessione, non a caso, si orientò verso la ricerca delle origini della
materia e ne propose una rivisitazione. Questa ebbe, talvolta, le
caratteristiche di una scoperta rassicurante, quasi che vi fosse ur-
genza di contrapporre una solida tradizione di regole e di principi
).
alla dilagante ansia di intervento deregolativo (
69
In realtà, come ha recentemente scritto Mark Freedland in una
rilettura dei passaggi cruciali del pensiero di Kahn-Freund, il lento
declino del laissez-faire collettivo era già annunciato all’interno del
sistema britannico all’inizio degli anni settanta. La sua difesa, indi-
rizzata a preservare una forte autonomia dei soggetti collettivi e del
loro potere normativo, era nient’altro che ‘una battaglia di retro-
guardia’, a fronte della incalzante giuridificazione nella disciplina dei
rapporti di lavoro. Similmente, l’aver qualificato il diritto come forza
( ) Lord W , Common, law, labour law, global law, traduzione italiana
67 EDDERBURN
apparsa in “Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind.”, 2002, p. 4.
) R. L e J. C (a cura di), Labour Law and Politics in the Weimar
(
68 EWIS LARK , R. L , J. C ,
Republic. Otto Kahn-Freund, Oxford 1981; Lord W EDDERBURN EWIS LARK
Labour Law and Industrial Relations: Building on Kahn-Freund, Oxford 1983.
) In Italia una grande influenza in questa ricerca si deve a Gaetano Vardaro. Si
( 69
veda la sua introduzione, dal titolo Il diritto del lavoro nel ‘laboratorio Weimar’, in G.
e G. V (a cura di), Laboratorio Weimar: conflitti e diritto del lavoro nella
A RRIGO ARDARO
Germania pre-nazista, Roma 1982.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
452 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
secondaria nella regolamentazione dei rapporti di lavoro, piuttosto
che una professione di fede, era una ‘confessione’ accorata, una
ammissione silenziosa della incapacità dei giuristi progressisti di
proporre soluzioni durature contrapposte alle politiche legislative
).
dei conservatori (
70
Si potrebbe suggerire che anche l’Europa abbia insinuato un
simile sconcerto fra i giuristi del lavoro, contribuendo ad appannare
un loro ruolo di promotori della giustizia sociale. Essa potrebbe aver
mostrato i limiti della disciplina, spingendola in una zona grigia, in
cui è sempre più difficile distinguere il tocco innovatore da quello
conservatore, l’impianto garantista da quello liberista. Come se la
sindrome del giurista ebreo esule in Inghilterra, mai sazio di demo-
crazia e sempre alla ricerca di nuove conquiste intellettuali, talvolta
deluso dai passi lenti che proprio la democrazia, con l’alternanza dei
governi, impone all’evoluzione del diritto del lavoro, si fosse river-
sata sulle molte generazioni di giuristi del lavoro nazionali posti di
fronte all’Europa. Quasi che questi fossero stati progressivamente
‘esiliati’ in Europa, alla ricerca di nuove e vecchie radici.
In realtà non è cosı̀: l’Europa non è un esilio per il diritto
nazionale, né per i giuristi che lo coltivano. Sarebbe, tuttavia,
altrettanto fuorviante ritenere che essa sia una sorta di terra pro-
messa, una meta da raggiungere tagliando i ponti con il passato.
Non è un caso che fra coloro che più hanno favorito la diffu-
sione della comparazione come strumento di ampliamento degli
orizzonti di conoscenza e dunque di apertura all’Europa, si collo-
chino alcuni, come Lord Wedderburn, fra i più strenui sostenitori di
un punto di vista critico circa l’impatto del diritto europeo sul diritto
). In Francia l’invito a resistere intelligentemente alla
del lavoro (
71
‘infiltrazione’ del diritto della concorrenza nel diritto del lavoro
venne da una dottrina sensibile agli sviluppi del diritto europeo e,
( ) M. F , Sir Otto Kahn-Freund, QC FBA, 1900-1979, in corso di
70 REEDLAND
pubblicazione.
) Una selezione di saggi tradotti in italiano è in Lord W , I diritti del
( 71 EDDERBURN
lavoro, Milano 1998. Nella Prefazione a questo libro l’autore ricorda i ‘seminari di
Pontignano’, un’occasione di apprendimento e di pratica del diritto comparato per
giovani giuslavoristi, finanziata, tra l’altro, dall’Associazione italiana di diritto del lavoro.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 453
SILVANA SCIARRA
forse proprio per questo, attenta a cogliere le istanze nazionali di
).
valorizzazione dei principi costituzionali (
72
I due autori appena citati, vicini ancorché divisi dal Canale della
Manica, intrattennero un dialogo sulle pagine di una rivista italiana
intorno ad un tema che, specialmente a distanza di tempo, appare
emblematico. Nel commentare due sentenze della Corte di giustizia
di condanna del Regno Unito per aver omesso di recepire corretta-
mente nel diritto interno due direttive degli anni settanta — in
)
materia di trasferimento di impresa e di licenziamenti collettivi ( 73
— i due giuslavoristi presentano argomenti critici nei confronti del
legislatore britannico, quasi a voler stigmatizzare l’ostinato atteggia-
mento dei governi conservatori nei confronti dell’Europa sociale.
Il non corretto adempimento all’obbligo di trasposizione delle
direttive si manifestò, tra l’altro, nel non avere previsto la costituzione
di rappresentanti dei lavoratori da consultare ed informare. Imporre
un rappresentante ‘a cui dover dare conto delle proprie azioni’ —
sottolinea non senza ironia il commentatore francese — ‘è un’idea
). Ed inoltre, quando
totalmente estranea alla pura logica liberale’ (
74
si discute di direttive funzionali al funzionamento del mercato unico,
come è nel caso delle fonti in questione, si rischia di confondere il fine
con i mezzi, ingenerando confusione circa la divisione delle compe-
tenze, poiché dovrebbe spettare al legislatore nazionale la scelta delle
). Come dire che non c’è
modalità tecniche di tutela dei lavoratori (
75
da farsi troppa illusione circa i reali obiettivi delle direttive strutturali,
né circa la loro incisività sui sistemi nazionali.
Il ‘frammento’ di cui parla Lord Wedderburn, raccolto da
Lyon-Caen con una ironia tutta francese, è, soprattutto nell’ottica
( ) G. L -C , L’infiltration du Droit du travail par le Droit de la concurrence,
72 YON AEN , Diritti sociali, cit., cap.
in Droit ouvrier, 1992, p. 313 ss. Il tema è ripreso da S. G
IUBBONI
III, con numerosi riferimenti alla giurisprudenza della Corte di giustizia che ha solleci-
tato una lettura critica — ma non animata da pregiudizi — del diritto del lavoro in
relazione al diritto europeo della concorrenza.
) C-382/92 e C-383/92, dell’8 giugno 1994, commentate da G. L -C , Il
(
73 YON AEN
, Il diritto
Regno Unito: allievo indisciplinato o ribelle indomabile, e da Lord W EDDERBURN
del lavoro inglese davanti alla Corte di giustizia. Un frammento, in “Giorn. Dir. Lav. Rel.
Ind.”, 1994, p. 663 ss.
) Cosı̀ G. L -C , Il Regno Unito, cit., p. 689.
( 74 YON AEN
) Ivi, pp. 680-81.
(
75 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
454 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
britannica, il simbolo di una contraddizione del diritto del lavoro
europeo ancora molto viva. Wedderburn non abbandona l’idea che,
per correggere lo squilibrio fra le parti del contratto di lavoro,
occorra, in primo luogo, dar voce ai lavoratori attraverso loro
rappresentanti. Egli è consapevole del profondo radicamento di
queste istituzioni nei sistemi nazionali e dell’impossibilità di tra-
sporle attraverso direttive. Una tale consapevolezza va al cuore di
uno squilibrio fra diritti sociali e mercato che solo una rivisitazione
del sistema delle fonti può sanare.
Quel dialogo fra due studiosi attenti a mantenere un equilibrio
fra fonti nazionali e sovranazionali avrebbe forse fatto fremere
Kahn-Freund, per la ritrovata vis polemica di un giuslavorismo
progressista e nel contempo attento nel calibrare gli effetti del
cambiamento. Quel dialogo trasmette ai lettori contemporanei la
convinzione che gli effetti propulsivi del diritto europeo nei con-
fronti del diritto nazionale non possano non tenere conto delle
circostanze in cui ciascun ordinamento si trova ad operare e del peso
— o dell’assenza — delle istituzioni che in quell’ordinamento ope-
rano.
A ben vedere, le misure di cui si parla hanno a che fare con
l’esercizio di una libera iniziativa economica da parte delle imprese.
I limiti sopportabili, provenienti sia dal diritto europeo sia dal diritto
interno, sono di natura squisitamente procedurale e mirano ad un
ridimensionamento — non necessariamente ad una rimozione —
degli effetti, anche traumatici, subiti dai lavoratori. La distorsione
della libera concorrenza nel mercato può essere corretta solo per via
legislativa ed è per questo che quella tecnica regolativa non è stata
abbandonata. Gli interventi di ammodernamento su entrambe le
)
materie regolate dalle precedenti direttive degli anni settanta (
76
stanno a dimostrare che non è stata dismessa l’impostazione tradi-
zionale del legislatore comunitario, volta al riavvicinamento delle
( ) Direttiva 98/59 CE, del 20 luglio 1998; Direttiva 2001/23 CE, del 12 marzo
76
2001, che modifica, soprattutto alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia, la
precedente direttiva. Entrambe le direttive, come le precedenti, hanno come base
giuridica l’art. 100 TCE, divenuto poi l’art. 94. Sulla stessa base giuridica si fonda la
disciplina di tutela dei lavoratori in caso di insolvenza dei datori di lavoro: v., ora, la già
ricordata Direttiva 2002/74/CE.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 455
SILVANA SCIARRA
legislazioni nazionali nelle materie che più da vicino interessano il
funzionamento del mercato interno.
Negli anni novanta, quando la mancata crescita economica si
svela nei suoi allarmanti aspetti di crisi occupazionale e di crescente
esclusione sociale, si tocca con mano l’inadeguatezza delle prece-
denti tecniche regolative.
Si assiste cosı̀ ad una doppia crisi del diritto del lavoro: quella
interna ai sistemi nazionali, incapaci sia di arrestare l’incremento
della disoccupazione sia di creare nuovo lavoro, quella esterna e
tuttavia parallela che è alimentata dalla debolezza delle fonti comu-
nitarie e dalla mancanza di una intima coerenza nell’impianto dei
diritti fondamentali.
Sulla scorta di cosı̀ tante incertezze, quasi inconsciamente, a voler
usare un’altra metafora psicanalitica, i gius-lavoristi si sono aperti alla
comprensione di una nuova fase del diritto europeo. Lo hanno fatto
con circospezione, talvolta con sospetto, talaltra con entusiasmo da
neofiti. I più disincantati non hanno coltivato troppe illusioni, forse
perché consapevoli delle difficoltà intrinseche in una comparazione
diacronica e convinti che il rinnovamento dei sistemi nazionali, nean-
che nelle nuove circostanze politiche ed istituzionali venutesi a creare,
sarebbe stato effetto diretto dell’Europa, quanto piuttosto frutto di
mediazioni ancora più complesse a causa dell’Europa.
Nel governare questa nuova complessità e nel comprendere i
nessi fra sistemi giuridici operanti contemporaneamente su più
livelli, le raffinate categorie interpretative adottate nella cerchia dei
giuristi più aperti ad esperienze comparate non sono meccanica-
mente riproponibili. La teoria del laissez faire, se intesa come
benefico arretramento dello stato a fronte di un autonomo potere
normativo dei soggetti collettivi, si presenta ulteriormente indebolita
di fronte al sistema europeo. Si è constatato che all’emergente diritto
del lavoro comunitario era problematico adeguare — se non con il
) — l’analisi e la pratica del diritto del
ricorso ad una ‘finzione’ (
77
lavoro nazionale, specialmente nei suoi risvolti collettivi.
( ) A. L F , Funzioni e finzioni, cit., fa riferimento prevalentemente alla
77 O ARO
contrattazione collettiva comunitaria, priva di un fondamento costituzionale e ridotta a
mera tecnica regolativa. Similmente cauta nel proporre assonanze fra sistemi nazionali di
, Il
contrattazione collettiva e l’emergente sistema del dialogo sociale è F. G
UARRIELLO
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
456 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
Anche il pluralismo delle fonti, una ingombrante eredità tra-
mandata dal diritto del lavoro nazionale, ha subı̀to nel contesto
europeo un drastico ridimensionamento. Il diritto del lavoro comu-
nitario ha progressivamente imparato ad apprezzare la soft law, un
diritto non vincolante, espresso attraverso indicazioni, piuttosto che
comandi. I deboli principi contenuti nella hard law sono stati via via
affiancati da una rete pervasiva di segnali inviati dalle istituzioni
comunitarie agli Stati Membri e gestiti frequentemente da apparati
ministeriali, dapprima in modo occasionale, in seguito con una
).
crescente specializzazione (
78
Il diritto del lavoro nazionale ha cominciato cosı̀ a stemperarsi
nel contesto europeo, ad assumere connotati più sfumati: non
necessariamente uno strumento di emancipazione sociale, né un
coerente sistema di garanzie per il contraente debole, ma un ingre-
diente di altre strategie, in particolare delle politiche occupazionali
e di inclusione sociale.
Nel confronto fra discipline diverse, all’immagine del dialogo,
prima suggerita, si sostituisce quella del coordinamento, una tecnica
regolativa sempre più diffusa, anche perché funzionale al clima
politico-culturale avviato dalla Commissione con il Libro bianco
). Quest’ultimo documento ha inteso anticipare il
sulla governance (
79
dibattito sulle riforme istituzionali diffondendo ad ampie mani una
cultura della consultazione e del dialogo, estesa anche alla società
civile, espressione in cui rientrano a pieno titolo sia il Comitato
economico e sociale, sia le parti sociali nelle loro articolazioni
nazionali e comunitarie. La rete di rapporti che questo documento
apre è capillare, anche se resta ancora tutta da dimostrare la
ruolo delle parti sociali nella produzione e nell’attuazione del diritto comunitario, in
“Europa e Diritto Privato”, 1999, n. 1, p. 243 ss.
) Il caso italiano è studiato da M. F e E. G , Salvati, cit.; gli stessi
( 78 ERRERA UALMINI
autori hanno redatto per l’ISFOL un rapporto dal titolo La strategia europea sull’occu-
pazione e la governance domestica del mercato del lavoro: verso nuovi assetti organizzativi
’A (a cura di), Impact Evaluation of the EES, maggio 2002,
e decisionali, in C. D ELL RINGA
in cui la progressiva specializzazione delle competenze interne all’amministrazione
italiana è studiata ed interpretata come effetto delle linee guida europee.
) COM (2001) 428 final, Bruxelles 25.7.2001, European Governance. A White
(
79
Paper, che peraltro è singolarmente elusivo sulla crescente importanza del metodo del
coordinamento aperto.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 457
SILVANA SCIARRA
legittimazione dei soggetti consultati ad entrare a pieno titolo in un
).
processo decisionale (
80
Le corde del diritto del lavoro sono sensibili al tema della
rappresentatività dei soggetti collettivi. Tuttavia, l’incontro con or-
ganizzazioni portatrici di interessi diffusi o con gruppi monotema-
tici, che perseguono obiettivi ben circoscritti, non è facile e richiede,
soprattutto da parte delle associazioni dei lavoratori, una forte opera
di revisione della propria identità.
Per comprendere fino in fondo la durezza della sfida lanciata al
diritto del lavoro nazionale ed ai suoi solidi principi ordinamentali,
si deve guardare alle trasformazioni che nel giro di pochi anni hanno
subito le politiche europee dell’occupazione. Con l’avvio, avvenuto
), del metodo aperto di coor-
nel Consiglio Europeo di Lisbona ( 81
dinamento, si è osservata un’interessante proliferazione di tecniche
comparative, tali da consentire una equilibrata valutazione delle
riforme messe in atto da ciascuno stato.
Mentre il diritto del lavoro comparato segue percorsi sofisticati di
raffronto fra le istituzioni che operano nel mercato, nel coordinamento
delle politiche occupazionali il raffronto è fra dati non sempre com-
parabili. Se si pongono obiettivi da raggiungere in termini di crescita
dell’occupazione, non si può non tenere conto della disaggregazione
di dati importanti che hanno a che fare sia con la definizione di la-
voratore occupato, sia con la segnalazione di fasce particolari di la-
voratori a lungo esclusi dal mercato del lavoro, o particolarmente
svantaggiati nella fase dell’ingresso nel mercato medesimo.
Nella elaborazione di indicatori, utili a favorire il coordina-
mento delle politiche nazionali, le istituzioni europee e gli esperti
inviati dai governi nazionali hanno profuso una nuova scienza della
comparazione che, per certi versi, sembra precedere qualunque
analisi giuridica tradizionale ( ). Il rischio è che si confonda con il
82
( ) Al riguardo, si veda un primo tentativo di indicare criteri di rappresentatività
80
in COM (2002) 277 final, Communication from the Commission. Towards a Reinforced
Culture of Consultation and Dialogue. Proposals for General Principles and Minimum
Standards for Consultation of Interested Parties by the Commission, Bruxelles, 5.6.2002.
) Consiglio Europeo di Lisbona, 23-24 marzo 2000.
( 81 ) Una prima analisi del ruolo degli esperti nazionali nella elaborazione degli
( 82 P , Is the Open Method of Coordination Appropriate for
indicatori è svolta da C. DE LA ORTE
Organising Activities at European Level in Sensitive Policy Areas?, in “European Law
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
458 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
metodo giuridico comparato questa nuova pratica, utile alla valuta-
zione delle performance nazionali e particolarmente indicata per
coinvolgere le amministrazioni nella gestione nazionale delle politi-
che comunitarie. Come ho già detto nel corso di queste mie osser-
vazioni, ai giuristi del lavoro spetta liberare la comparazione fra
sistemi di norme dal limbo di una comparazione fra dati statistici.
Gli indicatori economici e sociali descrivono realtà in movi-
mento; servono a cogliere la distribuzione dell’esclusione sociale ed
a segnalare le aree di maggiore sofferenza nel mercato del lavoro;
mostrano i collegamenti fra politiche occupazionali, innovazione e
ricerca. Ai giuristi viene offerto un universo da valutare all’interno di
politiche economiche e strutturali sempre più coese, in cui le
politiche occupazionali devono incunearsi come uno degli elementi
delle strategie da adottare.
Il metodo aperto di coordinamento significa anche questo:
spiegare alle istituzioni comunitarie le scelte dei legislatori nazionali,
svelare il funzionamento delle macchine burocratiche, illustrare da
quali presupposti si prendono le mosse e dimostrare come, nel
tentativo di coordinarsi, le posizioni di partenza possono essere
modificate. Le istituzioni comunitarie, a loro volta, valutano, esami-
nano, svolgono un monitoraggio delle misure adottate a livello
nazionale, sollecitano, se necessario criticano ed invitano a correg-
gere il tiro, attraverso raccomandazioni.
In questo regime di soft law si adotta una tecnica regolativa assai
poco regolativa. I dati certi che si ricavano dalle norme del Trattato
sono relativi alle cadenze entro cui le procedure della strategia coor-
); tutto
dinata a favore dell’occupazione si devono sviluppare (
83
quanto promosso dal Consiglio in termini di scambi di informazioni
Journal”, 2002, p. 41. Più ampia la ricerca di T. A , B. C , E. M e
TKINSON ANTILLON ARLIER
, Social Indicators: the EU and Social Inclusion, Oxford 2002, nata dalla
B. N OLAN
collaborazione di un gruppo di accademici e di policy-makers, voluta dalla Presidenza
belga nel 2001.
) È annuale la relazione comune del Consiglio e della Commissione, cosı̀ come
( 83
lo sono le conclusioni del Consiglio (art. 128 TCE); ogni anno ciascuno Stato Membro
trasmette alla Commissione ed al Consiglio una relazione sulle politiche occupazionali
adottate. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 459
SILVANA SCIARRA
e migliori prassi, analisi comparative e progetti pilota, è materia espres-
samente sottratta alla tecnica regolativa dell’armonizzazione ( ).
84
Intorno alla sperimentazione delle politiche europee dell’occu-
pazione sembra essersi aperta una nuova stagione di entusiasmo,
anche fra i giuristi del lavoro. Non sembra trattarsi di una deriva
verso un non-diritto; sembra piuttosto che si sia alla ricerca di un
nuovo asse intorno a cui far ruotare la coerenza normativa dei
sistemi nazionali, forse correndo il rischio che si riduca sempre più
il terreno tradizionale di intervento del diritto del lavoro.
Perché non si perda il patrimonio di valori intorno a cui questa
materia si è diacronicamente sviluppata e tuttavia si apprezzi la sin-
cronia di sistemi giuridici impegnati nello sforzo di un comune coor-
dinamento sovranazionale, occorre riflettere ancora sui presupposti
costituzionali, sulla loro funzione di calibratura, sulla loro lungimi-
ranza.
Come si è già detto, il diritto del lavoro non dovrebbe rincorrere
il diritto europeo, in una sorta di affannosa e sovente ritardata
individuazione degli obiettivi da perseguire, ma porsi nelle condi-
zioni di seguirne l’evoluzione e di assecondare criticamente l’euro-
peizzazione del diritto interno. Altrettanto affannose e dispersive si
rivelano le rincorse verso altri ‘modelli’ nazionali ritenuti vincenti,
quasi a voler promuovere il metodo comparato dentro uno schema
di dipendenza culturale nei confronti di politiche legislative rivela-
tesi efficaci. La comparazione deve piuttosto risalire alle istituzioni
che operano nei mercati del lavoro, prime fra tutte le parti sociali,
portatrici di una cultura nazionale sia nella contrattazione collettiva,
sia nel conflitto, sia nel rapporto con le istituzioni.
L’erba del vicino europeo non è sempre più verde per chi
interpreta l’integrazione attraverso il diritto del lavoro come un
processo aperto, se necessario lento, proprio perché attento a diver-
sificare piuttosto che ad armonizzare.
Si può concludere questa breve lettura diacronica della lingua
adottata dal diritto del lavoro europeo con la speranza che essa divenga
nello scorrere degli anni sempre più una lingua madre dei legislatori
sovranazionali e dei riformatori dei Trattati, naturale nel segno scritto
e parlato, familiare nel suono. Ad essa potranno abbandonarsi pia-
cevolmente, senza sensi di colpa, i giuristi del lavoro nazionali.
( ) V. l’art. 129 TCE.
84 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
ALESSANDRO BERNARDI
L’EUROPEIZZAZIONE DEL DIRITTO
E DELLA SCIENZA PENALE
1. Premessa. — Sez. I: Europeizzazione del diritto e sistemi penali nazionali. — 2. Il ruolo
del Consiglio d’Europa e delle relative convenzioni d’armonizzazione nel tramonto dello
statualismo penale. In particolare, il ruolo della Convenzione europea dei diritti del-
l’uomo. — 3. L’avvento della Comunità europea e le diverse forme di influenza del
diritto comunitario sul diritto penale. — 4. L’incidenza del diritto comunitario sui
precetti penali. L’incidenza interpretativa, integratrice, disapplicatrice. — 5. L’influenza
del diritto comunitario sulla disciplina punitiva. Gli effetti di armonizzazione sanziona-
toria prodotti dalle fonti CE di diritto derivato. — 6. Il ruolo della giurisprudenza della
Corte di giustizia nel ravvicinamento delle risposte punitive nazionali. — 7. Le sanzioni
amministrative comunitarie e la loro attitudine a condizionare i sistemi punitivi dei Paesi
membri. — 8. Agli albori di una politica criminale europea. In particolare, le direttive
comunitarie volte a predeterminare gli elementi costitutivi delle fattispecie astratte. — 9.
L’edificazione del terzo pilastro dell’Unione per la cooperazione e l’armonizzazione
penale. Il ruolo delle decisioni quadro nella realizzazione di una effettiva politica
criminale europea. — 10. I futuribili scenari del processo di europeizzazione del diritto
penale. Il dibattito sulla riforma del terzo pilastro. — 11. Gli attuali progetti di
armonizzazione o unificazione penale all’interno dell’Unione. — Sez. II: Europeizzazione
del diritto e scienza penale. — 12. Verso una cultura giuridico-penale europea. Le diverse
manifestazioni in ambito scientifico del superamento delle tradizioni penali nazionali. —
13. La “rinascita giusnaturalista” e la “cultura dei diritti dell’uomo” nel processo di
destatualizzazione e di europeizzazione della scienza penale. — 14. Le attuali concezioni
giuridiche a sfondo razionalistico e le loro valenze antistatualiste e europeiste. — 15. La
rivalutazione della storia del diritto penale nella prospettiva del-
l’armonizzazione/unificazione dei sistemi nazionali. — 16. La valorizzazione e le nuove
funzioni del metodo comparatistico alla luce delle esigenze di europeizzazione del diritto
e della politica criminale. — 17. L’avvento di un nuovo paradigma penale ispirato alla
logica della “rete” quale risposta all’emersione di una pluralità di ordinamenti giuridici
in rapporto di reciproca integrazione. — 18. L’abbandono del nazionalismo dogmatico
e il ricorso al “sincretismo concettuale” come conseguenza del pluralismo giuridico. La
tendenza alla semplificazione della scienza penale al fine di un “democratico” ravvici-
namento dei relativi sistemi statuali. — 19. Considerazioni conclusive.
1. Premessa.
Se è vero che la realtà storica è “marcata, nella sostanza, da
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
462 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
incolmabili discontinuità” ( ), è però anche vero che l’inizio di
1
questo secolo mostra almeno un fondamentale profilo di coesione
con la seconda parte del secolo da poco conclusosi. Si allude,
beninteso, al progressivo processo di costruzione europea, alla
ininterrotta crescita, per competenze e ambito geografico, prima di
una Comunità e poi di un’Unione europea destinate a modificare in
modo sempre più rapido e profondo le nostre abitudini, il nostro
stesso modo di pensare e di essere.
Posto che, fortunatamente, l’attuale edificazione dell’Europa
non risulta imposta con la forza da uno Stato egemone, ma avviene
in via del tutto pacifica e dunque “giuridica”, verrebbe fatto di
pensare che proprio i giuristi, anche quando non siano implicati in
prima persona nelle trasformazioni in atto, si rivelino comunque i
soggetti massimamente capaci di “sintonizzarsi” con tali trasforma-
zioni, conformando le proprie coordinate culturali e le proprie
tecniche operative alla nuova dimensione istituzionale del vecchio
continente. Questa ipotesi, tuttavia, non tiene conto né delle forze
inerziali connaturate ai meccanismi di produzione e al carattere
“sistematico” del diritto, né della estrema eterogeneità di formazione
dei giuristi stessi, correlata alle peculiarità delle singole branche
dell’ordinamento.
Quanto alle forze inerziali insite nel diritto, è noto come esso
venga considerato da molti intrinsecamente incapace di adeguarsi in
tempi brevi ai mutamenti della storia; tant’è che qualcuno, sottoli-
neando la vocazione del diritto a sopravvivere ben al di là dell’atto
di volontà che lo fonda e del complessivo contesto nel quale viene
concepito, non ha mancato di definirlo provocatoriamente “una
). Ma non è certo necessario
forma di sovranità del morto sul vivo” (
2
sposare questa visione apocalittica dello ius per ammettere che il
sistema giuridico, in quanto organico complesso di principi, istituti
e regole, appare votato ad un notevole livello di rigidità, e soprat-
tutto che ogni giurista è portatore di una sua “cultura” formatasi
lentamente nel corso della propria vita di studio e lavoro, come tale
( ) G , Codici: qualche conclusione tra un millennio e l’altro, in G ,
1 ROSSI ROSSI
Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2001, p. 86.
) E , Grundlegung der Soziologie des Rechts, Berlin, 1967 (ma 1913),
( 2 HRLICH
p. 323. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 463
ALESSANDRO BERNARDI
difficilmente modificabile sulla base di impulsi “esterni”. Cosicché,
paradossalmente, se è vero che “tre parole del legislatore” possono
vanificare il contenuto di intere biblioteche, è altrettanto vero che
tali parole, per quanto rivoluzionarie, difficilmente possono rimo-
dellare nel profondo la concezione individuale del diritto, vale a
dire, per l’appunto, le coordinate culturali del giurista.
Quanto poi all’estrema eterogeneità di formazione che caratterizza
gli studiosi delle diverse branche dell’ordinamento giuridico, è risa-
puto che il diritto penale costituisce il ramo del diritto di matrice più
spiccatamente “autarchica”, nel quale si manifestano le fondamen-
tali scelte di valore espressive dell’identità culturale di ciascun Paese,
come tali tendenzialmente libere da vincoli “esterni” di matrice
). Non deve dunque sorprendere il fatto
inter- o sovra-nazionale (
3
che il diritto penale e i suoi cultori si siano rivelati, rispettivamente,
il settore del diritto e la categoria di giuristi più tetragoni ad
accettare la primazı́a e la diretta applicabilità del diritto comunitario,
e le forme di condizionamento da esse prodotte sull’ordinamento
nazionale.
E tuttavia, se la peculiare impronta “autarchico-statualistica”
del diritto penale e dei relativi operatori — sommandosi alle già di
per sé rilevanti forze inerziali comuni all’universo giuridico — può
spiegare la reticenza ad accogliere una concezione “europeista” del
diritto penale e in particolare ad ipotizzare una sia pur parziale
unificazione su scala continentale di questa branca del diritto, essa è
però riuscita solo a ritardare ma non a precludere in radice il
riconoscimento sia delle diverse forme di influenza del diritto co-
munitario sul diritto penale, sia delle pressanti esigenze di coopera-
zione e di armonizzazione dei sistemi penali nazionali correlate
all’attuale processo di costruzione di un’Unione a carattere pre-
federale ( ). D’altronde, qualsiasi atteggiamento radicale volto a
4
( ) In argomento cfr., anche per ulteriori riferimenti bibliografici, B , I tre
3 ERNARDI
volti del “diritto penale comunitario”, in Possibilità e limiti di un diritto penale dell’Unione
, Milano, 1999, pp. 42-43.
europea, a cura di L. P ICOTTI
) Per una retrospettiva storica dell’idea federalista in ambito europeo cfr., per
( 4
tutti, Per una Costituzione federale dell’Europa. Lavori preparatori del comitato di studi
, Storia
presieduto da P.H. Spaak 1952-1953, a cura di D. Preda, Padova, 1996; A
LBERTINI
, Ordinamento comunitario e Unione europea,
del federalismo, Torino, 1973; O RSELLO
, Pensiero cattolico e federalismo europeo (1940-1957),
Milano, 2001, p. 1 ss.; C ATTANEO
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
464 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
sottrarre il campo penale all’influenza del diritto europeo non
sarebbe stato tollerato dalla Corte di giustizia CE: la quale anzi, con
una giurisprudenza “evolutiva” e talora addirittura “creatrice”, ha
sottolineato con forza i vincoli derivanti sul piano penale dalla
sottoscrizione dei Trattati. Del pari, una drastica astensione del-
l’Unione dall’assumere in materia penale decisioni funzionali al
Milano, 1990; R , L’idée de fédération européenne dans la pénsée politique du XIX
ENOUVIN D C A , Altiero Spinelli e il federalismo europeo
siècle, Oxford, 1949; R UBIN E ERVIN LBRIZZI
B , Precedenti storici dell’idea federale in Europa,
1945-54, Milano, 1992; S ACCHETTI ERTI
, Dagli Stati sovrani agli Stati Uniti d’Europa, Firenze, 1950;
Torino, 1964; S PINELLI
, Histoire de l’idée européenne, Paris, 1964.
V OYENNE
Sulla probabile evoluzione in senso federale dell’Unione europea cfr., all’interno di
una bibliografia ormai sconfinata, L’avenir de l’Union européenne: élargir et approfondir,
a cura di J. Vandamme e J. D. Mouton, Bruxelles, 1995; Europa: l’integrazione flessibile,
a cura del Centre for Economic Policy Research, Bologna, 1996; Interviste sull’Europa, a
cura di A. Loretoni, Roma, 2001, e bibliografia ivi riportata; Sviluppo e occupazione
nell’Europa federale: itinerari giuridici e socioeconomici su regioni e autonomie locali, a
cura di G. Ferraro, Milano, 2003; Federalism, Unification and European Integration, a
, S , London, 1993; B -P , La supernationalité en Europe,
cura di J
EFFERY TURM OUQUELLE ICARD , Intercommunalité et Union
in Annales de droit de Louvain, 1992, p. 231 ss.; B OURJOL , R , V E W -
européenne. Réflexion sur le fédéralisme, Paris, 1994; C LOOS EINESCH IGNES EY
, Le Traité de Maastricht, Bruxelles, 1994, in particolare p. 115; C , The future
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, The Community after Maastricht: How
of Europe, Cheltenham-Glos, 1995; C OLEMAN P , L’Unione europea: una
federal?, in New European, 1992, n. 3, p. 2 ss.; L A ERGOLA ., Sguardo sul
federazione non dichiarata, in Europaforum, 1992, n. 1, p. 7 ss.; I D
federalismo e i suoi dintorni (una celebre dicotomia: “Stato federale-confederazione”, la
confederazione di tipo antico e moderno, l’idea europeista di Comunità), in Dir. soc., 1992,
, V , L’Europe à geometrie variable. Transition vers l’intégration,
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, Oltre Maastricht, Sovranità nazionale e federazione, in Il Mulino,
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1992, p. 481 ss.; O
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1049 ss.; I D , Trois lectures du Traité de
sull’Unione europea, Roma, 1993, p. 90; Q
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Maastricht. Essai d’analyse comparative, in Rev. franç. sc. pol., 1992, p. 802 ss.; P LIAKOS
La nature juridique de l’Union européenne, in Rev. trim. dr. eur., 1993, p. 187 ss.;
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, L’avenir fédéraliste de l’Europe. La Communauté européenne des origines au traité de
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Maastricht, Paris, 1992 (trad. inglese con sostanziali modifiche e aggiornamenti dal titolo
The federal Future of Europe, the University of Michigan, 2000, con ulteriori riferimenti
bibliografici a p. 443 ss.; trad. it. Per un federalismo europeo: una prospettiva inedita
, Appunti sul trattato di Maastricht: struttura
sull’Unione europea, Milano, 2002); T IZZANO , La construction
e natura dell’Unione europea, in Foro it., 1995, IV, c. 226; T OULEMON
, Appunti sul trattato di Maastricht: struttura
européenne, Paris, 1994, p. 194 ss.; T
IZZANO
e natura dell’Unione europea, in Foro it., 1995, IV, c. 226.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 465
ALESSANDRO BERNARDI
rafforzamento di quello “spazio di libertà, sicurezza e giustizia”
evocato dal quarto trattino dell’art. 2 TUE non sarebbe certo stata
espressiva della volontà dei cittadini europei, stante che essi (come
recenti indagini statistiche dimostrano inequivocabilmente) riten-
gono indispensabile un intervento “a livello centrale” contro i più
). Ma, a onor del vero, non si può
pericolosi tipi di delinquenza (
5
negare che gli stessi Stati membri dell’Unione, resi edotti della
necessità di tutelare in modo quanto più possibile uniforme i
cosiddetti beni/interessi comunitari e di combattere efficacemente la
criminalità transnazionale, già da tempo si stiano adoperando (anche
se a volte con inopportuna titubanza) per creare in ambito conti-
nentale le condizioni e i meccanismi atti a potenziare la coopera-
zione penale interstatuale e ad avviare un processo di effettivo
ravvicinamento dei rispettivi sistemi penali. In vista del raggiungi-
mento di tali scopi, con il Trattato di Maastricht del 1992 è stato
),
infatti istituito il cosiddetto “terzo pilastro” dell’Unione europea (
6
) ha finito
il quale in forza dei peculiari strumenti in esso previsti (
7
( ) Cfr., al riguardo, gli elementi contenuti nell’“eurobarometro” dell’aprile 2002,
5
riprodotti alla p. 2, n. 7 de La Convenzione europea. Giustizia e affari interni - stato dei
lavori e problematiche generali, Bruxelles, 31 maggio 2002, doc. CONV 69/02.
) Con terminologia ormai entrata nel linguaggio corrente dei comunitaristi e
( 6
degli stessi penalisti, si suole appunto dire che a partire dal Trattato di Maastricht sono
stati edificati, accanto al “pilastro” comunitario (CE, CECA, Euratom), due ulteriori
“pilastri”, corrispondenti a nuovi settori d’intervento non afferenti al tradizionale
contesto proprio delle Comunità, ed organizzati non già in forma comunitaria bensı̀,
rispettivamente, in forma confederale e intergovernativa, dunque secondo meccanismi
diplomatici di tipo tradizionale. Come noto, il secondo pilastro (previsto dal titolo V del
Trattato sull’Unione europea) istituisce una politica estera e di sicurezza comune,
fissandone gli obiettivi ed indicandone le modalità di perseguimento. Viceversa il terzo
pilastro (previsto dal titolo VI del Trattato sull’Unione europea e significativamente
riplasmato in occasione del Trattato di Amsterdam) disciplina la cooperazione di polizia
e giudiziaria in materia penale.
) Si allude, in particolare, alle decisioni quadro, denominate fino all’entrata in
( 7
vigore del Trattato di Amsterdam azioni comuni. Ispirate in parte al metodo della
cooperazione intergovernativa e in parte al metodo comunitario, esse mirano non solo ad
agevolare la cooperazione giudiziaria (cfr. art. 31, lett. a), b) e d) TUE), ma anche a
ravvicinare le normative in materia penale dei Paesi membri (cfr. art. 29, ultimo trattino,
TUE), e dunque ad assicurare “la garanzia della compatibilità delle normative applicabili
negli Stati membri, nella misura necessaria per migliorare la (…) cooperazione” (art. 31,
lett. c), TUE). In argomento cfr., infra, sub par. 9.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
466 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
col dare vita ad una vera e propria politica criminale di respiro
continentale, seppure circoscritta alle “materie di interesse comune”
).
indicate nel suddetto pilastro ( 8
In ogni caso, è a tutti chiaro che nell’ambito di tale politica cri-
minale l’Unione europea non si limita più ad auspicare la messa in
opera di un complessivo piano di cooperazione giudiziaria e a stimo-
lare una attività “minimalista” di ravvicinamento degli ordinamenti
penali nazionali; ma al contrario si prefigge — quantomeno in taluni
particolari settori di rilievo comune — la realizzazione di una oltre-
modo penetrante armonizzazione penale se non addirittura la crea-
zione, nel lungo periodo, di un vero e proprio sistema penale unitario.
Ne costituisce prova inconfutabile la predisposizione — su impulso
della Commissione europea — di un progetto di Corpus Juris conte-
nente disposizioni penali per la tutela degli interessi finanziari del-
). I contenuti e lo spirito stesso di tale progetto (i
l’Unione europea (
9
quali se da un alto appaiono coerenti con gli attuali sviluppi della
costruzione europea, dall’altro lato risultano indubbiamente audaci in
considerazione degli assai lenti “tempi di risposta” dei sistemi penali
alle istanze di carattere sovrastatuale) lasciano comunque presagire
che la strada verso il recepimento del Corpus Juris sarà tutta in salita,
e disseminata di ostacoli resi più ardui dalla tuttora perdurante con-
cezione “autarchico-statualista” del diritto penale.
In definitiva, sembra possibile affermare che il diritto penale,
senza per questo risultare completamente impermeabile al processo
di costruzione europea, manifesta tuttavia una forte tendenza a
preservare quell’insieme di valori, tradizioni, assetti, categorie che
concorrono a costituire il patrimonio giuridico dei singoli Stati; e che
a causa di ciò esso fatica non poco a modellarsi in modo tale da poter
( ) Come precisato dall’art. 29 TUE, le misure preventive e repressive adottate
8
nell’ambito del terzo pilastro devono concernere “il razzismo e la xenofobia”, nonché “la
criminalità, organizzata e di altro tipo, in particolare il terrorismo, la tratta degli esseri
umani e i reati contro i minori, il traffico illecito di droga e di armi, la corruzione e la
frode”. ) Per il testo di tale progetto cfr. Verso uno spazio giudiziario europeo, Milano,
( 9
1997, p. 53 ss. Cfr. altresı̀, per quanto concerne la nuova versione del Corpus Juris
elaborata a Firenze nel 1999, La mise en oeuvre du Corpus Juris dans les États-Membres,
I, a cura di M. Delmas-Marty, J.A.E. Vervaele, Antwerpen, Groningen, Oxford, 2000,
p. 191 ss. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 467
ALESSANDRO BERNARDI
assolvere ai compiti assegnatigli dalla nuova realtà istituzionale,
economica, sociale del nostro continente. Peraltro, un numero sem-
pre maggiore di studiosi e di operatori di settore sta progressiva-
mente prendendo coscienza del fatto che ormai l’Europa, pur non
essendo ancora uno Stato federale, sotto il profilo penale pone però
sin d’ora tutti i problemi propri degli Stati federali; problemi per la
soluzione dei quali appare necessario un radicale mutamento di
prospettiva, vale a dire una ferma volontà di superare quei partico-
larismi nazionalistici che sono di ostacolo al “dialogo” tra gli ordi-
namenti e alla loro progressiva integrazione.
Nel tentativo di illustrare la lenta e faticosa evoluzione del
diritto penale nel segno dell’abbandono della propria configurazione
“meramente statalista”, in questo lavoro ci si propone innanzitutto
di analizzare brevemente le diverse forme di manifestazione dell’at-
tuale processo di europeizzazione del diritto sui sistemi penali, in
specie su quello italiano (Sez. I), per poi passare in rassegna talune
delle più vistose forme di incidenza di tale processo sulla scienza
penale (Sez. II).
Sez. I: Europeizzazione del diritto e sistemi penali nazionali.
2. Il ruolo del Consiglio d’Europa e delle relative convenzioni
d’armonizzazione nel tramonto dello statualismo penale. In par-
ticolare, il ruolo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Anche rispetto al diritto penale, è indubbiamente difficile sta-
bilire con precisione quando e come “l’età dello Stato-nazione, dei
)
sistemi di diritto nazionale e delle culture giuridiche nazionali” (
10
abbia iniziato la sua parabola discendente. Sembra tuttavia di poter
dire che, in epoca moderna, il processo di erosione del carattere
( ) S , Un nouveau domaine de recherche en Allemagne: l’histoire du droit
10 CHULZE , L’Europa del diritto comune,
européen, in Rev. hist. dr. franç. étr., 1992, p. 39; B
ELLOMO
, Introduzione al diritto comparato, Torino, 1996,
Roma, 1991, p. 11 ss.; C ONSTANTINESCO
, A , Prospettive per un diritto penale europeo, Padova, 1990, p. 5
p. 31 ss.; F RAGOLA TZORI
, La codificazione del diritto in Italia, Roma-Bari, 1994, p. 3 ss.; Z ,
ss.; G
HISALBERTI WEIGERT
, Introduzione al diritto comparato, vol. I, Principi fondamentali, Milano, 1992,
K }
O TZ
p. 16 ss. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
468 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
meramente statuale dei sistemi penali europei e della relativa scienza
tende a coincidere con la nascita del Consiglio d’Europa, per mezzo
del quale ci si proponeva di rafforzare i vincoli tra i Paesi del vecchio
continente, onde evitare il ripetersi di tragici conflitti causati innan-
zitutto dalla intolleranza reciproca e dalla contrapposizione tra gli
Stati europei. È infatti su impulso del Consiglio d’Europa che sono
state varate — nel quadro dell’azione svolta da tale organizzazione
internazionale nei più diversi campi ( ), e segnatamente nell’ambito
11
dei molteplici accordi da esso promossi — numerose convenzioni in
materia penale. Tali atti, come noto, non si limitano a predisporre
strumenti giuridici di cooperazione internazionale nella lotta contro
il crimine, ma talora sono diretti anche ad armonizzare gli ordina-
menti penali nazionali in prospettiva di tutela dei diritti fondamen-
tali, nonché a ravvicinare e financo unificare le legislazioni nazionali
limitatamente a taluni fenomeni criminali di rilievo europeo ( ): si
12
pensi, in particolare, alle convenzioni in tema di tutela dei dati
personali, terrorismo, riciclaggio, bioetica, beni archeologici e cul-
turali, corruzione, ambiente, nelle quali appare evidente lo sforzo di
favorire una effettiva armonizzazione di talune norme incriminatrici
di settore in vista di una più efficace lotta alla delinquenza ( ).
13
Risulta tuttavia evidente che fra tutte le convenzioni elaborate in
oltre cinquant’anni dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Eu-
ropa, quella di gran lunga più importante sia per il suo stesso
oggetto, sia per l’originale e assai significativo meccanismo di con-
trollo in essa previsto è la Convenzione europea per la tutela dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) firmata a Roma
il 4 dicembre 1950. Nel dare perfetta attuazione allo scopo del Con-
( ) Vale a dire nei campi economico, sociale, culturale, scientifico, giuridico,
11
amministrativo: cfr. l’art. 1 dello Statuto del Consiglio d’Europa firmato a Londra il 5
maggio 1949.
) Cfr., fondamentalmente, P , L’influenza dell’attività del Consiglio d’Eu-
( 12 ALAZZO
ropa sul diritto penale italiano, in L’influenza del diritto europeo sul diritto italiano,
Milano, 1982, p. 633 ss. Sul ruolo delle convenzioni nel processo di ravvicinamento dei
, Stratégies pour une harmonisation
sistemi penali europei cfr. altresı̀, da ultimo, B ERNARDI
des systèmes penaux européens, in Archives de politique criminelle, n. 24, Paris, 2002,
p. 208 ss.
) Cfr., per tutti, M , L’armonizzazione dei sistemi penali: una introdu-
( 13 ANACORDA
zione, in La giustizia penale italiana nella prospettiva internazionale, Milano, 2000, p. 46,
e bibliografia ivi riportata alla nt. 36.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 469
ALESSANDRO BERNARDI
siglio d’Europa ( ), tale convenzione contiene infatti un insieme di
14
principi e di regole che, in quanto prevalenti sulle norme penali interne
), costituiscono di fatto una lex superior
precedenti e successive (
15
rispetto alle leggi ordinarie degli Stati. In tal modo si realizza una sorta
), che integra e af-
di “giustizia costituzionale sovrannazionale” (
16
fianca le forme di controllo costituzionale eventualmente previste nei
singoli Stati. Con l’avvento della CEDU si assiste cosı̀ al sorgere di un
“diritto comune delle garanzie” cui il diritto penale dei singoli Stati
deve conformarsi: se non di federalismo, sembra allora possibile par-
), il quale si traduce nel parziale su-
lare già di transnazionalismo (
17
peramento della supremazia assoluta dei Parlamenti e delle loro leggi
ad opera di una fonte di diritto internazionale.
Ben si spiega quindi che, anche ma non solo in Italia, gli studiosi
e gli operatori del diritto più fortemente ancorati ad una concezione
tradizionale dello Stato e delle sue prerogative si siano affannati a
neutralizzare al massimo gli effetti prodotti dalla CEDU sull’ordi-
namento giuridico-penale. E ciò, sia attribuendo in via interpretativa
), sia considerando
a quest’ultima un rango puramente legislativo ( 18
( ) Sempre ai sensi dell’art. 1 dello Statuto del Consiglio d’Europa, scopo di tale
14
organizzazione è infatti quello “di conseguire una più stretta unione tra i suoi membri
per salvaguardare e promuovere gli ideali e i principi che costituiscono il loro comune
patrimonio…”, in vista dello “sviluppo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamen-
tali”. ) Sia in virtù del rango supra-costituzionale, costituzionale o comunque sovra-
( 15
legislativo di volta in volta attribuito alla convenzione nei diversi Stati membri (cfr., al
riguardo, Annexe 2, in Raisonner la raison d’Etat, a cura di Delmas-Marty, Paris, 1989,
p. 506 ss.), sia in virtù di una particolare capacità di resistenza riconosciuta alle
disposizioni convenzionali rispetto a qualsivoglia legge successiva volta a prevedere un
più basso standard di tutela dei diritti dell’uomo (cfr., per tutti e sulla base di differenti
G , Valore ed efficacia della Convenzione europea dei
argomentazioni, N
OCERINO RISOTTI
diritti dell’uomo nell’ordinamento italiano, in La Convenzione europea dei diritti del-
l’uomo nell’applicazione giurisprudenziale, ricerca diretta da Biscottini, Milano, 1981, p.
, La specialità dei trattati internazionali eseguiti nell’ordine interno, in studi
130; C
ONFORTI
in onore di Balladore Pallieri, II, Milano, 1978, p. 187 ss.
) Cfr., in particolare, C , Giustizia costituzionale soprannazionale, in
(
16 APPELLETTI
Riv. dir. proc., 1978, p. 1 ss.
) Cfr. C , Nécessité et légitimité de la justice constitutionnelle, in Rev.
(
17 APPELLETTI
intern. dr. comp., 1981, p. 647.
) Con conseguente possibilità di ammettere che leggi successive alla Conven-
( 18
zione europea dei diritti dell’uomo e rispetto ad essa meno garantiste possano derogarla.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
470 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
talune sue disposizioni not self executing ( ), sia infine interpretando
19
restrittivamente i diritti sanciti dalla CEDU, e conseguentemente
negando che quest’ultima possa offrire una tutela più organica o più
accentuata di quella già prevista dalla Costituzione e dalle leggi
). Resta comunque il fatto che — sull’onda della inces-
nazionali ( 20
sante opera di sensibilizzazione svolta dalla migliore dottrina, e
soprattutto grazie alla giurisprudenza dinamica della Corte europea
dei diritti dell’uomo, che consente una sempre più chiara visione
della “dimensione concreta” delle garanzie offerte dalla CEDU
anche e soprattutto in materia penale — le suddette forme di
“resistenza nazionalistica” alla CEDU stanno progressivamente ve-
nendo meno. Prova ne sia che l’impatto di quest’ultima sul nostro
ordinamento giuridico è andato via via intensificandosi, come testi-
moniato dalle ormai numerose riforme della legislazione penale
italiana esplicitamente o implicitamente volte a consentire un ade-
).
guamento agli standards di garanzia di matrice convenzionale ( 21
In definitiva, sebbene già il periodo intercorrente tra le due
guerre mondiali fosse stato caratterizzato da tentativi non trascura-
), sembra
bili di integrazione sovranazionale in ambito penale (
22
quindi possibile ribadire che solo con le convenzioni del Consiglio
d’Europa — e soprattutto con la Convenzione europea dei diritti
dell’uomo e con la relativa giurisprudenza dei giudici di Strasburgo
— è stato avviato un vero e proprio processo di riscoperta della
Sul punto cfr., anche per ulteriori riferimenti bibliografici, P , B , La
ALAZZO ERNARDI
Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la politica criminale italiana: intersezioni e
lontananze, in Riv. intern. dir. uomo, 1988, p. 33 ss.
) Cioè non direttamente applicabili in assenza di provvedimenti interni depu-
( 19 , Le norme programmatiche della
tati a precisarle o completarle. Cfr., ad esempio, A LBANO
CEDU e l’ordinamento italiano, in Riv. intern. dir. uomo, 1991, p. 719.
) In dottrina cfr., emblematicamente, C , Gli operatori del diritto e i diritti
(
20 IANCI
dell’uomo, in Giust. pen., 1982, III, c. 313.
) Cfr., ad esempio, C , Cultura italiana del processo penale e Conven-
( 21 HIAVARIO
zione europea dei diritti dell’uomo: frammenti di appunti e spunti per una “microstoria”,
, La Convenzione europea dei diritti
in Riv. intern. dir. uomo, 1990, p. 462 ss.; S
TARACE ,
dell’uomo e l’ordinamento italiano, Bari,1992, p. 85 ss., 135, 140; volendo, B
ERNARDI
“Principi di diritto” e diritto penale europeo, in Annali dell’Università di Ferrara - Scienze
giuridiche, vol. II, 1988, p. 145 ss.
) Ne costituiscono prova i numerosi convegni sull’unificazione del diritto
( 22
criminale organizzati in tale periodo dall’Associazione internazionale di diritto penale.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 471
ALESSANDRO BERNARDI
dimensione “europea” del diritto penale. Dimensione, questa, che
verrà comunque assumendo profili più netti con il sorgere e con il
progressivo evolversi della Comunità e dell’Unione europea.
3. L’avvento della Comunità europea e le diverse forme di influenza
del diritto comunitario sul diritto penale.
Se, come sopra accennato, il Consiglio d’Europa è stato creato
essenzialmente con lo scopo di realizzare una più stretta unione fra
i Paesi membri al fine di salvaguardare e promuovere gli ideali ed i
principi costituenti il loro comune patrimonio, gli obiettivi della
Comunità europea sono stato sin dall’inizio ancora più ambiziosi e
soprattutto più concreti. Secondo quanto affermato nel preambolo
del Trattato CEE del 1957, tale organizzazione è sorta infatti per
“assicurare mediante un’azione comune il progresso economico e
sociale” dei Paesi membri, “eliminando le barriere che dividono
l’Europa”. Per l’attuazione di un programma di cosı̀ grande impe-
gno, agli organi della Comunità sono stati attribuiti poteri assai
incisivi, in seguito ulteriormente rafforzati con l’evolversi dei Trat-
tati. Inevitabilmente, la Comunità ha quindi in parte sminuito il
), anche in ragione del fatto che,
ruolo del Consiglio d’Europa (
23
attraverso la valorizzazione del cosiddetto “diritto comunitario non
scritto” ( ) quale rimedio alle lacune dei Trattati, essa ha finito con
24
l’ingerirsi nella tutela dei diritti fondamentali, la quale costituiva per
l’appunto il prioritario settore di intervento del Consiglio d’Europa.
Vero è però che tra i poteri attribuiti agli organi comunitari dai
Trattati (Tr. CE, Tr. CECA, Tr. Euratom) non erano inclusi — e
tuttora in linea di principio non sono inclusi — quelli in materia
penale. L’idea secondo cui “il diritto penale non rientra nelle
( ) Cfr., sul punto, G , voce Consiglio d’Europa, in Dig. disc. pubbl., vol.
23 REMENTIERI
III, 1989, p. 419.
) In merito al quale cfr., per tutti, A , I principi generali nella giuri-
(
24 DINOLFI
sprudenza comunitaria e la loro influenza sugli ordinamenti degli Stati membri, in Riv. it.
, Il diritto
dir. pubbl. com., 1994, p. 521 ss. e bibliografia ivi riportata; C APOTORTI , I principi
comunitario non scritto, in Dir. com. scambi intern., 1983, p. 409 ss.; C APELLI ,
generali come fonte di diritto, in Dir. com. scambi intern., 1986, p. 545 ss.; V
ACCA
L’integrazione dell’ordinamento comunitario con il diritto degli Stati membri e con i
principi generali di diritto, in Dir. com. scambi intern., 1991, p. 339 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
472 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
competenze della Comunità, ma in quelle di ciascuno Stato mem-
bro” veniva del resto confermata dalla lettura di taluni documenti
), ed ulteriormente ribadita financo dalla giuri-
comunitari (
25 ). Resta il fatto che, nonostante
sprudenza della Corte di giustizia (
26
l’assenza di ogni esplicita competenza in materia penale della Co-
munità, nel corso di questi decenni il diritto comunitario è riuscito
a svolgere una progressiva azione di “europeizzazione” del diritto
criminale condotta a più livelli, e in particolare: contribuendo a
mutare all’interno degli ordinamenti giuridici nazionali i fondamen-
tali profili di molte fattispecie penali nel segno di una loro graduale
armonizzazione; favorendo l’introduzione ex novo, nei singoli Stati
membri, di un numero ancora maggiore di fattispecie caratterizzate
da una precettistica assai omogenea da un Paese all’altro; impo-
nendo la disapplicazione in tutto o in parte di talune norme incri-
minatrici; condizionando in modo vieppiù evidente la scelta delle
sanzioni applicabili dagli Stati membri non solo in sede di attuazione
del diritto comunitario, ma anche in sede di normazione rispetto a
materie aventi rilevanza comunitaria, in quanto interferenti con
l’ambito applicativo di norme CE; dando vita a un sistema punitivo
accentrato di tipo para-penale.
La comprensione di questa articolata fenomenologia, destinata a
modificare nel profondo i tratti salienti dei sistemi penali (e più in
generale dei sistemi sanzionatori) nazionali può essere adeguata-
mente compresa ove si tengano presenti due distinti fattori, tra loro
strettamente connessi: a) le fonti comunitarie sia primarie (Trattati e
principi generali del diritto) sia secondarie (regolamenti e direttive)
risultano in una posizione di primato rispetto al diritto interno, e si
rivelano nella massima parte dei casi dotate di efficacia diretta; b) la
Comunità europea, sebbene in linea di principio priva di compe-
tenza penale, attraverso il principio di fedeltà comunitaria di cui
all’art. 10 TCE ( ) e attraverso il principio “non scritto” di propor-
27
( ) Cfr., in primis, l’Ottava relazione generale sull’attività delle Comunità europee
25
del 1974, Bruxelles-Lussemburgo, 1975, p. 145, par. 90.
) Cfr., in particolare, sent. 11 novembre 1981, causa 203/80 (Casati), in Racc.,
( 26
1981, p. 2595; ord. 17 ottobre 1984, cause83-84/84 (N.M. c. Commissione e Consiglio
, Comunità europee
CE), in Racc., 1984, p. 3575. In dottrina cfr., in particolare, G
RASSO
e diritto penale, Milano, 1989, p. 1.
) In base al quale “Gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere
( 27 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 473
ALESSANDRO BERNARDI
zione può però sindacare l’idoneità delle sanzioni nazionali (anche
penali) introdotte per assicurare l’esecuzione dei Trattati e degli atti
comunitari, ed è inoltre legittimata da tutta una serie di norme
contenute nei Trattati a irrogare sanzioni amministrative a contenuto
punitivo-afflittivo, talora anche molto severe.
Da tali fattori discendono, per l’appunto, tutti i fenomeni di
“europeizzazione” del diritto penale cui si è fatto sopra cenno, e che
qui di seguito verranno sinteticamente analizzati.
4. L’incidenza del diritto comunitario sui precetti penali. L’incidenza
interpretativa, integratrice, disapplicatrice.
È dunque giunta l’ora di passare all’esame le diverse forme di
incidenza del diritto comunitario sui precetti penali nazionali che
derivano dai principi del primato e dell’efficacia diretta del diritto
comunitario sulla normativa dei Paesi membri. Al riguardo, sembra
di poter affermare, in estrema sintesi, che tali forme di incidenza
sono fondamentalmente tre: quella interpretativa, quella integra-
trice, e quella disapplicatrice.
a) L’incidenza c.d. interpretativa deriva dal principio del primato
del diritto comunitario sul diritto nazionale, in quanto tale principio
opera non solo nei confronti del legislatore nazionale (obbligandolo
a varare disposizioni conformi alla normativa CE) e della ammini-
strazione statale (vincolando la sua azione al rispetto dei principi e
delle regole di derivazione “europea”), ma anche nei confronti del
giudice interno e della relativa attività ermeneutica. In questo senso,
tutte le norme (anche penali) di fonte nazionale devono essere da
questi “lette”, ove possibile, conformemente alle fonti CE, con con-
seguente rigetto di ogni altra interpretazione di tali norme, se incom-
generale e particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal presente
trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità. Essi facilitano
quest’ultima nell’adempimento dei propri compiti. Essi si astengono da qualsiasi misura
che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del presente trattato”. In merito
, L’article 5 du Traité CEE. Recherche sur les
a tale principio cfr., ad esempio, B
LANQUET
obligations de fidelité des Etats membres de la Communauté, Paris, 1994, e bibliografia ivi
, L’art. 5 C.E.E., de la bonne foi à la loyauté communautaire, in
riportata; C
ONSTANTINESCO , Art. 5 EWG-Vertrag
Liber amicorum P. Pescatore, Baden-Baden, 1987, p. 97 ss.; S
OLLNER
in der Rechtsprechung des Europäischen Gerichtshofes, München, 1985.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
474 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
patibile col diritto “europeo” ( ). Ciò potrà comportare il ricorso
28
obbligato a forme di interpretazione delle fattispecie penali a carattere
volta a volta sistematico, teleologico, restrittivo o persino estensivo, al
fine appunto di evitare quanto più possibile ogni contrasto tra la nor-
mativa “europea” e tali fattispecie. Naturalmente, stante il divieto in
materia penale di analogia in malam partem, lo sforzo del giudice volto
a fornire un’interpretazione della fattispecie interna conforme al di-
ritto dell’Unione non potrà spingersi sino ad operare processi inter-
pretativi di tipo analogico o additivo finalizzati a perseguire una inam-
missibile estensione dell’ambito applicativo della fattispecie in esame,
segnatamente in funzione della tutela sanzionatoria dei beni o interessi
di rilievo comunitario o comunque di norme prescrittive varate a Bru-
xelles. Egualmente, il giudice non potrà attribuire alla fattispecie pe-
nale nazionale un significato più ristretto rispetto a quello inequivo-
cabilmente fornito dalla lettura della fattispecie in questione, al fine
). Il
di preservarla da ogni giudizio di “illegittimità comunitaria” (
29
giudice nazionale dovrà cioè limitarsi, sempre e comunque, a far ri-
corso alle sole tecniche interpretative consentite in ambito penale dal
principio di legalità. Resta comunque il fatto che, anche circoscri-
vendo entro questi limiti tassativi il potere del giudice di adattare
( ) Circa l’incidenza interpretativa del diritto comunitario sulla fattispecie penale
28 , La plénitude de compétence du juge national en sa qualité de juge
cfr., tra gli altri, B ARAV
communautaire, in L’Europe et le droit. Mélanges en hommage à J. Boulouis, Paris, 1991,
, Strafrecht der Europäischen Gemeinschaft, in Strafrechtsentwicklung in
p. 8; D ANNECKER B. H , vol. 4.3, Freiburg im Breisgau, 1995, p. 64;
Europa, a cura di A. E SER E UBER
, Die Europäisierung des Strafrechts, Köln-Berlin-Bonn-München, 2001, p. 518
S
ATZGER , Europäische Richtlinienund deutsches Strafre-
ss., e bibliografia ivi riportata; S }
CHRO EDER
, Der Beitrag des Strafrechts zur Europäischen
cht, Berlin, 2002, p. 321 ss.; Z
ULEEG ,
Integration, in Europäische Einigung und Europäisches Strafrecht, a cura di U. S
IEBER
Köln-Berlin-Bonn-München, 1993, p. 41 ss. Nella letteratura italiana cfr., in particolare,
, Competenza penale della Comunità europea. Problemi di attribuzione attra-
R IONDATO , Profili di incidenza
verso la giurisprudenza, Padova, 1996, p. 128 ss.; volendo B ERNARDI
del diritto comunitario sul diritto penale agroalimentare, in Annali dell’Università di
., I tre volti del “diritto
Ferrara - Scienze giuridiche, vol. XI, Ferrara, 1997, p. 146 ss.; I D
penale comunitario”, cit., p. 60 ss.
) In tal caso il giudice, anziché fornire un’interpretazione del precetto penale
( 29
inammissibile alla luce del relativo testo, dovrà quindi piuttosto disapplicare tale
precetto nella misura in cui esso risulti in contrasto con il diritto europeo, salvo poi
l’obbligo per il legislatore nazionale di riformare il precetto in questione in modo da
renderlo conforme al diritto europeo. Sul punto cfr. infra, sub lett. c).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 475
ALESSANDRO BERNARDI
il contenuto delle disposizioni in materia criminale alle esigenze del
diritto della Comunità e dell’Unione, il risultato di tali processi er-
meneutici sarà quello di una almeno tendenziale armonizzazione della
concreta portata di talune norme incriminatrici dotate originaria-
mente, nei singoli Paesi dell’Unione, di ambiti applicativi diversi o
quantomeno non coincidenti. Questo fenomeno di convergenza in via
interpretativa dell’ambito applicativo di certe fattispecie penali (ma
anche punitivo-amministrative) appartenenti a differenti sistemi giu-
ridici nazionali si rivelerà tanto maggiore ove i magistrati — anche a
costo di superare i vincoli loro imposti dal principio di stretta legalità
— approfittino della difficoltà di distinguere tra ortopedia in via in-
) per “manipolare” la fattispecie pe-
terpretativa e in via analogica ( 30
nale in modo tale da farla risultare forzosamente conforme al diritto
comunitario. Resta il fatto che, nonostante la plausibilità delle ragioni
sottese a tali forzature ( ), queste ultime devono essere decisamente
31
stigmatizzate, non potendo certo il giudice interno sostituirsi ai com-
piti di “fedeltà comunitaria” spettanti al legislatore nazionale.
b) Una seconda forma di incidenza, concettualmente distinta
dalla precedente, è quella c.d. integratrice, in quanto per l’appunto
attuata tramite l’integrazione del precetto penale ad opera della
normativa comunitaria. Tale integrazione può aversi essenzialmente
in tre casi.
b1) Il primo caso si ha quando il precetto penale risulta
implicitamente improntato alla tecnica del cosiddetto “rinvio parzia-
le” ( ), attraverso il ricorso a “elementi normativi giuridici” ( )
32 33
implementati da norme di fonte “europea”; vale a dire quando il
( ) Sul punto cfr., ad esempio, G , voce Analogia, in Dig. IV - Disc.
30 IANFORMAGGIO , Diritto
priv., 1987, p. 16 dell’estratto; in prospettiva strettamente penalistica H ASSEMER
giusto attraverso un linguaggio corretto? Sul divieto di analogia nel diritto penale, in Testo
e diritto, Ars interpretandi, 1997, n. 2, p. 190.
) Si pensi, innanzitutto, alla già ricordata esigenza di tutelare beni protetti dalla
( 31
normativa comunitaria, nonché all’avvertita esigenza di non esporre lo Stato di apparte-
nenza ad una condanna da parte della Corte di giustizia per mancato rispetto dell’obbligo
di garantire, attraverso adeguate sanzioni, l’effettività del diritto comunitario.
) In merito a tale tecnica cfr. da ultimo, volendo, B , Il processo di
(
32 ERNARDI
razionalizzazione del sistema sanzionatorio alimentare tra codice e leggi speciali, in Riv.
trim. dir. pen. econ., 2002, p. 99 ss.
) In relazione ai quali cfr., ad esempio, M , Diritto penale, Padova,
(
33 ANTOVANI
2001, p. 71. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
476 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
precetto in questione contiene “unità linguistiche qualificate” ( )
34
che rimandano, per la conoscenza del loro esatto significato, a
disposizioni legali di matrice ab origine comunitaria, ovvero a dispo-
sizioni extrapenali ab origine nazionali ma modificate in un secondo
momento da norme di diritto comunitario. Il pensiero corre, ad
esempio, ai termini “rifiuti”, “mezzo pubblico”, “genuinità”, ai quali
norme di diritto comunitario hanno conferito ex novo una dimen-
), ovvero hanno attribuito un’acce-
sione “normativo-giuridica” (
35
zione diversa da quella ad essi originariamente attribuita dalla
);
previgente normativa interna (
36
b2) Il secondo caso di incidenza integratrice si ha quando il
precetto penale risulta esplicitamente improntato alla tecnica del
rinvio cosiddetto “parziale” ed “elastico” ( ). Ciò accade quando
37
tale precetto penale si presenta palesemente incompleto o se si
preferisce “parzialmente in bianco” ( ), in quanto destinato ad
38
essere integrato e specificato — in modo per l’appunto “elastico” —
da norme di fonte “europea”, ovvero da norme extrapenali a
contenuto tecnico originariamente previste da fonti nazionali ma
successivamente modificate o integralmente sostituite da norme di
fonte “europea”.
b3) Il terzo caso di incidenza integratrice si ha quando il
( ) G , Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, I - La fattispecie,
34 IUNTA
Padova, 1993, p. 253 ss.
) Si pensi, ad esempio, al termine “genuinità”, il quale in taluni casi è
( 35
trapassato da elemento naturalistico (la c.d. “genuinità naturale”, che si riscontra nel
caso in cui la genuinità si fonda su parametri per cosı̀ dire “naturali”, in quanto non
specificati da apposite norme ma lasciati alla valutazione discrezionale del giudice) a
elemento normativo-giuridico a carattere comunitario (nel caso in cui il termine “genui-
nità” debba essere valutato dal giudice non già sulla base del parametro costituito dalla
composizione “naturale” del prodotto stesso, ma per l’appunto sulla base di nuove,
specifiche norme contenute in un atto comunitario).
) In argomento cfr., anche per ulteriori riferimenti bibliografici, B , I tre
(
36 ERNARDI
, Entsanktionierung der
volti del “diritto penale comunitario”, cit., p. 62 ss.; D ANNECKER
Straf- und Bußgeldvorschriften des Lebensmittelrechs, Baden-Baden, 1996, p. 88 ss.;
, Die Europäisierung des Strafrechts, cit., p. 571 ss.
S ATZGER ) Il rinvio viene detto “elastico” nel caso in cui la fattispecie incriminatrice
(
37
rinviante preveda un automatico adeguamento dei suoi contenuti precettivi sulla base dei
mutamenti delle norme extrapenali integratrici succedentisi nel tempo.
) In argomento cfr., da ultimo e diffusamente, S , Die Europäisierung des
( 38 ATZGER
Strafrechts, cit., p. 210 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 477
ALESSANDRO BERNARDI
precetto penale è costruito in forma di rinvio “totale” ad una norma
di fonte europea, cosicché l’apporto del legislatore nazionale nella
formulazione della fattispecie consiste solo nel comminare le san-
zioni applicabili in caso di violazione delle relative prescrizioni
). Questa ultima e più macroscopica forma di inci-
comunitarie (
39
denza, che finisce ovviamente col privare il legislatore nazionale del
), si ha soprattutto
momento più “nobile” della sovranità punitiva ( 40
(ma non solo) nei casi in cui all’interno dei singoli Stati membri
debba darsi attuazione sanzionatoria a norme contenute in regola-
). Infatti, in ragione del primato di tali regola-
menti comunitari (
41 ),
menti sulla normativa interna e della loro diretta applicabilità ( 42
agli organi legislativi dei Paesi membri è inibito non solo di riela-
borare le prescrizioni comunitarie nell’ambito di un nuovo precetto
penale “nazionalizzato”, ma persino di riprodurre testualmente
). Soltanto in tal modo,
queste ultime in un atto normativo interno ( 43
( ) Merita di essere precisato che nei sistemi penali dei Paesi europei maggior-
39
mente sensibili al principio di legalità-riserva di legge (tra i quali rientra indubbiamente
l’Italia) tale forma di rinvio può aversi solo con riferimento a una norma comunitaria
preesistente alla norma penale rinviante; mentre nei sistemi penali caratterizzati da un
approccio più disinvolto alle fonti di produzione delle disposizioni penali il rinvio in
questione può avere ad oggetto anche norme comunitarie di futura emanazione. Cosı̀, a
d esempio, in Francia, sono ammesse norme penali che prevedono rinvii estremamente
generici a regolamenti comunitari futuri. Cfr., par esempio, l’art. 214-3 del code de la
consommation, di cui alla L. 93-949 del 26 luglio 1993 (in Journal officiel, 27 luglio 1993,
, L’incrimination par renvoi du legisla-
p. 10551). Al riguardo cfr., diffusamente, R
OBERT
téur national à des règlements communautaires futurs, in Mélanges offerts à G. Levasseur,
Paris, 1992, p. 169 ss.
) Quello consistente, appunto, nell’individuazione dei comportamenti giuridi-
( 40
camente inammissibili e dunque punibili.
) Fra i moltissimi esempi di precetti penali che rinviano integralmente a
( 41
disposizioni comunitarie a carattere regolamentare, cfr. il testo originario dell’art. 4
comma 1 della l. 4 novembre 1987, n. 460: “1. Chiunque trasgredisce le prescrizioni, i
divieti ed i limiti stabiliti negli articoli 15, 16, 22 e nell’allegato VI del regolamento CEE
n. 822/87 del Consiglio in data 16 marzo 1987 in materia di dolcificazione, di tagli e di
pratiche e trattamenti enologici, è punito con l’arresto fino ad un anno e con l’ammenda
da lire un milione a lire venti milioni, salvo che il fatto non costituisca più grave reato”.
) In base alla quale, come noto, i regolamenti comunitari producono effetti in
( 42
modo automatico, senza cioè veder condizionata la loro efficacia al varo di provvedi-
menti di fonte statuale.
) L’illegittimità di qualsivoglia atto interno riproduttivo o modificativo di un
( 43
regolamento comunitario è stata sottolineata a più riprese dalla Corte di giustizia. Cfr.,
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
478 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
del resto, può essere fatta salva l’esigenza sia di riservare alla Corte
di giustizia il monopolio dell’interpretazione delle norme regola-
mentari ( ), sia di sottrarre queste ultime al controllo nazionale di
44
costituzionalità ( ), sia infine di garantire l’effetto immediato e
45
diretto di ogni loro eventuale modifica ( ). In definitiva, se è vero
46
che in sede di costruzione del precetto penale la tecnica del rinvio
“totale” a norme extrapenali viene talora utilizzata dal legislatore
all’interno di una ricchissima giurisprudenza, sent. 18 febbraio 1970, causa 40/69
(Bollmann), in Racc., 1970, p. 69. In senso conforme cfr. ad esempio, nella giuri-
sprudenza costituzionale italiana, sent. 27 dicembre 1973, n. 183, in Giur. cost., 1973, p.
, Il cammino comunitario della Corte; sent. 30 ottobre 1975, n.
2401, con nota di B ARILE , Regolamenti comunitari, leggi
232, in Foro it., 1976, I, c. 542 ss., con nota di C ONFORTI
nazionali e Corte costituzionale, con ulteriori riferimenti bibliografici. In dottrina cfr., per
, Costituzione e regolamenti comunitari, Milano, 1994, p. 8 ss. con
tutti, G
UZZETTA
ulteriori puntualizzazioni e ricchissimi riferimenti bibliografici. Cfr. altresı̀, in una
, Rapporti tra diritto comunitario e
prospettiva essenzialmente comunitaristica, K OVAR
diritti nazionali, in Trent’anni di diritto comunitario, Bruxelles-Lussemburgo, 1981, p.
137 e bibliografia ivi riportata. Limitatamente alla dottrina penalistica, cfr., tra gli altri,
, La difficile integrazione tra diritto comunitario e diritto penale: il caso della
B ERNARDI , L’application des règlements
disciplina agroalimentare, in Cass. pen., 1996, p. 997; B
IGAY ,
communautaires en droit pénal francais, in Rev. trim. dr. eur., 1971, p. 58 ss.; G AITO
Sull’efficacia immediata dei regolamenti comunitari nel settore penale, in Giur. it., 1981,
, voce Legge penale, in Dig. disc. pen., vol. VII, 1993, p. 351; I .,
p. 453 ss.; P ALAZZO D
, Droit
Introduzione ai princı̀pi di diritto penale, Torino, 1999, p. 253 ss.; P
EDRAZZI
communautaire et droit pénal des Etats membres, in Droit communautaire et droit pénal,
, voce Legge penale. I) Fonti, in Enc. giur. Treccani,
Milano, 1981, p. 51 ss.; T
RAPANI
XVIII, Roma, 1990, p. 11.
) Cfr., per tutti, P , Art. 177 - Commentaire, in Traité instituant la CEE
( 44 ESCATORE
a cura di V. Constantinesco, R. Kovar, J.-P. Jacqué, D. Simon, Paris, 1992, p. 1081 ss.
) Quanto meno fatti salvi i casi in cui tali norme risultino in tensione coi
( 45
principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. La Corte costituzionale italiana
ha invero affermato che in tali casi “anche il diritto derivato può essere censurato in via
, La giurisprudenza
indiretta per il tramite della legge di esecuzione del trattato” A
MOROSO
costituzionale nell’anno 1995 in tema di rapporto tra ordinamento comunitario e ordina-
mento nazionale: verso una “quarta fase”?, in Foro it., 1996, V, c. 87. Sulla problematica
del diritto comunitario secondario confliggente con i diritti fondamentali cfr., relativa-
mente all’esperienza francese, Conseil const., 20 gennaio 1993, sent. 92-316 DC, in Rev.
, F , P ,
franç. dr. const., 1993, n. 14, p. 375 ss., con note di F
AVOREU RAYSSINET HILIPPE
, R . Relativamente all’esperienza spagnola cfr. T , La situazione attuale
R ENOUX OUX RAYTER
dell’integrazione del diritto comunitario in Spagna. Riferimento speciale ai diritti fonda-
mentali riconosciuti nella Costituzione, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1995, p. 960 ss.
) Cfr., in particolare, B , L’influenza del diritto comunitario sulle
(
46 ERNASCONI
tecniche di costruzione della fattispecie penale, in Indice pen., 1996, p. 455 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 479
ALESSANDRO BERNARDI
nazionale anche con riferimento a norme non contenute in regola-
menti comunitari, è anche vero che, limitatamente alle norme euro-
pee a carattere regolamentare, il ricorso a tale tecnica normativa
risulta indotto e favorito da tutta una serie di fattori che trovano le
loro radici nei difficili rapporti di integrazione tra diritto comunita-
).
rio e diritto penale (
47
Come ben si vede, in tutti e tre i casi presi in esame il ricorso a
precetti penali siffatti, in minore o maggiore misura integrati nei
), o
singoli Stati da norme comunitarie assolutamente identiche (
48
comunque votate a dare vita a disposizioni nazionali alquanto
), implica un processo di tenden-
omogenee da uno Stato all’altro ( 49
ziale omogeneizzazione di tali precetti a livello interstatuale, o
addirittura comporta la radicale uniformazione di questi in ambito
europeo. In particolare, la crescente proliferazione di disposizioni di
origine comunitaria sostitutive di precedenti disposizioni extrapenali
a carattere puramente nazionale e destinate a integrare in chiave
“tecnica” moltissimi precetti penali, non fa che accelerare il feno-
meno di armonizzazione/unificazione (o se si preferisce di più o
). Natural-
meno intensa “europeizzazione”) dei suddetti precetti ( 50
mente, tale fenomeno di europeizzazione dei precetti acquista il
massimo rilievo laddove, come nei casi di rinvio “totale” a fonti
comunitarie, siano in realtà queste ultime a formulare il precetto
nella sua interezza, residuando al legislatore nazionale, come già
( ) Peraltro, sulla opportunità di resistere alle facili lusinghe connesse al ricorso
47
alla tecnica normativa del rinvio “completo” nelle sue diverse configurazioni, tenuto
conto dei profili di disfunzionalità insiti in tale tecnica cfr. diffusamente, anche con
specifico riferimento ai rapporti di integrazione tra diritto penale e regolamenti comu-
, Il processo di razionalizzazione del sistema sanzionatorio alimentare tra
nitari, B ERNARDI
codice e leggi speciali, cit., p. 95 ss.
) Se contenute in regolamenti comunitari.
(
48 ) Laddove tali norme comunitarie siano contenute in direttive d’armonizza-
( 49
zione sufficientemente dettagliate, e dunque destinate ad essere trasposte con poche
modifiche all’interno dei singoli sistemi giuridici nazionali.
) Merita di essere ricordato che la tecnica di integrazione dei precetti penali
( 50
incentrata su forme esplicite di rinvio “elastico” viene ritenuta da una larga parte della
dottrina (almeno nei Paesi più rispettosi del principio di legalità nelle sue diverse
espressioni, quali in particolare la Germania e l’Italia) in contrasto col principio di
riserva di legge. Ma nemmeno in questi Paesi il dissenso della dottrina è riuscito a frenare
il successo decretato dal legislatore alle fattispecie incriminatrici cosı̀ costruite.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
480 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
detto, il solo potere di dettare la disciplina sanzionatoria applicabile
in caso di violazione della normativa sovrastatuale.
c) Infine, la terza forma di incidenza del diritto comunitario sui
precetti penali consiste nella disapplicazione da parte del giudice
) o
nazionale di quelli incompatibili con norme europee primarie (
51
), in quanto volti per l’appunto a punire fatti consentiti
secondarie ( 52
dalla legislazione europea. Tale meccanismo di disapplicazione giu-
) — che costituisce una conseguenza dei principi del
diziaria ( 53
primato e dell’effetto diretto del diritto comunitario sul diritto
interno — può investire il precetto penale nella sua interezza
(qualora quest’ultimo confligga insanabilmente con principi o regole
di fonte comunitaria, con conseguente assoluta inapplicabilità della
( ) Un esempio di contrasto con norme CE primarie è offerto da talune
51
fattispecie penali nazionali volte a tutelare un regime di controllo dei prezzi su taluni
prodotti importati o nazionali, la cui disapplicazione discende dalla incompatibilità delle
suddette norme col principio del divieto di misure d’effetto equivalente ad una restri-
zione quantitativa all’importazione, previsto dall’art. 28 (in precedenza, art. 30) TCE.
, Comunità europee e diritto penale, cit., p. 278, con puntuali
Cfr., per tutti, G
RASSO
riferimenti giurisprudenziali.
) Un esempio di contrasto con norme CE secondarie è stato offerto dalla
(
52
normativa penale italiana (cfr. art. 112, r.d. 12 maggio 1927, n. 824, in relazione all’art.
1, d.m. 21 maggio 1974) volta a colpire il mancato rispetto delle procedure di autoriz-
zazione e di controllo delle condizioni di funzionamento di apparecchi la cui pressione
fosse risultata superiore a precisi limiti, in seguito modificati ad opera di una disposi-
zione comunitaria direttamente applicabile (cfr. la direttiva 767 del 1976, in GUCE L
262 del 27 settembre 1976, p. 153 ss.). Tale disposizione comunitaria — anche alla luce
dell’evoluzione delle tecnologie avutasi nell’arco di tempo intercorso dal varo della legge
italiana in materia — fissa limiti di pressione più elevati dei precedenti, rendendo cosı̀
lecito il mancato controllo o la mancata verifica di apparecchi con una pressione
superiore a quella consentita in base alla legge italiana, purché siano rispettati i nuovi
limiti fissati dalla disciplina comunitaria in questione (cfr., Pret. Desio, sent. 15 gennaio
, Osservazioni in
1980, in Riv. it. dir. proc. pen., 1982, p. 402 ss., con nota di M
UCCIARELLI
tema di immediata applicabilità delle direttive comunitarie in materia penale).
) In merito al quale cfr., per tutti e limitatamente alla dottrina penalistica
(
53 , Comunità europee e diritto penale, cit., p. 269 ss.; M , Unione
italiana, G RASSO ANACORDA
europea e sistema penale: stato della questione e prospettive di sviluppo, in Studium iuris,
, Diritto penale, cit., p. 978; P , Droit communautaire
1997, p. 947 ss.; M
ANTOVANI EDRAZZI
, Diritto penale e diritto comunitario,
et droit pénal des Etats membres, cit., p. 57 ss.; R IZ
, Commentario sistematico del codice penale,
Padova, 1984, p. 102 ss. e p. 206 ss.; R
OMANO
, Diritto comunitario e diritto penale, in Riv. trim.
vol. I, Milano, 1995, p. 34; T IEDEMANN
dir. pen. econ., 1993, p. 213-214.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 481
ALESSANDRO BERNARDI
relativa fattispecie penale) ( ); oppure può interessare solo una
54
parte del precetto (nei casi in cui esclusivamente una parte dei
comportamenti da questo vietati siano considerati leciti in base alla
normativa europea). Resta comunque il fatto che sia nei casi di
disapplicazione totale sia in quelli di disapplicazione parziale dei
precetti penali nazionali si realizza una sorta di ravvicinamento “in
negativo” dei relativi sistemi penali. Ravvicinamento consistente, per
l’esattezza, in un processo di erosione degli ambiti del penalmente
rilevante destinato a inibire un utilizzo delle fattispecie penali na-
zionali in contrasto col diritto sovrastatuale. Anche per questa via,
dunque, i precetti penali, senza con ciò divenire necessariamente
uguali da uno Stato all’altro, sono pur tuttavia assoggettati ad un
processo di tendenziale “europeizzazione”.
5. L’influenza del diritto comunitario sulla disciplina punitiva. Gli
effetti di armonizzazione sanzionatoria prodotti dalle fonti CE di
diritto derivato.
Se, come in precedenza accennato, le plurime forme di inci-
denza del diritto comunitario sui precetti penali nazionali discen-
dono tutte, essenzialmente, dai “principi-cardine” del primato e
dell’efficacia diretta del diritto comunitario sulla normativa dei Paesi
membri, le forme di influsso del diritto comunitario sulle scelte
punitive nazionali discendono innanzitutto dal principio “non
scritto” di proporzione e dal principio di fedeltà comunitaria di cui
all’art. 10 TCE.
In estrema sintesi, è possibile affermare che le forme di influsso
da ultimo ricordate sono dovute all’azione sia del legislatore comu-
nitario sia della Corte di giustizia, e operano nella duplice prospet-
tiva di imporre sanzioni sufficientemente severe ed effettive da
garantire il rispetto delle disposizioni di fonte comunitaria all’in-
( ) Come ricordato supra, sub nt. 29, tale fattispecie dovrà pertanto, per ragioni
54
di certezza del diritto, essere al più presto abrogata dal legislatore: cfr. Corte di giustizia,
sent. 15 ottobre 1986, causa (Commissione c. Repubblica italiana), in Dir. com. scambi
, Recenti sviluppi sul contrasto tra norme
intern., 1987, p. 105 ss., con nota di Z ILIOLI
nazionali e disposizioni comunitarie, p. 110 ss.
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482 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
terno dei singoli Stati membri, ovvero di inibire il ricorso a sanzioni
nazionali sproporzionate per eccesso.
Per quanto riguarda l’influsso esercitato dalla legislazione comu-
nitaria secondaria sulle scelte punitive nazionali, occorre subito sot-
tolineare che esso opera solo in relazione all’attuazione sanzionatoria
dei testi normativi CE. Per di più, tale influsso mira sostanzialmente
ad assicurare l’efficacia preventivo-repressiva delle misure punitive
nazionali, che come appena ricordato si verifica quando queste
ultime presentano un coefficiente di severità tale da garantire una
tutela effettiva delle norme “europee”.
Vero è peraltro che il più delle volte le fonti comunitarie in
questione (regolamenti e direttive) lasciano un notevole margine di
discrezionalità agli Stati, limitandosi a decretare l’obbligo in capo ad
essi di colpire le violazioni delle disposizioni ivi contenute con
sanzioni “adeguate” ovvero “proporzionate”, “appropriate”, “effi-
). Non mancano, tuttavia, atti
caci”, “sufficientemente dissuasive” (
55
comunitari che si premurano di fissare in modo preciso la tipolo-
), l’entità ( ) e persino le specifiche finalità ( ) delle sanzioni
gia ( 56 57 58
( ) Cfr., all’interno di un vastissimo campionario di atti comunitari, l’art. 7 del
55 o dicembre 1986 “che fissa misure intese a vietare
reg. CEE 3842/86 del Consiglio del 1
l’immissione in libera pratica di merci contraffatte” (in GUCE, L357 del 18 dicembre
1986, p. 3); l’art. 8 del reg. CEE 3677/90 del Consiglio del 13 dicembre 1990 “recante
misure intese a scoraggiare la diversione di talune sostanze verso la fabbricazione illecita
di stupefacenti o di sostanze psicotrope” (in GUCE, L357 del 20 dicembre 1990, p. 4);
l’art. 39/3 del reg. CEE 2137/85 del Consiglio del 25 luglio 1985 “relativo all’istituzione
di un gruppo europeo di interesse economico (GEIE)” (in GUCE, L199 del 31 luglio
1985, p. 9); l’art. 13 della dir. 89/592/CEE del 13 novembre 1989 “sul coordinamento
delle normative concernenti le operazioni effettuate da persone in possesso di informa-
zioni privilegiate (insider trading)” (in GUCE, L334 del 18 novembre 1989, p. 30); l’art.
14 dalla dir. del Consiglio 91/308/CEE del 10 giugno 1991 “relativa alla prevenzione
dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite” (in
GUCE, L166 del 28 giugno 1991, p. 77); l’art. 16 della dir. 91/477/CEE del Consiglio
del 18 giugno 1991 “relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi” (in
GUCE L256 del 13 settembre 1991, p. 55); l’art. 8 della dir. 92/109/CEE del Consiglio
del 14 dicembre 1992 “relativa alla fabbricazione e all’immissione in commercio di
talune sostanze impiegate nella fabbricazione illecita di stupefacenti o di sostanze
psicotrope” (in GUCE, L370 del 19 dicembre 1992, p. 79).
) Cfr., ad esempio, l’art. 3 del reg. CEE n. 2262/84 “che prevede misure
( 56
speciali nel settore dell’olio d’oliva” (in GUCE, L208 del 3 agosto 1984, p. 11 ss.), il
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ALESSANDRO BERNARDI
nazionali volte a salvaguardare i precetti da essi introdotti ( ),
59
lasciando quindi un assai ridotto spazio di autonomia al legislatore
nazionale. In nessun caso, comunque, i suddetti atti si sono spinti
sino a sancire un espresso obbligo in capo agli Stati di introdurre
sanzioni formalmente penali: il legislatore “europeo” ha infatti
preferito lasciare ai Paesi membri la possibilità di scegliere se far uso
di sanzioni di tipo criminale ovvero di tipo amministrativo in sede di
). Il mantenimento di
attuazione del diritto comunitario derivato ( 60
questo margine di discrezionalità nazionale — dovuto essenzial-
mente ai dubbi esistenti in merito al fatto che gli Stati europei, con
la ratifica dei Trattati, abbiano acconsentito ad una almeno parziale
perdita di sovranità in materia penale — potrebbe tuttavia essere
superato in un prossimo futuro. È infatti attualissimo il dibattito
sull’esistenza o meno nel Trattato CE di basi giuridiche atte a
consentire agli organi comunitari deputati a redigere la normativa
quale impone di sanzionare le infrazioni al regime di aiuto alla produzione con sanzioni
pecuniarie proporzionali alla “dimensione del fatto illecito”.
) Cfr., esemplificativamente, la raccomandazione CECA n. 1835/81, la quale
( 57
all’art. 16 dispone che la violazione degli obblighi ivi previsti relativamente alla pubbli-
cazione dei prezzi e alle condizioni di vendita dell’acciaio sia punita con sanzioni
pecuniarie di cui viene stabilito il limite edittale massimo.
) Per esempio, la finalità di “privare effettivamente i responsabili del beneficio
(
58
economico derivante dall’infrazione”: art. 11-quater del reg. CEE n. 3483/88 del Consiglio
del 7 novembre 1988 “che modifica il regolamento (CEE) n. 2241/87 che istituisce
alcune misure di controllo delle attività di pesca” (in GUCE, L306 dell’11 novembre
1988, p. 2 ss.).
) Per ulteriori esempi di penetranti vincoli alle scelte sanzionatorie nazionali in
( 59
caso di violazione delle prescrizioni comunitarie cfr., tra gli altri: l’art. 31 del reg. CE
2847/93 del Consiglio del 12 ottobre 1993 “che istituisce un regime di controllo
applicabile nell’ambito della politica comune della pesca” (in GUCE L261 del 20 ottobre
1993, p. 1 ss.); l’art. 4 del reg. CE 858/94 del Consiglio del 12 aprile 1994 “che istituisce
un regime di registrazione statistica relativo al tonno rosso (Thunnus thynnus) nella
Comunità” (in GUCE L99 del 19 aprile 1994, p. 1 ss.).
) Per la verità, a più riprese il legislatore comunitario ha cercato di prevedere
( 60
a carico degli Stati puntuali obblighi di incriminazione, ma sinora tutti i progetti di atti
orientati in tal senso si sono invariabilmente arenati a causa del comportamento
ostruzionistico degli Stati membri. Per un rapido esame di taluni progetti di direttive
contenenti norme a carattere esplicitamente penale poi abortite per il fermo dissenso del
, Droit pènal et Union Europèenne: un mariage difficile, in Le droit
Consiglio cfr. D UTOIT
pénal et ses liens avec les autres branches du droit. Mélanges en l’honneur du Professeur
Jean Gauthier, Berna, 1996, p. 266.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
484 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
europea di obbligare gli Stati membri a introdurre sanzioni penali a
tutela di disposizioni contenute in testi di diritto derivato; dibattito
reso più acceso dalla recente presentazione di importanti progetti e
proposte di direttive contenenti, per l’appunto, obblighi di incrimi-
nazione a carico degli Stati membri in caso di violazione delle
).
relative prescrizioni (
61
A favore della possibilità per il legislatore comunitario di intro-
durre obblighi siffatti si sono già espressi a più riprese la Commis-
), il Consiglio per bocca del suo servizio giuridico ( ) e il
sione ( 62 63
Parlamento europeo ( ), quest’ultimo in particolare per bocca della
64
“Commissione giuridica e per il mercato interno” ( ) e della “Com-
65
missione per le libertà e i diritti dei cittadini” ( ). Anche la preva-
66
lente dottrina appare concorde in merito a questa possibilità, specie
nel caso in cui gli obblighi d’incriminazione siano contenuti in
direttive. Il tal caso, infatti, nonostante il ben noto problema con-
nesso al deficit democratico comunitario ( ), detti obblighi non sem-
67
( ) Cfr. la “Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa
61
alla tutela penale degli interessi finanziari della Comunità”, COM (2001) 272, in GUCE
C 240 E del 28 agosto 2001 pag. 125 ss. E cfr. altresı̀ la “Proposta di direttiva del
Parlamento Europeo e del Consiglio relativa alla protezione dell’ambiente attraverso il
diritto penale”, COM (2001) 139 def., in GUCE C 180 E del 26 giugno 2001, pag. 238.
) La quale da molti anni si batte per il riconoscimento di una piena competenza
( 62
penale della Comunità, ancorché se del caso circoscritta alla tutela degli interessi
finanziari CE. Cfr., da ultimo, il doc. SEC(2001)227, Documento di lavoro dei servizi
della Commissione sullo stabilimento di un acquis relativamente alle sanzioni penali.
) Come noto, infatti, il servizio giuridico del Consiglio sostiene che “nella
( 63
misura in cui il legislatore comunitario ritiene che il rispetto delle norme comunitarie
non possa essere assicurato se non attraverso il ricorso a sanzioni penali, in tal caso esso
dispone della capacità giuridica di obbligare gli Stati membri a prevedere tali misure”:
Parlamento europeo, Documento di lavoro sulle basi giuridiche e il rispetto del diritto
comunitario, (2001/2151(INI)) del 24 giugno 2002, PE 319.680, p. 7.
) Cfr. ancora, per puntuali riferimenti, Parlamento europeo, Documento di
( 64
lavoro sulle basi giuridiche e il rispetto del diritto comunitario, cit., p. 4 ss.
) Cfr. ivi, p. 5.
( 65 ) Cfr. doc. A5-390/2001.
( 66 ) È risaputo infatti che il trasferimento alla Comunità di una parte delle
( 67
competenze statuali, e dunque la sottrazione di queste ultime al potere dei Parlamenti
nazionali, non ha trovato quale adeguato pendant l’attribuzione di tali competenze al
Parlamento europeo, unico organo della Comunità democraticamente legittimato. No-
nostante il progressivo ampliamento dei poteri di tale organo, ancor oggi è essenzial-
mente il Consiglio europeo a detenere la competenza legislativa in ambito comunitario;
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 485
ALESSANDRO BERNARDI
brerebbero porre problemi neppure rispetto del principio di legalità
in materia penale ( ). Ciò, quantomeno, ove in sede di recepimento
68
delle direttive contenenti disposizioni deputate ad essere salvaguar-
date per mezzo di sanzioni criminali si faccia ricorso nei singoli Stati
dell’Unione a meccanismi normativi conformi ai requisiti legali ivi
imposti per la creazione di fattispecie penali ( ).
69
In questo senso — nonostante che da ultimo i dubbi circa la
di conseguenza, come viene costantemente sottolineato, “il trasferimento di poteri dagli
Stati alla Comunità si traduce, in sostanza, in un trasferimento di poteri dai Parlamenti
, Il deficit democratico nella
nazionali ai Governi nazionali riuniti nel Consiglio”. V ILLANI
formazione delle norme comunitarie, in Dir. com. scambi intern., 1992, p. 600. Cfr. altresı̀,
, Principi inviolabili e integrazione comunitaria, Milano, 1995, p. 67
tra gli altri, C
ARTABIA
, Atti comunitari e procedure di formazione, in Riv. dir. eur., 1995, p. 520 ss.;
ss.; V
ACCA , Verso una codificazione penale europea? Ostacoli e prospettive, in
volendo B ERNARDI
Annali dell’Università di Ferrara - Scienze giuridiche, Saggi III, 1996, p. 82 ss.
) In questo senso cfr., in generale e per tutti, B , “Principi di diritto” e
( 68 ERNARDI , Armoniz-
diritto penale europeo, cit., p. 163 ss., e bibliografia ivi riportata; D ANNECKER
zazione del diritto penale all’interno della Comunità europea, in Riv. trim. dir. pen. econ.,
, Le pouvoir repressif des Communautes européennes et la
1994, p. 987; F
ORNASIER ,
protection de leurs intérêts financiers, in Rev. Marché commun, 1992, p. 413; G
RASSO
Comunità europee e diritto penale, cit., p. 92 ss. e p. 194 ss., con ulteriori riferimenti
, Il ravvicinamento delle legislazioni penali nell’ambito della Comu-
bibliografici; P EDRAZZI , Der Beitrag des
nità economica europea, in Indice pen., 1967, p. 328 ss.; Z
ULEEG
Strafrechts zur Europäischen Integration, cit., p. 53 ss. In termini più problematici cfr.
, K -J , Droit pénal international, Paris, 1994, p. 149, con ulteriori
H
UET OERING OULIN , The European Community’s Competence to Prescribe
riferimenti bibliografici; H
UGGER
National Criminal Sanctions, in European Journal of Crime, Criminal Law and Criminal
, Administrative Sanctioning Powers of and in the
Justice, 1995, n. 3, p. 251 ss.; V
ERVAELE
Comunity. Tovards a System of European Administrative Sanctions?, in Administrative
Law Application and Enforcement of community Law in the Netherlands, Deventer, 1994,
p. 174. La tesi fortemente minoritaria in base alla quale le direttive con obblighi
d’incriminazione devono ritenersi in contrasto col principio di legalità è sostenuta da
, Der europäische Binnenmarkt und sein wirtschaftsstrafrechtlicher Schutz, in
O EHLER , Diritto penale dell’impresa e
Festschrift Baumann, Bielefeld, 1992, p. 565 ss.; P ATRONO
interessi umani fondamentali, Padova, 1993, p. 154.
) Peraltro, in merito al deficit di legalità insito nel meccanismo italiano di
( 69 , I principi e
recepimento delle direttive penalmente tutelate cfr., diffusamente, B ERNARDI
criteri direttivi in tema di sanzioni nelle recenti leggi comunitarie, in Annali dell’Università
, Principi
di Ferrara - Scienze Giuridiche, vol. XIV, 2000, in particolare p. 78 ss.; D OLCINI
costituzionali e diritto penale alle soglie del nuovo millennio, in Riv. it. dir. proc. pen.,
, D , Corso di diritto penale. 1. le norme penali: fonti e
1999, p. 14-15; M
ARINUCCI OLCINI
limiti di applicabilità. Il reato: nozione, struttura e sistematica, Milano, 2001, p. 47 ss.;
, Introduzione ai princpi del diritto penale, Torino, 1999, p. 247-248.
P ALAZZO © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
486 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
sussistenza di una competenza comunitaria a varare direttive conte-
nenti obblighi di incriminazione a carico degli Stati membri siano
) — sembra di poter concludere riba-
stati riproposti con forza (
70
dendo la legittimità di direttive siffatte. Il che, naturalmente, non
equivale ad affermare la sussistenza in capo alla Comunità di un
indiscriminato potere di imporre risposte di tipo penale per qualsi-
voglia violazione del diritto comunitario, indipendentemente dalla
). Infatti, al pari di ogni altra disposizione comunitaria,
sua gravità (
71
i vincoli sanzionatori contenuti nelle direttive sono sindacabili dalla
Corte di giustizia in merito alla loro conformità ai principi generali
del diritto comunitario, e segnatamente al principio di proporzione-
): pertanto il legislatore “europeo”
stretta necessità della sanzione (
72
non potrebbe indurre gli Stati membri a varare una disciplina
( ) In effetti, con riferimento alla “Proposta di direttiva del Parlamento Europeo
70
e del Consiglio relativa alla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale” del
2001, in seno al Consiglio si è da ultimo giunti alla conclusione che non potesse essere
raggiunta la maggioranza necessaria alla sua adozione, ritenendosi che tale proposta vada
al di là delle competenze attribuite alla Comunità dal Trattato CE. Si è altresı̀ ritenuto
che gli obiettivi perseguiti dalla proposta di direttiva in questione possano essere
raggiunti mediante una decisione quadro basata sul titolo VI del Trattato UE, ed in
particolare sul relativo art. 34. È stata cosı̀ adottata la decisione quadro 2003/80/GAI
del Consiglio del 27 gennaio 2003, “relativa alla protezione dell’ambiente attraverso il
diritto penale”, in GUCE L29, p. 55 ss. Tuttavia, in merito alla ben diversa efficacia delle
direttive rispetto alle decisioni quadro cfr., infra, sub par. 9, in fine.
) Gravità da valutarsi, come si sa, in rapporto all’importanza del bene tutelato
(
71
ed alle modalità oggettive e soggettive di aggressione allo stesso.
) Parallelamente, come vedremo nel prosieguo della trattazione, in sede di
( 72
attuazione del diritto comunitario gli Stati membri non potrebbero introdurre nemmeno
spontaneamente una disciplina sanzionatoria eccessivamente severa, in quanto non solo
la normativa comunitaria, ma anche la normativa nazionale di attuazione di testi
comunitari risulta sottoposta al controllo della Corte di giustizia in merito alla sua
conformità al diritto comunitario primario, e segnatamente al principio di proporzione
, Il diritto comunitario
della risposta punitiva. In argomento cfr., tra gli altri, C
APOTORTI
, I principi generali come fonte di diritto, cit., p. 548;
non scritto, cit., p. 409 ss.; C APELLI
-M , Le flou du droit: Du code pénal aux droits de l’homme, Paris, 1986 (trad.
D
ELMAS ARTY
it. Dal codice penale ai diritti dell’uomo, trad. it., Milano, 1992, in particolare p. 86 ss.;
S , Droit communautaire, droit pénal et Convention européenne des droits de
D E ALVIA , Diritto penale e diritto
l’homme, in Droit communautaire et droit pénal, cit., p. 122; R IZ
, I diritti fondamentali nella giurisprudenza della
comunitario, cit., p. 467 ss.; T
ESAURO ., Diritto
Corte di Giustizia, in Riv. intern. dir. uomo, 1992, p. 432 ss. e 440; I
D
comunitario, Padova, 2001, p. 89.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 487
ALESSANDRO BERNARDI
sanzionatoria sproporzionata per eccesso senza incorrere nella cen-
sura della Corte di giustizia.
6. Il ruolo della giurisprudenza della Corte di giustizia nel ravvici-
namento delle risposte punitive nazionali.
Per quanto riguarda ora l’influsso esercitato dalla giurisprudenza
comunitaria sulle scelte sanzionatorie dei Paesi membri, va innanzi-
tutto posto in rilievo che tale influsso si manifesta sia in sede di at-
tuazione delle fonti di diritto derivato, sia nell’ambito di materie aventi
rilevanza comunitaria; va inoltre evidenziato che i giudici di Lussem-
burgo, nella loro attività di controllo delle misure punitive adottate dal
legislatore nazionale, mirano a evitare (ed eventualmente a “condan-
nare”) la previsione e/o l’applicazione non solo di sanzioni inadeguate
per difetto, ma anche di sanzioni eccessivamente severe.
In proposito, meritano di essere sottolineati gli sviluppi inter-
pretativi cui è stato assoggettato da tali giudici il principio sancito
dall’art. 10, comma 1, TCE, concernente l’obbligo di leale coopera-
) gra-
zione con la Comunità (“obbligo di fedeltà comunitaria”) ( 73
vante sui Paesi membri. La Corte di giustizia, dopo aver in un primo
periodo affermato che in base a tale principio gli Stati CE erano
liberi di scegliere le sanzioni interne atte a colpire le violazioni degli
obblighi di fonte comunitaria ( ), ha mutato progressivamente il
74
proprio punto di vista, sostenendo che gli Stati erano tenuti a dare
attuazione alla normativa comunitaria attraverso l’introduzione di
sanzioni realmente efficaci, cioè funzionali al perseguimento delle
loro finalità preventive ( ). A partire dalla fine degli anni ’80, tali
75
vincoli sanzionatori sono stati ulteriormente precisati dalla Corte di
giustizia, la quale ha stabilito che le violazioni del diritto comunitario
( ) In base al quale “Gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere
73
generale e particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal presente
trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità. Essi facilitano
quest’ultima nell’adempimento dei propri compiti”.
) Cfr. sent. 2 febbraio 1977, causa 50/76 (Amsterdam Bulb BV), in Racc., 1977,
( 74 , La formazione di un diritto penale dell’Unione
p. 150. Sul punto cfr., per tutti, G RASSO
europea, in Prospettive di un diritto penale europeo, cit., p. 9 ss.
) Cfr., per tutte, sentt. 10 aprile 1984, cause 14/83 (von Colson) e 76/83 (Harz),
( 75
in Racc., 1984, pp. 1908 e 1941.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
488 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
devono essere punite nei Paesi membri con sanzioni analoghe a
quelle previste per le violazioni del diritto interno simili per natura e
gravità (cosiddetto “principio di assimilazione”) e comunque effettive,
adeguate alla gravità del fatto e dissuasive (cosiddetto “principio di
).
efficacia-proporzionalità”) (
76
Conseguenza logica del primo dei due principi appena ricordati
è che ove le violazioni del diritto interno simili per natura e
importanza alle violazioni del diritto comunitario fossero punite in
sede penale, sussisterebbe l’obbligo a carico dello Stato di assogget-
tare a sanzione penale anche le suddette violazioni “comunita-
). Conseguenza logica del secondo di tali principi è che, cosı̀
rie” ( 77
come chiarito a più riprese dalla stessa Corte di giustizia, in relazione
alle più gravi violazioni del diritto comunitario solo sanzioni di tipo
).
penale potrebbero essere riconosciute proporzionate (
78
L’esame della giurisprudenza di Lussemburgo porta dunque a
( ) Cfr. Corte di giustizia, sent. 21 settembre 1989, causa 68/88 (Commissione c.
76
Grecia), in Racc., 1989, p. 2965 ss.; sent 10 luglio 1990, causa 326/88 (Hansen), cit., p.
2935; sent. 2 ottobre 1991, causa 7/90 (Vandevenne), in Racc., 1991, p. 4387; sentt. 8
giugno 1994, cause 382/92 e 383/92 (Commissione c. Regno Unito), in Racc., 1994, p.
2475 e p. 2494; sent. 26 ottobre 1995, causa 36/94 (Siesse), in Racc., p. 3573, punto 20;
sent. 12 settembre 1996, cause riunite 58/95, 75/95, 112/95, 119/95, 123/95, 135/95,
140/95, 141/95, 154/95, 157/95 (Gallotti), in Racc., 1996, p. 4345; sent. 27 febbraio
1997, causa 177/95 (Ebony), in Racc., 1997, p. 1143 e in Dir. pen. proc., 1998, p. 309, con
. In merito ai problemi di coordinamento tra i principi di assimilazione
nota di R IONDATO , Profili di incidenza del diritto
e di efficacia-proporzionalità cfr., volendo B
ERNARDI
comunitario sul diritto penale agroalimentare, cit., p. 127 ss.
) Cfr., per tutti, R , la sanzione delle violazioni da parte dei singoli di norme
(
77 IZZA
comunitarie dirette alla protezione degli interessi finanziari della Comunità nella giuri-
sprudenza della Corte di giustizia, in La lotta contro la frode agli interessi finanziari della
Comunità europea tra prevenzione e repressione, a cura di G. Grasso, Milano, 2000, p. 99.
) Cfr., in particolare, ord. 13 luglio 1990, causa C2/88 (Zwartveld), in Racc.,
(
78
1990, p. 3365 ss.; sent. 28 gennaio 1999, C-77/97, (Oesterreichische Unilever GmbH e
Smithkline Beecham Markenartikel GmbH), in Dir. pen. proc., 1999, p. 447, con nota di
. In dottrina cfr., in particolare, R , La sanzione delle violazioni da parte dei
R IONDATO IZZA
singoli di norme comunitarie dirette alla protezione degli interessi finanziari della Comu-
nità nella giurisprudenza della Corte di giustizia, cit., p. 118-119. Circa l’obbligo per gli
Stati membri (non solo di prevedere in astratto, ma) di applicare in concreto sanzioni
penali in relazione ad atti di violenza commessi su mezzi destinati a trasportare prodotti
agricoli di un altro Stato membro per impedire la libertà degli scambi intracomunitari
sancita dall’art. 28 TCE, cfr. Corte di giustizia, sent. 9 dicembre 1997, in Racc., 1997, p.
I- 6959 ss., in particolare punti 48 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 489
ALESSANDRO BERNARDI
concludere che anche nel caso in cui manchi un espresso obbligo di
incriminazione da parte del legislatore comunitario, tale obbligo può
esser fatto discendere, in via generale, dagli sviluppi del principio di
fedeltà comunitaria di cui all’art. 10 comma 1 TCE. Una siffatta
conclusione appare del resto in linea con le finalità dei Trattati e
della produzione normativa fondata su di essi, tenuto conto del fatto
che risulterebbero esiziali per il mercato unico oasi di impunità (o di
insufficiente punibilità, da valutarsi sia in astratto sia in concreto)
rispetto a taluni comportamenti realizzati in violazione del diritto
). Tuttavia, una parte della dottrina penale non ha
“europeo” (
79
mancato di manifestare il timore che, attraverso il vincolo dell’ade-
guatezza delle scelte sanzionatorie nazionali dirette alla tutela di
norme comunitarie, il diritto europeo finisca col preoccuparsi di
fissare minimi punitivi superabili solo verso l’alto e non verso il
basso, con conseguente sacrificio del principio di proporzionalità-
stretta necessità della risposta punitiva; ovvero finisca con lo stimo-
lare forme di tutela penale “a tappeto” in tendenziale contrasto col
). Certamente, il
principio di extrema ratio dell’intervento penale ( 80
rischio che le esigenze di una efficace salvaguardia della normativa
comunitaria possano condurre ad un indebito rigore delle risposte
punitive nazionali, ovvero ad una eccessiva proliferazione di fatti-
specie penali non può essere del tutto escluso. Resta comunque il
fatto che le applicazioni sul versante sanzionatorio del principio di
( ) In questo senso, merita di essere ricordato che di recente la Corte d’Appello
79
di Lecce e le sezioni I e IV del Tribunale di Milano hanno sollevato davanti ai giudici di
Lussemburgo talune questioni pregiudiziali in merito alla legittimità comunitaria della
nuova disciplina sanzionatoria, complessivamente intesa, dettata dall’art. 2621 c.c. In
particolare, i summenzionati organi giudiziari nazionali hanno ipotizzato la mancanza di
effettività, proporzionalità e dissuasività di tale disciplina, tenuto anche conto delle
norme e della prassi di diritto sostanziale e processuale vigenti nel nostro Paese. In
, Verso un nuovo diritto penale societario: i punti critici
argomento cfr., per tutti, F OFFANI M , Disciplina degli illeciti
della legge delega, in Cass. pen., 2001, p. 3247 ss.; D I ARTINO
societari in bilico tra legalità nazionale e legittimità comunitaria, in Guida al diritto, 2002,
, Falso in bilancio e diritto comunitario. Incertezze sulla
n. 45, p. 113 ss.; L ETTIERI ,
conformità della riforma alle norme UE, in Diritto e giustizia, 2002, n. 46, p. 48 ss.; S OTIS
Obblighi comunitari di tutela e opzione penale: una dialettica perpetua?, in Riv. it. dir.
proc. pen., 2002, p. 171 ss.
) Cfr., da ultimo e per tutti, V , Europäische Kriminalpolitik - europäische
( 80 OGEL
Strafrechtsdogmatik, in GA, 2002, p. 527.
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490 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
fedeltà comunitaria implicano forme di armonizzazione normativa
interstatuale condotte nel segno non solo di un incremento, ma
anche di un decremento del livello di severità delle sanzioni nazio-
nali e/o del complessivo ambito del penalmente rilevante. Ciò
accade sia — come si è visto — laddove attraverso il diritto
comunitario vengano consentiti comportamenti vietati a livello na-
) sia — come ci accingiamo a vedere — laddove il diritto
zionale ( 81
comunitario imponga una attenuazione della sanzione nazionale,
ovvero una vera e propria depenalizzazione di taluni comportamenti
legittimamente vietati dagli Stati, ma comunque assoggettati in
questi ultimi a risposte punitive da ritenersi troppo severe alla luce
dell’ordinamento giuridico europeo.
Il riferimento normativo primario atto a conferire alla Corte di
giustizia europea il ruolo di calmiere degli “eccessi rigoristici nazio-
nali” nei settori normativi di rilievo comunitario è costituito dall’art.
10 comma 2 TCE, in base al quale gli Stati membri “si astengono da
qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli
scopi” del Trattato CE. Costantemente interpretata dai giudici di
Lussemburgo alla luce del principio generale di proporzione, la
norma in questione ha infatti portato a ritenere comunitariamente
illegittime le sanzioni nazionali che non si rivelassero strettamente
necessarie in relazione alla tutela degli interessi in gioco. Più preci-
samente — a seguito di numerosi ricorsi pregiudiziali alla Corte di
giustizia, effettuati ex art. 234 TCE da giudici nazionali dubbiosi
della conformità al diritto comunitario di talune scelte punitive del
legislatore interno — la Corte non si è limitata ad offrire risposte
vaghe, volte esclusivamente a ribadire in linea di principio che la
proporzionalità costituisce un requisito di legittimità delle risposte
sanzionatorie nazionali in settori normativi di rilievo comunita-
rio ( ). In particolare, travalicando di fatto le sue naturali funzio-
82
ni ( ), la Corte ha anche a più riprese affermato senza mezzi termini
83
( ) Si allude, beninteso, all’incidenza disapplicativa (e se del caso anche abroga-
81
tiva) del diritto comunitario su talune fattispecie penali nazionali, in merito alla quale cfr.
supra, sub par. 3.1, lett. c).
) Una risposta di questo tipo si rinviene, ad esempio, nella sentenza 14 luglio
( 82
1977, causa 8/77 (Sagulo), p. 1509.
) Funzioni che dovrebbero consistere nel fornire l’esatto significato delle
( 83
norme comunitarie su cui il giudice nazionale ricorrente chiede ragguagli, senza pro-
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 491
ALESSANDRO BERNARDI
che le sanzioni utilizzate dallo Stato nel caso di specie dovevano
ritenersi in contrasto con la normativa “europea” ( ), in quanto
84
eccessive tenuto conto della natura dell’illecito, del comportamento
dell’autore, e di altri eventuali “indici” di gravità del fatto ( ). Si è
85
cosı̀ imposta prima la disapplicazione della norma punitiva interna
da parte del giudice nazionale, e quindi la riforma della normativa di
settore nel segno di una revisione del tipo e/o del quantum delle
sanzioni da essa comminate ( ), cosı̀ da attenuare il complessivo
86
livello di afflittività di queste ultime.
7. Le sanzioni amministrative comunitarie e la loro attitudine a
condizionare i sistemi punitivi dei Paesi membri.
All’interno dei Paesi membri il fenomeno di europeizzazione dei
sistemi penali (e penal-amministrativi) risulta favorito non solo dalle
convenzioni d’armonizzazione elaborate nell’ambito del Consiglio
nunciarsi sulla conformità o meno del diritto nazionale rispetto a tali norme. Ciò in
quanto, per l’appunto, tale giudizio spetta al giudice nazionale, che giudicherà tenendo
conto dell’interpretazione data dalla Corte di giustizia sulla norme comunitarie in
, Diritto penale e diritto comunitario, cit.,
questione. In proposito cfr., ad esempio, R
IZ
p. 189. ) Tale forma di ingerenza della Corte di giustizia in valutazioni riservate, in
(
84
linea di principio, al giudice nazionale ricorrente è dovuta al fatto che, sovente, i giudici
di Lussemburgo forniscono risposte cosı̀ articolate, da prendere di fatto posizione in
merito alla controversia che il giudice interno è chiamato a risolvere, e pertanto da
limitare grandemente il potere discrezionale di quest’ultimo. Cfr., ad esempio, all’interno
di una ricca giurisprudenza, Corte di giustizia, sent. 29 giugno 1978, causa 154/77
., sent. 12 ottobre 1978, causa 13/78 (Eggers), ivi,
(Deckman), in Racc., 1978, p. 1571; I D , La Corte di giustizia, in Trent’anni di diritto
p. 1935; in dottrina cfr., per tutti, R ASMUSSEN
comunitario, Bruxelles-Lussemburgo, 1981, p. 183 ss.
) Cfr. già, all’interno di un vasto campionario, sent. 26 febbraio 1975, causa
(
85
67/74 (Bonsignore), in Racc., 1975, p. 306-307; sent. 8 aprile 1976, causa 48/75, (Royer),
in Racc., 1976, p. 517; sent. 7 luglio 1976, causa 118/75 (Watson e Belmann), in Racc.,
1976, p. 1189; sent. 15 dicembre 1976, causa 41/76, (Donckerwolcke), in Racc., 1976, p.
1936. Cfr. altresı̀, per tutte, sent. 25 febbraio 1988, causa 299/86, (Drexl), in Racc., 1988,
p. 13 ss.
) In argomento cfr., amplius e per tutti, B , “Principi di diritto” e diritto
( 86 ERNARDI
, la sanzione delle violazioni da parte dei singoli di
penale europeo, cit., p. 196 ss.; R
IZZA
norme comunitarie dirette alla protezione degli interessi finanziari della Comunità nella
, Diritto comunitario, cit.,
giurisprudenza della Corte di giustizia, cit., p. 138 ss.; T
ESAURO
p. 105. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
492 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
d’Europa e dal sin qui descritto processo di armonizzazione di
precetti e sanzioni nazionali ad opera delle fonti legislative comuni-
tarie e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia; ma anche dallo
stesso sistema di sanzioni amministrative CE legittimato dai trattati
europei.
Nell’impossibilità di descrivere compiutamente, in questa sede,
i lineamenti di tale sistema di sanzioni CE, basterà ricordare che i
suddetti trattati contengono talune norme che espressamente sanci-
); e con-
scono una competenza comunitaria in ambito punitivo (
87
tengono altresı̀ ulteriori norme che sembrano implicitamente am-
mettere la possibilità per le istituzioni comunitarie di adottare atti
corredati di misure punitive “sovrastatuali” nei diversi settori di
competenza CE, laddove tali misure si rivelino “utili” o “necessarie”
al raggiungimento degli obiettivi prefissati dagli atti in questione ( ).
88
In virtù di questa duplice base giuridica, sono state varate due
differenti categorie di regolamenti comunitari: la prima prevede le
cosiddette “sanzioni amministrative CE a carattere accentrato”,
costituite da ammende e indennità di mora ( ) irrogate e diretta-
89
mente applicate dalle istituzioni comunitarie ( ); la seconda prevede
90
le cosiddette “sanzioni amministrative CE a carattere decentrato”,
costituite da misure interdittive e/o patrimoniali irrogate dalle isti-
( ) Cfr. gli artt. 47 comma 3, 54, comma 6, 58 par. 4, 59 par. 7, 64, 65, par. 5 e
87
par. 6, 66 par. 6, 68 par. 6 del Trattato CECA e l’art. 87 del Trattato CE.
) Per più ampi sviluppi in argomento cfr., tra gli altri, G , Le prospettive
( 88 RASSO
di formazione di un diritto penale dell’Unione europea, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995,
, L’application effective du droit communautaire en droit interne,
p. 1171-1172; H
AGUENAU , Competenza penale della Comunità europea.
Bruxelles, 1995, p. 551 ss.; R IONDATO
Problemi di attribuzione attraverso la giurisprudenza, cit., p. 53 ss., con ulteriori riferi-
, La répression des infractions au droit communautaire
menti bibliografici; S CHOCKWEILER
dans la jurisprudence de la Cour, in La protection du budget communautaire et l’assistence
, La sanction des infractions au droit
entre Etats, Luxembourg, 1995, p. 67 ss.; T
ESAURO
, Diritto comunitario e diritto penale, cit., p.
communautaire, cit., p. 502 ss.; T IEDEMANN
220 ss. e relativa bibliografia.
) Tali sanzioni sono previste, in particolare, nei regolamenti CEE nn. 11/60,
( 89
17/62, 1017/68, 4056/86, 4064/89, basate sull’art. 83 TCE
) In argomento cfr., diffusamente e per tutti, B , Strafen und Sanktionen im
( 90 }
O SE -
Europäischen Gemeinschaftsrecht, Köln-Berlin-Bonn-München, 1996, p. 137 ss.; M
AU
, Il regolamento n. 2988/95: un modello di disciplina del potere punitivo comunitario,
GERI
in La lotta contro la frode agli interessi finanziari della Comunità europea tra prevenzione
e repressione, cit., p. 170 ss., con ulteriori riferimenti bibliografici.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 493
ALESSANDRO BERNARDI
tuzioni comunitarie ma applicate dalle autorità amministrative degli
).
Stati membri (
91
Ora, è evidente che le sanzioni CE appartenenti alla prima
categoria, proprio in quanto applicate dagli organi comunitari, non
consentono nessun margine nazionale di adattamento in sede di
commisurazione, dando cosı̀ vita ad una unificazione punitiva su
scala europea, sia pur limitata ad assai circoscritti settori normativi.
Per contro, le sanzioni CE rientranti nella seconda categoria com-
portano un’opera di mera armonizzazione punitiva interstatuale,
venendo applicate in base a una disciplina uniformizzata solo nei
), che lascia per il resto in vigore le singole
suoi profili essenziali (
92
discipline nazionali in tema di sanzioni amministrative, e in partico-
lare le relative prassi commisurative fatte proprie dalle autorità di
ciascun Paese. In ogni caso, tale opera di armonizzazione risulta
anch’essa circoscritta, in quanto le suddette sanzioni sono state
( ) Misure consistenti, volta a volta, in forme di esclusione o diminuzione degli
91
aiuti e benefici CE, ovvero in obblighi di restituzione delle erogazioni comunitarie
concesse, previa maggiorazione del loro importo monetario in funzione afflittivo-
punitiva. Si pensi, ad esempio, alla perdita totale di taluni premi speciali dovuti ai
produttori di carne bovina (art. 9, reg. 714/1989), all’esclusione dai benefici dovuti per
l’anno successivo (art. 8 reg. 1738/1989), alla diminuzione dell’aiuto concesso (art. 5 reg.
915/1989), all’obbligo di restituire la somma ricevuta maggiorata di una percentuale
predeterminata (art. 13 reg. 3813/1989, e successive modifiche). In merito a tali sanzioni
, Strafen und Sanktionen im Europäischen Gemeinschaftsre-
cfr., amplius e per tutti, B }
O SE , Nuove prospettive in tema di sanzioni amministrative
cht, cit., p. 253 ss.; G RASSO , Punitive Sanktionen im
comunitarie, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1994, p. 865 ss.; H
EITZER , Il regolamento n.
Europäischen Gemeinschaftsrecht, Heidelberg, 1997, p. 47 ss.; M AUGERI
2988/95: un modello di disciplina del potere punitivo comunitario, cit., p. 174 ss.;
, Le sanzioni amministrative comunitarie, Padova, 1998, p. 97 ss.; R , La
P ISANESCHI IZZA
sanzione delle violazioni da parte dei singoli di norme comunitarie dirette alla protezione
degli interessi finanziari della Comunità nella giurisprudenza della Corte di giustizia, cit.,
, La nozione comunitaria di pena: preludio ad una teoria comunitaria del
p. 104 ss.; S ALCUNI , D , Les sanctions commu-
reato?, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2002, p. 231; S
TUYCK ENYS
nautaires, in La justice pénale et l’Europe, a cura di F. Tulkens, H.-D. Bosly, Bruxelles,
, Administrative Sanctioning Powers of and in the Comunity.
1996, p. 436 ss.; V ERVAELE
Tovards a System of European Administrative Sanctions?, cit., p. 196 ss.
) Come noto, tale disciplina è stata introdotta dal regolamento (CE, Euratom)
( 92
n. 2988/95 del Consiglio del 18 dicembre 1995, “relativo alla tutela degli interessi
finanziari della Comunità” (in GUCE L312 del 23 dicembre 1995, p. 1), limitatamente
, Il regolamento n. 2988/95: un modello di disciplina del potere
al quale cfr. M AUGERI
punitivo comunitario, cit., p. 149 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
494 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
sinora utilizzate solo in un limitato numero di settori normativi
comunitari, e in particolare in quelli della agricoltura e della pesca.
Appare tuttavia verosimile che in futuro si finisca col fare un più
largo ricorso a queste sanzioni: e ciò sia in virtù delle precisazioni
fornite in merito alla loro disciplina e al loro ambito d’applicazione
) e dal regolamento
dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (
93
); sia grazie alla varietà tipologica e agli stessi contenuti di
2988/95 ( 94
tali sanzioni, che sembrano garantire loro una notevole efficacia
generalpreventiva e specialpreventiva; sia infine in ragione degli
evidenti vantaggi offerti da una disciplina sanzionatoria almeno
). In questo
tendenzialmente uniforme su scala continentale (
95 ), di fedeltà
senso, nonostante che i principi di sussidiarietà ( 96
) e di necessità dell’intervento sanzionatorio comuni-
comunitaria ( 97
) tendano tuttora ad attribuire prioritariamente agli Stati il
tario (
98
( ) Cfr. sent. 27 ottobre 1992, causa 240/90 (Repubblica federale di Germania c.
93 , Recenti
Commissione), in Riv. trim. dir. pen. econ., 1993, p. 739 ss., con nota di G RASSO
sviluppi in tema di sanzioni amministrative comunitarie, p. 740 ss.
) Ai sensi dell’ottavo considerando del regolamento in questione, “tali sanzioni
( 94
dovranno anche essere previste in altri campi” oltre a quelli nei quali esse hanno già
trovato applicazione.
) Si pensi, in particolare, alla possibilità di garantire condizioni di eguaglianza
( 95
tra gli operatori europei, alla eliminazione dei tanto dannosi “paradisi” tuttora esistenti
specie nell’ambito delle attività illegali a carattere transnazionale, al fatto di garantire
conoscibilità e certezza alle risposte sanzionatorie, non più polverizzate in una miriade
di soluzioni anche profondamente diverse da uno Stato all’altro.
) Previsto, come noto, dall’art. 5 TCE, in base al quale “Nei settori che non
( 96
sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene secondo il principio di
sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non
possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e, a motivo delle dimen-
sioni o degli effetti dell’azione in questione, possono essere realizzati meglio a livello
comunitario”. Per quanto qui specificamente interessa, merita di essere ricordato che la
Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo sul ruolo delle
sanzioni per l’attuazione della legislazione comunitaria nell’ambito del Mercato interno,
COM(95) 162 final, (Bruxelles 3 maggio 1995) p. 2 del testo dattiloscritto sottolinea
come la situazione di generalizzata carenza di strumenti sanzionatori comunitari “sia
perfettamente coerente in una prospettiva di sussidiarietà”.
) In merito al quale cfr., supra, sub par. 3, nt. 27.
( 97 ) Sul principio di necessità delle sanzioni comunitarie cfr., con differenti
(
98 L , La protection des intérêts financiers de la Communauté.
sfumature, M ISSIR DI USIGNANO
Perspectives et réalités, in Journal des Tribunaux européens, 1996, par. 2.3.1. del testo
, Competenza penale della Comunità europea. Problemi di attri-
dattiloscritto; R
IONDATO
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 495
ALESSANDRO BERNARDI
compito di tutelare l’effettività del diritto comunitario attraverso il
ricorso a misure punitive ( ), appare verosimile che il sistema delle
99
sanzioni amministrative CE finisca con l’assumere notevolissima
importanza in ambito europeo.
Orbene, tutto ciò premesso, sembra di poter dire che questo
articolato sistema di sanzioni, lungi dal costituire un fenomeno
“chiuso in sé stesso”, è destinato ad avere significativi riflessi sugli
ordinamenti punitivi nazionali.
Certamente, tali riflessi dovrebbero manifestarsi innanzitutto
sulle discipline nazionali in tema di sanzioni amministrative, specie
laddove i Paesi membri versino in una situazione simile a quella che
caratterizzava l’Italia prima della promulgazione della l.
689/1981 ( ), e dunque non prevedano ancora una puntuale,
100
generale regolamentazione dell’illecito amministrativo. In questo
caso, infatti, la disciplina elaborata al riguardo a livello comunitario
potrebbe costituire un interessante modello di riferimento, cui
improntare almeno in linea tendenziale i rispettivi sistemi nazionali.
In tal modo, oltretutto, gli organi nazionali deputati all’applicazione
delle sanzioni amministrative potrebbero adottare procedure ten-
denzialmente omogenee, indipendentemente dal fatto che le sud-
dette sanzioni siano di matrice nazionale ovvero comunitaria (limi-
tatamente alle già ricordate sanzioni CE “decentrate”).
Tuttavia l’influenza esercitata dal sistema punitivo comunitario,
lungi dal manifestarsi solo sui sistemi amministrativi dei Paesi
dell’Unione, potrebbe estendersi anche ai relativi sistemi penali,
stante che un significativo utilizzo di sanzioni amministrative CE
potrebbe giustificare, quantomeno nei relativi settori normativi, un
buzione attraverso la giurisprudenza, cit., p. 132 ss. (ove il principio di necessità è
analizzato in relazione ad una vera e propria competenza penale comunitaria);
, La répression des infractions au droit communautaire dans la jurisprudence
S CHOCKWEILER , D , Les sanctions communautaires, cit., p. 429 ss.
de la Cour, cit., p. 67 ss.; S
TUYCK ENYS
) In questo senso cfr. lo stesso A , La protezione giuridica degli interessi
(
99 DE NGELIS
finanziari della Comunità Europea: evoluzione e prospettive, in Prospettive di diritto penale
in Europa, cit., p. 39.
) Come noto, infatti, la l. 24 novembre 1981 n. 689 “Modifiche al sistema
( 100
penale” ha dettato innanzitutto — alle sezioni I e II del capo I — una articolata
disciplina della sanzione amministrativa pecuniaria, sottraendo cosı̀ quest’ultima a
quell’alone di incertezza che l’aveva sino allora caratterizzata, e che implicitamente ne
sconsigliava un uso generalizzato.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
496 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
ulteriore processo di depenalizzazione all’interno dei singoli Paesi
). Senza contare che, dati gli indiscussi punti di conver-
membri (
101
genza riscontrabili in molti Stati europei tra la disciplina dell’illecito
penale e quella dell’illecito amministrativo, le soluzioni accolte
rispetto a quest’ultimo a livello comunitario potrebbero non risul-
tare scevre d’interesse per i sistemi penali nazionali, specie nella
).
prospettiva di un loro reciproco ravvicinamento (
102
8. Agli albori di una politica criminale europea. In particolare, le
direttive comunitarie volte a predeterminare gli elementi costitu-
tivi delle fattispecie astratte.
Per quanto sin qui visto, è possibile affermare che l’esigenza di
dare integrale attuazione al diritto comunitario all’interno dei Paesi
membri implica un articolato processo di armonizzazione dei pre-
cetti e sanzioni previsti sia in funzione di tutela delle norme conte-
nute in regolamenti e direttive CE sia, più in generale, nell’ambito
delle materie aventi rilevanza comunitaria: processo, invero, assai
articolato e complesso, ma comunque destinato a sempre maggiori
sviluppi. Prende cosı̀ lentamente corpo una sorta di sia pur minimale
“politica criminale europea”, caratterizzata dall’erosione della di-
screzionalità legislativa nazionale in merito alla costruzione delle
fattispecie penali e delle relative comminatorie edittali in tutti i
settori normativi (anch’essi in via di progressiva estensione) in cui la
Comunità ha una competenza esclusiva o concorrente.
Ora, merita di essere sottolineato che questo fenomeno di
emersione di una politica criminale europea in nuce diventa parti-
colarmente evidente laddove le norme comunitarie, anziché limitarsi
a contenere prescrizioni extrapenali di natura tecnica destinate a
venire tutelate con apposite sanzioni, mirano esplicitamente ad una
( ) Si allude, beninteso, all’ipotesi in cui talune norme di fonte comunitaria
101
volte alla salvaguardia di beni di importanza non primaria, oggi tutelate per mezzo di
sanzioni nazionali di natura penale, possano in futuro vedere la loro effettività garantita
per mezzo di sanzioni amministrative CE.
) Il pensiero corre, in particolare, al principio di retroattività favorevole
( 102
previsto all’art. 2, n. 2 del reg. 2988/1995, che potrebbe favorire un processo riformistico
a livello europeo volto ad attenuare le differenze riscontrabili sul punto all’interno dei
sistemi penali nazionali.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 497
ALESSANDRO BERNARDI
omogeneizzazione a livello interstatuale proprio delle norme puni-
tive volte a colpire attività illecite di rilievo “europeo”. In tali ipotesi,
infatti, i lineamenti delle fattispecie interne risultano fortemente
condizionati non già dalle prescrizioni extrapenali di matrice comu-
nitaria bisognose di tutela ma, in modo ancor più immediato, dalla
predeterminazione a livello comunitario proprio dei profili essenziali
delle fattispecie dirette a controllare taluni fenomeni criminali di
particolare interesse.
In proposito, va posto in rilievo come le direttive comunitarie a
carattere espressamente sanzionatorio — peraltro sino ad oggi varate
) — da un lato definiscano con
in numero alquanto ridotto (
103
estrema meticolosità i comportamenti che gli Stati sono chiamati a
sanzionare ( ) predeterminando gli elementi essenziali delle fatti-
104
specie; dall’altro lato — pur non contenendo veri e propri obblighi
di incriminazione ( ) — lascino chiaramente intendere quali siano
105
le tipologie di misure punitive che il legislatore comunitario ritiene
( ) Cfr., innanzitutto, dir. del Consiglio 89/592/CEE del 13 novembre 1989 “sul
103
coordinamento delle normative concernenti le operazioni effettuate da persone in
possesso di informazioni privilegiate (insider trading)”, in GUCE, L334 del 18 novembre
1989, p. 30 ss.; dir. del Consiglio 91/308/CEE del 10 giugno 1991 “relativa alla
prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività
illecite”, in GUCE, L166 del 28 giugno 1991, p. 77 ss. Cfr., altresı̀, dir. del Consiglio
91/250/CEE del 14 maggio 1991 “relativa alla tutela giuridica dei programmi per
elaboratore”, in GUCE, L122 del 17 maggio 1991, p. 42 ss.
) Cfr., ad esempio, l’art. 7 della succitata dir. 91/250/CEE, in base al quale “1.
( 104
Fatte salve le disposizioni degli articoli 4, 5 e 6, gli Stati membri stabiliscono, confor-
memente alle legislazioni nazionali, appropriate misure nei confronti della persona che
compie uno degli atti elencati alle seguenti lettere a), b) e c):
a) ogni atto di messa in circolazione di una copia di un programma per
elaboratore da parte di chi sappia o abbia motivo di ritenere che si tratta di copia illecita;
b) la detenzione a scopo commerciale di una copia di un programma per
elaboratore da parte di chi sappia o abbia motivo di ritenere che si tratta di copia illecita;
c) ogni atto di messa in circolazione, o la detenzione a scopo commerciale, di
qualsiasi mezzo unicamente inteso a facilitare la rimozione non autorizzata o l’elusione
di dispositivi tecnici eventualmente applicati a protezione di un programma.
2. Ogni copia illecita di un programma per elaboratore è passibile di sequestro,
conformemente alla legislazione dello Stato membro interessato.
3. Gli Stati membri possono prevedere il sequestro di qualsiasi mezzo contemplato
dal paragrafo 1, lettera c)”.
) Rispetto ai quali, come in precedenza si è detto, sussistono tuttora forti
(
105
resistenze da parte dei Governi. Cfr., supra, sub par. 5, nt. 70.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
498 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
più appropriate in relazione ai suddetti comportamenti ( ), tanto
106
da indurre una parte della dottrina a considerare le direttive in
). Ora, il fatto che gli
questione “intonate in senso penalistico” ( 107
organi comunitari di produzione normativa abbiano manifestato, in
relazione alle violazioni delle norme contenute in queste direttive, la
preferenza verso soluzioni preventivo-repressive di tipo penale, ha
probabilmente contribuito a far sı̀ che gli Stati membri prendessero
di comune accordo l’impegno scritto di adottare, almeno rispetto ad
). Ma, con ogni
alcune delle violazioni in oggetto, sanzioni penali ( 108
probabilità, sarebbe un errore sopravvalutare la forza persuasiva
delle indicazioni sanzionatorie contenute nelle suddette direttive “a
sfondo penale”. È infatti verosimile che sull’impegno degli Stati
membri all’impiego di sanzioni penali nei casi summenzionati ab-
biano contribuito, in misura forse più determinante, concomitanti e
convergenti obblighi di fonte convenzionale a carattere ben più
).
vincolante (
109
In realtà, a causa delle evidenti difficoltà di adottare direttive a
contenuto stricto sensu penale, è presto apparso chiaro che le
direttive a carattere espressamente sanzionatorio concernenti com-
portamenti illeciti di particolare rilievo comunitario si prestano ad
armonizzare i divieti assai meglio di quanto non riescano a fare
rispetto alle relative risposte punitive; e che quindi una penetrante
omogeneizzazione su scala europea di queste ultime possa essere
realizzata solo grazie all’utilizzo di strumenti normativi diversi da
quelli tradizionalmente adottati in ambito comunitario.
( ) M , L’efficacia estensiva del diritto comunitario sul diritto penale,
106 ANACORDA
Foro it., 1995, IV, c. 65.
) R , Competenza penale della Comunità europea. Problemi di attribu-
( 107 IONDATO
zione attraverso la giurisprudenza, cit., p. 127.
) In argomento cfr. le considerazioni di M , Commento alla l.
( 108 DI ARTINO
9/8/1993 n. 328 - Ratifica ed esecuzione della Convenzione sul riciclaggio, la ricerca, il
sequestro e la confisca dei proventi di reato, fatta a Strasburgo l’8 novembre 1990, sub art.
, L’efficacia estensiva del diritto comunitario sul diritto
4, in LP, 1994, p. 423; M
ANACORDA
, Riciclaggio dei capitali: direttiva comunitaria e legislazione
penale, cit., c. 66; S ALAZAR
italiana, in Foro it., 1991, c. 470.
) Cfr. la Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico illecito di stupe-
( 109
facenti e sostanze psicotrope, adottata a Vienna il 19 dicembre 1988 (art. 3.1) e,
soprattutto, la Convenzione sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei
proventi di reato, adottata a Strasburgo l’8 novembre 1990 (art. 6).
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 499
ALESSANDRO BERNARDI
9. L’edificazione del terzo pilastro dell’Unione per la cooperazione e
l’armonizzazione penale. Il ruolo delle decisioni quadro nella
realizzazione di una effettiva politica criminale europea.
Gli ostacoli frapposti dai governi nazionali all’introduzione di
direttive d’armonizzazione penale costituiscono, indubbiamente,
una delle più significative espressioni della difficoltà di questi ultimi
ad accettare un ampliamento delle competenze comunitarie tale da
includere in esse il campo della giustizia penale. Campo, questo,
tradizionalmente assoggettato al potere sovrano dei Paesi membri, e
per di più improntato in molti di tali Paesi ad un principio di legalità
formale che àncora la produzione normativa a procedure democra-
).
tiche non ancora pienamente recepite in sede comunitaria ( 110
Stretti fra la riluttanza a spogliarsi almeno in parte di quella com-
petenza penale che rientra indubbiamente nel nocciolo duro della
sovranità nazionale e la consapevolezza dell’impossibilità di affidare
con successo al tradizionale metodo intergovernativo quel pene-
trante programma di cooperazione e armonizzazione penale reso
indispensabile dal progredire della costruzione europea, i Paesi
membri hanno optato nel 1992 per una soluzione di compromesso,
ma al contempo radicalmente innovativa. Hanno cioè deciso nel
Trattato di Maastricht di dare vita ad un’Unione europea formata da
tre distinti “pilastri”, escludendo il settore penale dal quadro istitu-
zionale delle Comunità (“primo pilastro”) ed inglobandolo nel
), i cui atti costituiscono un ibrido nell’ambito
“terzo pilastro” ( 111
del quale i meccanismi della cooperazione intergovernativa si me-
scolano a elementi d’impronta comunitaria, nel tentativo di atte-
nuare gli inconvenienti propri delle tradizionali fonti del diritto
internazionale ( ).
112
Questo ibridismo risalta, per vero, già dall’esame delle conven-
zioni concluse all’interno del terzo pilastro, in relazione alle quali il
( ) Anche se, come sopra ricordato, in relazione alle direttive il problema del
110
loro deficit democratico potrebbe risultare sanato dal fatto che esse vengono trasposte nel
diritto interno ad opera del legislatore nazionale. In argomento cfr., tuttavia, quanto
osservato supra, sub par. 5, nt. 68 ss.
) Cfr., supra, sub par. 1, nt. 6 ss.
( 111 ) Cfr., da ultimo e per tutti, P , Cooperazione giudiziaria e pubblico
( 112 IATTOLI
ministero europeo, Milano, 2002, p. 71 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
500 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
testo definitivo non viene stabilito tramite una conferenza intergo-
). Si allude, in partico-
vernativa, ma dallo stesso Consiglio CE (
113
lare, alla Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari
delle Comunità europee (cosiddetta Convenzione PIF) adottata a
Bruxelles il 26 luglio 1995, coi suoi tre protocolli integrativi concer-
nenti la corruzione dei funzionari europei, la responsabilità delle
); alla Convenzione del 26 luglio
persone giuridiche e la confisca ( 114
1995 che istituisce un Ufficio europeo di polizia (Convenzione
Europol); nonché alla Convenzione relativa alla lotta contro la
corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità
europee o degli Stati membri dell’Unione europea adottata a Bru-
xelles il 26 maggio 1997 ( ).
115
Resta comunque il fatto che anche le convenzioni adottate
ricorrendo alle interpolazioni procedurali previste dal terzo pila-
stro ( ) postulano pur sempre un’opera defatigante di negoziazione
116
tra gli Stati membri ( ), necessitano per la loro entrata in vigore
117
( ) Cfr. art. 34 lett. d) TUE. Cfr., al riguardo, i rilievi di L M , Les
113 O ONACO
instruments juridiques de coopération dans les domaines de la Justice et des Affaires
, Il titolo VI del Trattato di
intérieures, in Rev. sc. crim., 1995, p. 18 s.; S ICURELLA
Maastricht e il diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 1318.
) Sul punto cfr., per tutti, L , La lutte anti-fraude et le troisième pilier, in
(
114 ABAYLE
La lotta contro la frode agli interessi finanziari della Comunità europea tra prevenzione e
, La sanzione delle violazioni da parte dei singoli di norme
repressione, cit., p. 302; R IZZA
comunitarie dirette alla protezione degli interessi finanziari della Comunità nella giuri-
, Cooperazione giudiziaria e
sprudenza della Corte di giustizia, cit., p. 115, nt. 68; S
ALAZAR
lotta antifrode, in La lotta contro la frode agli interessi finanziari della Comunità europea
tra prevenzione e repressione, cit., p. 327 ss.
) In argomento cfr., in particolare, S , L’Unione europea e la lotta alla
(
115 ALAZAR
criminalità organizzata da Maastricht ad Amsterdam, in Doc. Giustizia, 1999, c. 393 ss.
) E, in particolare, nonostante le ulteriori innovazioni apportate a tali stru-
( 116
menti internazionali dal Trattato di Amsterdam in vista di un più intenso ricorso a questi
ultimi. Si allude innanzitutto al fatto che, successivamente a tale Trattato, per l’entrata
in vigore di tali convenzioni è richiesta, salvo disposizione contraria, la ratifica da parte
, La
della metà anziché di tutti gli Stati membri. Sul punto cfr., per tutti, A
DAM
cooperazione in materia di giustizia e affari interni tra comunitarizzazione e metodo
, La coopération en matière de
intergovernativo, in Dir. Un. Eur., 1998, p. 488; M
ARGUE
prévention et de lutte contre le crime dans le cadre du nouveau troisième pilier, in Rev. dr.
Un. eur., 2000, p. 737.
) Anche perché, come sottolinea lo stesso M nell’articolo citato alla nota
( 117 ARGUE
precedente, ex art. 34 TUE, anche dopo il Trattato di Amsterdam (e dopo il Trattato di
Nizza) in relazione alle convenzioni varate nell’ambito del terzo pilastro il Consiglio
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 501
ALESSANDRO BERNARDI
della ratifica di almeno la metà di tali Stati ( ), e risultano di
118
). Cosicché, in definitiva, no-
oltremodo difficile modificazione (
119
), lo strumento convenzionale
nostante i suoi indubbi pregi (
120
presenta gravi limiti cui le peculiarità conferitegli nell’ambito del
terzo pilastro dell’Unione europea non riescono ad ovviare. In
particolare, l’estrema lentezza connessa sia al raggiungimento di un
) se da un lato ha indotto gli
accordo sia alle procedure di ratifica ( 121
Stati membri ad accantonare l’idea di continuare a puntare su tale
continua a deliberare all’unanimità. Sul punto cfr. altresı̀, anche per ulteriori puntualiz-
, La cooperazione in materia di giustizia e affari interni tra comunitarizza-
zazioni, A
DAM
zione e metodo intergovernativo, cit., p. 486; nonché, con accenti spiccatamente critici in
’K , Recasting the Third Pillar, in Common
ordine al requisito dell’unanimità, O EEFFE
, P , La coopération dans le domaine de la
Market Law Review, 1995, p. 904; C URTIN OUW
justice et des affaires intérieures au sein de l’Union européenne: une nostalgie d’avant
Maastricht?, in Rev. Marché comm. Un. eur., 1995, p. 30.
) Cfr., supra, sub nt. 116. Tale condizione risulta particolarmente gravosa a
(
118 ,
causa dell’inerzia di taluni Paesi firmatari (sul punto cfr., amplius e per tutti, B ERNASCONI
Nuovi strumenti giudiziari contro la criminalità economica internazionale, Napoli, 1995, p.
, La coopération européenne en matière de justice et d’affaires intérieures
405 ss.; L ABAYLE
et la Conférence intergouvernementale, in Rev. trim. dr. eur., 1997, p. 1 ss., e bibliografia
, La cooperazione giudiziaria in materia penale, in Giustizia e affari
ivi riportata; S ALAZAR
interni nell’Unione europea. Il terzo pilastro del Trattato di Maastricht, a cura di N. Parisi
e D. Rinoldi, Torino, 1996, in particolare p. 152 ss.), vale a dire a causa della deprecabile
tendenza di questi ultimi prima a firmare e poi a non ratificare le convenzioni e i
protocolli addizionali deputati a realizzare un processo di ravvicinamento settoriale delle
, La costruzione di uno spazio di
scelte punitive (sul punto cfr., diffusamente, S ALAZAR
libertà, sicurezza e giustizia dopo il Consiglio europeo di Tampere, in Cass. pen., 2000,
p. 1120).
) Un esempio al riguardo è fornito dalla stessa convenzione Europol, di cui
( 119
risulta difficile modificare anche taluni aspetti meramente secondari. Cfr. La Conven-
zione europea. Relazione finale del Gruppo X “Spazio di libertà, sicurezza e giustizia”,
Bruxelles, 2 dicembre 2002, doc. CONV 426/02, p. 7.
) In merito ai quali cfr., in prospettiva penalistica, B , Stratégies pour
(
120 ERNARDI
une harmonisation des systèmes penaux européens, in Archives de politique criminelle, n.
24, Paris, 2002, p. 208 ss.
) In effetti, in sede europea non si è mancato recentemente di rilevare che la
(
121
sola fase della ratifica delle convenzioni varate nel quadro dell’Unione richiede media-
mente quattro/cinque anni. Cfr. La Convenzione europea. Giustizia e affari interni-stato
dei lavori e problematiche generali, Bruxelles, 31 maggio 2002, doc. CONV 69/02, cit.,
, L’unitario diritto penale europeo
p. 10. In dottrina cfr., da ultimo e per tutti, Z v
UCCALA
come meta del diritto comparato?, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2002, p. 606.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
502 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
strumento, dall’altro lato ha suscitato fondati interrogativi in ordine
).
allo stesso destino delle convenzioni esistenti (
122
Proprio in considerazione di ciò, si è ritenuto che tra i mecca-
nismi per la cooperazione in materia penale dovessero essere ricom-
presi strumenti normativi più agili e duttili delle convenzioni; stru-
menti caratterizzati da un maggiore equilibrio tra il metodo della
cooperazione intergovernativa e il metodo comunitario, onde con-
sentire in taluni settori di interesse comune agli Stati membri la
realizzazione degli obiettivi dell’Unione europea. Gli strumenti in
questione sono stati denominati “azioni comuni” dal Trattato di
Maastricht, per essere successivamente ribattezzati “decisioni qua-
dro” dal Trattato di Amsterdam, e risultano per molti aspetti simili
), pur essendo meno “impegnativi” di queste ultime,
alle direttive (
123
in quanto innanzitutto privi di efficacia diretta ( ) ed inoltre in
124
linea di principio non supportati dalle procedure di inadempimento
da parte della Commissione di cui agli artt. 226 ss. ( ).
125
( ) La Convenzione europea. Nota relativa alla sessione plenaria, Bruxelles, 19
122
giugno 2002, doc. CONV 97/02, p. 5; La Convenzione europea. Relazione finale del
Gruppo X “Spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, Bruxelles, 2 dicembre 2002, doc.
CONV 426/02, cit., p. 7.
) In base all’art. 34.2 lett. b) TUE, “Le decisioni-quadro sono vincolanti per
( 123
gli Stati membri quanto ai risultati da ottenere, salva restando la competenza delle
autorità nazionali quanto alla forma e ai mezzi”; mentre in base all’art. 35.1 TUE “La
Corte di giustizia è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale sulla validità e
sull’interpretazione delle decisioni-quadro” (sempre che, beninteso, ai sensi dell’art. 35.2
TUE, i singoli Stati membri abbiano accettato tale competenza). In merito ai poteri di
, La
controllo della Corte di giustizia sulle decisioni quadro cfr., per tutti, A DAM
cooperazione in materia di giustizia e affari interni tra comunitarizzazione e metodo
, La Cour de justice et l’espace européen de
intergovernativo, cit., p. 489 ss.; L
ABAYLE
liberté, sécurité et justice, in L’avenir de la justice communautaire. Enjeux et perspectives,
, Agli albori di un diritto penale
a cura di R. Mehdi, Paris, 1999, p. 77 ss.; M ILITELLO
comune in Europa: il contrasto al crimine organizzato, in Il crimine organizzato come
fenomeno transnazionale, a cura di V. Militello, L. Paoli, J. Arnold, Milano, 2000, p. 40,
con ulteriori riferimenti bibliografici.
) Cfr. art. 34, lett. b), in fine TUE. In argomento cfr., diffusamente e per tutti,
( 124 , Il titolo VI del Trattato di Maastricht e il diritto penale, cit., p. 1310 ss. Cfr.
S ICURELLA , Stratégies pour une harmonisation des systèmes
peraltro, volendo, i rilievi di B
ERNARDI
penaux européens, cit., p. 222 ss.
) Tuttavia, in merito all’ipotesi secondo la quale il mancato rispetto da parte
(
125
degli Stati membri degli obblighi di risultato imposti dalle decisioni quadro possa
comportare l’attivazione delle procedure di infrazione di cui agli artt. 226 ss. TCE, cfr.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 503
ALESSANDRO BERNARDI
Essi mirano sia ad agevolare la cooperazione giudiziaria ( ) sia
126 ),
a ravvicinare le normative in materia penale dei Paesi europei (
127
“reprimendo e prevenendo il razzismo e della xenofobia”, nonché
“reprimendo e prevenendo la criminalità, organizzata e di altro tipo,
in particolare il terrorismo, la tratta degli esseri umani e i reati contro
i minori, il traffico illecito di droga e di armi, la corruzione e la
).
frode” (
128
Pur avendo avuto le azioni comuni/decisioni quadro un difficile
), e pur permanendo ancor oggi un po’ in tutti i Paesi
esordio (
129
dell’Unione non pochi dubbi sulle caratteristiche di tali strumenti
normativi, è un dato di fatto che essi vengono adottati con sempre
maggiore frequenza, dando vita ad un insieme di disposizioni volto
a perseguire un significativo processo di cooperazione e ravvicina-
mento tra gli ordinamenti penali dei Paesi Membri. Al riguardo,
grande importanza rivestono l’azione comune del 24 febbraio 1997
per la lotta contro la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento
sessuale dei bambini ( ), e più ancora le azioni comuni in tema di
130
lotta al riciclaggio e di confisca dei proventi di reato, di estensione
della punibilità alla corruzione nel settore privato, di incriminazione
della partecipazione ad una associazione criminale negli Stati mem-
bri dell’Unione europea ( ) realizzate nell’ambito del “Piano
131
M , Agli albori di un diritto penale comune in Europa: il contrasto al crimine
ILITELLO
organizzato, cit., p. 41.
) Più precisamente, a facilitare e accelerare la cooperazione tra i ministeri
(
126
competenti e le autorità giudiziarie in relazione ai procedimenti e all’esecuzione delle
decisioni, ad agevolare l’estradizione e a prevenire i conflitti di giurisdizione tra Stati
membri. Cfr. art. 31, lett. a), b) e d) TUE.
) Cfr. art. 29, ultimo trattino, TUE.
(
127 ) Art. 29 TUE, primo trattino.
( 128 ) Cfr., tra gli altri, B , Codificazione penale e diritto comunitario, I - La
( 129 ERNARDI
modificazione del codice penale ad opera del diritto comunitario, Ferrara, 1996, p. 166;
, Gli sviluppi nel campo della cooperazione giudiziaria nel quadro del terzo pilastro
S ALAZAR , Il
del Trattato sull’Unione europea, in Documenti giustizia, 1995, c. 1511 ss.; S
ICURELLA
titolo VI del Trattato di Maastricht e il diritto penale, cit. p. 1337.
) Cfr., per tutti, L , La lutte anti-fraude et le troisième pilier, cit., p. 304.
( 130 ABAYLE
) Al riguardo cfr., tra gli altri, M , Agli albori di un diritto penale
(
131 ILITELLO ., Dogmatica penale e
comune in Europa: il contrasto al crimine organizzato, cit., p. 5; I D ,
politica criminale in prospettiva europea, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 427; S ALAZAR
La costruzione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia dopo il Consiglio europeo di
Tampere, cit., p. 1118. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
504 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
d’azione contro la criminalità organizzata” adottato nel 1997 dal
).
Consiglio (
132 o maggio
Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam il 1
1999, il ricorso allo strumento in questione si è ulteriormente
intensificato. All’interno di un panorama normativo sempre più
ricco, una speciale menzione meritano comunque le decisioni qua-
), 28 maggio 2001 ( ), 26
dro del Consiglio del 29 maggio 2000 (
133 134
), nonché le tre decisioni quadro del 13 giugno
giugno 2001 (
135
) e quelle del 19 luglio 2002 ( ), 28 novembre 2002 ( ),
2002 ( 136 137 138
). Tali strumenti, infatti, prevedono vuoi l’in-
27 gennaio 2003 (
139
troduzione di forme particolarmente intense di cooperazione giudi-
ziaria e di polizia tra gli Stati Membri, vuoi l’adozione di misure atte
a far sı̀ che i comportamenti ivi tassativamente indicati siano consi-
( ) In GUCE C251 del 15 agosto 1997, p. 1 ss. Al riguardo cfr., in particolare,
132
, La coopération en matière de prévention et de lutte contre le crime dans le cadre
M ARGUE , Agli albori di un diritto penale
du nouveau troisième pilier, cit., p. 733; amplius M
ILITELLO , Diritto
comune in Europa: il contrasto al crimine organizzato, cit., p. 6 ss.; R IONDATO
dell’Unione europea e criminalità organizzata, in Le strategie di contrasto alla criminalità
organizzata nella prospettiva di diritto comparato, a cura di G. Fornasari, Padova, 2002,
, L’Unione europea e la lotta alla criminalità organizzata da Maastricht
p. 25 ss.; S
ALAZAR
ad Amsterdam, cit., c. 395 ss.
) “Relativa al rafforzamento della tutela per mezzo di sanzioni penali e altre
( 133
sanzioni contro la falsificazione di monete in relazione all’introduzione dell’euro”, in
GUCE L140 del 14 giugno 2000, p. 1 ss., modificata dalla decisione quadro del Consiglio
del 6 dicembre 2001, in GUCE L329 del 14 dicembre 2001, p. 1 ss.
) “Relativa alla lotta contro le frodi e le falsificazioni di mezzi di pagamento
( 134
diversi dai contanti”, in GUCE L149 del 2 giugno 2001, p. 1 ss.
) “Concernente il riciclaggio di denaro, l’individuazione, il rintracciamento, il
( 135
congelamento o sequestro e la confisca degli strumenti e dei proventi di reato”, in GUCE
L182 del 5 luglio 2001, p. 1-2.
) Concernenti, rispettivamente, “le squadre investigative comuni” (in GUCE
( 136
L162 del 20 giugno 2002, p. 1 ss.), “la lotta contro il terrorismo” (in GUCE L164 del 22
giugno 2002, p. 3 ss.) e “il mandato d’arresto europeo e le procedure di consegna tra
Stati membri” (in GUCE L190 del 18 luglio 2002, p. 1 ss.). o
) “Sulla lotta alla tratta degli esseri umani”, in GUCE L203 del 1 agosto 2002,
(
137
p. 1 ss. ) “Relativa al rafforzamento del quadro penale per la repressione del favo-
(
138
reggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali”, in GUCE L 328 del 5
dicembre 2002, p. 1 ss.
) “Relativa alla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale”, in
( 139
GUCE L 29 del 5 febbraio 2003, p. 55 ss.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 505
ALESSANDRO BERNARDI
derati reati ( ), e l’indicazione del tipo di sanzioni applicabili ai
140 ).
suddetti comportamenti (
141
A tutt’oggi, comunque, un bilancio circa la bontà dei nuovi
strumenti normativi utilizzati all’interno del terzo pilastro del-
l’Unione europea appare aperto a esiti assai contraddittori. Da un
lato, infatti, la trasformazione delle “azioni comuni” in “decisioni
quadro” ha sancito la crescente fortuna e maggiore incisività di
), dovuta anche al loro ingresso nei più vitali settori
queste ultime (
142
della politica criminale europea. Dall’altro lato però, come espres-
), tali atti normativi lasciano un
samente previsto dal Trattato UE (
143
certo margine di discrezionalità ai singoli Paesi membri circa le
forme e i mezzi attraverso i quali realizzare la cooperazione penale e
l’armonizzazione delle singole fattispecie e delle relative risposte
punitive, con il rischio quindi che permangano non trascurabili
disparità di trattamento da uno Stato all’altro. Ma soprattutto, come
già sottolineato, gli strumenti in questione continuano a suscitare
dubbi a causa delle loro carenze di effettività: carenze, per vero,
valutate in modo difforme a seconda che si aderisca alla tesi domi-
nante, favorevole all’inapplicabilità alle decisioni quadro delle pro-
cedure di inadempimento ex artt. 226 ss. TCE, o alla tesi minoritaria
incline ad ammetterne l’applicabilità.
In ogni caso, è opinione diffusa che rispetto all’attuazione delle
direttive, l’attuazione delle decisioni quadro lascerebbe agli ordina-
menti penali nazionali un ambito di discrezionalità più esteso, sino
a porre in crisi la complessiva credibilità di tali strumenti normati-
). Tuttavia, l’attuale disciplina delle decisioni quadro non fa
vi (
144
che esprimere il punto di equilibrio oggi raggiunto tra le concezioni
penalistiche di matrice persistentemente “nazionalista” e le istanze
( ) Cfr., ad esempio, l’art. 3 della sopra ricordata decisione quadro del 29
140
maggio 2000; nonché gli artt. 2, 3 e 4 della predetta decisione quadro del 28 maggio
2001. ) Cfr., ad esempio, l’art. 6 della suddetta decisione quadro del 29 maggio
( 141
2000; nonché l’art. 2 della summenzionata decisione quadro del 26 giugno 2001.
) Al riguardo cfr., per tutti, M , Agli albori di un diritto penale comune
( 142 ILITELLO
in Europa: il contrasto al crimine organizzato, cit., p. 32 ss.
) Cfr., supra, sub nt. 123.
( 143 ) Cfr., tra gli altri, L , La lutte anti-fraude et le troisième pilier, cit.,
( 144 ABAYLE
p. 318. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
506 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
“europeiste” di cooperazione e ravvicinamento dei sistemi penali:
punto di equilibrio fondato su compromessi superabili solo ove si sia
consapevoli che la criminalità transfrontaliera non può essere affron-
tata con iniziative condotte a livello prevalentemente intergoverna-
tivo, e che dunque la realizzazione di un vero spazio di libertà,
sicurezza e giustizia tra gli Stati membri implica il ricorso, anche in
sede penale, al metodo comunitario.
10. I futuribili scenari del processo di europeizzazione del diritto
penale. Il dibattito sulla riforma del terzo pilastro.
Come or ora accennato, un ulteriore potenziamento dell’azione
condotta a livello europeo nel settore penale implica necessaria-
), o quantomeno
mente la comunitarizzazione del terzo pilastro (
145
“un’applicazione più estesa delle strutture e dei meccanismi comu-
nitari” ( ) in tale settore. In particolare, una eventuale ricondu-
146
zione delle disposizioni del terzo pilastro in un generale quadro
giuridico comune consentirebbe non solo di varare atti in materia
penale dotati di efficacia diretta, o comunque di rafforzare il con-
trollo giudiziario sui meccanismi nazionali di attuazione delle norme
d’indirizzo di fonte europea; ma consentirebbe altresı̀ di superare
taluni notori effetti negativi insiti nella struttura “a pilastri” del-
l’Unione, primo fra tutti quello consistente nell’incertezza in ordine
alle basi giuridiche dei singoli atti varati a Bruxelles ( ). In questo
147
( ) Sul verosimile processo di comunitarizzazione del terzo pilastro cfr., nel-
145
l’ambito di una ricca letteratura che percorre l’ultimo decennio, Le Comissaire Antonio
Vitorino répond à sept questions de la Revue sur la Convention et sur la coopération dans
le domaine de la Justice et des Affaires intérieures, in Rev. Marché comm. Un. eur., 2002,
G , Il Trattato di Maastricht sull’Unione Europea, Roma, 1993, p. 29,
p. 286; C URTI IALDINO
, H , Plaidoyer pour la réforme du Troisième pilier, in Rev.
n. 34; D EHOUSSE VAN DEN ENDE , Gli sviluppi nel campo della
Marché comm. Un. eur., 1996, p. 715 ss.; S
ALAZAR
cooperazione giudiziaria nel quadro del terzo pilastro del trattato sull’Unione europea, cit.,
, La construction européenne, Paris, 1994, p. 203 ss. Più proble-
c. 1526 ss.; T OULEMON
, L’application du titre VI du Traité sur l’Union européenne, in Rev.
maticamente L ABAYLE
sc. crim., 1995, p. 63.
) La Convenzione europea. Nota relativa alla sessione plenaria, Bruxelles, 19
( 146
giugno 2002, doc. CONV 97/02, cit., p. 4.
) La Convenzione europea. Relazione finale del Gruppo X “Spazio di libertà,
( 147
sicurezza e giustizia”, Bruxelles, 2 dicembre 2002, doc. CONV 426/02, cit., p. 2-3.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 507
ALESSANDRO BERNARDI
senso, nell’ambito della Convenzione designata nel 2002 dal Consi-
glio europeo al fine di riunire i principali soggetti interessati al
), una ampia maggioranza si è
dibattito sul futuro dell’Unione (
148
espressa a favore di una radicale riforma istituzionale volta ad
attuare una totale o parziale comunitarizzazione delle materie rien-
tranti nel terzo pilastro, nonostante la consapevolezza della conse-
guente perdita di potere dei singoli Stati.
Sennonché, un tale potenziamento dovrebbe implicare altresı̀
un accresciuto controllo parlamentare sui relativi atti normativi. In
questo senso — a meno di non voler rinunciare a quelle garanzie
legalitarie sinora considerate, quantomeno in materia penale, come
una irrinunciabile conquista della cultura giuridica occidentale —
parrebbe quindi imporsi un processo di ulteriore democratizzazione
dell’Unione. Consci di ciò, in piena sintonia con la prevalente
dottrina penalistica europea, molti dei membri della “Convenzione
europea” istituita nel 2002 e presieduta da Giscard d’Estaing hanno
auspicato che nell’attività normativa dell’Unione concernente la
cooperazione giudiziaria e di armonizzazione penale venga attribuito
un ruolo di vero e proprio colegislatore al Parlamento europeo, e
che comunque in tali materie il ruolo dei Parlamenti nazionali venga
), in vista di una migliore attuazione del principio di
rafforzato (
149 ). In particolare, si è specificato che il potenzia-
riserva di legge ( 150
( ) Oltre che dal Presidente (V. Giscard d’Estaing) e dai due Vicepresidenti (G.
148
Amato e J.L. Dehaene), la Convenzione è composta da:
— 15 rappresentanti dei Capi di Stato o di Governo degli Stati membri (1 per Stato
membro),
— 13 rappresentanti dei Capi di Stato o di Governo dei paesi candidati all’adesione
(1 per paese candidato),
— 30 rappresentanti dei Parlamenti nazionali degli Stati membri (2 per Stato
membro),
— 26 rappresentanti dei Parlamenti nazionali dei paesi candidati all’adesione (2
per paese candidato),
— 16 rappresentanti del Parlamento europeo,
— 2 rappresentanti della Commissione europea.
) La Convenzione europea. Nota relativa alla sessione plenaria, Bruxelles, 19
(
149
giugno 2002, doc. CONV 97/02, cit., p. 4.
) In argomento cfr., in generale e per ulteriori riferimenti bibliografici,
( 150 , I principi e criteri direttivi in tema di sanzioni nelle recenti leggi comunitarie,
B ERNARDI
cit., passim. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
508 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
mento della partecipazione dei Parlamenti nazionali alle attività
dell’Unione concernenti in terzo pilastro potrebbe avvenire ad un
triplice livello, vale a dire sia nell’ambito dell’elaborazione e dell’at-
tuazione del diritto dell’Unione, sia in sede di controllo politico delle
), sia infine
posizioni adottate dai rispettivi governi nel Consiglio (
151
attraverso forme rafforzate di cooperazione tra i parlamenti nazio-
nali e il Parlamento europeo ovvero di cooperazione multilatera-
).
le (
152
Merita inoltre di essere sottolineato che al processo di demo-
cratizzazione necessario per il trapasso dal terzo al primo pilastro
della materia penale dovrebbero affiancarsi ulteriori processi rifor-
mistici assai eterogenei seppure tra loro complementari: processi
diretti a favorire, tra l’altro, una puntuale delimitazione delle effet-
tive competenze dell’Unione in ambito criminale ( ) e un comples-
153
sivo ravvicinamento delle condizioni materiali degli Stati membri nei
settori nevralgici del diritto penale (quali innanzitutto quelli concer-
nenti le prassi processuali e il trattamento penitenziario) ( ), in
154
modo tale da agevolare l’affermarsi del principio del mutuo ricono-
scimento delle rispettive realtà fattuali. Ora, è di tutta evidenza che
mentre una riforma volta a meglio definire la ripartizione delle
competenze penali tra Unione e Stati membri appare tutto sommato
realizzabile senza eccessive difficoltà, non può certo dirsi altrettanto
per le riforme destinate ad incidere sulle fondamentali manifesta-
zioni del “diritto vivente”. In questo senso, appare ancora irto di
ostacoli il percorso verso l’elaborazione di un vero e proprio “diritto
penale europeo” creato ed eventualmente applicato in modo accen-
( ) In merito a talune proposte recentemente avanzate al riguardo cfr., diffusa-
151
mente, La Convenzione europea. Il ruolo dei parlamenti nazionali nell’architettura euro-
pea, doc. CONV 67/2/02, REV 1, p. 10 ss.
) In argomento cfr., amplius, ivi, p. 7 ss.
( 152 ) Cfr., al riguardo, le questioni sollevate in La Convenzione europea. Giustizia
( 153
e affari interni — stato dei lavori e problematiche generali, Bruxelles, 31 maggio 2002,
doc. CONV 69/02, cit., p. 13.
) Cfr. ivi, p. 14. In effetti, la cooperazione in materia penale non può certo
( 154
prescindere da una reciproca fiducia in ordine alle effettive garanzie proprie dei singoli
ordinamenti nazionali. In argomento cfr., Motivazione. Verso una repressione più giusta,
più semplice e più efficace, in Verso uno spazio giudiziario europeo, cit., p. 42-43; volendo
, Il diritto penale tra globalizzazione e multiculturalismo, in Riv. it. dir. pubbl.
B ERNARDI
com., 2002, p. 490.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 509
ALESSANDRO BERNARDI
trato ( ): ostacoli che, con ogni probabilità, l’imminente allarga-
155
mento dell’Unione non dovrebbe certo attenuare.
11. Gli attuali progetti di armonizzazione o unificazione penale
all’interno dell’Unione.
Nonostante quanto appena esposto, alcune recenti elaborazioni
della scienza penale dei Paesi dell’Unione tendono a rivelare un
sentire omogeneo che potrebbe affondare le sue radici addirittura
), e che comunque trae nuova
nello ius commune medioevale ( 156
linfa dalla convinzione della assoluta necessità di dar vita ad un
processo di penetrante omogeneizzazione (o addirittura di unifica-
) delle risposte punitive concernenti i settori normativi più
zione) (
157 ). Alludo, in particolare, al già ricor-
marcatamente europeizzati (
158
dato progetto relativo al Corpus Juris contenente disposizioni penali
), e a
per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea ( 159
). Tali progetti, pur
quello relativo ai cosiddetti Europa-Delikte (
160
( ) Peraltro, l’istituzione di un autonomo organo giurisdizionale penale euro-
155
peo, ovvero di una sezione penale all’interno della Corte di giustizia comincia ad essere
ventilata in alcuni documenti di fonte “europea”. Cfr., ancora, La Convenzione europea.
Giustizia e affari interni — stato dei lavori e problematiche generali, Bruxelles, 31 maggio
2002, doc. CONV 69/02, cit., p. 15.
) In argomento cfr., da ultimo e per tutti, J , Nuove prospettive del
(
156 ESCHECK
diritto penale nazionale, europeo e internazionale: quale politica criminale per il XXI
secolo?, Relazione svolta all’Università di Modena e Reggio Emilia il 25 settembre 2002,
p. 6 del testo dattiloscritto in corso di pubblicazione.
) Sui profili “funzionalistici” che indurrebbero a privilegiare l’unificazione
(
157
(ancorché settoriale) dei sistemi penali europei rispetto ad una loro semplice armoniz-
, Verso una codificazione penale europea? Ostacoli e prospettive, cit.,
zazione cfr. B ERNARDI
p. 23 ss. ) Si pensi ad esempio, ai settori delle finanze e della valuta comunitarie,
( 158
dell’agricoltura, degli alimenti, dell’ambiente, del commercio ecc.
) Cfr. supra, sub par. 1, nt. 9.
( 159 ) In merito a tale progetto cfr. T , Die Regelung von Täterschaftund
( 160 IEDEMANN
Teilnahme im europäischen Strafrecht, in Festschrift für Nishihara, Baden Baden, 1998, p.
., Armonizzazione del diritto penale dell’economia nell’Unione Europea (“Euro-
496 ss.; I D
Delitti”), testo dattiloscritto della relazione tenuta a Bologna il 18 maggio 2001, in corso
di pubblicazione; nonché, da ultimo e fondamentalmente, Wirtschaftsstrafrecht in der
Europäischen Union. Rechtsdogmatik-Rechtsvergleich-Rechtspolitik. Freiburg-Symposium,
a cura di K. Tiedemann, Köln, 2002.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
510 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
essendo accomunati dalla volontà di innescare in ambito europeo
processi settoriali di uniformizzazione penale assai più penetranti di
quelli sino ad oggi registratisi, presentano indubbiamente significa-
tive differenze sotto il profilo sia della loro origine sia dei loro
contenuti sia del metodo riformistico ad essi proprio.
a) Per quanto specificamente attiene alle rispettive origini,
occorre precisare che le proposizioni contenute nel progetto di
Corpus Juris discendono dai risultati della ricerca sullo “Spazio
), e sono state fatte proprie dallo stesso
giudiziario europeo” (
161
), per sfociare nella “Proposta di direttiva
Parlamento europeo (
162
del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla tutela penale
degli interessi finanziari della Comunità” del 26 giugno 2001, e
) sulla tutela penale degli interessi finanziari
infine nel Libro verde ( 163
comunitari e sulla creazione di una procura europea presentato dalla
). La matrice “politica” del
Commissione l’11 dicembre 2001 ( 164
Corpus Juris — ben spiegabile alla luce del carattere sovrastatuale
che connota il bene giuridico offeso dalle frodi comunitarie — tende
comunque a combinarsi con una parallela matrice “dottrinale”,
dovuta al fatto che la redazione del progetto in questione è stata
): ne è scaturito
affidata ad un gruppo studiosi dei Paesi membri ( 165
un prodotto di indiscussa qualità scientifica, redatto nel rispetto di
metodi e standards propri della migliore tradizione accademica.
( ) Ricerca iniziata nel 1995 per volontà della Commissione europea. Al ri-
161 A , Il Corpus Juris recante disposizioni penali per la
guardo cfr., per tutti, D
E NGELIS
protezione degli interessi finanziari dell’Unione europea: origine e prospettive, in La lotta
contro la frode agli interessi finanziari della Comunità europea tra prevenzione e repres-
sione, cit., p. 351 ss.
) Cfr. Doc. Parlamento Europeo n. 222.169.
(
162 ) I “libri verdi” sono comunicazioni pubblicate dalla Commissione su un
( 163
settore politico specifico. Attraverso tali documenti, le parti interessate (organismi e
privati) sono invitati a partecipare al processo di consultazione e discussione, in vista di
eventuali, futuri sviluppi della legislazione comunitaria.
) In COM (2001) 715 def. Sulla questione se il Corpus Juris si limiti a proporre
( 164
una penetrante armonizzazione dei sistemi penali dei Paesi membri, ovvero addirittura
costituisca un progetto di unificazione penale cfr., anche per ulteriori riferimenti
, Stratégies pour une harmonisation des systèmes penaux européens,
bibliografici, B
ERNARDI
cit., p. 228 ss.
) Per un elenco completo dei partecipanti al progetto del Corpus Juris v. La
(
165
mise en oeuvre du Corpus Juris dans les États-Membres, I, cit., p. III.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 511
ALESSANDRO BERNARDI
Viceversa, il progetto sugli Europa-Delikte appare del tutto
privo di una matrice di tipo strettamente “politico”: esso costituisce
infatti l’esito provvisorio di una iniziativa scientifica privata portata
avanti da un gruppo di penalisti europei provenienti da un numero
). L’origine
ristretto e abbastanza omogeneo di Paesi membri (
166
essenzialmente scientifico-culturale di tale iniziativa potrebbe forse
trovare una immediata spiegazione nel fatto che il disegno di
uniformizzazione penale su scala continentale tratteggiato in questo
secondo progetto non mira alla tutela di interessi “esclusivi” del-
l’Unione, ma vuole porsi al servizio di un interesse più generalizzato;
l’interesse, appunto, all’omogeneizzazione se non addirittura all’uni-
ficazione di un settore degli ordinamenti penali (quello lato sensu
commerciale) destinato a ricoprire un ruolo centrale nella prospet-
tiva di una migliore coesione di una Comunità di Stati sorta e
sviluppatasi per ragioni innanzitutto di cooperazione e di integra-
zione economica.
b) Anche per quanto attiene poi ai rispettivi contenuti, il
progetto relativo al Corpus e quello relativo agli “Eurodelitti” pre-
sentano, accanto ad alcune convergenze, evidenti divergenze. Vero è
infatti che entrambi i progetti contengono sia un gruppo di fattispe-
cie incriminatrici, sia una serie di norme di parte generale; ma è
anche vero che mentre il progetto sul Corpus si apre con la rassegna
di un insieme di fattispecie davvero molto circoscritto per numero
(artt. 1-8) e per tipologia, e prosegue poi con un altrettanto circo-
scritto numero di principi e istituti di parte generale (artt. 9-17), il
progetto Eurodelitti si presenta, per cosı̀ dire, “a parti invertite”,
prevedendo innanzitutto una parte generale che con i suoi ventidue
articoli è senz’altro assai più ampia e dettagliata rispetto alla parte
), e quindi una parte speciale di ben
generale del Corpus Juris (
167
trentacinque articoli contenenti un ampio ventaglio di norme incri-
minatrici concernenti i più diversi ambiti del diritto penale econo-
( ) Vale a dire la Germania, l’Italia, la Spagna e, in una seconda fase, la Francia.
166
La connotazione scarsamente “democratica” in prospettiva europea del progetto Euro-
, L’armonizzazione del diritto penale europeo nel
pa-Delikte è stata stigmatizzata da D
ONINI
contesto globale, in Riv. it. dir. pen. econ., 2002, p. 494.
) Cfr., per tutti, T , Armonizzazione del diritto penale dell’economia
(
167 IEDEMANN
nell’Unione Europea (“Euro-Delitti”), cit., pag. 3 del testo dattiloscritto.
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
512 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
mico ( ). Sotto questo profilo, sebbene entrambi i progetti si
168 ), il progetto sugli Euro-
ispirino latamente all’idea “codicistica” (
169
delitti è senz’altro il solo che, per la sua struttura e le sue dimensioni,
tende ad assumere effettivamente le sembianze di un codice, an-
), mentre il Corpus Juris ( ) parrebbe costi-
corché settoriale (
170 171
tuire, a ben vedere, solo un “microsistema penale europeo”. Per
converso, naturalmente, tenuto conto delle sue particolari caratteri-
stiche, il progetto Eurodelitti parrebbe anche quello destinato a
trovare — nonostante il summenzionato interesse “generale” su cui
esso poggia — una più difficile accoglienza in ambito europeo,
dunque una più ardua traduzione in norme di diritto vigente.
c) Infine, per quanto attiene al metodo riformistico proprio dei
due progetti, è stato rilevato come mentre il Corpus Juris tenderebbe
a costituire una mera integrazione dei sistemi penali nazionali,
prefiggendosi di affiancare ad essi un modello ordinamentale paral-
), il progetto sugli Eurodelitti tenderebbe a sostituirsi alle
lelo (
172 ). Resta il fatto che — alla
singole discipline nazionali di settore (
173
luce di tutta una serie di indizi qui impossibili da analizzare nei
dettagli, ma comunque ricavabili dal testo dei due progetti in esame
— tanto il Corpus Juris quanto gli Europa-Delikte appaiono finaliz-
( ) Per una rapida rassegna di tali norme, distinte in sette sezioni (tutela dei
168
lavoratori e del lavoro, tutela dei consumatori e della concorrenza, tutela dell’ambiente,
diritto penale societario e fallimentare, tutela del credito e dei mercati finanziari, tutela
dei marchi comunitari, tutela dell’embargo comunitario) cfr., nella letteratura in lingua
, Armonizzazione del diritto penale dell’economia nell’Unione Europea
italiana, T IEDEMANN
(“Euro-Delitti”), cit., pag. 12 del testo dattiloscritto.
) In merito al carattere “codicistico” di tali progetti cfr., problematicamente e
( 169 , Corpus Juris e formazione di un diritto penale europeo,
con varietà di accenti, B ERNARDI , Agli albori di un diritto penale
in Riv. it. dir. pubbl. com., 2001, p. 287 ss.; M ILITELLO
comune in Europa: il contrasto al crimine organizzato, cit., p. 17, nt. 46.
) Il progetto sugli Eurodelitti viene esplicitamente considerato “simile per
( 170 , Armonizzazione del diritto penale dell’economia
struttura a un codice” da T IEDEMANN , Sussi-
nell’Unione Europea (“Euro-Delitti”), cit., pag. 1 del testo dattiloscritto; D ONINI
, Alla ricerca di un disegno. Scritti
diarietà penale e sussidiarietà comunitaria, in D ONINI . L’armonizzazione del diritto
sulle riforme penali in Italia, Padova, 2003, cit., p. 146; I
D
penale europeo nel contesto globale, cit., p. 495.
) Cosı̀, condivisibilmente, D , L’armonizzazione del diritto penale europeo
(
171 ONINI
nel contesto globale, cit., p. 494.
) D , Sussidiarietà penale e sussidiarietà comunitaria, cit., p. 153.
( 172 ONINI
) Cfr. D , ivi.
( 173 ONINI
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 513
ALESSANDRO BERNARDI
zati a perseguire (sia pure con modalità diverse e in settori nient’af-
fatto coincidenti) forme di intenso ravvicinamento dei sistemi penali
nazionali, più che vere e proprie forme unificazione penale su scala
).
europea (
174
In questo senso — sebbene in effetti non appaiano del tutto
), atti cioè a far ritenere che tali
assenti indizi di segno opposto (
175
progetti costituiscano ipotesi di un’“autentica unificazione setto-
) — sembra di poter dire che in tale
riale” in ambito penale ( 176
ambito la meta di una assoluta unificazione, seppure circoscritta a
specifici gruppi di fattispecie, risulta ancora esorbitante rispetto ai
più immediati traguardi prefissati dalla dottrina penalistica e dalla
stessa Unione europea. Una riprova di tale assunto è offerta dalle
) elaborate
recenti “Proposte di norme penali comuni in Europa” ( 177
a conclusione del “Programma Falcone” concernente un “Progetto
). In
comune europeo di contrasto alla criminalità organizzata” ( 178
effetti le proposte avanzate, frutto di una cooperazione intensa e
) tra i tre gruppi di ricercatori coinvolti (italiano,
“paritetica” (
179
( ) Si pensi innanzitutto, relativamente al progetto di Corpus Juris, al c.d.
174
“principio di complementarietà” del diritto interno (art. 35), in base al quale, al fine di
rendere operative le fattispecie di cui agli artt. 1 a 8, le norme di parte generale introdotte
dal Corpus stesso “sono completate dal diritto nazionale, se necessario”. Relativamente
poi al progetto sugli eurodelitti, va in particolare sottolineato che quest’ultimo mantiene
al suo interno spazi di discrezionalità per i legislatori nazionali, specie per quanto
riguarda la disciplina sanzionatoria delle singole fattispecie, lasciata volutamente aperta
dai redattori “in considerazione delle forti divergenze fra gli Stati proprio su questo
, Armonizzazione del diritto penale dell’economia nell’Unione Euro-
terreno” T
IEDEMANN
pea (“Euro-Delitti”), cit., p. 11 del testo dattiloscritto.
) Cosı̀, ad esempio, nel Libro verde sulla tutela penale degli interessi finanziari
( 175
comunitari e sulla creazione di una procura europea dell’11 dicembre 2001 si prevede —
previa introduzione nel TCE di un art. 280-bis attributivo di apposite competenze penali
alla Commissione — l’adozione non già di una direttiva, ma di un regolamento
comunitario “che fissi gli elementi costitutivi dei reati penali (sic) per frode e per
qualsiasi attività illegale lesiva degli interessi finanziari della Comunità” (Libro verde, par.
2.4., p. 20 del testo dattiloscritto).
) D , Sussidiarietà penale e sussidiarietà comunitaria, cit., p. 155.
( 176 ONINI
) Pubblicate in Towards a European Criminal Law against Organised Crime, a
( 177
cura di V. Militello e B. Huber, Freiburg im Breisgau, 2001, p. 281 ss.
) Cfr., al riguardo, Il crimine organizzato come fenomeno transnazionale, cit.,
(
178
passim. ) Vale a dire da una cooperazione non contrassegnata — come viceversa è
(
179 © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano
514 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
tedesco e spagnolo) ( ), se da un lato hanno ad oggetto un settore
180
criminale diverso o comunque non coincidente rispetto a quelli presi
), dall’altro
in esame dai due progetti precedentemente ricordati (
181
lato sembrano propendere anch’esse per una scelta di mera armo-
nizzazione anziché di unificazione penale interstatuale. Anzi, ben più
di quanto non avvenga in questi due progetti, le suddette proposte
di norme volte a contrastare la criminalità organizzata, pur caratte-
rizzandosi per una formulazione delle fattispecie assai accurata, sono
concepite in modo da lasciare notevoli margini di discrezionalità ai
), e dunque esprimono un modello di armo-
legislatori nazionali ( 182
nizzazione “debole”, concepito tenendo conto delle non trascurabili
differenze tuttora esistenti all’interno dei sistemi penali nazionali
considerati.
In definitiva, quindi, gli attuali progetti di armonizzazione pe-
nale in ambito europeo esprimono la crescente consapevolezza
dell’urgenza di giungere, quantomeno in taluni settori normativi, ad
un significativo processo di ravvicinamento dei singoli sistemi penali
nazionali; ma al contempo rivelano come non appartenga all’oggi il
tempo di una assoluta unificazione penale, e quanto sarebbe erroneo
sottovalutare, in vista della creazione di una “lingua penale comu-
ne”, la forza inerziale insita in quell’insieme di peculiarità che
). Ma le
caratterizzano i singoli ordinamenti penali nazionali ( 183
attuali difficoltà incontrate nel tradurre in realtà il sogno di un
“diritto penale europeo” non debbono far dimenticare che il viaggio
accaduto nel progetto sugli Europa-Delikte — da una evidente prevalenza della compo-
nente tedesca.
) Tali gruppi erano formati da appartenenti alle istituzioni scientifiche, giu-
(
180
diziarie e amministrative dei tre Paesi coinvolti.
) Vale a dire, per l’appunto, il vasto settore della criminalità organizzata, che
( 181
in una Europa senza frontiere postula indubbiamente strategie di prevenzione e repres-
sione armonizzate nell’ambito degli Stati dell’Unione.
) Cfr., sul punto, le precisazioni di M , Partecipazione all’organizzazione
( 182 ILITELLO
criminale e standards internazionali d’incriminazione. La proposta del Progetto comune
europeo di contrasto alla criminalità organizzata, in corso di pubblicazione in Riv. it. dir.
proc. pen., par. 4.2, sub 4).
) A favore di un processo di “armonizzazione nella salvaguardia delle diffe-
(
183 , Nuove prospettive del diritto penale nazionale, europeo
renze” cfr., da ultimo, J ESCHECK
e internazionale: quale politica criminale per il XXI secolo?, cit., p. 8-9 del testo
dattiloscritto. © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 515
ALESSANDRO BERNARDI
verso tale meta è già iniziato, e che esso non potrà che prolungarsi,
sull’onda dell’evolversi dell’Unione e della parallela, progressiva
evoluzione culturale degli operatori giuridici di settore: almeno sino
a quando, nel nome di nuove e non auspicabili esigenze nazionali-
stiche o comunque particolaristiche, la progressiva “federalizzazio-
ne” del vecchio continente non subirà una inversione di tendenza.
Sez. II: Europeizzazione del diritto e scienza penale.
12. Verso una cultura giuridico-penale europea. Le diverse manife-
stazioni in ambito scientifico del superamento delle tradizioni
penali nazionali.
Se, come sopra accennato, il costituirsi di un ordine giuridico
europeo vieppiù incidente financo sulla sfera penale implica natu-
ralmente la modificazione delle coordinate culturali dei giuristi di
settore, ben si comprende come larga parte di questi ultimi tenda a
prendere progressivamente le distanze da quelle concezioni forma-
listico-giuspositivistiche incentrate esclusivamente su “lo Stato e le
norme”, come tali dimentiche “della storia, della politica e delle
).
correnti internazionali del pensiero penalistico” ( 184
In questa prospettiva, si assiste pertanto ad un allontanamento
graduale (anche se, per vero, solo parziale e non privo di resipi-
scenze) da ogni approccio “autarchico” al fenomeno giuridico-
penale; da ogni approccio volto cioè all’enfatizzazione delle pecu-
liarità dogmatiche dell’ordinamento interno, vissute come espressive
del “particolare” contesto socio-politico di riferimento, ovvero ad-
dirittura come sintomatiche di una superiore cultura giuridica.
Certamente, è impossibile in questo breve lavoro analizzare in
dettaglio le diverse manifestazioni dell’attuale evoluzione del pen-
siero penalistico in senso supra- o trans-nazionale. Ugualmente
impossibile risulta inoltre approfondire come e quanto ognuna di
tali manifestazioni costituisca la causa ovvero, all’opposto, l’effetto
dei mutamenti istituzionali riscontrabili in ambito continentale. Qui
ci si limiterà quindi ad osservare che, in prima approssimazione,
( ) F. M , Diritto penale, Padova, 2001, p. 29.
184 ANTOVANI
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516 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
almeno sei sembrano essere le eterogenee dinamiche sottese all’at-
tuale superamento delle tradizioni penali statuali nella prospettiva
dell’europeizzazione delle scienze criminali. La prima si esprime in
un recupero del giusnaturalismo e dei diritti dell’uomo, accomunati
nel fungere da argine al relativismo nazionalistico e da momento di
selezione e verifica sia delle generali scelte politico-criminali sia
financo dei principi, categorie, istituti dell’ordinamento giuridico
interno. La seconda consiste nella riaffermazione e valorizzazione di
un razionalismo giuridico di matrice anti-statualista, anche se, even-
tualmente, di carattere sincretistico, e dunque non del tutto insen-
sibile a taluni fondamentali dati d’ordine socio-culturale riflessi dal
sistema giuridico nazionale. La terza si sostanzia nel rilancio del
metodo storicistico, inteso come momento di approfondimento
delle passate esperienze giuridiche e di verifica di una loro possibile
seppur parziale trasposizione nell’attuale contesto politico-istituzio-
nale, dunque come fonte di riflessione e stimolo in chiave riformista.
La quarta attiene al potenziamento della comparazione, e alla pro-
gressiva evoluzione di questa da strumento meramente conoscitivo a
elemento funzionale alla rielaborazione di modelli giuridici eventual-
mente destinati ad essere trasposti all’interno dei singoli sistemi,
quindi a momento giustificativo delle scelte normative operate in
ambito nazionale, infine a meccanismo rivelatore dei lati più occulti
dell’ordinamento giuridico-penale nazionale, conoscibili per l’ap-
punto solo attraverso il prisma della comparazione. La quinta si
traduce nella progressiva erosione del tradizionale modello “pirami-
dale” del diritto penale — espressivo di un sistema unitario e
verticistico, incentrato su un principio di legalità affidato ad una
precisa gerarchia dei testi normativi, e dunque “costretto” all’in-
terno di una razionalità deduttiva e lineare — a favore dell’afferma-
zione di un modello giuridico improntato alla logica della “rete”;
modello, questo, caratterizzato da una moltiplicazione di fonti ap-
partenenti a sistemi eterogenei, dall’intreccio di norme prive di un
preciso ordine gerarchico e dalla costruzione di un diritto “a più
mani”, con conseguente rivalutazione dell’apporto della giuri-
sprudenza nel complessivo sviluppo di tale branca del diritto. La
sesta implica la valorizzazione di un atteggiamento pragmatico di-
mentico di ogni esigenza di coerenza dogmatica e sistematica, e
viceversa attento ad un “sincretismo concettuale” in forza del quale
© Dott. A. Giuffrè Editore - Milano 517
ALESSANDRO BERNARDI
ogni argomento (assiologico o positivo, razionale o funzionale), cosı̀
come ogni istituto giuridico, deve essere vagliato in vista sia dell’in-
dividuazione del ragionamento o del risultato “migliore” in relazione
al problema da risolvere, sia più in generale del perseguimento di un
processo di armonizzazione e al contempo di semplificazione degli
ordinamenti nazionali.
13. La “rinascita giusnaturalista” e la “cultura dei diritti dell’uomo”
nel processo di destatualizzazione e di europeizzazione della
scienza penale.
Come sopra accennato, una prima manifestazione dell’evolu-
zione del pensiero penalistico in senso supra- o trans-nazionale si
rinviene nella “riscoperta” di principi e concetti generali di fonte
metagiuridica capaci di arginare il “relativismo” dei sistemi (penali)
interni, e segnatamente di opporsi alle potenziali ingiustizie perpe-
trabili dal legislatore e dall’interprete (dottrina e giurisprudenza).
Affermatasi come noto nel periodo successivo alla seconda guerra
mondiale quale reazione all’Unrecht degli ordinamenti totalitari sorti
)
nell’Europa degli anni ’30, questa “rinascita giusnaturalista” (
185
), accompagnando e talora in-
non può ancora dirsi conclusa (
186
( ) Cfr., in particolare, A , Der Mensch hat Recht. Naturrecht auf dem
185 UER V , Mutabilità ed eternità del diritto
Hintergrund des Heute, Köln, 1956; D EL ECCHIO
, L’attualità del diritto naturale, in Riv. it. fil. dir.,
naturale, in Jus, 1954, p. 1 ss.; F
ROSINI
G , El derecho natural y su incesante retorno, in Rev.
1961, p. 520 ss.; G ALAN DE UTIERREZ , Die Zyklische Wiederkeher des Naturrechts,
crit. der. inmob., 1945, p. 168 ss.; H AENSEL
, Naturrecht und Geschichtlichkeit, Tübingen,
in SchwZfS, 1950, p. 257 ss.; K AUFFMANN
, Il diritto naturale nelle costituzioni moderne, Milano, 1974; M , La
1957; M ORELLI OSSA
rinascita del diritto naturale dopo la catastrofe dell’Europa, in Nuova riv. dir. comm., 1949,
, Diritti soggettivi e diritti senza soggetto. (Linee di una vicenda
p. 77 ss.; O RESTANO , Diritto
concettuale), in Jus, 1960, p. 149 ss., e bibliografia ivi citata a p. 174; W
ELZEL -
naturale e giustizia materiale, trad. it., Milano, 1965. In argomento cfr. altresı̀, M
AINHO
, Naturrecht oder Rechtspositivismus?, Darmstadt, 1962, con ulteriori ricchissimi
FER
riferimenti bibliografici (p. 580 ss.).
) Cfr., ad esempio, per una concezione del diritto d’impronta “ontologica-
( 186 , Filosofia del diritto, Torino, 2000. Cfr. altresı̀, sia
mente” giusnaturalista, D’A GOSTINO
, Ragion pratica e diritto naturale: una difesa analitica
pure con accenti differenti, V
IOLA
del giusnaturalismo, in Ragion pratica, 1993, p. 61 ss.
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518 , (2002)
QUADERNI FIORENTINI XXXI
fluenzando significativamente l’attuale evoluzione del diritto su scala
continentale.
In effetti, nonostante che l’odierna prevalenza di modelli spe-
) finisca col ridurre gli spazi lasciati
culativi a sfondo relativistico (
187
alle concezioni più autenticamente giusnaturalistiche, in una pro-
spettiva di ideale continuità con tali concezioni tende oggi ad
affermarsi una “cultura dei diritti dell’uomo” la quale, pur non
ignorando la dimensione “storico/culturale” di questi ultimi, non ne
rinnega per questo la componente “filosofica”, “segnata dalla con-
). Ora,
giunzione tra il giusnaturalismo moderno e l’illuminismo” (
188
anche chi guarda con scetticismo o ironia al tema dei diritti umani,
riconoscendo in esso il luogo di canalizzazione di “sfoghi retori-
) in precedenza riservati, per l’appunto, al tema del giusna-
ci” (
189
turalismo ovvero, in una ottica non sempre coincidente ma comun-
), non può
que contigua, al tema dell’etica nel discorso giuridico ( 190
disconoscere l’attuale processo di diffusione a livello internazionale
dei diritti umani. Processo il quale, come noto, favorisce una sorta di
almeno relativa “trasversalità” di tali diritti rispetto alle singole
culture localistiche, se non addirittura un loro processo storico di
“mondializzazione” destinato, a seconda delle concezioni, a surro-
gare ovvero ad affiancare quella tradizionale dimensione universali-
) che troverebbe la sua radice, ad un
stica dei diritti fondamentali (
191 ).
tempo, “nel cuore e nella ragione dell’uomo” ( 192
( ) Particolarmente evidenti nelle attuali concezioni filosofiche a carattere ana-
187 , Etica: inventare il giusto e l’ingiusto, Torino, 2001.
litico: cfr., per tutti, M
ACKIE
) V , Le origini ideali dei diritti umani, in V , Etica e metaetica dei diritti
(
188 IOLA IOLA
umani, Torino, 2000, p. 18. Per una valorizzazione della dimensione giusnaturalista dei
, A Reconsideration of Natural Rights Theory, in
diritti umani cfr., ad esempio, M ACHAN
American Philosophical Quarterly, 19, 1982, p. 61 ss.
) V , Diritti dell’uomo diritto naturale etica contemporanea, Torino, 1989.
( 189 IOLA
) Per una recente prospettiva di convergenza tra etica e giusnaturalismo cfr.
( 190
, Droit naturel, t. I, Les questions du droit, Paris, 1998; I ., Itineraire philosophique
D IJON D
vers la source du droit commun, in Rev. int. dr. comp., 2001, p. 7 ss.
) In merito alla quale cfr., per tutti e con varietà di accenti, Pluralità delle
(
191 , The Ethics
culture e universalità dei diritti, a cura di F. D’Agostino, Torino, 1996; N INO
, Dalla natura ai diritti. I luoghi dell’etica
of Human Rights, Oxford, 1991; V IOLA
., Etica e metaetica dei diritti umani, cit.
contemporanea, Roma-Bari, 1997; I D
) S , Vers un droit commun européen? Propos introductif, in Droit et Justice,
(
192 ALAS
n. 33, 2002, p. 286.
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ALESSANDRO BERNARDI
In ogni caso, sia la persistente “anima ecumenica” dei diritti in
questione sia le sempre più evidenti ricadute di questi ultimi sul
diritto penale sembrano testimoniate, tra l’altro, dall’istituzione di
numerosi tribunali internazionali la cui attività risulta latamente
). In effetti, il “primato” dei
ispirata alla “formula di Radbruch” ( 193
diritti dell’uomo sul “diritto positivo ingiusto” e sull’ordine legale in
), se da un lato comporta complessi problemi
cui esso si esprime (
194
), dall’altro lato tende a sgretolare la dimen-
di costituzionalità (
195 ), in nome di
sione meramente “provinciale” del diritto penale (
196
esigenze di diritto sostanziale destinate a bilanciare — sia pure con
( ) Secondo la quale, come noto, “il diritto positivo [...] conserva il suo
193
predominio anche quando materialmente ingiusto e inadeguato, a meno che il contrasto
tra la legge positiva e la giustizia raggiunga una misura tanto intollerabile che la legge, in
″diritto , Gesetzliches
quanto iniquo″, debba essere piegata alla giustizia”: R ADBRUCH
Unrecht und übergesetzliches Recht, in Rechsphilosophie, Stuttgart, 1973, p. 345. In
, Formula di Radbruch e diritto penale. Note sulla
argomento cfr., in particolare, V
ASSALLI
punizione dei “delitti di Stato” nella Germania postnazista e nella Germania postcomuni-
sta, Milano, 2001. Cfr. altresı̀, all’interno di una ormai vasta bibliografia, Crimini
internazionali tra diritto e giustizia, a cura di G. Illuminati, L. Stortoni, M. Virgilio,
Torino, 2000, e bibliografia ivi riportata; The Statute of the International Criminal Court.
, C ,
A Documentary History; a cura di M. C. Bassiouni, New-York, 1998; B AZELAIRE RETIN
, Il “muro di Berlino”, i processi
La justice pénale internationale, Paris, 2000; M
UHM , Il
paralleli e il diritto naturale in Germania, in Indice pen., 1994, p. 625 ss.; V ASSALLI
divieto di retroattività nella giurisprudenza della Corte europea, in I diritti dell’uomo —
cronache e battaglie, 2001, n. 1, p. 5 ss.
) Primato, questo, evidenziato già dal comma 2 dell’art. 7 CEDU il quale, in
( 194
deroga a quanto disposto dal comma 1 dello stesso articolo, prevede che possano venire
processati e condannati gli autori di fatti considerati criminali secondo i principi generali
di diritto riconosciuti dalle nazioni